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mercoledì 15 febbraio 2012

aborto


Caffarra:
"L'aborto è un delitto abominevole"

L'omelia del Cardinale

Festa della Sacra Famiglia in via Irma Bandiera
Il cardinale Carlo Caffarra ha presieduto la Messa nonostante una lieve indisposizione
Il cardinale Carlo Caffarra ha presieduto la Messa nonostante una lieve indisposizione
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Bologna, 30 dicembre 2011 - Ecco l'omelia completa del cardinale Carlo Caffarra in occasione dellaFesta della Sacra Famiglia nella parrocchia della Sacra Famiglia di via Irma Bandiera a Bologna.

"Cari fratelli e sorelle, un solo grande insegnamento percorre le tre pagine della S. Scrittura che abbiamo appena ascoltato: la vita dell’uomo è dono di Dio. La Scrittura ci dona questa certezza attraverso la vicenda di Abramo e Sara, e l’offerta che Maria e Giuseppe fanno del bambino Gesù al tempio.
«Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia». E nella seconda lettura si ribadisce la stessa verità colle seguenti parole: «per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso».
Questa certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, appartiene alla rivelazione biblica ed è stata costantemente insegnata dalla Chiesa.
«Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» [Ger 1, 5], dice il Signore al suo profeta Geremia. È profondamente commovente la parola che una madre di sette figli dice a loro per confortarli nella fedeltà alla Legge di Dio: «Non so come siete apparsi nel mio grembo; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti … » [2 Mac 7, 22-23]. Non siamo dunque frutto del caso o il risultato fortuito di leggi biologiche. All’origine di ciascuno di noi, dell’esserci di ciascuno di noi sta un atto d’amore di Dio creatore; fin dal grembo materno ciascuno di noi è stato il termine personalissimo dell’amorosa e paterna Provvidenza divina.

Cari fratelli e sorelle, questa verità che oggi la parola di Dio ci dona, ci fa comprendere e la grande dignità di ogni persona umana e la sublime dignità dell’amore coniugale. Ogni persona umana è in un rapporto diretto ed immediato con Dio creatore. Essa non è proprietà di nessuno, e di essa nessuno può disporre.
È per questo che l’aborto, cioè l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, chirurgicamente o chimicamente, di una persona umana già concepita e non ancora nata, è, come lo definisce il Concilio Vaticano II, un «delitto abominevole»[Cost. past. Gaudium et spes 51]. La vita umana, in qualunque stadio, è sacra ed inviolabile; in essa si rispecchia la stessa inviolabilità del Creatore.
Ma il fatto che all’origine di ogni persona umana ci sia un atto creativo di Dio, getta anche una luce particolare sull’amore coniugale. Esso è il tempio in cui Dio celebra la liturgia del suo amore creativo. Come dunque esso deve essere splendente di santità! È per questo che il divino Redentore ha elevato il matrimonio alla dignità di Sacramento: perché gli sposi fossero santi nel corpo e nello spirito.
2. La grande verità che oggi la Parola di Dio ci insegna e la conseguenza etica derivante da essa – ogni vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno – possono essere accolte anche dalla ragione retta. Ed infatti esse hanno costituito uno dei pilastri portanti della nostra civiltà occidentale: il pilastro della dignità incommensurabile di ogni persona.
Ora la nostra civiltà si è ammalata e mortalmente. Perché si è verificato questo? Perché essa si è distaccata dalla piena verità sull’uomo; ha perso la vera misura del valore incondizionato di ogni persona umana.
Alcuni sintomi di questa grave malattia: la distinzione fra vita degna e vita indegna di essere vissuta; la negazione del carattere di persona all’embrione; la progressiva legittimazione del suicidio e quindi dell’assistenza ad esso; il cambiamento sostanziale della definizione della professione medica, non più univocamente orientata alla vita.
 

Cari amici, come credenti e come persone ragionevoli non possiamo rassegnarci a questa deriva. Non si fa luce in una stanza piombata nel buio discutendo sulla natura fisica della luce, ma riaccendendola.
La Chiesa oggi prega per ogni famiglia perché sia questa luce: luce che mostri la verità e la bellezza del vero amore".


Postato da: giacabi a 20:08 | link | commenti
aborto, caffarra

sabato, 05 novembre 2011

Principi non negoziabili,
sostenerli è un dovere
***
 
Bagnasco
di Piero Gheddo
04-11-2011


In riferimento al discorso del card. Angelo Bagnasco al Forum dei cattolici in politica a Todi (Perugia) il 17 ottobre scorso, un amico mi telefona per chiedermi di spiegare quali sono e perché la Chiesa insiste nel proclamare i suoi “valori irrinunziabili”. Ecco in breve.


Per la Chiesa, i “valori irrinunziabili” (o “non negoziabili”) sono tre:


  1. la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, quindi contro l’aborto, l’eutanasia e la manipolazione del gene umano;
  2. la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, cioè la condanna del riconoscimento giuridico dell’unione tra omosessuali e delle coppie di conviventi; la difesa della famiglia comporta il terzo valore irrinunziabile:
  3. la difesa della libertà di educazione, cioè il diritto della famiglia di scegliere come educare i propri figli, quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata paritaria, perché il compito di educare i figli spetta anzitutto ai genitori, non allo stato.

Perché questi valori irrinunziabili? Una delle grandi novità della Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009) è questa: per la prima volta in un’enciclica sociale, viene presentato il diritto alla vita come valore prioritario dello sviluppo “plenario” (cioè non solo economico) di ogni popolo e dell’umanità (n. 28). La "questione antropologica", su cui tanto insistono la Santa Sede e la Cei, diventa a pieno titolo "questione sociale" (nn. 28, 44, 75).

La crisi dell’Occidente è una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, ecc. Tutto questo, anche se molti non lo sanno o non ci credono, porta alla barbarie. L’uomo padrone di se stesso, l’uomo padrone della vita e della morte è l’anticamera per nuovi Auschwitz e nuovi Khmer rossi, che possono nascere da questa cultura orientata a produrre la morte. La Chiesa condanna il controllo delle nascite, l'aborto, le sterilizzazioni, l'eutanasia, le manipolazioni dell'identità umana e la selezione eugenetica non solo per la loro intrinseca immoralità, ma anche perchè lacerano e degradano il tessuto sociale, corrodono la famiglia e rendono difficile l'accoglienza dei più deboli e innocenti: «Nei paesi economicamente sviluppati - scrive Benedetto XVI (CV 28) - le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi… L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo…».

L'enciclica spiega che per lo sviluppo dell'economia e della società occorre impostare programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico e individualistico, ma che tengano “sistematicamente conto della dignità della donna, della procreazione, della famiglia e dei diritti del concepito”. Dalla Humanae Vitae di Paolo VI (1968) ad oggi, spesso l’insistenza del Papa e dei vescovi su questi concetti non è compresa nemmeno dai cattolici, una parte dei quali pensano che la difesa della vita e della famiglia passa in secondo piano di fronte alle drammatiche urgenze della fame, della miseria, delle ingiustizie a livello mondiale e nazionale. Non capiscono il valore profetico di quanto dicono il Papa e i vescovi, che denunziano le conseguenze nefaste di certi orientamenti culturali e legislativi anche per la soluzione dei problemi sociali. Se nella cultura comune e nelle legislazioni nazionali, come anche negli organismi dell’Onu e della Comunità Europea, prevale l’egoismo dell’individuo, com’è possibile pensare che poi, nell’accoglienza del più povero e del diverso, quest’uomo egoista diventi altruista?

Tra opere sociali e difesa della vita non esiste alcuna contraddizione, ma anzi c’è un’integrazione vicendevole, si richiamano a vicenda, l’una non sta senza l’altra. La protesta per la fame nel mondo e per l’aborto hanno eguale significato e valore di difesa della vita. Ma i No Global anche cattolici hanno fatto molte proteste contro la fame, nessuna contro gli aborti, nessuna contro le coppie di fatto, i divorzi, le separazioni, i matrimoni tra gay! Accettiamo tranquillamente che in queste situazioni vinca l’egoismo umano e poi chiediamo che nella lotta contro la fame nel mondo prevalga l’altruismo. Dov’è la logica?

Nel suo discorso a Todi, il card. Bagnasco ha parlato dei “principi irrinunciabili” e ha detto: «Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nel momento di maggior fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre, staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della “vita nuda”, i valori sociali inaridiscono. “Ecco perchè – continua il presidente della CEI - nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale, sancita dalle Carte costituzionali, è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione…. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto (alla vita)? Vittime invisibili, ma reali! La presa in carico dei più poveri e indifesi non esprime forse il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato di un popolo, di una Nazione».

Insomma, se si concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si tende a fare, come si potrà costruire una comunità solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? Quando si sfascia la famiglia, si dissolve anche la società, come purtroppo stiamo sperimentando in Italia. Non si capisce come mai una verità così evidente è snobbata da chi appoggia altri tipi di famiglia (tra i gay ad esempio) e toglie ai coniugi lo stimolo di un patto d’amore da consacrare di fronte alla società col matrimonio, favorendo le coppie che si uniscono e si separano liberamente con il divorzio, le separazioni e ormai il “divorzio rapido” della Spagna di Zapatero che si realizza in 15 giorni. Leggi come queste favoriscono l’egoismo individuale, ma disgregano la società. Il credente in Cristo non può sostenerle.

Postato da: giacabi a 13:00 | link | commenti
laicismo, aborto, gheddo

lunedì, 24 ottobre 2011

Oriana Fallaci:
Lettera a un bambino mai nato
***


 


Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’é acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. E stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si é fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non é paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non é paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. E paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi son
sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando
“Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché‚ mi ci hai messo, perché?”.
La vita é una tale fatica, bambino. E una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita é soltanto un nodo di cellule appena iniziate. Forse non é nemmeno vita ma possibilità di vita. Eppure darei tanto perché‚ tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ci sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Perché, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché‚ nulla é peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché‚ se uno muore vuol dire che é nato, che é uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché‚? Perché‚ abbia fame, perché‚ abbia freddo, perché‚ venga tradito e offeso, perché‚ muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione
loro. Ma il niente é da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere é meglio di non nascere. Tuttavia è lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non é come metterti al mondo per me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te.
Sarai un uomo o una donna?

Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando é molto infelice, sospira: Ah, se fossi nata uomo! Lo so: il nostro é un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura é così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l’assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non é una donna: é un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio é un vecchio con la barba: mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell’Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un’incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, essere donna é così affascinante. E un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai.
Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna.
Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. Essere mamma non é un mestiere. Non é nemmeno un dovere. E solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi é molto più bello che vincere, viaggiare é molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. Sì, spero che tu sia una donna: non badare se ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ciò che dice mia madre. Io non l’ho mai detto.
Ma se nascerai uomo io sarò contenta lo stesso. E forse di più perché‚ ti saranno risparmiate tante umiliazioni, tante servitù, tanti abusi. Se nascerai uomo, ad esempio, non dovrai temere d’essere violentato nel buio di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per essere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace, non ti sentirai dire che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela. Faticherai molto meno. Potrai batterti più comodamente per sostenere che, se Dio esistesse, potrebbe essere anche una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Potrai disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difenderti senza finire insultato. Naturalmente ti toccheranno altre
schiavitù, altre ingiustizie: neanche per un uomo la vita é facile, sai. Poiché‚ avrai muscoli più saldi, ti chiederanno di portare fardelli più pesi, ti imporranno arbitrarie responsabilità Poiché‚ avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza Poiché‚ avrai una coda davanti, ti ordineranno di uccidere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua complicità per tramandare la tirannia che instaurarono nelle caverne. Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un’avventura altrettanto meravigliosa: un’impresa che non ti deluderà mai. Almeno lo spero perché‚, se nascerai uomo, spero che sarai un uomo come io l’ho sempre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, generoso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti comanda. Infine, nemico di chiunque racconti che i Gesù sono figli del Padre e dello Spirito Santo: non della donna che li partorì.

Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. E anzitutto, a me, interessa che tu sia una persona. E una parola stupenda, la parola persona, perché‚ non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia frontiere tra chi ha la coda e chi non ce l’ha. Del resto il filo che divide chi ha la coda da chi non ce l’ha, é un filo talmente sottile: in pratica si riduce alla facoltà di maturare o no una creatura nel ventre. Il cuore e il cervello non hanno sesso. Nemmeno il comportamento. Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell’altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d’essere nato, di non cedere mai alla viltà. E una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventano spavaldi dopo che il rischio é passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. Venire al mondo é già un rischio. Quello di pentirsi, poi, d’esser venuti.

Al posto della paura, io sento una specie di malinconia, una specie di dispiacere che offusca perfino il mio senso dell’umorismo. Mi dispiace morire, si. E non dimentico mai ciò che Anna Magnani mi disse tanti anni fa:
Oriana mia, non è giusto morire, visto che siamo nati.
Non dimentico neanche che quest’ingiustizia è toccata a miliardi e miliardi di esseri umani prima di me, che toccherà a miliardi e miliardi di esseri umani dopo di me. Però mi dispiace lo stesso. L’amo con passione la vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere: il regalo dei regali. Anche se si tratta d’un regalo molto complicato, molto faticoso, a volte doloroso. E con la stessa passione odio la morte. La odio più di una persona da odiare e verso chi ne ha il culto provo un profondo disprezzo. Io non la capisco la morte, capisco soltanto che fa parte della vita, e che senza lo spreco che chiamo morte…non ci sarebbe la vita.

Postato da: giacabi a 21:00 | link | commenti
aborto, fallaci

giovedì, 01 settembre 2011
Un punto è l'embrione

Un punto è l'embrione
***

di Alda Merini

Un punto è l'embrione
un secolo di vita
che ascolta l'Universo,
la memoria del mondo
fin dalla creazione.
L'uomo che nascerà
è un'eco del Signore 
e sente palpitare in sé
tutte le stelle.
Uccidere un embrione
è negare l'Universo
è negare la musica
è negare il silenzio.
La voce dell'embrione
è voce di battaglia
il pianto nascituro
che geme nella carne.
La madre dell'embrione 
è soltanto la vita.

Postato da: giacabi a 20:58 | link | commenti (1)
aborto, merini

lunedì, 04 luglio 2011

Jessen, sopravvissuta all'aborto: «Chi difendeva i miei diritti di donna?»

***
Pubblichiamo un filmato in cui Gianna Jessen, sopravvissuta a un aborto salino, parla al Parlamento di Victoria (Australia): «So di essere odiata perché annuncio la vita. Sono costretta a dire questo: se l'aborto è una questione di "diritti della donna" dov'erano i miei? Non c'e nessuna femminista che protesta perché i miei diritti sono stati violati?»
in
04 Lug 2011
Di lei la beata madre Teresa di Calcutta diceva: «Dio sta usando Gianna per ricordare al mondo che ogni essere umano è prezioso per Lui. È bello vedere la forza dell’amore di Gesù che Egli ha riversato nel suo cuore. La mia preghiera per Gianna, e per tutti quelli che la ascoltano, è che il messaggio dell’amore di Dio ponga fine all’aborto con il potere dell'amore».

Gianna Jessen è una bambina scampata all'aborto salino, che corrode il feto in grembo alla madre. E da più di dieci anni è impegnata a raccontare a tutti la sua storia. Pubblichiamo il video di una delle testimonianze più toccanti fatte davanti al Parlamento dello Stato del Victoria in Australia. Le sue parole, pronunciate nel 2008, ma diffuse solo recentemente, suonano fortissime e provocatorie anche per gli anti abortisti.

So «che viviamo in un periodo in cui è del tutto politicamente scorretto nominare il nome di Gesù Cristo in posti come questo, di portarLo in incontri come questo perché il Suo nome può mettere le persone terribilmente a disagio, ma io non sono sopravvissuta per mettervi a vostro agio». La Jessen racconta poi la sua sofferenza e la sua «battaglia tra la vita e la morte», che sa essere molto "scorrette": «Io non cerco di essere odiata ma so di esserlo perché annuncio la vita». E conclude: «Sono costretta a dire questo: se l'aborto è una questione di "diritti della donna" dov'erano i miei? Non c'e nessuna femminista che protesta perché i miei diritti sono stati violati e la vita viene soffocata nel nome dei "diritti delle donne"?».



La donna ha poi argomentato la follia di chi crede che sia bene uccidere i bambini deboli o cosiddetti difettosi. E ha ricordato a tutti che non siamo fatti per il comodo «né per girare la testa quando sapete che l'omicidio è un crimine e non fate niente a riguardo». Infine mentre la Jessen concludeva - dicendo che «è tempo di schierarsi, Victoria è giunto il momento. Dio vi assisterà» -, tutta l'aula si alzava in piedi ad applaudirla

Postato da: giacabi a 14:56 | link | commenti (2)
aborto

mercoledì, 15 giugno 2011

Cristo di nuovo in croce
***

 

Autore: Fighera, Giovanni  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
sabato 2 aprile 2011

Una commozione ci riempie il cuore nel sentir parlare un essere così piccolo, innocente, che dapprima sembra insistere sull’affettività dei genitori, poi sul buon senso e sulla ragionevolezza, poi sembra implorare pietà, proprio come un condannato a morte. Infine, la sua voce si tramuta in maledizione e profezia di distruzione per chi osa perpetrare un tale abominio! Sono toni che ricordano la lauda drammatica «Donna de Paradiso» di Iacopone da Todi. Ivi, Cristo è imprigionato, sottoposto alla passione, crocefisso! Ancora lo «Stabat mater» di Iacopone è presente in quel «fa’ che arda,/che la bruci […]. Fa’ che spada/ sia d’amore/ che trafigga/in madre/ cuore». La Madonna rimase ai piedi della croce accanto al Figlio assassinato. Qui la madre diventa lei stessa omicida, degenere, lussuriosa. Non a caso Testori la apostrofa con un’allusione dantesca alla figura della lussuriosa Pasifae, la moglie del mitico Minosse sovrano di Creta, colei che fece costruire una vacca di legno e vi si pose dentro per unirsi carnalmente ad un toro di cui si era innamorata (dall’unione nacque il Minotauro):

Più che bestia
tu t’imbesti
nella bestia
- lui, lo sposo -
che t’impesta!


Il feto demistifica tutte le moderne giustificazioni dell’aborto, presentato come manifesto del diritto e della libertà della donna, quando esclama:

«È per vivere
- ti dici –
Per avere libertà».
Libertà
di spegner vita?
Libertà
di violar Dio?
Libertà per te
è finita.
Che comincia
è l’urlo eterno,
primavera uccisa,
inverno,
sempre gelo,
sempre brina.
Mai sarete
come prima.


Un destino di rovina attende quell’uomo e quella società che non riconosce la vita, che non l’abbraccia, dimentica del nulla che anche noi siamo stati e di quel Tutto che ci ha voluti e ci ha chiamato alla vita:

Cadrai tu,
rovinerai
terra che
rifiuti vita,
vita spegni
dentro ventre;
vino in sangue,
pane in carne
trasformato
uccidendo
chi non nato
esser vita
pur doveva
hai calpestato,
vomitato,
assassinato.


Nell’omicidio di un bimbo si manifesta il rifiuto di Cristo che si è fatto uomo, si palesa il rifiuto di Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi. L’uomo rinnega la carne della propria carne, ma non osa dirselo, non osa riconoscerlo! Un tempo, almeno, gli antichi consideravano come madre degenere quella Medea che aveva ucciso i due figli e che con l’omicidio si suicidava, rifiutava la sua stessa vita. Oggi l’uomo non riconosce più il male che compie contro di sé con il rifiuto del figlio. Per questo, a ragione, Madre Teresa vedeva nell’aborto, nel non riconoscimento del senso della nascita, il rischio più grande per la distruzione del mondo.

Postato da: giacabi a 06:51 | link | commenti
aborto, testori

sabato, 07 maggio 2011

Una grande lezione di Vita...
grazie Nick Vujicic

***


Postato da: giacabi a 10:57 | link | commenti
aborto

sabato, 22 gennaio 2011

L’aborto:
un atto di violenza inammissibile

***
L'aborto procurato è un raggiro mortale. Lo afferma proprio uno dei fondatori del movimento abortista negli Stati Uniti, il dott. Bernard Nathanson, famoso ginecologo di New York. Ora Nathanson, dichiarandosi responsabìle di 75.000 aborti, si prodiga in tutto il mondo, con il Movimento per la vita, affinchésia rispettato il diritto alla vita di ogni uomo sin dal suo concepimento.

In Irlanda a Dublino, durante la campagna peril referendum del 7 settembre 1983 sul "Pro‑Life Amendment",  vinto con una maggioranza di due terzi dal Movimento per la vita, Nathanson ha pronunciato un discorso che tutti devono conoscere.

Eccone la traduzione.

Dopo la pubblicazione in America del mio libro, tre anni fa, sono stato spesso invitato a tenere conferenze con il deputato Henry Hyde, eminente rappresentante del movimento per la vita nel Congresso degli Stati Uniti. La stampa, a proposito di queste conferenze, ha coniato l'espressione "Hyde Show"; in effetti il deputato Hyde è alto un metro e 70 cm, pesa 125 kg, assomiglia ad un giocatore di rugby o di calcio. Oratore brillante ed agile, con una folta chioma argentea, si presenta così: "Sono un feto, vecchio di 660 mesi...".

Parlerò oggi di politica e di chirurgia abortiva in generale, accennando specialmente agli emendamenti "pro‑life", alla Costituzione. Ci battiamo per una penalizzazione definitiva ed irrevocabile dell'aborto. A quelli, che pur essendo contrari all'aborto, giudicano l'emendamento della Costituzione una misura inutile e troppo drastica, rispondo menzionando elementi di storia americana per convincerli dell’utilità di questa mossa tattica.

Molti hanno sentito parlare di me come del "direttore della più grande clinica abortiva del mondo", il "Centro per la salute sessuale e riproduttiva" (Crash), di New York. In dieci anni, come fondatore e direttore di questa clinica, ho effettuato numerosissimi aborti: 60.000 dal febbraio 1972 al settembre 1973, vale a dire dalla liberalizzazione dell'aborto. Avevo 35 medici alle mie dipendenze. La clinica operava dalle 8 del mattino a mezzanotte dei giorni feriali e festivi, escluso solo il giorno di Natale. lo stesso ho effettuato privatamente circa 15.000 altri aborti e così sono responsabile in tutto di circa 75.000 aborti. Non sono fiero di questi dati statistici, ma è necessario tenerli presenti. Il mio discorso ne guadagnerà in credibilità e autorità.

Sono stato uno dei fondatori della Naral (National association for repeal of abortion law), l'unione nazionale per l'abrogazione della legge sull'aborto, chiamata più tardi "Lega d'azione per il diritto all'aborto" (Abortion rights action league). Quest’ultima fu il primo gruppo politico attivo per la legalizzazione dell'aborto negli Stati Uniti, fondato da Laurence Lader, Betty Freedan, nota femminista, Carol Brightcer, attiva nella politica a New York City, e da me, nel 1968. A quell'epoca era temerario fondare un movimento simile.

Eravamo in pochi, i nostri mezzi limitati (7.500 dollari il primo anno) ed era audace l'idea di voler cambiare le leggi sull'aborto. Secondo sondaggi non ufficiali, il 99,5% dell'opinione pubblica a New York City era contro una legalizzazione dell'aborto. Noi quattro fondatori, riuscimmo però in due anni a rovesciare a New York la legge contro l'aborto in vigore da 140 anni. Questa città divenne così la capitale dell'aborto in America. Tre anni più tardi, su nostra richiesta, la Corte Suprema legalizzò l'aborto nei 50 Stati dell'Unione. La nostra tattica, per realizzare il nostro scopo, è stata con piccole varianti, la stessa di quella usata in tutto il mondo occidentale. Per chi mi ascolta, è importante saperlo. Vale per tutti: per l'Italia, per il Canada, come per la Gran Bretagna. In questo momento la lotta infuria nella cattolicissima Spagna. Non c'è società occidentale che venga risparmiata. Tutte ne subiscono il contagio.

Nel 1968, il nostro gruppo, la Naral, era consapevole di andare incontro ad una sconfitta nel caso di un sondaggio serio ed onesto. Indicammo così ai mass‑media e al pubblico i risultati di un sondaggio fittizio, nel quale, secondo noi un 50‑60% degli americani erano favorevoli alla liberalizzazione dell'aborto. La nostra tattica consisteva nell'invenzione di dati frutto di consultazioni popolari inesistenti. Il nostro obiettivo divenne presto realtà. Il pubblico, al quale dicevamo che tanti erano per l'aborto, mutò opinione e diventò davvero favorevole all'aborto. Vorrei dunque consigliare di essere molto critici e guardinghi di fronte a informazioni, diffuse dalla stampa e da notiziari della radio e della televisione: purtroppo l'informazione inesatta e tendenziosa rimane per gli abortisti il metodo migliore di propaganda.

Drammatizzando la situazione, trovammo appoggi nella popolazione. Falsificammo i dati sugli aborti clandestini (sapevamo che il loro numero si aggirava intorno ai 100.000) dando ripetutamente al pubblico e alla stampa la cifra di un milione. Così anche HitIer, ripetendo il falso, riuscì a convincere tutta la Germania della veridicità di quanto asseriva. Sapevamo che la mortalità annuale negli aborti clandestini era di circa 200‑250 donne. Noi invece dicevamo che ogni anno morivano circa 10.000 donne per aborto clandestino. Questi dati fittizi influenzarono l'opinione pubblica americana che si convinse della necessità di cambiare la legge.

Il primo anno dopo la liberalizzazione, il numero degli aborti conosciuti salì ad almeno 750.000. Questa cifra, salì nel 1980 a 1,55 milioni, secondo i dati ufficiali. L'aumento degli aborti, dalla loro legalizzazione, si è dunque moltiplicato per 15 (dai 100.000 di prima si è passati infatti a 1,55 milioni nel 1980). Questa constatazione basta a dimostrare quanto fosse nefasta la nostra propaganda.
Una delle nostre tattiche consisteva nel convincere la gente che la penalizzazione dell'aborto avrebbe aumentato considerevolmente il numero degli aborti clandestini. Invece dai dati qui sopra elencati, risulta il contrario: è lecito pensare, che nel caso di una penalizzazione torneremmo ad una cifra vicina a quella anteriore, cioè a circa 100.000.

L'aumento degli aborti dopo la loro liberalizzazione sta anche a dimostrare la diminuzione nella popolazione del senso di responsabilità in materia sessuale. Attualmente l'aborto viene considerato da molti alla stregua di un controllo delle nascite e non c'è la possibilità di fermarne la valanga.

Ci siamo pure serviti della cosiddetta "carta cattolica", rivelatasi molto proficua per la nostra propaganda. Nel 1968 l'opinione pubblica da noi si schierava contro la guerra del Vietnam. Tutti, giovani, studenti ed intellettuali compresi, erano contrari a questa guerra. La gerarchia cattolica invece la appoggiava ancora. Noi, alludendo a questo suo atteggiamento, ed evocando quello da lei adottato di fronte all'aborto, tirandone conseguenze a nostro profitto, guadagnavamo alle nostre idee, quelli che erano contrari a questa guerra (e dunque, secondo noi, favorevoli all'aborto... ). Confidando nell'appoggio dei cattolici, cosiddetti intellettuali e liberali, evitando di attaccare il Papa, per non alienarci simpatie, combattevamo invece la gerarchia cattolica, convincendo i mass‑media della sua influenza negativa in merito al problema della liberalizzazione dell'aborto.

Ho conservato alcuni documenti inerenti alla mia attività di allora. Si tratta di circolari, mandate ai nostri gruppi d'azione, con le quali denunciavamo l'atteggiamento della Chiesa cattolica in materia. I mass‑media se ne impadronirono ed ebbero così un grande impatto sull'opinione pubblica. Ecco alcuni esempi di questa propaganda. Circolare dei 12 maggio 1972 della Naral: parlando dei presidente Níxon, «gli si rimproverava di essersi messo d'accordo con la gerarchia cattolica ed ì] cardinale Cooke, nella campagna contro l'aborto a New York, per ottenere voti». Anche nel Michigan, continua il documento, Nixon «militò contro l'aborto assieme alla gerarchia cattolica, rischiando di far degenerare la questione in una guerra di religione». «La gerarchia cattolica è decisa ad imporre le sue opinioni in materia d'aborto, e presto sarà in pericolo la Carta dei diritti, perché il cardinale Cooke farà legge anche nelle nostre camere da letto. Inammissibile che la Chiesa, legiferando imponga ad una donna di avere un figlio contro la sua volontà. L'esperienza di New York ha dimostrato l'inesorabilità della gerarchia cattolica, la sua totale mancanza di rispetto dell'opinione della maggioranza dei cattolici». In questo modo siamo riusciti a dividere i cosiddetti cattolici liberali dalla loro gerarchia e a infrangere la loro resistenza all'aborto.

Ancora un estratto della circolare: «Sondaggi d'opinione confermano nuovamente che la maggioranza dei cattolici desidera una riforma della legge. Lo dimostra il numero delle donne cattoliche che hanno praticato l'aborto: corrisponde alla loro percentuale nella popolazione totale».

Quanti inganni, quante bugie!

Altro argomento in nostro favore: cercare di stigmatizzare una Chiesa gerarchica e reazionaria, spingendo i cattolici liberali a cambiar campo, schierandosi con noi in favore di una revisione della legge: «molti cattolici, pur non essendo personalmente per l'aborto, pensano che le donne debbano scegliere loro stesse la via da seguire in un campo tanto privato. Per sostenerle, consigliamo l'organizzazione in gruppi dei cattolici in favore di un cambiamento della legge».

Citiamo un altro documento estratto dal Protocollo di un incontro al vertice avvenuto a Chicago il 9 gennaio 1971, presente l'elite dei nostro movimento: politici, deputati, senatori ed alti funzionari. «La maggior opposizione alla revisione della legge sull'aborto viene dalla Chiesa cattolica e dalle organizzazioni da lei appoggiate e finanziate come il "movimento per il diritto alla vita" (Right to life movement). Tutti i presenti sono al corrente della loro propaganda in questo senso. Sarà dunque importante sostenere movimenti di cattolici in favore della liberalizzazione dell'aborto, come quello di personalità attorno a Robert Dyman, deputato, e al cardinale Cushing». Quest'ultimo non era mai stato fautore di una revisione della legge. Diffondendone però la falsa notizia, siamo riusciti a convincere una certa quantità di cattolici indecisi e ad attirarli dalla nostra parte.

In un altro documento, sotto il titolo "Profilo dell'opposizione" la Naral afferma: «L'opposizione (cioè la Chiesa cattolica) rappresenta una minaccia, dispone di mezzi finanziari importanti, è ben organizzata e possiede una rete funzionale di comunicazioni. I suoi argomenti polarizzano l'attenzione su certi valori religiosi, a danno di una società democratica». Chi invece predicava e con grande successo una polarizzazione religiosa, eravamo noi!

Questa nostra campagna di propaganda serviva:

a)       a convincere i mass‑media che gli antiabortisti erano tutti cattolici o cripto‑cattolici, sottomessi alla gerarchia;
b)       che i difensori dell'aborto erano invece colti, liberali, intellettuali, progressisti;
c)       che a parte i cattolici, nessuno era antiabortista.

Invece le Chiese ortodosse orientali, le "Churches of Christ", I'"American Baptist Association" la Chiesa luterana, le Chiese metodiste, l'Islam, l'Ebraismo ortodosso, i Mormoni, le "Assemblies of God" (la più grande comunità ‑ 15 milioni ‑ di Pentecostali negli Stati Uniti) erano all'unanimità contro l'aborto.

Diverse comunità religiose avevano una posizione più mitigata senza però ammettere la liberalizzazione dell'aborto: la "Lutheran Baptist Convention", la Chiesa americana luterana, la Chiesa presbiteriana, e le Chiese battiste.

Questa lista impressionante di Chiese non fu però mai pubblicata, e la nostra propaganda si limitò a denunciare la Chiesa cattolica.

Ho sotto gli occhi una notizia del "Religions news service" apparsa due settimane fa in Giappone, Paese nel quale il cattolicesimo è ben poco diffuso. Ora un movimento importante nel Parlamento chiede l'abrogazione della legge dei 1949, che aveva autorizzato l'aborto; ciò per le catastrofiche conseguenze socio‑economiche.

I documenti da me citati, asseriscono che è anticostituzionale, da parte di gruppi religiosi, combattere l'aborto in violazione della legge che sancisce la separazione tra Stato e Chiesa. Tacciono invece sul fatto che nel 1850 e nel 1860 furono pastori protestanti i promotori del movimento contro la schiavitù, che Martin Luther King, il difensore dei diritti civili per tutti era anche lui pastore e che preti cattolici come i Barrigan furono attivi nella campagna contro la guerra del Vietnam, al punto di essere perfino incarcerati per parecchi anni.

Questo fu il nostro modo tendenzioso di presentare le cose. Quando, da noi, la Conferenza episcopale si pronunciò per la sospensione delle armi atomiche, fu lodata dalla stampa per le sue idee progressiste. Nessuno criticò questa "ingerenza" negli affari dello Stato. Questa stessa Conferenza episcopale fu però aspramente criticata e attaccata quando appoggiò una mozione parlamentare che chiedeva la revoca della legge permissiva sull'aborto. Sfortunatamente sarà molto difficile ottenere questa revoca. Si tratta non solo di reprimere la tendenza attuale e di modificare un articolo della Costituzione, ma anche di annullare una sentenza della Corte Suprema.

Consiglio ai gruppi "Pro Life'' della vostra Repubblica di tirare le dovute conseguenze dalla nostra esperienza, prima che la vostra Corte Suprema vi imponga una legge simile alla nostra.

A parte la "carta cattolica" due altri metodi ci guidavano nella nostra propaganda.

Il primo consisteva nel negare, malgrado le prove scientifiche attuali, che la vita ha inizio con il concepimento, che dunque nell'utero esiste già una persona, e che quest'ultima pretende protezione e sicurezza comenoi.

Il secondo metodo consisteva nell'influenzare i mass‑media, ed era senz'altro il più efficiente.

Spesso mi si domanda: dottore, come è possibile che lei abbia cambiato così radicalmente strada e quali ne sono i motivi?

Ecco: la risposta.

Quando lasciai la clinica, diventai direttore della divisione maternità di un grande ospedale di New York, la Columbia University Medical School. Ero responsabile del servizio prenatale. Nel 1973, quando assunsi questa carica, erano appena state scoperte e usate nuove tecnologie, come ultrasuoni, amniocentesi, cardiotopografia, per appurare la salute del feto.

La seconda tattica (giocando la "carta cattolica") consisteva nel negare la prova scientifica - ora irrefutabile ‑ dell'inizio della vita già a partire dal concepimento. Insistiamo sul fatto che questo problema non deriva dalla scienza ma dalla teologia, dal diritto, dall'etica, e dalla filosofia. I gruppi favorevoli all'aborto ribadiscono il fatto che è impossibile stabilire scientificamente l'inizio della vita.

A dimostrazione della futilità di questa asserzione, cambiamo la parola “vita” con la parola “morte”. Se, come lo vorrebbero i gruppi abortisti, quest'ultima derivasse da un concetto morale, giuridico o teologico, ma non scientifico, sarebbe impossibile certificare la morte di qualcuno e i morti dei nostri cimiteri avrebbero diritto di voto. La mancanza di una definizione per la morte, in contrapposizione alla vita, creerebbe un caos totale.

Difatti nel 1976 il presidente Carter incaricò una commissione di trovare una definizione della morte e di presentarla al Congresso, in modo che medici, avvocati, giudici ed altri potessero servirsene per dichiarare morta una persona. Da una parte tanti sforzi per definire la morte, dall'altra la dichiarazione dei gruppi abortisti, secondo i quali non si può definire la vita...

Dobbiamo invece definirla. E’ una esigenza non solo scientifica, ma anche giuridica e morale. La vita si può definire: inizia dal concepimento, dalla fecondazione, e a partire da questo momento, l’essere concepito è un essere umano. Non esiste un altro momento nell'utero materno, nel quale da una "non‑persona" un essere diventa "persona", Non esiste nessuna mutazione subitanea durante la gravidanza e la vita è un filo continuo, dall'inizio alla fine.

Credo quindi chel'aborto sia un atto di violenza inammissibile e che rappresenti la distruzione sistematica della vita umana. Pur ammettendo il fatto che una gravidanza non desiderata può creare gravi problemi, non è con la distruzione della vita che se ne troverà la soluzione, ma nella ricchezza dell'ingegno umano. L'aborto è una capitolazione di fronte a problemi sociali spiacevoli, una accettazione della violenza.

Come scienziato so ‑ non credo, ma so ‑ che la vita ha inizio con il concepimento. Benché io non sia praticante, credo con tutto il cuore ad una esistenza divina che ci impone di mettere irrevocabilmente un termine ad un tale delitto.

La storia non ci perdonerebbe una mancanza di coraggio, un fallimento.

Vi ringrazio.

Postato da: giacabi a 18:37 | link | commenti
aborto

domenica, 28 novembre 2010

l'embrione
***
embrione.jpg
"L''embrione nel grembo materno" non è "un cumulo di materiale biologico", ma un "nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana"; "così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre".

"Ci sono tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose. Riguardo all’embrione nel grembo materno, la scienza stessa ne mette in evidenza l’autonomia capace d’interazione con la madre, il coordinamento dei processi biologici, la continuità dello sviluppo, la crescente complessità dell’organismo. Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana. Così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre. Con l’antico autore cristiano Tertulliano possiamo affermare: “E’ già un uomo colui che lo sarà” (Apologetico, IX, 8); non c’è alcuna ragione per non considerarlo persona fin dal concepimento."
BenedettoXVI
VEGLIA PER LA VITA NASCENTE26-10-2010

Postato da: giacabi a 09:09 | link | commenti
aborto, benedettoxvi

sabato, 27 novembre 2010

l'infanticidio
***

 
Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho commesso un delitto.
Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l'avessi uccisa.
Io Tullio Hermil, io stesso l'ho uccisa.
Ho premeditato l'assassinio nella mia casa.
L'ho compiuto con una perfetta lucidità di coscienza, esattamente,
nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere con il mio segreto nella mia casa,
un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l'anniversario.
Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi, giudicatemi”. 
Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così?
Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca.
Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.
Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi.
Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.
A chi?
Gabriele D'Annunzio  L'innocente

Postato da: giacabi a 19:47 | link | commenti
aborto, dannunzio

domenica, 21 novembre 2010

ECCO CHI è
IL MAESTRO DEGLI ABORTISTI
E DI CHI VUOLE L'EUTANASIA
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Postato da: giacabi a 08:38 | link | commenti
aborto, eutanasia

domenica, 14 novembre 2010

Testimonianza dalla
"sopravvissuta all'aborto"

"il mio unico scopo della vita è far sorridere Dio"
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Postato da: giacabi a 14:00 | link | commenti
aborto

lunedì, 06 settembre 2010

Io, Gianna Jessen,

sopravvissuta all’aborto

***

Oggi la testimonianza non è di una donna che ha abortito, ma di una che è stata abortita, ed è miracolosamente sopravvissuta.
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
(Lc 19,39-40)
Mi chiamo Gianna Jessen. Vorrei dirvi grazie per la possibilità di parlare oggi. Non è una piccola cosa dire la verità. Dipende unicamente dalla grazia di Dio il poterlo fare. Ho 23 anni. Sono stata abortita e non sono morta. La mia madre biologica era incinta di sette mesi quando andò da Planned Parenthood nella California del sud e le consigliarono di effettuare un aborto salino tardivo. Un aborto salino consiste nell’iniezione di una soluzione di sale nell’utero della madre. Il bambino inghiottisce la soluzione, che brucia il bambino dentro e fuori, e poi la madre partorisce un bambino morto entro 24 ore. Questo è capitato a me! Sono rimasta nella soluzione per circa 18 ore e sono stata partorita VIVA il 6 aprile 1977 alle 6 del mattino in una clinica per aborti della California. C’erano giovani donne nella stanza che avevano appena ricevuto le loro iniezioni ed aspettavano di partorire bambini morti. Quando mi videro, provarono l’orrore dell’omicidio. Un’infermiera chiamò un’ambulanza e mi fece trasferire all’ospedale. Fortunatamente per me il medico abortista non era alla clinica. Ero arrivata in anticipo, non si aspettavano la mia morte fino alle 9 del mattino, quando sarebbe probabilmente arrivato per il turno d’ufficio. Sono sicura che non sarei qui oggi se il medico abortista fosse stato alla clinica dato che il suo lavoro è togliere la vita, non sostenerla. Qualcuno ha detto che sono un “aborto mal riuscito”, il risultato di un lavoro non ben fatto. Fui salvata dal puro potere di Gesù Cristo. Signore e Signori, dovrei essere cieca, bruciata… dovrei essere morta! E tuttavia, io vivo!
Rimasi all’ospedale per circa tre mesi. Non c’era molta speranza per me all’inizio. Pesavo solo nove etti. Oggi, sono sopravvissuti bambini più piccoli di quanto lo ero io. Un medico una volta mi disse che avevo una gran voglia di vivere e che lottavo per la mia vita. Alla fine potei lasciare l’ospedale ed essere data in adozione.
Per via di una mancanza di ossigeno durante l’aborto vivo con la paralisi cerebrale. Quando mi fu diagnosticata, tutto quello che potevo fare era stare sdraiata. Dissero alla mia madre adottiva che difficilmente avrei mai potuto gattonare o camminare. Non riuscivo a tirarmi su e mettermi a sedere da sola. Attraverso le preghiere e l’impegno della mia madre adottiva, e poi di tanta altra gente, alla fine ho imparato a sedere, a gattonare e stare in piedi. Camminavo con un girello e un apparecchio ortopedico alle gambe poco prima di compiere quattro anni. Fui adottata legalmente dalla figlia della mia madre adottiva, Diana De Paul, pochi mesi dopo che cominciai a camminare. Il Dipartimento dei Servizi Sociali non mi avrebbe rilasciato prima per essere adottata.
Ho continuato la fisioterapia per la mia disabilità e, dopo in tutto quattro interventi chirurgici, ora posso camminare senza assistenza. Non è sempre facile. A volte cado, ma ho imparato a cadere con grazia dopo essere caduta per 19 anni.
Sono così grata per la mia paralisi cerebrale. Mi permette di dipendere veramente solo da Gesù per ogni cosa.
Sono felice di essere viva. Sono quasi morta. Ogni giorno ringrazio Dio per la vita. Non mi considero un sottoprodotto del concepimento, un pezzo di tessuto, o un altro dei titoli dati ad un bambino nell’utero. Non penso che nessuna persona concepita sia una di quelle cose.

Ho incontrato altri sopravvissuti all’aborto. Sono tutti grati per la vita. Solo alcuni mesi fa ho incontrato un’altra sopravvissuta all’aborto. Si chiama Sarah. Ha due anni. Anche Sarah ha la paralisi cerebrale, ma la sua diagnosi non è buona. È cieca ed ha delle gravi crisi . L’abortista, oltre ad iniettare nella madre la soluzione salina, la inietta anche nelle piccole vittime. A Sarah l’ha iniettata nella testa. Ho visto il punto della sua testa dove l’ha fatto. Quando parlo, non parlo solo per me stessa, ma per gli altri sopravvissuti, come Sarah, ed anche per quelli che non possono parlare…
Oggi, un bambino è un bambino, quando fa comodo. È un tessuto o qualcos’altro quando non è il momento giusto. Un bambino è un bambino quando c’è un aborto spontaneo a due, tre, quattro mesi. Un bambino è chiamato tessuto o massa di cellule quando l’aborto volontario avviene a due, tre, quattro mesi. Perché? Non vedo differenza. Che cosa vedete? Molti chiudono gli occhi…
La cosa migliore che posso farvi vedere per difendere la vita è la mia vita. È stata un grande dono. Uccidere non è la risposta a nessuna domanda o situazione. Fatemi vedere come possa essere la risposta.
C’è una frase incisa negli alti soffitti di uno degli edifici del parlamento del nostro stato [la California]. La frase dice: “Ciò che è moralmente sbagliato, non è corretto politicamente”. L’aborto è moralmente sbagliato. Il nostro paese sta spargendo il sangue degli innocenti. L’America sta uccidento il suo futuro.
Tutta la vita ha valore. Tutta la vita è un dono del nostro Creatore. Dobbiamo ricevere e conservare i doni che ci sono dati. Dobbiamo onorare il diritto alla vita.
Quando le libertà di un gruppo di cittadini indifesi sono violate, come per i nascituri, i neonati, i disabili e i cosiddetti “imperfetti”, capiamo che le nostre libertà come NAZIONE e Individui sono in grande pericolo.
Vengo oggi a parlare in favore di questa legge a favore della protezione della vita. Vongo a parlare per conto dei bimbi che sono morti e per quelli condannati a morte. Learned Hand, un giurista americano rispettato (del nostro secolo) disse: “Lo spirito della libertà è lo spirito che non è troppo sicuro di essere giusto; lo spirito della libertà è lo spirito che cerca di capire le opinioni degli altri uomini e donne; lo spirito della libertà è lo spirito che pesa i loro interessi insieme ai propri, senza pregiudizi; lo spirito della libertà ci ricorda che neanche un passero cade a terra inosservato; lo spirito della libertà è lo spirito di Colui che, circa 2000 anni fa, ha insegnato all’umanità la lezione che non ha mai imparato, ma non ha mai dimenticato; che c’è un regno dove gli ultimi saranno ascoltati e considerati accanto ai più grandi.”
Dov’è l’anima dell’America?! Voi membri di questo comitato: dov’è il VOSTRO cuore? Come potete trattare le questioni di una nazione senza esaminare la sua anima? Uno spirito omicida non si fermerà davanti a nulla finché non avrà divorato una nazione. Il Salmo 52,2-4 dice: “Lo stolto pensa: «Dio non esiste». Sono corrotti, fanno cose abominevoli, nessuno fa il bene. Dio dal cielo si china sui figli dell’uomo per vedere se c'è un uomo saggio che cerca Dio. Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti; nessuno fa il bene; neppure uno.”
Adolf Hitler una volta disse: “L’abilità ricettiva delle grandi masse è solo molto limitata, la loro comprensione è piccola; d’altro lato la loro smemoratezza è grande. Essendo così, tutta la propaganda efficace deve essere limitata a pochissimi punti che a loro volta dovrebbero essere usati come slogan finché l’ultimo uomo sia capace di immaginare che cosa significhino tali parole”. Gli slogan di oggi sono: “Il diritto di una donna di scegliere”, “Libertà di scelta”, eccetera.
C’era una volta un uomo che parlava dall’inferno (ne parla il capitolo 16 di Luca) che disse: “Sono tormentato da questa fiamma”. L’inferno è reale. Così lo è Satana, e lo stesso odio che crocifisse Gesù 2000 anni fa, ancora si trova nei cuori dei peccatori oggi. Perché pensate che questa intera aula tremi quando menziono il nome di Gesù Cristo? È così perché Egli è REALE! Egli può dare grazia per il pentimento e perdono a voi ed all’America. Noi siamo sotto il giudizio di Dio – ma possiamo essere salvati attraverso Cristo. Dice la Lettera ai Romani: 5,8-10: “Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo NEMICI, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.”
La morte non ha prevalso su di me… ed io sono così grata!!!



Testimonianze di Gianna Jessen rilasciate il 22 aprile 1996 ed il 20 luglio 2000 davanti al Sottocomitato Giudiziario del Congresso sulla Costituzione

http://www.abortionfacts.com/survivors/giannajessen.asp
http://www.godandscience.org/doctrine/jessen.html
GiannaJessen.com

 

 


***
Dio sta usando Gianna per ricordare al mondo che ogni essere umano è prezioso per Lui. È bello vedere la forza dell’amore di Gesù che Egli ha riversato nel suo cuore. La mia preghiera per Gianna, e per tutti quelli che la ascoltano, è che il messaggio dell’amore di Dio ponga fine all’aborto con il potere dell'amore.
Madre Teresa di Calcutta

Postato da: giacabi a 20:33 | link | commenti
aborto, madre teresa

giovedì, 05 agosto 2010



articolo di lunedì 24 maggio 2010

Quel bambino di 80 anni
che non cammina ma sa correre

di Marcello Veneziani
La storia di Felice Mangiarano. Il padre lo portò nel ricovero per infermi. Era un bimbo paralizzato. Che però ha imparato lo stesso ad amare la vita
Avevo nove anni quando mio padre mi ha portato qui, ora ne ho ottantadue. Così comincia il suo racconto Felice Mangiarano storpio dalla nascita, immobilizzato da una vita nella carrozzella. E intorno a lui si fa silenzio. Parla con difficoltà e con affanno, e agita nell’aria le sue mani contorte quasi a pescare nello spazio le parole che non trova nella sua bocca deformata. Siamo dentro le mura di un ricovero per infermi gravi in cui Felice entrò settantatré anni fa e da cui non è più uscito.
Fu un mattino d'inverno, racconta, per la precisione era il 5 febbraio del 1938, che suo padre lo portò in bicicletta dal suo paese natale, Monopoli, all'ospedale ortofrenico di Bisceglie, più di settanta chilometri percorsi al freddo su una statale che costeggia il mare. E tu lo immagini quel bambino paralizzato, appollaiato sulla bicicletta di suo padre, avvinghiato a lui con le sue manine deformi e le gambe penzolanti, che non capisce dove stiano andando. Dove mi porti, chiede il bambino handicappato al padre. Ti porto da un dottore che ti farà camminare, gli rispose il padre. Una bugia pietosa ma necessaria. Una famiglia modesta, una scuola che non accoglie handicappati gravi come Felice; fuori un mondo aspro, povero e inclemente.
Allora suo padre decide di portarlo nella Casa della Divina Provvidenza, dove vengono accolti da un parroco misericordioso, come in un Cottolengo del sud, tutti gli infermi più disperati che hanno perduto l'uso del corpo o della mente o non l'hanno mai avuto. Il bambino non lo sa, spera davvero nel medico miracoloso che lo farà correre e giocare come gli altri bambini. Ma da quel giorno fu lasciato lì, tra le suore, gli infermi e gli infermieri, e non è più tornato a casa sua. Ci è entrato da bambino tra queste mura e non ha conosciuto altro mondo che quello di un ospedale per dementi e deformi. Qui è cresciuto nella sua immobilità, qui ha vissuto tutta la sua vita, se può dirsi vita, diremmo noi scontenti.
Ma oggi che fa il bilancio della sua vita, Felice difende la memoria di suo padre e dice che suo padre fu di parola, perché lui in effetti qui ha imparato a camminare. E tu lo guardi sprofondato nella sua carrozzella e pensi che stia pietosamente vaneggiando. Ma lui, dopo una pausa che ha riempito di indicibile intensità le sue parole, dopo un sospiro carico di pianti stagionati e trattenuti, dice che davvero qui, in mezzo agli altri infermi, ha imparato a camminare anche senza le gambe; perché, dice, si può camminare con il cuore, si può camminare con l'anima, e così io ho camminato in tutti questi anni.
Noi che siamo intorno restiamo muti, immobili, commossi, con un brivido che ci attraversa la schiena.

Le nostre parole diventano superflue davanti alle sue, a quel corpo e allo spettacolo della sua vita offerta a noi passanti in questa sintesi folgorante. Con inerme ospitalità. Pensiamo allora alle nostre vite ricche e movimentate, pensiamo ai nostri mille viaggi, ai nostri corpi sani, alle nostre famiglie e alle nostre vaste conoscenze, eppure ci sembra che non abbiamo camminato come lui. Noi abbiamo avuto sette vite o settanta, lui una sola, dolorosa e autentica.
Felice benedice la sua vita inferma, benedice suo padre che lo lasciò per sempre in quell'ospizio per deformi, benedice il prete, don Uva, che lo accolse con le suore, benedice Dio che non è stato generoso con lui, benedice la provvidenza che gli ha dato una vita in una carrozzella recluso dentro un ospedale. Benedice chi gli ha dato la possibilità di vivere una vita ulteriore e un cammino spirituale tramite il suo corpo deformato. Davanti a lui, Felice non solo di nome, minuscolo nella sua carrozzina come una vigna dai rami contorti, ci vergogniamo delle nostre vite piene di ogni bene e di ogni cammino; vite libere, leggere, mobili, vissute in compagnie d'amore, che pure si protestano infelici o carenti di qualcosa.
Noi ci lamentiamo anche se ci manca il superfluo, lui non si lamenta anche se gli è mancato per una vita il necessario: le gambe, il corpo, la vita vissuta, una donna, una famiglia. Io non ho paura, annota Felice, soffro ma amo la vita dal profondo del cuore, e scrivo perché la scrittura salva dalla morte. Felice si è scritto pure la sua lapide: «Qui giace un cuore che ha tanto amato in vita e in solitudine guardando con gli occhi dell'anima tutte le bellezze del creato, glorificando il creatore». Ma dove le ha viste lui le bellezze, lui che ha vissuto recluso tra i malati in un ospedale? Eppure le ha viste, Felice, le ha viste meglio di noi, con gli occhi dell'anima. Le sofferenze avvicinano a Cristo, ci dice, e poi avverte che le sofferenze non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle. Lo dice con una smorfia di sorriso soprannaturale venuto dall'infanzia.
Del resto, il suo stentato parlare gli impedisce ogni finzione e ogni enfasi; dice l'essenziale, le parole escono scarne dalla sua bocca deformata. Con quel filo di voce non può offrire nient'altro che la verità. La nuda, cruda, essenziale verità. Anche vivere così è valsa la pena. Mi scuso se vi ho raccontato una storia senza notizia, giornalisticamente irrilevante; a volte sono un po' cretino, mi lascio prendere dalle inezie del cuore. Ma ascoltando Felice pensavo alla vita artificiale annunciata sui giornali con la scienza che prende il posto di Dio. Pensavo ai tentativi di eugenetica per avere solo vite sane e perfette, eliminando l'imperfezione e i suoi dolori dalla faccia della terra.
Poi pensavo a quanti invocano l'eutanasia per evitare sofferenze. Ed ho rivisto lui, Felice, in carrozzella da ottant'anni, aggrappato con amore a quel fil di vita, alla natura che pure gli fu matrigna, alla vita che gli fu così avara, amante delle sue sofferenze. E l'ho rivisto poi stanotte, in sogno, sulla bicicletta ereditata da suo padre, che pedalava col cuore, correva con l'anima e fendeva a tutta velocità le vie del cielo.

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aborto, eutanasia, testimonianza

sabato, 03 luglio 2010

Orfanotrofio russo di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 4 marzo 2010 La cultura e le leggi bolsceviche che avrebbero dovuto portare alla “liberazione della donna”, magari contro la “sessuofobia cristiana”, causarono, come si è visto, la disgregazione della società, il boom degli infanticidi e degli aborti.
Tanto che i paesi comunisti, dal Vietnam alla Cina, da Cuba alla Federazione russa, mantengono ancor oggi il triste primato degli aborti nel mondo. Ma non è tutto: anche i bambini già nati furono vittime, in massa, dell’ideologia. Riguardo alla famiglia, infatti, all’inizio della rivoluzione comunista si sostenne che la lotta tenace al matrimonio religioso, il lavoro obbligatorio per le donne e l’intervento dello stato per sollevare i genitori dal “fardello dell’educazione dei figli”, avrebbero portato a una società armoniosa e felice. Alexandra Kollontai, in due discorsi del 1921, aveva infatti dichiarato: “Nella Società Comunista la donna non dovrà passare le sue scarse ore di riposo in cucina, perché esisteranno ristoranti pubblici e cucine centrali in cui si darà da mangiare a tutti…”; neppure sarà più necessario che le donne facciano le pulizie in casa, visto che ci penseranno persone stipendiate ad hoc dallo Stato. Inoltre il “focolare domestico” verrà sostituito dal “focolare comunitario”, il matrimonio indissolubile, “una mera frode”, dal “diritto alla felicità” per gli amanti; le case comuni prenderanno il posto degli alloggi privati, e la famiglia sarà sostituita, nell’educazione dei figli, dallo stato. Così “l’uomo nuovo, della nostra nuova società, sarà modellato dalle organizzazioni socialiste, dai giardini d’infanzia, residenze, asili per bambini e altre istituzioni di questo tipo, in cui il bambino passerà la maggior parte della giornata e in cui educatori intelligenti lo trasformeranno in un comunista cosciente”. “Non temete – continuava – per il futuro di vostro figlio. Non conoscerà il freddo e la fame. Non sarà disgraziato, non verrà abbandonato alla sua sorte come accadeva nella società capitalista. Non appena il neonato viene al mondo, lo Stato della classe lavoratrice, la Società Comunista, assicurerà al figlio e alla madre una razione per la sua sussistenza e una sollecita cura. La Patria Comunista crescerà, alimenterà ed educherà il bambino” e la famiglia non sarà più necessaria, ma al contrario “dannosa e inutile”, visto che “la donna che ha nutrito il suo bambino al seno ha assolto il suo dovere sociale”. Proprio in uno di questi discorsi, dopo aver ricordato che finalmente nel 1920 dodici milioni di cittadini, “bambini compresi”, hanno mangiato nelle mense pubbliche, e dopo aver stigmatizzato come “lavoro improduttivo” “la cura della casa e la cura dei bambini”, la Kollontai notava che “in Unione Sovietica, ahimè! il numero dei bambini abbandonati dai genitori non smette di crescere”.
Che cosa succedeva? La mentalità imposta dai bolscevichi, il matrimonio minimale, senza “formalità”, senza sacralità e quasi senza cerimonia, il cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di una o due settimane al massimo” (sfruttato da molti mariti), l’insistenza sulla morte della famiglia, il “doppio fardello” per le donne, si sommarono alla povertà determinata dalla guerra civile, dall’economia statalizzata e dalle carestie provocate, e portarono milioni di russi a smarrire il senso della genitorialità, all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad abbandonare i figli o allo stato o sulla strada. Gli storici sono concordi: fu un fenomeno di proporzioni inaudite. In breve la Russia fu strapiena di “besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di nessuno: si parla di 7 milioni di bambini nel 1922. A quelli abbandonati per i motivi suddetti infatti, bisogna aggiungere tutti i figli dei perseguitati politici: nella Russia comunista le mogli dei “traditori della patria”, ma spesso anche le mamme e le sorelle, venivano internate in appositi gulag, mentre i bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi in quelle che dovevano essere le “splendide” scuole pubbliche, sostitutive dei genitori, e che divennero invece gli immensi orfanotrofi-lager che disseminano ancora oggi l’Est postcomunista. A prendersi “cura” dell’emergenza fu incaricato il terribile Dzerzinskij, il capo della Ceka, determinando tra il resto il fatto che questi istituti sovraffollati di bambini disperati divennero talora veri e propri vivai per la polizia segreta di Stalin, capace, sovente, di ferocia senza pari. Nel 2007 in Russia vi erano ancora circa 5 milioni di bambini abbandonati.
Qualcosa di simile alla situazione di altri paesi comunisti, in cui la disgregazione familiare era stata considerata propedeutica a una maggior libertà dell’individuo e alla creazione di veri cittadini, fedeli solo allo stato e alla collettività. Nella Cina di Mao e nella Cambogia di Pol Pot, voler dormire a casa, dimostrare attaccamento per la moglie o i figli, tributare culto ai familiari defunti, costituirono motivi di sospetto. Si veniva incolpati di “mettere la famiglia al primo posto”, di porre in dubbio la capacità del partito di provvedere ai cittadini, di avere ancora “inclinazioni individualiste”, di essere troppo legati a “sentimentalismi” ed egoismi piccolo borghesi. Con esiti simili a quelli russi: una massa immensa di aborti, infanticidi e orfani nelle strade.
(Continua - 3)

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comunismo, famiglia, aborto, agnoli

mercoledì, 09 giugno 2010
Bocelli su Youtube: ringrazio mia madre che non volle abortire E le associazioni pro vita esaltano il cantante

MILANO—Un teatro, un uomo al pianoforte. È Andrea Bocelli. In platea non c’è nessuno. Il grande tenore è lì per registrare un video-messaggio dedicato a un missionario, padre Rick, che lavora ad Haiti. «Allora — dice —, per questa occasione ho pensato di raccontarvi una piccola storia ». E parla di una giovane donna che arriva in ospedale con dolori che fanno pensare a un problema di appendicite. Lei non sa di essere incinta. «I dottori le misero del ghiaccio sulla pancia—racconta Bocelli — e poi, quando il trattamento era finito, le dissero che avrebbe fatto meglio ad abortire. Che era la soluzione migliore, perché il bambino sarebbe venuto al mondo con qualche forma di disabilità. Ma la giovane e coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque ». E poi: «Quella signora era mia madre, e il bambino ero io». Quindi aggiunge: «Sarò di parte, ma posso dirvi che è stata la scelta giusta e spero che questo possa incoraggiare altre madri che magari si trovano in momenti di vita complicati ma vogliono salvare la vita dei loro bambini». Alla fine accenna un canto: «Voglio vivere così... col sole in fronte...». Bocelli è nato con una forma di glaucoma congenito che lo ha reso quasi cieco.
Il video, 2 minuti e 28 secondi, è su Youtube da qualche giorno. «Ma Andrea lo ha registrato fra fine ottobre e inizio novembre—ricorda la compagna, Veronica Berti —. Io ero lì e quando ho sentito le sue parole sono dovuta uscire perché mi stavo mettendo a piangere ». Spiega che quel messaggio, quel racconto, serviva per una serata organizzata da «Nph-Italia», branca della fondazione «Nuestros Pequenos Hermanos» (I nostri piccoli fratelli ndr) che si occupa di bambini e con la quale Bocelli collabora. In particolare, era un omaggio all’opera di padre Rick, un prete-chirurgo che ha dedicato venticinque anni ai bimbi di Haiti. «Padre Rick cura tutti i bambini—dice Veronica Berti — ma ha costruito un centro per le mamme con figli disabili. Perché in quel Paese, capita che i bimbi con menomazioni più o meno gravi non vengano accettati e curati ». Parla di prima, di prima del terremoto che a gennaio ha devastato l’isola. «Il sisma non c’era ancora stato—spiega Veronica —. Ma Andrea voleva dire alle persone di quel un Paese tanto povero, dove i bambini disabili rischiano di non essere accettati dalle famiglie, che anche lui aveva rischiato di non vedere la luce a causa di una forma di disabilità».
Lui, che poi avrebbe venduto 70 milioni di dischi e conquistato il mondo. E che adesso è diventato l’idolo delle organizzazioni che si battono per la difesa della vita e contro le interruzioni di gravidanza. Il video, scrive il Daily Mail, è stato messo in rete da «Whole life initiative », un’organizzazione pro-life statunitense. E i commenti di chi lo ha guardato sono tra il commosso e il fanatico: «Aborto = omicidio» scrive qualcuno che si firma BulgariaWillRise. E subito è ripreso l’eterno dibattito fra chi difende la vita sempre e comunque e chi non vuole che una scelta del genere venga affidata a governi e Stati invece che alle persone. Bocelli che ne pensa? «Andrea è molto religioso, quindi non c’è bisogno di rispondere — dice la compagna —. Io non mi permetto di giudicare, credo che bisogna trovarsi in situazioni simili per poterne parlare. Certo, però, quella storia colpisce. Io l’ho fatta vedere ai nostri figli: quando hanno sentito il racconto di loro padre è calato il silenzio».
Mario Porqueddu


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aborto

venerdì, 12 febbraio 2010

ER SOGNO BELLO
***

I
- Macchè! – je disse subbito er dottore -
Qui nun se tratta mica d’anemia!
E’ gravidanza, signorina mia:
soliti incertarelli (1) de l’amore! -              (1) brutti scherzetti

Pe’ Mariettina fu ‘na stretta ar core:
- So’ rovinata! Vergine Maria!
Madonna santa, fate che nun sia!
Nun potrei sopportà ‘sto disonore! -

Ma appena vidde ch’era proprio vero
corse da Nino. – Nun è gnente! – dice -
Se leveremo subbito er pensiero.
Ce vo’ la puncicata (2). Domattina              (2) puntura, iniezione, ma qui intende aborto
te porto da ‘na certa levatrice
che già l’ha fatto a un’antra signorina. -


II
La sera Mariettina  agnede (3) a letto             (3) andò
coll’occhi gonfi e con un gnocco (4) in gola, (4) nodo alla gola
e s’anniscose sott’a le lenzola
pe’ piagne zitta, senza da’ sospetto.

Poi pijò sonno e s’insognò (5) un pupetto         (5) sognò
che je diceva: "Se te lascio sola,
povera mamma mia, chi te consola
quanno t’invecchierai senza un affetto?"

E, sempre in sogno, je pareva come
se er fijo suo crescesse a l’improviso
e la baciava e la chiamava a nome...

Allora aperse l’occhi adacio adacio
e s’intese una bocca, accanto ar viso,
che la baciava co’ lo stesso bacio.


III
Era la madre. – Mamma, mamma bella! -
E se la strense ar petto. – Amore santo!
Che t’insognavi che parlavi tanto
e facevi la bocca risarella?

Però ciai l’occhi come avessi pianto...
Dimme? che t’è successo? – E pe’ vedella
più mejo in faccia, aprì la finestrella
e fece l’atto de tornaje accanto.

S’intese un fischio. – Mamma! questo è lui
che sta aspettanno sotto l’arberata...
Dije che vada pe’ li fatti sui.-

Anzi faje capì che se l’onore
se pò sarvà con una puncicata
preferisco de dajela ner core.

Trilussa


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aborto, trilussa

domenica, 07 febbraio 2010

Il segreto della vita

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aborto, persona

lunedì, 18 gennaio 2010

La carne degli angeli
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http://www.copia-di-arte.com/kunst/raffael_eigntl_rafaello_santi/angeli_10910005543027817_hi.jpg
un punto è l'embrione

un secolo di vita

che ascolta l'universo

la memoria del mondo

fin dalla creazione.

L'uomo che nascerà

è un eco del Signore

e sente palpitare in sè

tutte le stelle

Alda Merini


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aborto, merini

sabato, 16 gennaio 2010

La vita è sacra
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“Un figlio non è un dente cariato. Non lo si può estirpare come un dente e buttarlo nella pattumiera, tra il cotone sporco e le garze. Un figlio è una persona, e la vita di una persona è un continuum dall’attimo in cui viene concepita al momento in cui muore”
(Oriana Fallaci)


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aborto, fallaci

sabato, 10 ottobre 2009

Madre Teresa di Calcutta e l'aborto
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aborto, madre teresa

venerdì, 17 luglio 2009

Lidea di abortire mi ha sempre inorridito
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"[...] non la penso come coloro i quali affermano che un feto e a maggior ragione un embrione non è ancora un essere umano. Secondo me, noi siamo ciò che saremo fin dall'istante in cui si accende quella goccia di vita. E l'idea di abortire non mi ha mai sfiorato il cervello. Anzi, mi ha sempre inorridito [...] L'idea che in America si conservino trecentomila embrioni umani congelati e che almeno centomila se ne conservino in Europa, almeno trentamila in Italia, Dio sa quanti in Cina e negli altri paesi senza controllo, mi inorridisce quanto l'idea di aborto. Mi strazia quanto l'esecuzione di Terri [Schiavo, ndr] e concludo: non me ne importa nulla che manipolare cioè assassinare quegli embrioni serva a guarire malattie come la sclerosi amiotrofica di Stephen Hawking. Non me ne importerebbe nemmeno se servisse a curare il mio cancro, a regalarmi il tempo di cui ho bisogno per finire il lavoro che rischio di lasciare incompiuto. E l'eutanasia? Idem. La parola eutanasia è per me una parolaccia. Una bestemmia nonché una bestialità [...] il Testamento biologico è una buffonata"
***
"I genitori che stufi di curare i bambini handicappati li abbandonano negli istituti dove muoiono di stenti o di polmonite sono Barbablù. La madri che partoriscono per gettare il neonato nel cassonetto della spazzatura sono Barbablù. Gli scienziati che custodiscono gli embrioni congelati nei laboratori sono Barbablù. I Barbablù di un mondo che ciancia di eguaglianza e democrazia ma invece si compone di uomini Alfa, uomini Beta, uomini Gamma"
Oriana Fallaci, «Barbablù e il mondo nuovo. La furia di Oriana Fallaci contro chi ha ucciso la bella addormentata», intervista a Christian Rocca, in «Il Foglio», 13.4.2005).

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domenica, 17 maggio 2009

Prigionieri dell’eugenetica
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Sopravvissuta agli esperimenti medici nazisti, amica personale di Wojtyla, Wanda Póltawska riconosce nei sogni scientisti di oggi il delirio superomistico che sessant’anni fa eliminava i più deboli

di Lorenzo Fazzini
«Non basta parlare della bellezza della vita: bisogna parlare della santità della vita, perché la vita umana deve essere santa». Niente più che una bella frase, se non fosse che a pronunciarla è stata una “Versuchskaninche”, una cavia medica del lager nazista di Ravensbrück. «Se qualcuno mi svegliasse improvvisamente di notte e mi chiedesse chi sono, potrebbe succedere che risponda: “Shutzhaftling siebenundsiebzig null neun”. Questo è il mio numero in lingua tedesca: 7709. E per questo non c’è rimedio».
La vita di Wanda Póltawska sarebbe il sogno di qualsiasi regista cinematografico: nell’esistenza di donna polacca oggi 87enne, psichiatra, si concentrano alcune delle più drammatiche vicende del Novecento.
Membro della Resistenza antinazista a Lublino, sua città natale, nel 1941, giovanissima scout cattolica, viene arrestata, imprigionata e torturata dalla Gestapo. Wanda viene quindi spedita nel lager nei pressi di Berlino e qui, insieme ad un manipolo di altre compagne polacche, diventa cavia umana per efferati esperimenti medici delle Ss: subisce continue operazioni chirurgiche sugli arti che le lasciano non solo ferite nelle gambe ma, ancor di più, una cicatrice nell’anima. Dopo la guerra diventa amica personale di Karol Wojtyla, conosciuto durante i suoi studi di medicina a Cracovia. È lui ad affidarla a padre Pio – e il miracolo avviene – quando una paralisi la colpisce negli anni Sessanta. In seguito sarà una stretta collaboratrice dell’allora arcivescovo di Cracovia: dal 1957, per 40 anni, direttrice dell’Istituto di teologia della famiglia alla Pontificia accademia teologica della città di Wojtyla, che la nomina membro del Pontificio consiglio per la famiglia e della Pontificia accademia per la vita.
Non rilascia mai interviste, Wanda Póltawska. «Mi dispiace» ci dice da casa sua, a Cracovia. Quello che aveva da dire l’ha raccontato in un libro drammatico, E ho paura dei miei sogni (Edizioni dell’Orso), scritto come terapia psicoanalitica, apposta per allontanare gli incubi che, tornata a casa, la tormentavano ogni notte (il libro è uscito in polacco nel 1961, già tradotto in inglese e solo recentemente in italiano). A Tempi confida che è «sciocco e piuttosto insincero» ogni tentativo negazionista alla Mahmoud Ahmadinejad. E invita «gli italiani a vedere Katyn», il film-capolavoro di Andrzej Wajda sull’eccidio sovietico di ufficiali polacchi, «perché questo crimine è una cosa che deve essere ricordata». Come il dramma che la Póltawska porta come stimmate sulla sua pelle, cicatrici quali segni della pazzia superomistica di Hitler che pensava di rimodellare l’«umanità nuova». «È dall’uomo che dipende cosa farà di se stesso ed è per questo che alla domanda su dove sia Dio io posso contrapporre un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”. Non si può accusare Dio delle conseguenze dell’operare umano: quest’accusa la possono fare degli uomini ad altri uomini». Così afferma la Póltawska quando le si chiede conto della sua fede cristiana dentro l’orrore del lager.
Ricco di spunti è il suo intervento “Quando la morte non vince”, pubblicato in L’eclissi della bellezza. Genocidi e diritti umani, volume che raccoglie gli atti di un omonimo convegno organizzato tempo fa a Brescia e ora edito da Fede & Cultura (pp. 185, euro20).
«Finché viviamo, la linea di demarcazione tra il bene ed il male non passa tra un uomo e l’altro, passa dentro ogni uomo. Puoi anche accorgerti che, lentamente, impercettibilmente, si stia spostando verso la bestialità, ma tu, uomo libero, puoi tendere consapevolmente all’eroismo, alla santità».
Proprio in forza della disumana esperienza di Ravensbrück la Póltawska ha da sempre portato avanti una causa pro-life politicamente scorretta, la lotta contro l’aborto. «Hess e i medici ginecologi: anche loro uccidono migliaia di persone, di bambini indifesi, ed essendo medici sanno bene che si tratta di esseri umani. Ma nessuno li giudica, nessuno li condanna. La legge degli uomini non difendeva e non difende i bambini». Non ha timore di sembrare irriverente
, questa anziana reduce dai nazisti, a lottare per la difesa della vita innocente in nome di quella dignità umana che ha visto calpestata dagli anfibi delle Ss. Alla domanda di Tempi sul perché sia una così strenua nemica dell’aborto risponde:
«Sono cattolica e ho visto dei bambini buttati nelle fiamme dai tedeschi».
Wanda ricorda un episodio per lei illuminante: «Durante un congresso in Austria un medico disse di avere una domanda da fare ai teologi. Aveva un problema di coscienza, poiché aveva in frigorifero tre embrioni congelati e non riusciva a trovare una candidata ad essere madre. Non potei resistere: “Lei, collega, ha già dimenticato Norimberga, perché ha questi bambini congelati?”. Al processo di Norimberga Karl Gerardt, che aveva commissionato operazioni sperimentali sulle ragazze di Ravensbrück – e io sono tra queste – fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita, mentre, dopo solo 50 anni, centinaia di medici effettuano impunemente esperimenti pseudo-medici su bambini indifesi. Che uomini sono? Sono diversi dalle Ss tedesche, e se sì, in che cosa? Uomini disumani, una medicina disumana, una mascolinità disumana, una femminilità disumana, semplicemente una umanità disumana: ma perché?».

«Buttavano i neonati nel fuoco»

Proprio di fronte all’orrore nazista è nata la vocazione pro-life di questa indomita testimone della bellezza della vita: «Io ho iniziato il mio lavoro per difendere la vita nel campo di concentramento. Nel campo, specialmente dopo l’insurrezione di Varsavia, erano state internate molte donne incinte. I tedeschi non le facevano abortire, lasciavano che partorissero, poi buttavano i bambini nel fuoco. Io più volte ho dovuto assistere a questa scena. Allora tutte insieme ci siamo organizzate per salvare questi neonati e siamo riuscite a salvarne trenta. Devo dire che in seguito a questi fatti ho deciso di diventare medico». Nel suo racconto autobiografico, intessuto di una drammaticità asciutta, con l’autrice quasi incapace di raccontare l’orrore che ha davanti agli occhi, la Póltawska non smentisce quella fede cattolica che tanto la contrassegna: «No, non odiavo nel modo più assoluto. Si trattava di qualcosa di completamente diverso: una enorme delusione, piuttosto, per il fatto che degli esseri umani potessero fare tutto quello a cui assistevo, che ci fossero degli esseri umani così. Non sentivo odio per nessuno, ma sentivo che il perdono poteva darlo solo Dio».

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aborto, testimonianza, giovanni paoloii

martedì, 14 aprile 2009

Beata Gianna Beretta Molla
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Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI
di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Vogliamo raccontare la storia di una madre che papi e vescovi avevano già additato all'esempio dell'intero popolo cristiano prima ancora che fosse beatificata.
Paolo VI, nell'Angelus del 23 settembre 1973, parlò di lei: "una madre della diocesi di Milano che, per dare la vita al suo bambino, ha sacrificato con meditata immolazione la propria". Lo stesso hanno fatto più recentemente Giovanni Paolo II ed il cardinale Martini.
La vicenda appartiene ai nostri tempi, non solo perché parliamo di una donna scomparsa non molti anni fa, ancora giovane, ma perché risponde ad una esigenza sempre più avvertita ai nostri giorni.
Nel Concilio Ecumenico Vaticano II è stato solennemente proclamato che "il Signore Gesù a tutti ed a ciascuno dei suoi discepoli, di qualsiasi condizione, ha predicato la santità della vita" e che dunque "tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza di vita cristiana ed alla perfezione della carità", e che "nei vari tipi di vita e nei vari compiti un'unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio".
Ma ora è necessario che questa convinzione sia testimoniata anche nella scelta di coloro che vengono presentati alla venerazione ed imitazione di tutti i fedeli.
Spesso qualcuno chiede: "Perché i santi sono quasi sempre dei religiosi, o comunque persone che hanno concluso la vita con particolari forme di consacrazione a Dio?".
Si avverte l'esigenza che vengano proposti come modelli dei santi che abbiano vissuto la vita di tutti, tra lavoro e famiglia, con coniuge e figli, con gioie e preoccupazioni di ogni giorno.
Se la domanda nasconde l'idea che si possa diventar santi anche senza un serio e totale dono di sé a Dio, siamo del tutto fuori strada.
La domanda è invece corretta se manifesta il desiderio di far entrare quel tutto in cui consiste la santità ("amare Dio con tutto il cuore, tutta l'anima, tutte le forze") dentro i ritmi più quotidiani e comuni dell'esistenza.
Il marito di Gianna Beretta, interrogato qualche tempo dopo la morte della moglie, rispose semplicemente:"Io non mi sono mai accorto di vivere con una santa".
Ma egli stesso chiariva che questa affermazione si spiegava per la persuasione, così diffusa un tempo, che la santità debba sempre manifestarsi con abbondanza di avvenimenti eccezionali (una sorta di costante immersione nel prodigioso).
Poi, ripensando alla vita della moglie, egli comprese "che la santità è la quotidianità della vita, vissuta alla luce di Dio".
E tuttavia la Chiesa non rinuncia a chiedere, per proclamare qualcuna santo, che sia provata l'"eroicità delle sue virtù".
Solo che, in questi casi di santità laicale, l'eroicità resta a lungo nascosta dentro una fedeltà a tutta prova, fatta di cose semplici e quotidiane, fino a che l'Amore a Dio e al prossimo non trova occasione di esprimersi in tutta la sua forza e la sua abbagliante purezza.
Torniamo alla testimonianza del marito:
"Gianna era una donna splendida, ma assolutamente normale. Era bella, intelligente, buona. Le piaceva sorridere. Era anche una donna moderna, elegante. Guidava la macchina, amava la montagna e sciava molto bene. Le piacevano i fiori e la musica. Per anni siamo stati abbonati ai concerti del Conservatorio di Milano. Le piacevano i viaggi. Io andavo spesso all'estero per motivi di lavoro e, appena possibile, la portavo con me. Siamo andati in Olanda, in Germania, in Svezia, e un po’ dappertutto in Europa...".
E' giusto, tuttavia, proprio perché abbiamo bisogno di quella luce che ad un tratto illumina l'intero quadro, partire dal periodo di maturazione durato sette mesi, durante il quale la "perfetta Carità" invase il cuore di questa sposa e madre.
All'inizio dell'estate del 1961 la dottoressa Gianna Beretta e l'ingegnere Pietro Molla erano una coppia felice: lei lavorava in un ambulatorio medico dove esercitava la professione con competenza e dedizione; lui dirigeva la sua fabbrica di tremila operai. La famiglia, nella quale dominava un totale accordo, era allietata da tre bei bambini ancora molto piccoli, tra i cinque ed i due anni.
Per i due genitori i figli erano una ricchezza, tanto che desideravano ancora un frutto del loro amore.
Lo sappiamo da una lettera di lei: "Io sono sempre felice di Pietro e dei nostri tre magnifici bambini, e ne ringrazio tanto il Signore. Desidererei tanto un altro 'popo'".
Nell'agosto si annunciò la nuova desiderata maternità, ma la gioia si mescolò presto alle più gravi preoccupazioni: a fianco dell'utero cresceva un grosso fibroma e si rendeva necessario e urgente l'intervento chirurgico.
Gianna comprese subito a cosa andava incontro. La scienza di allora offriva due soluzioni considerate sicure per la vita della madre: una laparotomia totale con asportazione sia del fibroma che dell'utero; o l'asportazione del fibroma con interruzione della gravidanza.
Una terza soluzione, che consisteva nell'asportare soltanto il fibroma senza toccare il bambino, metteva in grave pericolo la vita della madre.
Leggiamo dalla Relazione clinica del tempo: "Una sutura praticata sull'utero nei primi mesi di gravidanza spesso cede, con secondaria rottura dell'utero e pericolo immediato mortale per la paziente, verso il quarto o il quinto mese di gestazione; rischio ben noto alla dottoressa Gianna".
Inoltre comunque fossero andate le cose nei mesi immediatamente successivi, il rischio si sarebbe poi ripresentato gravissimo al momento del parto.
La dottoressa Beretta, prima di andare in ospedale, si recò dal sacerdote dal quale abitualmente si confessava, che la esortò a sperare e ad avere coraggio.
"Sì, don Luigi - gli rispose la donna - ho tanto pregato in questi giorni. Con fede e speranza mi sono affidata al Signore, anche contro la terribile parola della scienza medica che mi diceva: 'o la vita della madre o la vita della sua creatura'. Confido in Dio, sì, ma ora spetta a me compiere il mio dovere di mamma. Rinnovo al Signore l'offerta della mia vita. Sono pronta a tutto, pur di salvare la mia creatura".
Raccontò lei stessa il primo incontro col chirurgo: "Il professore mi disse prima dell'operazione: 'Cosa facciamo, salviamo lei o salviamo il bambino?. 'Prima salviamo il bambino!, gli dissi subito. 'Per me non si preoccupi'. E, dopo l'operazione, egli mi disse :'Abbiamo salvato il bambino'".
Il professore, di religione ebraica, rispettò la volontà della paziente, anche se non si sentiva di condividerne la scelta. Solo lui e Gianna sapevano il significato profondo di quell' "Abbiamo salvato il bambino". L'espressione annunciava alla madre altri mesi di passione, tanti quanti sarebbe durata ancora la gravidanza.
Quando se la rivedrà davanti, nel momento fatale del parto, il professore esclamerà con un misto di ammirazione e di sconcerto scientifico: "Ecco la madre cattolica!". Una di quelle profezie che Dio sa trarre dalla bocca dei lontani.
Il primo intervento riuscì: una scelta eroica era stata fatta, ma ora tutto sembrava rientrare nella normalità.
Gianna riprese il suo lavoro in famiglia e nell'ambulatorio e si curò da sola i disagi e le sofferenze di quella pericolosa gravidanza, senza pesare su nessuno, tacendo con tutti, per non turbare la serenità dei figli e del marito.
Ma continuando a vivere normalmente, con gioia perfino, senza smettere di sperare.
Mancava solo un mese al parto e il marito dovette recarsi a Parigi per lavoro. Gianna gli chiese di portarle alcune riviste di moda. "Se Dio mi tiene qui -disse- mi voglio fare dei bei vestiti" e difatti le riviste ci sono ancora con i segni da lei tracciati acanto ai modelli che le piacevano.
Quando diventerà santa, anche quelle riviste saranno reliquie. Non è una banalità, è l'invito ad abituarci a un modo nuovo di giudicare.
Ogni tanto era colta dall'angoscia del continuo pericolo, ma la sopportava da sola per risparmiare i suoi cari, nella preghiera e nell'offerta, con piena coscienza. Sul suo tavolo da lavoro troveranno poi dei testi di medicina aperti al capitolo sulle "maternità a rischio".
"A me - testimonierà poi il marito - tornava in mente con insistenza la sua richiesta che 'fosse salvata la gravidanza', ma non osavo andare oltre con il pensiero. Non osavo parlarne con mia moglie. Qualche tempo dopo: 'Pietro - mi disse -, ho bisogno che tu, che sei sempre stato tanto amorevole con me, lo sia ancor di più in questo periodo, perché sono mesi un po’ tremendi per me'. Continuavo a vederla tranquilla. Si occupava con il solito affetto dei nostri bambini e dei suoi malati. Poi un giorno mi sono accorto che metteva a posto la casa con una attenzione particolare. Che riordinava i cassetti, gli armadi…come se avesse dovuto partire per un lungo viaggio…"
Soltanto al fratello sacerdote Gianna manifestò il suo stato d'animo: "Il più ha ancora da venire. Tu non te ne intendi di queste cose. Quando sarà il momento, o io o lui".
Ma non era una sfida, era tenerezza verso il piccolo che cresceva dentro.
Torniamo al racconto del marito:
"Un mese e mezzo prima della nascita di nostro figlio è successa una cosa che mi ha sconvolto. Dovevo uscire per andare in fabbrica e avevo già infilato il cappotto. Gianna -mi pare ancora di vederla- era appoggiata al mobile dell'anticamera della nostra casa. Mi è venuta vicino. Non mi ha detto: ' Sediamoci', 'fermati un momento', 'parliamo'. Niente. Mi è venuta vicino così come succede quando si debbono dire cose difficili, che pesano, ma alle quali si è tanto meditato, e su cui si vuole 'tornare'. 'Pietro - mi ha detto-, ti prego….Se si dovrà decidere tra me e il bambino, decidete per il bambino, non per me. Te lo chiedo'. Così. Nient'altro. Sono stato incapace di dire qualunque cosa. Conoscevo benissimo mia moglie, la sua generosità, il suo spirito di sacrificio. Sono uscito di casa senza dire una parola".
Glielo ripeterà ancora prima del parto. Così anche a una amica:
"Vado all'ospedale, ma non sono sicura di tornare. La mia maternità è difficile; dovranno salvare o l'uno o l'altro; io voglio che viva il mio bambino".
"Ma hai tre bambini, preoccupati di vivere tu, piuttosto!".
"No, no…Voglio che viva il bambino".
A un'altra amica incontrata dal parrucchiere disse:"Prega, prega anche tu! Durante questa difficile gravidanza ho tanto studiato e pregato per la mia nuova creatura…Prega affinchè sia pronta a fare la volontà di Dio!".
E Dio volle che la sua passione cominciasse proprio il Venerdì Santo del 1962.
Raccontò una suora dell'ospedale:
"La incontrai mentre saliva i gradini per essere accolta in reparto. Mi disse: 'Suorina, eccomi, sono qui per morire', ma aveva uno sguardo buono e sereno. E aggiunse: 'Basta che vada bene il bambino, per me non fa niente!".
Il terribile travaglio durò tutta la notte; alle undici del Sabato Santo nacque, con parto cesareo, una bella e sana bambina, proprio nel momento in cui - secondo la Liturgia in uso prima del Concilio- si scioglievano le campane e si cominciava a festeggiare la Resurrezione.
Quando si svegliò dall'anestesia le portarono la piccola. Racconta il marito:
"L'ha guardata con uno sguardo lunghissimo in silenzio. Se l'è tenuta accanto con una tenerezza indicibile. L'ha accarezzata leggermente senza dire una parola".
Poi la sua passione continuò per un'altra lunga settimana, mentre una peritonite settica la conduceva alla tomba, senza che si riuscisse a far nulla per salvarla.
Passò gli ultimi giorni continuando ad offrirsi umilmente, come su un altare, pregando e chiedendo che non le dessero stupefacenti perché voleva restare cosciente, mentre invocava Gesù Crocifisso e la sua stessa mamma, che la portassero in paradiso.
Il mercoledì dopo Pasqua si risvegliò dal coma e disse al marito: "Pietro, ora sono guarita. Ero già di là e sapessi cosa ho visto! Un giorno te lo dirò. Ma siccome ero troppo felice, stavo troppo bene, con i nostri meravigliosi bambini, pieni di salute e di grazia, con tutte le benedizioni del cielo, mi hanno rimandato quaggiù per soffrire ancora, perché non è giusto presentarsi al Signore senza tanta sofferenza".
Le mancavano ancora tre giorni di passione, secondo la misteriosa misura con cui ognuno deve, nel disegno buono di Dio Padre, completare nella sua carne la Passione di Cristo.
Dovremo tornare su questa morte, e su quei sette mesi di Via Crucis durante i quali la vita di Gianna Beretta acquistò quella totale trasparenza all'Eterno, in cui consiste la santità.
Ma ora dobbiamo, alla luce di quanto è accaduto, ripercorrere brevemente la sua intera esistenza, non per cercarvi a forza altri episodi eroici, ma per rivedere all'opera come viene tessuta quella stoffa cristiana che rende possibile la santità.
Scrive ancora il marito, quasi dialogando con lei:"Non hai fatto cose eccezionali, non penitenze eccezionali, non hai cercato la rinuncia per la rinuncia, non l'eroismo per l'eroismo. Sentivi e attuavi i tuoi doveri di giovane, di sposa, di madre e di medico con piena disponibilità ai disegni ed alla volontà del Signore, con spirito e desiderio di santità, per te e per gli altri".
Eccezionali furono certamente i genitori di Gianna: una di quelle coppie di inizio secolo, con numerosi bambini (Gianna era la decima di tredici figli), per le quali la fede era sostanza della giornata, nel lavoro e nell'educazione, nei pensieri e nei sentimenti, nelle gioie e nelle pene della vita.
Quando Gianna, sette anni dopo la loro morte, incontrerà il suo fidanzato, ella gliene parlerà così: "I miei santi genitori, tanto retti e sapienti, di quella sapienza che è riflesso del loro animo buono, giusto e timorato di Dio".
E quando si sposerà, il celebrante (uno dei fratelli di Gianna) le dirà durante la predica:" Gianna, non ti metto davanti i santi, ma la nostra mamma. Ricordi come era sempre dolce, sorridente, docile, paziente, attiva, sempre unita a Dio, sia nei momenti di gioia come di dolore".
Un altro fratello ricorda: "La mamma, pioggia o non pioggia, freddo o caldo, ogni mattina presto, i suoi figli se li conduceva alla Santa Messa e Santa Comunione. Ci svegliava non con un ordine o una imposizione, ma con un dolce invito, passandoci la sua mano sul viso e lasciandoci la libertà poi di alzarci o di continuare nel sonno. Ci aiutava poi lei a dire le parole a Gesù prima della Comunione e dopo; ci raccoglieva tutti intorno a lei nel banco della chiesa, dopo averci lasciati un poco soli con il Signore, subito dopo la Comunione, perché parlassimo noi con Lui e, poi, cominciava lei, facendoci ripetere le sue parole: non erano preghiere lette, ma le improvvisava lei, semplici e bellissime".
La santità dipende sempre da una familiarità nei riguardi del Signore Gesù, e la familiarità comincia sempre con un incontro.
Vivere in una famiglia davvero cristiana significa che questo incontro (soprannaturale) col Dio fatto uomo accade "naturalmente", così come è naturale incontrarsi tutti i giorni con mamma e papà, con i loro insegnamenti ed i loro esempi, con le loro premure e le loro preoccupazioni, con la loro correzione ed il loro perdono: in una parola, con la loro fede, speranza e carità.
In tal caso, il miracolo della conversione (del voltarsi verso Gesù) riesce facile, come è semplice a un bambino orientarsi verso la voce ed il volto della madre.
La santità di Gianna cominciò così. Poi questo dono familiare si dilatò nel dono di una tradizione, di un flusso cioè di vita ecclesiale che la raggiunse e la condusse con sé.
Cerchiamo di cogliere i momenti determinanti di questo fluire.
Quando si avvicinava ai sedici anni, partecipò ad un corso di esercizi spirituali in preparazione alla Santa Pasqua.
Abbiamo i suoi appunti, da lei intitolati: Ricordi e preghiere di Gianna Beretta.
Una delle preghiere comincia così: "Gesù, ti prometto di sottopormi a tutto ciò che permetterai mi accada. Fammi solo conoscere la tua volontà."
Abbiamo poi la lista di undici propositi, o decisioni per la vita, e vale proprio la pena rileggerli, per capire come si forma una coscienza cristiana, negli anni così delicati della prima giovinezza.
1. Faccio il santo proposito di fare tutto per Gesù. Ogni mia opera, ogni mio dispiacere, li offro tutti a Gesù.
2. Faccio proposito che, per servire Dio, non voglio più andare al cinematografo, se non sappia prima se esso si possa vedere, se è modesto e non scandaloso, immorale.
3. Di voler morire, piuttosto che commettere un peccato mortale.
4. Voglio temere il peccato mortale come se fosse un serpente, e ripeto: mille volte morire piuttosto che offendere il Signore.
5. Voglio pregare il Signore che mi aiuti a non andare all'inferno, quindi evitare tutto ciò che può far male all'anima mia.
6. Dire una Ave Maria tutti i giorni, perché il Signore mi faccia fare una buona morte.
7. Prego il Signore perché mi faccia comprendere la sua grande misericordia.
8. Ubbidire e studiare, sebbene non ne abbia voglia, per amore di Gesù.
9. Voglio sempre recitare da oggi in poi le mie preghiere in ginocchio, tanto la mattina in chiesa come alla sera nella mia camera, ai piedi del mio letto.
10. Voglio sopportare qualunque rimprovero… La via della umiliazione è la più breve per arrivare alla santità.
11. Pregare il Signore di farmi andare in Paradiso. Dire sempre che ho paura di non andarci, così pregherò e con l'aiuto di Dio entrerò nel Regno dei cieli, con tutti i santi e le altre anime.
Non è difficile scoprire in questi propositi il tono ed il sapore delle prediche di una volta.
Qualcuno dirà, forse, che c'era troppo moralismo; è certo che c'era anche molta serietà e molta voglia di amare Gesù con i fatti e non solo riempendo le agende di appunti intelligenti, e di belle citazioni, come spesso accade.
Tanto che questi propositi generarono poi una ricca vita di comunità che Gianna sviluppò assumendosi delle responsabilità educative nell'ambito dell'Azione Cattolica.
Insegnerà alle sue ragazze, con le parole e con l'esempio, che bisogna rendere la verità amabile, offrendo in se stessi un esempio attraente e, se possibile eroico, perché l'uomo ha sempre bisogno di vedere, di palpare, di sentire; non si lascia facilmente conquistare da una parola. Il dire soltanto non trascina, ma il far vedere sì. Pertanto occorre essere testimoni viventi della grandezza e bellezza del cristianesimo.
Sono tutte espressioni tratte dagli schemi che Gianna, studentessa universitaria, preparava per la gioventù femminile di Azione Cattolica.
Dopo gli studi di medicina all'università - affrontati tra i grandi disagi del tempo di guerra- iniziò ad esercitare la professione negli ambulatori di Magenta e di Mesero non tralasciando di occuparsi attivamente anche di politica nelle elezioni del 1948.
Per alcuni anni rifletté intensamente sulla sua vocazione. Non doveva seguire uno dei suoi fratelli che, dopo essere divenuto medico, s'era fatto cappuccino ed era partito missionario per il Brasile?
Intanto sappiamo da alcuni appunti, da lei scritti su un ricettario, come ella vivesse la professione medica:
"Bellezza della nostra missione. Tutti nel mondo lavoriamo in qualche modo al servizio degli uomini. Noi lavoriamo direttamente sull'uomo. Il nostro oggetto di scienza e di lavoro è l'uomo che dinanzi a noi dice:…'Aiutami', e aspetta da noi la pienezza della sua esistenza…La nostra missione non è finita quando le medicine non servono più. C'è l'anima da portare a Dio. C'è Gesù che dice: 'Chi visita un ammalato visita me'. Missione sacerdotale: come il sacerdote può toccare Gesù, così noi medici tocchiamo Gesù nel corpo dei nostri ammalati, poveri, giovani, vecchi e bambini. Che Gesù si faccia vedere in mezzo a noi. Che egli trovi tanti medici che offrano se stessi a Lui".
Anche questi sono probabilmente appunti presi da qualche conferenza ascoltata, ma a commentarli c'è poi la testimonianza di tutti coloro che l'accostarono e la videro applicarli con semplicità, perfino nell'ultimo giorno, quando appesantita dalla gravidanza, fece le ultime visite, prima di andare in ospedale a morire.
Un'ulteriore decisiva tappa verso la santità avvenne nel 1955, quando -a trentatré anni- si fidanzò con l'ingegner Pietro Molla.
Il 1954 era stato proclamato "anno mariano" e Gianna era stata a Lourdes in pellegrinaggio. Al ritorno raccontò a una amica:"Sono stata a Lourdes per chiedere alla Madonna cosa devo fare: se andare alle missioni o sposarmi: Sono arrivata a casa, ed è arrivato il signor Pietro".
Si erano conosciuti frequentando i cineforum del centro culturale di Magenta, si rividero al teatro della Scala, a uno spettacolo di balletti per la festa di fine anno, e brindarono assieme al nuovo anno in casa Beretta. Da allora si moltiplicarono le occasioni per conoscersi meglio e si fidanzarono ufficialmente nel febbraio del 1955.
Abbiamo riferito l'elenco dei primi incontri nella loro esteriorità, quasi mondana - senza parlare dell'incontro profondo delle loro anime, fin dalle prime intuizioni - proprio per sottolineare che questo "racconto di santità" accade sul normale scenario della nostra moderna società.
"Ci comprendiamo sempre meglio", annotava allora Pietro.
Ambedue si accorgevano d'avere gli stessi desideri e aspirazioni, speranze e certezze.
Pietro annotava:"Più conosco Gianna e più mi persuado che migliore incontro Iddio non poteva donarmi".
Gianna gli scriveva:" Pietro, potessi dirti tutto quello che provo per te! Ma non ne sono capace. Supplisci tu. Il Signore proprio mi ha voluto bene. Tu sei l'uomo che desideravo incontrare, ma io non ti nego che a volte mi chiedo: 'Sarò io degna di lui?'. Sì, di te, Pietro, perché mi sento così un nulla, così capace di niente, che, pur desiderando grandemente di farti felice, temo di non riuscirci. E allora prego così il Signore: 'Signore, tu che vedi i miei sentimenti e la mia buona volontà, rimediaci tu e aiutami a divenire una sposa e una madre come tu vuoi e penso che anche Pietro lo desideri'. Va bene così, Pietro?".
Quando Gianna era piccola, il prete le aveva un giorno detto che era fortunata ad avere una madre che rassomigliava alla "donna forte" di cui parla la Bibbia, nel libro dei Proverbi.
E ricordandosene, dopo aver ricevuto l'anello di fidanzamento, ella scrisse al suo compagno:
"Mio carissimo Pietro, come ringraziarti del magnifico anello? Pietro caro, per ricompensarti i ti dono il mio cuore e ti amerò sempre come ti amo ora. Penso che alla vigilia del nostro fidanzamento ti faccia piacere sapere che tu sei per me la persona più cara a sono costantemente rivolti i miei pensieri, affetti, desideri, e non aspetto che il momento in cui poter esser tua per sempre…Mi piace spesso meditare quel brano: 'la donna forte chi la troverà?…Il cuore di suo marito può confidare in lei…ecc.'. Pietro , potessi essere per te la donna forte della Bibbia! Invece mi pare e mi sento debole….".
E il fidanzato risponde: "Tu sei per me la donna forte della Bibbia. Vicino a te la mia gioia è perfetta".
In un'altra lettera lei scrive:
"Ti amo tanto tanto, Pietro, e mi sei sempre presente, cominciando dal mattino quando, durante la Santa Messa, all'offertorio, offro, con il mio, il tuo lavoro, le tue gioie, le tue sofferenze, e poi durante tutta la giornata, fino a sera".
E, quando ormai prossimo il matrimonio, gli confida:
"Sei il mio Pietro, e mi sento ormai un'anima e un cuore solo con te…le tue gioie sono anche le mie e così pure tutto ciò che ti preoccupa e addolora, preoccupa e addolora anche me. Quando penso al nostro grande amore reciproco, non faccio che ringraziare il Signore".
Tutte le lettere sono piene di vera umanissima tenerezza che non sente estranea a sé la fede. Anzi, quell'amore è una incarnazione della loro reciproca fede.
Ecco come lei progetta il futuro:
"Con l'aiuto e la benedizione di Dio faremo di tutto perché la nostra nuova famiglia abbia ad essere un piccolo cenacolo, dove Gesù regni sopra tutti i nostri affetti, desideri e azioni. Pietro mio, mancano pochi giorni, e mi sento tanto commossa ad accostarmi a ricevere il sacramento dell'Amore. Diventiamo collaboratori di Dio nella creazione, possiamo così dare a Lui dei figli che Lo amino e Lo servano".
Ecco una lettera scritta dai campi di sci, al fidanzato rimasto in città, legato alla sua fabbrica:
"Mi dispiace che lunedì tu abbia avuto tanto lavoro. Ti seguo sempre con il pensiero, e se potessi aiutarti, lo farei con tutto il cuore. Ieri e oggi è ritornato un sole splendido. Mi alzo al mattino alle ore 8 (che lazzarona! Tu sei già in ufficio) perché alle 8.30 c'è la Santa Messa. Credi, non ho mai gustato tanto la Messa e la Comunione come in questi giorni. La chiesetta tanto bella e raccolta è deserta. Il celebrante non ha nemmeno il chierichetto, quindi il Signore è tutto per me e per te, Pietro, perché ormai dove ci sono io ci sei anche tu".
Il marito rievocherà poi così quel tempo: "Tu eri per me, ogni giorno di più, la creatura meravigliosa che mi trasmettevi la tua gioia di vivere …la gioia della nostra nuova famiglia, ormai prossima, la gioia della grazia di Dio".
Il giorno del matrimonio Gianna pretese un abito da sposa bellissimo, di una stoffa particolarmente preziosa.
Alla sorella spiegò:"Sai, la voglio scegliere molto bella perché poi voglio farne una pianeta per la prima messa di qualche mio figlio prete".
Davanti a questo continuo intreccio di amore umano e di amore sacro, pensieri spirituali e profani - per così dire - non è difficile sentirsi un po’ sconcertati.
Ci resta però da riflettere su un punto essenziale: che il cristianesimo è questo intreccio, così come in Gesù si uniscono indissolubilmente la divinità e l'umanità.
Chi raggiunge questo punto di sintesi cristiana, vede costantemente i due aspetti nella loro completa armonia. I passaggi tra l'uno e l'altro gli sembrano così naturalmente soprannaturali e così soprannaturalmente naturali! Chi, invece, si sottrae alla sintesi viva, o la pensa solo con il cervello, esperimenta necessariamente quelle stonature che egli stesso ha dentro:
Del tempo felice del matrimonio e della vita familiare allietata da tre bambini, citiamo solo la rievocazione che ne ha fatto il marito:
"Tu continuavi a possedere la gioia della vita, a godere l'incanto del creato, i monti e le loro nevi, i concerti di musica sinfonica, il teatro, come nella tua giovinezza e nel periodo del nostro fidanzamento. In casa eri sempre operosa: non ti ricordo una sola volta in ozio….Nonostante gli impegni della nostra famiglia, hai voluto continuare la tua missione di medico a Mesero, soprattutto per l'affetto e la carità che ti legavano alle giovani mamme, ai tuoi vecchi, ai tuoi ammalati cronici….I tuoi propositi, i tuoi atti erano sempre in piena coerenza con la tua fede, con lo spirito… di carità della tua giovinezza, con la piena fiducia nella Provvidenza e con il tuo spirito di umiltà. In ogni circostanza ti richiamavi sempre e ti affidavi alla volontà del Signore. Ogni giorno, lo ricordo, avevi sempre la tua preghiera, la tua meditazione, il tuo colloquio con Dio, il tuo ringraziamento per il dono dei nostri meravigliosi figlioli. Ed eri tanto felice".
Anche le domande più delicate, quelle sulla intimità coniugale, sono state affrontate durante il processo canonico di Beatificazione. E abbiamo la testimonianza giurata del marito.:"A riguardo della castità coniugale, il teste insiste nel dire che la fedeltà ai principi della morale cristiana, ai quali erano stati educati, fu assoluta".
Completato il nostro itinerario, senza dimenticare le esperienze delle tre nascite e le mille gioie, cure e preoccupazioni legate alla crescita dei tre bambini, dobbiamo ora tornare a quegli ultimi mesi in cui Dio le chiese di donare tutto.
Non si trattò di un solo gesto di eroismo, compiuto di getto, quasi ad occhi chiusi, ma di una meditata immolazione (come la definì Paolo VI) durata sette mesi. Un tempo interamente impregnato di una costante decisione:"Non salvate me, ma il bambino".
Per comprendere questa sua meditazione di madre, possiamo anche soffermarci su quella che fu la domanda di tutti. Dalla donna del popolo che, saputo della sua scelta, commentò brutalmente:"Che scema!", all'amica che obiettava: "Hai tre figli, pensa piuttosto a vivere tu", al marito che condivideva, nella stessa fede, la scelta della moglie ma non riusciva nemmeno a pensarci e a parlarne, a Gianna stessa che sul letto di morte dirà alla sorella: "Sapessi quanto si soffre quando si lasciano i bambini tutti piccoli!".
Che cosa dunque la spinse a quella scelta?
Certamente la coscienza chiara, senza ombra alcuna, di dover obbedire a quel Dio che dice: "Non uccidere". L'aveva detto lei stessa, da medico, ad una ragazza che le chiedeva di farla abortire:" Non si scherza con i bambini!".
Non si possono curare tre bambini sacrificandone un altro.
Sarà il marito stesso, nonostante lo strazio, a spiegare ciò che spinse la moglie al sacrificio: "Quello che ha fatto non lo ha fatto 'per andare in Paradiso'. L'ha fatto perché si sentiva una mamma…Per comprendere la decisione non si può dimenticare, per prima cosa, la sua profonda persuasione, come mamma e come medico, che la creatura che portava in sé era una creatura completa, con gli stessi diritti degli altri figli, anche se era stata concepita da appena due mesi. Un dono di Dio, al quale era dovuto un rispetto sacro. Non si può nemmeno dimenticare il grande amore che aveva per i bambini: li amava più di quanto amasse se stessa. E non si può dimenticare la sua fiducia nella Provvidenza. Era persuasa, infatti, come moglie, come madre di essere utilissima a me e ai nostri figli, ma di essere soprattutto in quel preciso momento, indispensabile per la piccola creatura che stava nascendo in lei…".
Finalmente siamo giunti alla parola decisiva, quella parola antica che è l'unica luce cui possiamo veramente guardare quando l'esistenza sembra farsi oscura e difficile da decifrare: la Provvidenza di Dio.
Se non c'è la Provvidenza divina, la creatura può agitarsi, fare i suoi calcoli, perfino uccidere nella persuasione di migliorare la vita propria e altrui. Se c'è l'umile, semplice, antichissima fede nella Provvidenza - quella a cui Cristo ha dato un volto filiale e paterno - allora la ragione dell'uomo continua a percepire le sue evidenze. Per questo la scelta di Gianna fu "meditata", come ha detto il Papa, "una reazione ragionata" come ha coraggiosamente scritto il marito.
E l'evidenza era che agli altri tre figli ella era necessaria, ma a quello che portava in grembo era indispensabile.
Senza di lei Dio poteva "provvedere" agli altri bambini, ma neppure Dio avrebbe potuto "provvedere" a quello che aveva in grembo, se lei lo rifiutava.
Lauretta Molla, la terzogenita a cui Dio stesso ha provveduto aveva allora quasi tre anni. A sedici anni ricorderà così la madre in un tema scolastico:
"Avevo solo tre anni e forse non capivo il significato di tutte quelle candele accese e di tutti quei pianti... Quello che mi è rimasto più impresso è la sua immagine di vera madre, consapevole dei doveri verso la famiglia….Svolgeva il suo lavoro di dottoressa con tanta cura e felicità, e le piaceva soprattutto curare i bambini, specialmente quelli più bisognosi. Fra tutte le sensazioni provate, quella che ha ancor maggior rilievo nella mia vita è la profonda ammirazione che suscita in me il pensiero di una madre che per la sua creatura ha dato la propria vita….Posso dire di essere veramente fiera di aver avuto una madre di così grande coraggio, che ha saputo veramente vivere come Dio desiderava….Sento che mi è sempre vicina, e mi aiuta come se fosse ancora in vita".
Il resto è affidato tutto al nome che venne dato al frutto di tanto sacrificio. Mentre ancora la madre era sul suo letto di morte, la bambina venne portata in chiesa e battezzata col nome di Gianna Emmanuela: il nome della madre unito al nome di quel Gesù che è "Dio con noi". Poi il papà consacrò la bambina alla Madonna, come Gianna amava sempre fare.
Non era pronta la tomba di famiglia, e allora il parroco commosso mise a disposizione la cappella centrale del cimitero di Mesero. Così la bara venne deposta nella tomba dei sacerdoti, forse un segno di delicatezza da parte di Dio, davanti al sacrificio di questa madre.
Ma in quel momento il bambino più grande, Pierluigi, di cinque anni e mezzo, chiese al papà:"Perché la mamma è là chiusa? Dove va la mamma?…" E insisteva:" Mamma mi vede? Mi tocca? Mi pensa?". Poi concluse: "Per la mamma ci vuole una casetta d'oro".
Perciò quando la cappella di famiglia venne ultimata, il marito volle che la parete di fondo fosse ricoperta da un mosaico dorato. Vi è raffigurata Gianna che offre alla Madonna di Lourdes la sua bambina. E la scritta, in latino, è tratta dal libro dell'Apocalisse.
Dice così: "Sii fedele fino alla morte!".

Postato da: giacabi a 15:29 | link | commenti
aborto, beretta molla

mercoledì, 25 marzo 2009

Cameron:
 «L'amore per Ivan
ci ha cambiato la vita»
***
David Cameron con la moglie Samantha (Reuters)
All'indomani della scomparsa del figlio Ivan, sei anni, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia, il leader conservatore David Cameron ha inviato una e-mail per ringraziare i sostenitori del partito che hanno espresso solidarietà alla sua famiglia. Ecco il testo che David e la moglie Samantha hanno inviato al popolo Tory.

"Sam e io siamo stati sommersi da tutte le lettere, i biglietti, le e-mail e i fiori che abbiamo ricevuto per Ivan. Inviare una e-mail questa settimana ci offre l'opportunità di dire un grande «grazie». Significa molto sapere che altri pensano a noi e a lui.
Abbiamo sempre saputo che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all'improvviso. Lascia un vuoto nella nostra vita così grande che le parole non riescono a descriverlo. L'ora di andare a letto, l'ora di fare il bagno, l'ora di mangiare — niente sarà più uguale a prima.

Ci consoliamo sapendo che non soffrirà più, che la sua fine è stata veloce, e che è in un posto migliore. Ma semplicemente, manca a noi tutti disperatamente. Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di lui ma almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi — Sam, io, Nancy ed Elwen — a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall'amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo".
David Cameron

da : www.corrieredellasera.it 02 marzo 2009



Postato da: giacabi a 19:54 | link | commenti
aborto

venerdì, 20 marzo 2009

 LA BUFALA DELLA BAMBINA SCOMUNICATA
***
Il professor Adriano Prosperi ed Ezio Mauro ammetteranno il clamoroso errore? Io penso che, da persone serie, bisogna aspettarselo. Ieri sulla prima pagina di Repubblica infatti è uscito un editoriale dello storico che ha un finale pesantissimo con la Chiesa, ma basato su una notizia letteralmente falsa, smentita dalla stessa cronaca di Repubblica.

Parlando della fanciulla di 9 anni, di Recife in Brasile, che è stata violentata, è rimasta incinta ed è stata fatta abortire, l’editoriale di Prosperi (peraltro letto, quindi amplificato, pure alla rassegna stampa di Radio Radicale), tuonava infatti contro “la durezza atroce, disumana della condanna ecclesiastica che ha colpito con la scomunica la bambina brasiliana e i medici che ne hanno salvato la vita facendola abortire”.

Ora sarebbe bastato che l’autore dell’articolo sfogliasse i giornali, compreso il suo, per accorgersi che la bambina brasiliana non è mai stata scomunicata e anzi, per la Chiesa, è la vittima di una società disumana, da colmare di amore materno. Anche dalla Repubblica risultava infatti che il pronunciamento (sbagliato) del vescovo di Recife non riguardava la fanciulla per la quale il presule ha avuto parole di comprensione. Nell’articolo di Repubblica del 6 marzo, firmato da Orazio La Rocca, si legge: “l’arcivescovo di Recife, nello specificare che il provvedimento non riguarda la bambina, puntualizza che il ‘peccato’ d’aborto ricade esclusivamente sui medici e ‘chi lo ha realizzato - si è augurato il presule spiegando i termini del provvedimento - si spera che, in un momento di riflessione, si penta’ ”.
Non solo. E’ noto che sull’Osservatore romano del 15 marzo è uscito l’autorevole editoriale di monsignor Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la vita, che si intitolava significativamente “Dalla parte della bambina brasiliana” e sconfessava di fatto, anche per quanto riguarda l’anatema sui medici, il vescovo di Recife, per il suo pronunciamento inopportuno e non improntato anzitutto alla misericordia e alla prudenza su un caso tanto delicato.
Fisichella, pur ribadendo le norme del codice di diritto canonico sull’aborto, ha sottolineato che questo caso specifico è molto particolare dal punto di vista della teologia morale, trattandosi della violenza su una bambina la cui vita era messa in pericolo dalla gravidanza stessa, quindi non ci si doveva affrettare a tuonare con quel giudizio che somiglia a una mannaia: “Carmen”, ha scritto Fisichella sull’Osservatore, parlando idealmente alla bambina, “stiamo dalla tua parte. Condividiamo con te la sofferenza che hai provato, vorremmo fare di tutto per restituirti la dignità di cui sei stata privata e l’amore di cui avrai ancora più bisogno. Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere e ti aiuteranno a recuperare la speranza e la fiducia. Nonostante la presenza del male e la cattiveria di molti”.

Di tutto questo non c’è traccia nell’editoriale di Prosperi che ha sentenziato, senza informarsi, parlando di “durezza atroce, disumana della condanna ecclesiastica che ha colpito con la scomunica la bambina”. Sorprende pure lo stato maggiore della Repubblica che ha collocato in prima pagina l’editoriale di Prosperi senza accorgersi che capovolgeva la verità dei fatti che la stessa Repubblica aveva riportato.

A cosa si deve un così clamoroso errore? Non volendo pensare a malafede bisogna attribuirlo a ignoranza o superficialità. Ma Prosperi non è un qualsiasi frettoloso cronista di provincia: è, se non sbaglio, un accademico, un esimio storico, uno di quegli intellettuali togati che fa gli occhi alle pulci e che ben conosce il dovere assoluto di documentarsi prima di scrivere e soprattutto prima di emettere sentenze di condanna di quella gravità.

In questo caso documentarsi era facilissimo perché tutti i giornali hanno riportato la cronaca. Non voglio pensare che anche il professor Prosperi sia così roso da furore anticlericale da ritenere che, quando c’è da bombardare la Chiesa, non sia necessario essere rigorosi, documentarsi e rispettare la verità dei fatti.

Ma il pregiudizio ideologico – che di questi tempi, a Sinistra, rasenta il fanatismo anticlericale – gioca brutti scherzi e, in questo clima avvelenato nel quale si tende quotidianamente al linciaggio morale della Chiesa, anche gli intellettuali più titolati rischiano, per faciloneria o faziosità, di accodarsi alla corrente e trovare qualche buccia di banana.

L’invettiva di Prosperi del resto è andata avanti per molte righe. Accennando vagamente all’articolo di Fisichella l’ha liquidato con una riga: “di fatto non risulta che quella scomunica sia stata cancellata”. Ma se non c’è mai stata alcuna scomunica per la bambina (neanche del vescovo di Recife) come poteva essere cancellata? Oltretutto la scomunica “latae sententiae” non prevede una cancellazione formale, ma semplicemente il confessionale. Ma Prosperi non si attarda a ragionare sui fatti e prosegue la sua invettiva: “Il corpo della donna resta ancora per questa Chiesa un contenitore passivo di seme maschile”.

E qui siamo al problema: Prosperi ha una teoria, sintetizzata da questa terribile frase, e ci teneva a ribadirla. Se i fatti contraddicono la teoria, tanto peggio per i fatti. Basta ignorarli. Questo modo di procedere si chiama ideologia. Nel merito della tesi di Prosperi, fra l’altro, obietterei che è semmai la moderna mentalità laica e libertaria che trasforma la donna in un “contenitore passivo di seme maschile”. Ma Prosperi non sembra sfiorato da dubbi e sbrigativamente mette al rogo la Chiesa, in un processo sommario che condanna la strega cattolica imputandole il falso.

Con la virulenza di un inquisitore laico il professore tira un’ultima legnata tuonando che per questa Chiesa “l’anima di una bambina brasiliana è meno importante di quella di un vescovo antisemita e negazionista”. Il riferimento è a Williamson. A Prosperi non interessa che la bambina mai sia stata scomunicata e anzi sia stata abbracciata dalla Chiesa come Gesù crocifisso, con lo stesso amore materno. A Prosperi non interessa neppure che Williamson sia e resti sospeso a divinis: non ha una funzione canonica e non è abilitato a esercitare legittimamente né l’episcopato né il sacerdozio (inoltre il Vaticano gli ha intimato di rinnegare “in modo assolutamente inequivocabile e pubblico” le sue assurde dichiarazioni sulla Shoah). Questi sono i fatti. Ma chi vive di pregiudizio non ha bisogno dei fatti. Quando i fatti disturbano le opinioni, tanto peggio loro.

Tra i fatti rimossi e ignorati dal pensiero dominante ce ne sono due immensi e tragici: 1) l’enormità, in ogni caso, del fenomeno dell’aborto nel mondo (circa 50 milioni di casi ogni anno) su cui non si può sorvolare con superficialità; 2) quello che la Chiesa ha dovuto subire nell’ultimo secolo: un macello senza eguali, persecuzioni sotto tutti i regimi che hanno fatto decine di milioni di vittime cristiane, accompagnate da massicce campagne di calunnie perpetrate dai totalitarismi del Novecento. Una tragedia per la quale la Chiesa meriterebbe almeno un minimo di rispetto e soprattutto la fine del rancore pregiudiziale che la cultura laica progressista nutre tuttora contro di essa.

Antonio Socci

Da Libero, 19 marzo 2009

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aborto, socci


Aids:
«Il successo dell’Uganda
dà ragione a BenedettoXVI»
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La posizione del Papa sull’Aids? Realista, ragionevole e scien­tificamente fondata. Parola di un medico che da anni si misura col problema in uno dei Paesi africani dove il virus ha colpito più dura­mente, l’Uganda, e dove le strategie di contrasto hanno portato a risul­tati molto significativi, fino a farne un modello. Filippo Ciantia ci vive dal 1980 con la moglie e otto figli. È il rappresentante regionale dell’ong italiana Avsi per la Regione dei Grandi laghi ed è autore di nume­rosi interventi su riviste scientifiche. In uno di questi, pubblicato su Lan­cet, ha messo in evidenza l’efficacia della dottrina cattolica nell’affron­to dell’Aids.

In che senso Benedetto XVI esprime una posizione realista?
La strategia vincente di fronte al vi­rus non può essere meramente sa­nitaria e farmacologica.
Si vince te­nendo conto di tutti i fattori che co­stituiscono la persona. I dati dimo­strano che l’Aids è diminuito solo nei Paesi in cui si è lavorato per mo­dificare i comportamenti sessuali e gli stili di vita delle persone, cosa che a sua volta deriva da un lavoro di informazione e educazione che coinvolge le famiglie, le donne, le scuole. È accaduto così in Kenya, E­tiopia, Malawi, Zambia, Zimbabwe e soprattutto qui in Uganda. Ma per ottenere risultati bisogna avere il co­raggio di scelte forti, come hanno fatto da queste parti...

Quali scelte?
Il cuore del problema sta nella mo­dificazione dei comportamenti, per esempio i rapporti sessuali a rischio contemporanei con più partner, che in Africa sono molto diffusi. C’è u­na notevole ritrosia a intervenire su questo terreno perché si dice che in nome della libertà non è lecito in­tromettersi nelle scelte della gente. Ma questa è una posizione ipocri­ta. Come la mettiamo allora con le campagne contro il fumo, l’alcol, la droga che si vanno moltiplicando? Anche questa è invasione di campo? Se un comportamento mette a ri­schio la salute, astenersi dall’inter­venire per cercare di modificarlo significa in realtà danneggiare le per­sone che lo mettono in atto e l’inte­ra società.

Quindi la Chiesa non fa invasione di campo parlando di astinenza e fedeltà al partner?
La Chiesa fa il suo mestiere e, fa­cendolo, contribuisce al bene di tut­ti. Non c’è un posto al mondo dove l’Aids sia diminuito senza un cambia­mento radicale dei comportamenti ses­suali. Ma per arrivare a questo si deve lavo­rare a livello educati­vo, non ci si può cer­to accontentare di di­stribuire preservativi, confidando nel loro effetto taumaturgico e deresponsabiliz­zando la gente. Lo ha capito bene il governo ugandese che ha laicamente lanciato con succes­so la strategia dell’ABC.

In cosa consiste l’ABC?
Alle persone viene consigliata l’a­stensione dai rapporti (Abstinence), la fedeltà al partner (Being faithful) e – in casi molto particolari e solo per certe, limitate categorie di per­sone – l’uso corretto del profilattico (Condom use). Risultato? La preva­lenza dell’Hiv è passata dal 15% del 1992 al 5% del 2004. E sa qual è sta­to il costo dei programmi avviati per favorire la modifica degli stili di vi­ta? 23 centesimi di dollaro a testa. Ha ragione il Papa: siamo di fronte a una tragedia che non può essere vinta solo con i soldi. Serve una stra­tegia multilaterale che metta al cen­tro il bene della persona.

Cosa vuol dire con­cretamente?
Promozione della condizione femmini­le, sostegno a chi è colpito dal virus con i farmaci (la gratuità è un elemento fonda­mentale e rischia di venire colpito dagli ef­fetti della crisi econo­mica), lotta allo stig­ma e alla discrimina­zione nei confronti dei malati, campagne di educazio­ne preventiva nelle scuole primarie raggiungendo i bambini prima che diventino sessualmente attivi. E per raggiungere questi obiettivi, non si può prescindere dal fattore comu­nitario.

Perché è fondamentale questo ele­mento?
In una società come quella africana è necessario coinvolgere i leader re­ligiosi e le comunità locali. In U­ganda molte organizzazioni si sono prese cura degli orfani (che sono due milioni e mezzo), hanno aiuta­to le famiglie colpite, si sono prodi­gate nell’attività educativa e so­prattutto hanno fatto compagnia ai malati. Come fanno quelli del Mee­ting Point, il partner locale di Avsi, che da anni aiutano migliaia di don­ne a Kampala e in altre città.

Cosa fanno?
Promuovono corsi di igiene e salu­te, prestiti per piccole attività lavo­rative, distribuiscono cibo. Molte donne sono state aiutate a capire che la loro esistenza è più grande della malattia, hanno cominciato il trattamento antiretrovirale che pri­ma rifiutavano perché si sentivano finite, si aiutano a vicenda a pren­dere le medicine. Se una di loro muore, i figli vengono presi in casa da un’altra. Si sentono amate da qualcuno che le considera impor­tanti. È un piccolo miracolo quoti­diano, un’esperienza d’amore più contagiosa del virus.
Copyright 2009 © Avvenire19 Marzo 2009

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aborto


Siamo sicuri che a 11 anni un aborto è meno traumatico di un parto?
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Ma perché siamo sicuri che a undici anni un aborto sia meno traumatico di un parto? Perché un figlio ci sembra immediatamente una iattura, una condanna a vita? Certo, l’aborto può essere una liberazione, ma anche un’offesa aggiuntiva, come la maternità può essere un’invasione insopportabile, oppure una catarsi.

Eugenia Roccella
In Colombia una ragazzina di undici anni, violentata dal patrigno e incinta, non riusciva a trovare un medico che, nel pieno rispetto della legge, la facesse abortire. Se la notizia ha avuto un’eco è stato perché il cardinale Alfonso López Trujillo ha detto che il medico che infine ha praticato l’intervento incorre nella prevista scomunica della chiesa. Vorrei invece eliminare il cardinale dalla scena, vorrei parlare della vicenda nuda e cruda; anzi vorrei parlare di noi, nudi e crudi, di fronte alla vicenda.
Che fosse inevitabile ricorrere all’aborto, ci sembra più che scontato. Può una ragazzina undicenne essere madre? No. E può una donna che abbia subito una violenza sessuale, accettare la gravidanza frutto di quella violenza? No. La reazione è immediata, chi ha figli ha i brividi immaginandosi alle prese con un dilemma etico così forte, e l’aborto è la prima, l’unica soluzione che viene in mente. Cancellando la gravidanza, ci sembra di cancellare qualcosa della violenza, almeno le sue conseguenze durature; pensiamo a una giovane vita rovinata, niente studi, niente adolescenza, ma impegni, responsabilità troppo grandi, costrizioni. E poi, quell’esserino sempre lì a ricordare l’offesa patita, simbolo vivo dell’invasione, del dolore. Se, come ha scritto una volta Annalena Benini in un’inchiesta sul Foglio, un figlio a diciott’anni è “una fucilata”, a undici anni, dopo uno stupro, è un’esecuzione.
L’operazione istintiva che compiamo è di spostare il luogo dello scandalo, che non è più la violenza sessuale, ma la gravidanza. L’aborto ci consente di rimuovere lo stupro, ci illude di riparare il male, traslato nella vita che nasce. L’aggressione così può tornare tra parentesi, essere un inciso, qualcosa da dimenticare, ricominciando la vita di prima. Sappiamo che nessuno può ricostruire un’infanzia perduta, che le tracce dell’orrore resteranno, ma intanto l’effetto più evidente di quell’orrore, il figlio, almeno non c’è più. Ma perché siamo sicuri che a undici anni un aborto sia meno traumatico di un parto? Perché un figlio ci sembra immediatamente una iattura, una condanna a vita? Ho avuto a lungo con me una ragazza di Capoverde, abusata appena adolescente, e rimasta incinta. Per mantenere la sua bimba, la ragazza era venuta poi a lavorare in Italia, e la sua unica angoscia era che l’uomo che l’aveva violentata potesse un giorno illegalmente portargliela via. Non c’era nesso, per lei, tra la violenza subita e la figlia: la bambina era vissuta anzi come un risarcimento, un bene segreto e tutto suo, un recupero della dignità calpestata. La competenza materna nasce presto, si alimenta anche dei vuoti femminili, dell’attenzione che abbiamo avuto e di quella che ci è stata negata; si nutre dell’amore ricevuto, ma anche dell’umiliazione e dell’abbandono. Alle bambole diamo carezze e sgridate, in continuità creativa con la linea che connette ogni donna alla propria madre, non come una semplice ripetizione di quello che ci è stato offerto. La maternità è una risorsa potente, che può far perdere l’equilibrio e può farlo ritrovare, che ci mette alla prova, costringendoci a sperimentare le nostre capacità. Di fronte al concreto venire al mondo di un figlio molto desiderato possiamo sentirci disperatamente inadeguate e sole, sprofondando nella depressione; e un figlio venuto per caso può farci sentire forti in modo inaspettato, non più sole, consapevoli di saper proteggere una creatura interamente affidata a noi. Nella cura dell’altro possiamo curare anche il nostro male, dare significato alla traiettoria esistenziale, magari tragica, che ci ha condotto fino a lì. Essere biologicamente pronte a diventare madri non vuole certo dire esserlo psicologicamente, e una bambina resta una bambina.
Ma le differenze culturali esistono, e una undicenne latinoamericana (ma anche, talvolta, del meridione italiano) ha spesso già responsabilità familiari, fa da madre vicaria ai fratelli più piccoli. Ricordo il mio sgomento di liceale romana quando in Sicilia una mia amica a tredici anni si fidanzò in casa, a quattordici si maritò ed ebbe il primo figlio. Oggi ha aperto un’erboristeria, e consiglia alle amiche creme di bellezza naturali. Aspira a diventare nonna il più presto possibile, perché nella sua famiglia ci si è sempre sposate presto, si diventa nonne e bisnonne. A noi questo appare come un furto di infanzia, ma se le ragazzine europee e americane fanno sesso giovanissime, non per il loro piacere personale ma per spirito gregario o per competere ad armi pari all’interno del gruppo di coetanee, la nostra reazione è assai meno scontata. La maternità precoce è molto più scandalosa del sesso precoce, infinitamente più di un eventuale aborto. Anzi: reclamiamo la diffusione della pillola del giorno dopo nelle scuole come una conquista di civiltà, come se l’unica cosa in grado di turbare un’adolescenza spensierata fosse il rischio di concepire.
Però continuiamo a ripetere, come una litania in una lingua di cui abbiamo smarrito il senso, che l’aborto per la donna è un trauma. Ma chi, oggi, lo crede davvero? Chi davvero pensa che l’aborto sia una ferita fisica e simbolica, qualcosa che tocca profondamente il cuore dell’identità di genere? L’interruzione di gravidanza è stata da sempre il lato oscuro della maternità, che è fatta anche di rifiuti, crudeltà, angosce. Oggi sta diventando altro, un elemento della dilagante cultura dell’anti-materno. In molti casi (disabilità della madre o del figlio, violenza, età troppo giovane) l’aborto è la scelta corretta, in pratica obbligata, mentre la nascita diventa una forma di disobbedienza, una maternità “selvaggia”. Quello della ragazzina colombiana è un caso limite, ma è significativo che l’unica risposta che sappiamo immaginare sia l’aborto. Certo, l’aborto può essere una liberazione, ma anche un’offesa aggiuntiva, come la maternità può essere un’invasione insopportabile, oppure una catarsi.
© Il Foglio, 6 settembre 2006

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aborto

domenica, 15 marzo 2009

 «Decisione sconcertante e anacronistica»
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 di Enrico Negrotti
Tratto da Avvenire del 10 marzo 2009

«Decisione sconcer­tante e anacronisti­ca. Proprio ora che esistono vie per produrre cellule staminali embrionali senza di­struggere embrioni». Angelo Ve­scovi, direttore del Centro «Brain Repair» di Terni, docente di Bio­logia all’Università di Milano-Bi­cocca e direttore scientifico Stem­ Gen spa, è critico verso l’apertura di Obama alla ricerca sugli em­brioni umani. Ed è cauto anche verso la validità terapeutica della speri­mentazione sulle lesioni spinali con sta­minali embrionali.

Professore, Obama ha deciso di finan­ziare con fondi federali la ricerca sulle staminali embrionali. Cosa ne pensa?
La decisione del presidente Obama è sconcertante e anacronistica, perché ormai da tre anni è possibile produrre cel­lule staminali embrionali senza distrug­gere embrioni. È addirittura possibile clo­narle con un’altissima efficienza, qualco­sa che con gli embrioni non è possibile. La scelta di Obama non è stata dettata dagli interessi per la ricerca o per i pazienti. Ma è a favore di quelle lobby che probabil­mente ne hanno supportato l’elezione.

Dagli Stati Uniti giunge anche la notizia di un primo esperimento con staminali embrionali umane per le lesioni spinali. È un esempio della nuova linea-Obama?
Di per sé il fatto di giungere a una speri­mentazione clinica, di fase 1, è un segna­le positivo. Ma in questo caso, il via libe­ra concesso dalla «Food and Drug Admi­nistration» viene dopo un lungo divieto che aveva ragioni morali molto forti. In­fatti la comunità scientifica è molto restia a sperimentare sulle lesioni acute spina­li, perché è molto difficile valutare quale sarà l’esito dell’infortunio. Ci sono nu­merosi casi in cui i pazienti recuperano spontaneamente, ma ciò non è prevedi­bile al momento in cui il danno è recen­te. Addirittura l’intervento di manipola­zione su un paziente potrebbe peggiora­re le sue possibilità di recupero sponta­neo. Il difficile invece è migliorare le con­dizioni dei pazienti che hanno una lesio­ne ormai consolidata che li costringe a stare in carrozzella.

Intende dire che l’esperimento è quasi i­nutile?
I test di fase 1 servono a verificare la non tossicità delle cellule: però nell’analizza­re i risultati è esperienza comune che il ri­cercatore cerchi di estrapolare dati sul­l’efficacia clinica dell’esperimento, per co­struire la sperimentazione di fase 2. E proprio in que­sto sta la presumibile inat­tendibilità del trial: è facile che su lesioni di non più di due settimane (come sono quelle dei pazienti che ver­ranno arruolati), qualcuna sarebbe regredita spontaneamente, ma potrebbe es­sere interpretata come ef­fetto della terapia cellulare. Di certo lo faranno i pazienti che sono davvero e comprensibilmente disperati. Non è stato infatti spiegato perché non siano stati previsti pazienti con lesioni cro­niche.

Ci sono solo motivi ideologici dietro l’en­tusiasmo per il trial con le embrionali?
Non credo. Ci sono anche ben concreti in­teressi economici. Del resto la Geron, l’a­zienda che condurrà la sperimentazione, ha speso finora oltre 40 milioni di dollari, ed è probabile che si vogliano dare i cri­smi dell’unicità. E quindi l’amministrato­re delegato dichiara che questi studi con gli oligodendrociti (un tipo di cellula ner­vosa) non si possono fare altro che con le staminali embrionali che useranno loro. In realtà per avere oligodendrociti umani poteva venire nel nostro laboratorio e ne avrebbe avuti a volontà. In cambio pren­do volentieri alcuni milioni di dollari e av­vio i trial clinici in Italia... In più il danno al midollo, negli stadi precoci, non viene riparato solo dalla presenza di oligoden­drociti, ma anche da diverse e svariate cel­lule.

Quanto pesa nella ricerca sulle stamina­li la scoperta delle cellule riprogramma­te (Ips) di Yamanaka?
Le Ips rappresentano la svolta degli ulti­mi anni, la novità che sta sparigliando il campo della ricerca sulle staminali. Uno dei loro maggiori vantaggi è che si posso­no clonare e fare autotrapianti. Ma c’è ot­timismo anche per il fatto che nel mondo stanno avviandosi altre sperimentazioni. Tra tutte, cito un trial all’Università del Winsconsin contro la scle­rosi laterale amiotrofica (Sla) molto simile a quella cui stiamo lavorando noi in Ita­lia. Tanto che abbiamo avu­to un proficuo scambio di e­sperienze con un chirurgo di Madison.

A che punto è la vostra spe­rimentazione?
Siamo ancora in fase auto­rizzativa: stiamo comple­tando le procedure per richiedere all’Aifa l’ok alla preparazione delle cellule, che è legato al protocollo clinico. Quando l’a­vremo ottenuto, potremo partire per que­sto trial di fase 1, pensiamo entro il 2009, ma dipende dai soldi, che ci hanno cau­sato ritardi notevoli. Si noti che la valida­zione Gmp (Good manifacturing practi­se) delle nostre cellule ci permetterà di u­sarle più facilmente e rapidamente anche per altri trial, su cui stiamo già lavorando con i neurologi dell’università di Padova. Quello che manca sempre sono i finan­ziamenti: li avessimo avuti noi i 40 milio­ni della Geron. In realtà dobbiamo cavar­cela con assai meno di 2 milioni, raccolti a fatica e, mi scusi, tra i continui attacchi degli scettici di turno (e di parte). Nel pro­getto di questo trial sono coinvolti l’ospe­dale di Terni, il gruppo della dottoressa Letizia Mazzini all’Università di Novara (Piemonte Orientale) e l’Università di Mi­lano- Bicocca.

da Il Mascellaro
giovedì, 18 dicembre 2008

Ogni bambino che nasce
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Ogni bambino che nasce porta con sé la notizia che Dio non si è ancora stancato degli uomini.
 R. Tagore

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