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sabato 4 febbraio 2012

Bakhita

GIUSEPPINA  BAKHITA ***
P. Antonio M. Sicari

Bakhita è stata definita da Giovanni Paolo II "sorella universale", con una motivazione che ci rende pensosi: perché Dio ci ha detto, per suo mezzo,  qualcosa a riguardo della vera felicità.
Non c'è al mondo una parola più umiliata, e più contraddetta, di questa.
La felicità è nel desiderio e nel cuore di tutti, ed è inestirpabile, perché descrive il destino per il quale siamo stati fatti.
"Perché Dio ci ha creati?",  era una delle prime domande del vecchio Catechismo; e ci veniva subito insegnata la risposta: "Dio ci ha creati per conoscerLo, amarLo, servirLo in questa vita, e per andare poi a goderLo in paradiso".
"Godere Dio", attendere "l'eterna beatitudine",  giungere alla "visione beatifica", a quello stato cioè che ci renderà felici per sempre, assieme
all'intera creazione:  questo è l'oggetto della speranza cristiana.
In qualunque modo riusciamo ad immaginarci il Paradiso, tentiamo di immaginare la felicità finalmente raggiunta.
Ma c'è tanto poco paradiso in terra -se non a tratti, per intensi momenti di verità, di bellezza e di gioia-  che abbiamo finito per confinare la felicità in un mondo lontano, in un al-di-là sempre più sbiadito e irrealistico.
E nell'al-di-qua ci accontentiamo dei surrogati: un po' di piacere, qualche soddisfazione,  l'appagamento del successo.

[…] Bakhita nacque verso il 1869   in uno sperduto villaggio africano nel Darfur (che oggi è la provincia occidentale del Sudan).
La piccola era nipote del capotribù  e viveva in una famiglia benestante e felice, dedita alla agricoltura e alla pastorizia: ottimi genitori che si volevano bene, tre fratelli maschi, ormai grandicelli e robusti, una sorella sposata, e una sorellina gemella.
Ma l'unico ricordo che le è rimasto, lacerante,  risale al giorno in cui  -aveva solo quattro anni-  la sorella maggiore è stata rapita dai razziatori arabi:  si è sacrificata, per aver tempo di nascondere lei, la più piccola, in un mucchio di fieno:  risente ancora le grida laceranti, le ricerche agitate, la disperazione dei genitori.
Poi, a 6 anni,  mentre gioca a raccogliere fiori  lontano dal recinto delle capanne,  è lei ad essere rapita,  e da  allora ricorda solo il terrore provato:  quell'essere afferrata all'improvviso;  il grido che le muore in gola  sotto la minaccia di un coltello; quel cammino lungo e disperato, tra i singhiozzi, che dura tutta la notte,  i tentativi di divincolarsi e di fuggire,  e lo scudiscio che le sferza le gambette per dissuaderla. Poi, sul far del giorno,  l'arrivo a un villaggio arabo, di case piccole e basse,  e quella specie di porcile dove è stata rinchiusa a lungo, per giorni e giorni.
Tutto il resto si è cancellato dalla sua mente: il suo nome, il nome del villaggio, dei fratelli, perfino il nome del papà e della mamma.
Poiché la bambina non sa più come si chiama,  uno dei due razziatori suggerisce all'altro, ironicamente,  "chiàmala  Bakhita!".   E Bakhita vuol dire: felice,  fortunata.
Ed è proprio in questo piccolo crudele particolare,  che noi vediamo all'improvviso  come si intrecciano la storia della cattiveria umana e quella della salvezza di Dio:  la storia della malvagità che schernisce le sue vittime ("fortunata!": una bambina a cui è stato tolto perfino il ricordo del nome della mamma)  e la storia della tenerezza di Dio che tramuterà quella sventura in felicità,  e in aiuto per il mondo intero.
Dopo giorni di pianto e di disperazione, cominciò il vero calvario:  giunse il mercante di schiavi che comprava e raccoglieva le prede dei vari razziatori, conducendo una carovana di uomini e donne, aggiogati con un collare di ferro  a una stanga rigida.
C'era un'altra fanciullina che venne a far compagnia a Bakhita; e poiché erano troppo piccole per quei ceppi,  almeno durante la marcia rinunciarono a incatenarle.
A ogni villaggio la carovana s'ingrossava di merce umana.   Alla prima sosta, dopo giorni di marcia, le due bambine lasciate momentaneamente incustodite riuscirono a fuggire e a nascondersi nella vicina foresta.
Passarono una notte di pianti e di terrori  (molti anni dopo Bakhita dirà che si era sentita circondata da bestie feroci: elefanti, leoni, iene, scimmie,  ma anche da un angelo che la consolava, anche se allora non ne conosceva nemmeno l'esistenza).    Al mattino caddero nelle mani di un altro razziatore  che le occultò per alcuni giorni, e poi le rivendette a un altro padrone.     Almeno,  l'inaspettato guadagno  evitò loro le feroci punizioni che le attendevano se fossero state riprese  dal primo mercante.
Ripresero il triste lungo viaggio verso i mercati del  nord,   e fu allora che Bakhita seppe  davvero cosa fosse la schiavitù.
Gli episodi che ora racconteremo sono stati tutti raccolti dalla sua bocca. Solo lo stile del racconto scritto fu un po' letterariamente abbellito  -e Bakhita non mancò di farlo notare,  lei che rimase analfabeta per tutta la vita e imparò a parlare solo un misto di italiano e di dialetto veneto-  ma i fatti erano quelli.   Anzi ella diceva che la realtà era stata  ancora più atroce, di quanto non riusciva a dire.
"Una mamma portava in braccio il suo bambino di pochi mesi. Lo spavento e il dolore le avevano inaridito il seno: ed il bambino chiedeva invano, con i suoi gemiti, il latte materno.  Il padrone ingiunse alla madre di farlo tacere.  Ma poiché ciò non era possibile, essi si infastidivano e si vendicavano percuotendo la donna. Allora il capo della carovana le strappò il bambino e con aria di sfida volle fare vedere alla madre come egli lo avrebbe fatto tacere. La povera madre diede un urlo e si slanciò verso l'arabo, ma questi, afferrato il bimbo per un piede, lo roteò nell'aria, cacciando via la madre, e sfracellò la testa del bambino contro una grossa pietra.... Si vide allora la disperazione della madre divenire feroce. Essa si avventò sull'uccisore graffiandolo con le unghie e mordendolo come una iena: ma questi, con colpi di staffile, la ridusse all'impotenza. Caduta al suolo, non fu più possibile rialzarla.  Allora il capo infierì su di lei barbaramente fino a farla morire. Pochi istanti dopo la carovana riprese il cammino".
Non fu l'unica scena macabra a cui la bambina dovette assistere.  E imparò, col cuore stretto d'angoscia, a capire che cosa accadeva agli schiavi che si accasciavano al suolo, per la sfinitezza e la malattia:  mentre la carovana procedeva, il padrone si attardava con lo schiavo malato.  Si udivano dei colpi; poi un silenzio mortale.
La prima sorte delle due schiavette  non fu così brutta:  il padrone le tenne per sé, regalandole alle sue figliole: passavano la giornata come cagnolini, accoccolate presso le padroncine, attente ai loro cenni, agitando il ventaglio, giocando, lasciandosi ammirare dai visitatori.
Si sentivano perfino volute bene.  Ma durò fino al primo malestro:  un vaso prezioso, scivolato di mano a Bakhita, scatenò le ire del  figlio del padrone. 
Istintivamente la piccola si rifugiò presso le sue padroncine convinta di venire protetta, ma quelle non mossero un dito, restando assolutamente indifferenti mentre il signorino adirato la colpiva a pugni, calci, scudisciate,  lasciandola a terra sanguinante.
Gettata sul suo misero giaciglio, vi restò febbricitante per giorni e giorni, senza che nessuno si curasse di lei.
Quando guarì, la vendettero a un generale turco. 
Ormai la piccola pensava che essere schiavi era una condizione disgraziata, ma naturale.  Così era fatto il mondo:  c'erano i padroni che avevano tutti i diritti e c'erano gli schiavi che non ne avevano alcuno.  E lei era schiava.   E siccome aveva un cuore buono e un temperamento naturalmente dolce,  non riusciva nemmeno ad odiare i suoi aguzzini.
La casa del generale era un inferno:  vi spadroneggiavano la moglie e la madre, cattive come due megere,  che gli rendevano impossibile la vita, coi loro alterchi e i loro malumori.   
E quando il generale non sapeva più come sfogarsi, non potendo picchiare né la moglie né la madre, faceva frustare le schiave con delle verghe,  fino a riempirle di piaghe.  
Ma ancora più terribile fu la decisione della moglie del generale  di far  decorare indelebilmente il corpo, abitualmente nudo,  delle sue schiave più giovani.
Venne chiamata una megera  che con farina bianca formò sul corpo di ciascuna ragazza un complicato disegno:  sei lunghi segni sul petto, sessanta sul ventre,  quarantotto sul braccio destro.
Poi il disegno venne inciso con un rasoio alla profondità di circa un centimetro. Quindi le labbra delle ferite vennero aperte e stropicciate ripetutamente col sale, in modo che le cicatrici restassero sporgenti e indelebili.
Le gettarono su una stuoia e le lasciarono per giorni interi in preda al delirio, senza che nessuno si preoccupasse nemmeno di asciugar loro il sangue.
La tortura era così atroce che spesso le ragazze non  riuscivano a sopravvivere.  Bakhita si riprese dopo due mesi. 
Dopo moltissimi anni, quando raccontava questo episodio,  di cui portava visibili tracce, rabbrividiva ancora al ricordo,  e piangeva.
[…] Un anno dopo il generale decise di tornarsene in Turchia;  vendette i suoi schiavi e ne tenne soltanto dieci;  poi, su cammelli carichi di bagagli e di ricchezze, intraprese il viaggio.  Giunto a Khartoum  decise di vendere altri schiavi,  e Bakhita fu acquistata dal Console Italiano.
Così, per la prima volta, Bakhita entrò in una vera casa,  tra gente che la trattava umanamente e affabilmente.   E per la prima volta in vita  poté  indossare una graziosa tunica: il segno del pudore e della libertà.
[…] Dopo due anni il Console venne richiamato urgentemente in patria,  ed ella  chiese -con una strana insistenza che sorprese tutti- di  poter partire assieme ai suoi padroni.  La accontentarono.
La notte successiva alla partenza del Console,  una masnada di razziatori entrò nel consolato  italiano rubando tutti i beni e tutti gli schiavi:   e ancora una volta Bakhita -senza sapere cosa fosse un miracolo-  si sentì miracolosamente protetta, come se Qualcuno avesse preso a custodirla,   a prevenirla.
Quando giunsero al porto di Genova,  Bakhita si inginocchiò e baciò terra.   Le chiesero stupiti  il perché di un gesto così strano:  disse che non lo sapeva, solo che era felice.
Ad attenderli c'era una ricca coppia di Mirano Veneto -certi De Michieli- amici del Console, con una bimbetta (Mimmina)  di circa tre anni:   istigati dalla bambina, tanto fecero che ottennero la ragazza negra in regalo, e la piccolina si affezionò a Bakhita come a una mamma:  dormivano nella stessa lussuosa cameretta.
Sembrano tutti particolari di poco conto:  ma  lentamente il mosaico si va componendo, secondo il disegno di Dio, anche se quei nuovi padroni erano praticamente atei.  Tanto che avevano perfino proibito a Bakhita -quando portava a passeggio la piccina-  di entrare in qualsiasi chiesa.
Alla  loro bambina avevano comunque insegnato solo il "Padre Nostro",  l' "Ave Maria" e il "Gloria al Padre":  e la padroncina di tre anni  faceva dire le sue preghiere anche alla sua mammina nera.   Nessuna delle due capiva il significato di ciò che dicevano,   ma Bakhita, ormai diciassettenne,  se le ripeteva ugualmente da sola, durante il giorno,  e ci trovava una strana dolcezza.
Dopo tre anni  quei nuovi padroni decisero di trasferirsi definitivamente in Africa, e furono necessari alcuni viaggi. per i preparativi.
Per uno spazio di dieci mesi circa furono costretti a lasciare in Italia Bakhita  e ottennero che fosse temporaneamente ospitata presso l' Istituto dei Catecumeni, tenuto dalle suore canossiane, a Venezia.
[…] Fu battezzata il 9 gennaio 1890  e lo stesso giorno ricevette la Cresima e la Prima Comunione:  la chiamarono Giuseppina Bakhita.
Circa quarant'anni dopo le avverrà di condurre in quei luoghi una amica:
«Mi portò a vedere dove era stata battezzata.  Nell'avvicinarsi, quasi corse con gioia e ansia verso quel luogo benedetto.  Si inginocchiò con evidente commozione e baciò la pietra dove si era inginocchiata per il Battesimo. "qui -disse in quella sua maniera dialettale- è proprio qui che sono diventata figlia di Dio... mi povera negra, mi povera negra... qui mi hanno versato l'acqua che mi ha aperto il Paradiso!".  Indi mi condusse nell' attigua cappellina della Madonna. Pure qui si prostrò lasciandosi cadere a terra e baciò quel luogo dicendo: "qui son diventata figlia di Maria".  Parlava con ammirevole commozione. Mi faceva notare che per lei orfana, avere la Madonna per mamma era un grande conforto».
E ricominciò a soffrire.   Durante la prima Comunione aveva chiesto a Dio di non lasciare più quel luogo che era divenuto la sua casa.  Sentì un desiderio irresistibile di consacrare la vita al suo Dio,  come quelle suore che aveva imparato a conoscere e ad amare.  
Ma era in cuor suo convinta  che ciò non fosse possibile: «Ho sofferto tanto, perché non sapevo come spiegarmi. Mi sentivo indegna, ed essendo di razza nera ero convinta che avrei fatto sfigurare l'Istituto, e che  non mi avrebbero mai accettata».
Dopo due anni, a forza di pregare la Madonna, trovò il coraggio di parlarne al confessore.   Il confessore, autorizzato, ne parlò alla Superiora e la Superiora disse che si era accorta da tempo del lavorio che la Grazia faceva nel cuore della ragazza, ma aspettava che lei parlasse.
La accettarono,  anche se,  in quegli anni e in quei luoghi, davvero una suora di colore era cosa più unica che rara
Fece tre anni di noviziato.  Al termine ad esaminarla c'era il Cardinale Giuseppe Sarto  -il futuro S. Pio X-  che dopo aver ascoltato la ragazza che si esprimeva nel suo povero e stentato dialetto,  le disse (anch'egli in dialetto):  «Pronunciate i   santi voti senza timore. Gesù vi vuole. Gesù vi ama.  Voi amatelo e servitelo sempre così!».
Così  -con questo dialogo tra due futuri santi- cominciò la storia --che sarebbe durata cinquant'anni ancora-- di Madre Giuseppina Bakhita, suora canossiana.  
A Schio, il borgo in cui ella giunse nel 1902  e dove restò per sempre, la chiameranno familiarmente:  "Madre Moretta"; e pian piano  -anno dopo anno- gli scledensi si convinceranno d'avere tra loro una Santa.
[…] Ella che tacitava i bambini  quando dicevano che quei suoi padroni erano stati cattivi, e li scusava,   non aveva paura di ammettere che sì erano cattivi, ma solo se si pensava alla infinita bontà di Colui che era l'unico a poter fare da Padrone, con pieno diritto.
«Noi siamo vermi -diceva con tanta dolcezza- lui è il grande, l' Onnipotente: no podaressimo neanche alzare gli oci di fronte a quelo che xe elo...!».
"El me Paron!"  -così  chiamava abitualmente  Dio; e a volte precisava: "El vero Paron!";  e lo faceva  tutta impregnata, in parti uguali,  di umiltà e di affetto.
Per questo la vedevano sempre serena. "Sembrava -dissero i testimoni- che tutto le fosse facile, perché era disposta e pronta a tutto. Era sempre uguale a se stessa, sempre sorridente".
Non si sentiva virtuosa.  Il bene che faceva accuratamente e che sorprendeva gli altri, lei lo motivava semplicemente col dire: «Così facciamo contento el Paron!».
Non finiva mai di ripeterselo, come se non bastassero il tempo e la vita per comprenderlo fino in fondo:  «Quanto bon che xe el Paron. Quanto bon che l'è... Come se fa a non volerghe ben al Signor!».
A una ragazza che l'interrogava, incerta "se era più bello sposarsi o consacrarsi a Dio"  offrì umilmente questo suo criterio: «Non xe più belo o più bon quelo che ne pare più belo e più bon, ma quelo che vol el Paron!».
[…] Era il 1923,  e  Madre Moretta,  si ammalò di polmonite.
Venne il medico, colto e galante,  che entrando nella sua cella esclamò, citando il Cantico dei Cantici: "Nigra sum sed formosa"   ("Sono nera, ma bella!)".  
Bakhita si commosse, aveva capito alla perfezione quel latino. Rispose: «Oh se il Signore potesse dirmi così!».
I testimoni dicono che visse quasi attendendo di potere udire, al termine della vita, quel saluto da parte del suo Gesù.
[…] Le orfanelle dell'Istituto facevano di tutto per poterla vedere  mentre pregava;  a volte si arrampicavano  alle finestre, per poterla guardare, tanto erano impressionate del modo come stava assorta.
Da vecchia, non riusciva più a muoversi da sola, e a volte la lasciavano in cappella un po' troppo a lungo, anche due o tre ore, rannicchiata nella sua sedia a rotelle.  Quando l'infermiera giungeva trafelata scusandosi d'averla dimenticata,  rispondeva soddisfatta:  «Ah, mi me la son passà con Lu!».   Diceva  che era stato un regalo, perché aveva potuto tenere compagnia a Gesù.

"Diceva che non si stancava, che si trovava bene davanti al Signore... che restava davanti al Signore che l'aveva aspettata da tanto tempo!".
Erano passati tanti anni, più di cinquanta, da quando l'avevano accolta nella Sua casa,   ed era piena di malattie.
Diceva: «Me ne vado adagio adagio, passo passo, perché ho una valigia pesante da portare!».
Di valigie pesanti, in realtà, ne aveva due.  Vale la pena di spiegare questa strana immagine.

Durante la guerra del  '15 -'18   parte del convento era stata adibita ad ospedale militare,   e spesso Bakhita aveva osservato che  l'attendente del capitano  doveva sempre portare due valigie: quella sua e quella del suo capo.
E lei voleva arrivare davanti al Padre eterno come un attendente, portando la valigia sua e quella del suo Capitano   Gesù: il  "Paron"  le avrebbe fatto aprire le due valigie;  avrebbe visto in quella sua tanti peccati;  ma poi avrebbe visto in quella più pesante tutti i meriti di Gesù, tanti e tanti,  e lei sarebbe stata accolta con gioia, perché aveva portato anche quella valigia!


Come si vede, le più ardue pagine della teologia,  quelle sulla Giustificazione,  possono essere spiegate benissimo anche da una vecchia suora negra.
Nel delirio della agonia,  come  se il passato risalisse a galla dalle profondità "fisiche" della memoria, la sentirono mormorare:   «Allargatemi le catene,  pesano!»
Le catene della schiavitù  erano diventate anche le catene di una esistenza troppo lunga e affaticata da cui voleva essere affrancata;   e   la domanda umile di scioglierle i ceppi era diventata anche preghiera per ottenere la grazia della risurrezione.
Le sue ultime parole furono: «quanto sono contenta... la Madonna... la Madonna!».
Così Bakhita  entrava in cielo,  come sorella che intercede davanti a Dio per tutti gli schiavi della terra.
alcuni estratti di Padre Antonio M. Sicari  da “Il quarto libro dei Ritratti di Santi”, Ed. Jaca Book

Postato da: giacabi a 14:56 | link | commenti
bakhita

domenica, 24 settembre 2006
LA PRIMA SANTA DEL SUDAN
SANTA GIUSEPPINA BAKHITA (1869-1947) 
vergine dell'Istituto delle Figlie della carità Canossiane
  
Giuseppina M. Bakhita nacque nel Sudan nel 1869 e morì a Schio (Vicenza) nel 1947.
Fiore africano, che conobbe le angosce del rapimento e della schiavitù, si aprì mirabilmente alla grazia in Italia, accanto alle Figlie di S. Maddalena di Canossa.
La Madre Moretta
A Schio (Vicenza), dove visse per molti anni, tutti la chiamano ancora «la nostra Madre Moretta».
Il processo per la causa di Canonizzazione iniziò dodici anni dopo la sua morte e il 1 dicembre 1978 la Chiesa emanò il decreto sull'eroicità delle sue virtù.
La divina Provvidenza che «ha cura dei fiori del campo e degli uccelli dell'aria», ha guidato questa schiava sudanese, attraverso innumerevoli e indicibili sofferenze, alla libertà umana e a quella della fede, fino alla consacrazione di tutta la propria vita a Dio per l'avvento del regno.
In schiavitù
Bakhita non è il nome ricevuto dai genitori alla sua nascita. La terribile esperienza le aveva fatto dimenticare anche il suo nome.
Bakhita, che significa «fortunata», è il nome datole dai suoi rapitori.
Venduta e rivenduta più volte sui mercati di El Obeid e di Khartoum conobbe le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù.
Verso la libertà
Nella capitale del Sudan, Bakhita venne comperata da un Console italiano, il signor Callisto Legnani. Per la prima volta dal giorno del suo rapimento si accorse, con piacevole sorpresa, che nessuno, nel darle comandi, usava più lo staffile; anzi la si trattava con maniere affabili e cordiali. Nella casa del Console, Bakhita conobbe la serenità, l'affetto e momenti di gioia, anche se sempre velati dalla nostalgia di una famiglia propria, perduta forse, per sempre.
Situazioni politiche costrinsero il Console a partire per l'Italia. Bakhita chiese ed ottenne di partire con lui e con un suo amico, un certo signor Augusto Michieli.
In Italia
Giunti a Genova, il Signor Legnani, su insistente richiesta della moglie del Michieli, accettò che Bakhita rimanesse con loro. Ella seguì la nuova «famiglia» nell'abitazione di Zianigo (frazione di Mirano Veneto) e, quando nacque la figlia Mimmina, Bakhita ne divenne la bambinaia e l'amica.
L'acquisto e la gestione di un grande hotel a Suakin, sul Mar Rosso, costrinsero la signora Michieli a trasferirsi in quella località per aiutare il marito. Nel frattempo, dietro avviso del loro amministratore, Illuminato Checchini, Mimmina e Bakhita vennero affidate alle Suore Canossiane dell'Istituto dei Catecumeni di Venezia. Ed è qui che Bakhita chiese ed ottenne di conoscere quel Dio che fin da bambina «sentiva in cuore senza sapere chi fosse».
«Vedendo il sole, la luna e le stelle, dicevo tra me: Chi è mai il Padrone di queste belle cose? E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo e di prestargli omaggio».
Figlia di Dio
Dopo alcuni mesi di catecumenato Bakhita ricevette i Sacramenti dell'Iniziazione cristiana e quindi il nome nuovo di Giuseppina. Era il 9 gennaio 1890. Quel giorno non sapeva come esprimere la sua gioia. I suoi occhi grandi ed espressivi sfavillavano, rivelando un'intensa commozione. In seguito la si vide spesso baciare il fonte battesimale e dire: «Qui sono diventata figlia di Dio!».
Ogni giorno nuovo la rendeva sempre più consapevole di come quel Dio, che ora conosceva ed amava, l'aveva condotta a sé per vie misteriose, tenendola per mano.
Quando la signora Michieli ritornò dall'Africa per riprendersi la figlia e Bakhita, quest'ultima, con decisione e coraggio insoliti, manifestò la sua volontà di rimanere con le Madri Canossiane e servire quel Dio che le aveva dato tante prove del suo amore.
La giovane africana, ormai maggiorenne, godeva della libertà di azione che la legge italiana le assicurava.
Figlia di Maddalena
Bakhita rimase nel catecumenato ove si chiarì in lei la chiamata a farsi religiosa, a donare tutta se stessa al Signore nell'Istituto di S. Maddalena di Canossa.
L'8 dicembre 1896 Giuseppina Bakhita si consacrava per sempre al suo Dio che lei chiamava, con espressione dolce, «el me Paron».
Per oltre cinquant'anni questa umile Figlia della Carità, vera testimone dell'amore di Dio, visse prestandosi in diverse occupazioni nella casa di Schio: fu infatti cuciniera, guardarobiera, ricamatrice, portinaia.
Quando si dedicò a quest'ultimo servizio, le sue mani si posavano dolci e carezzevoli sulle teste dei bambini che ogni giorno frequentavano le scuole dell'Istituto. La sua voce amabile, che aveva l'inflessione delle nenie e dei canti della sua terra, giungeva gradita ai piccoli, confortevole ai poveri e ai sofferenti, incoraggiante a quanti bussavano alla porta dell'Istituto.
Testimone dell'amore
La sua umiltà, la sua semplicità ed il suo costante sorriso conquistarono il cuore di tutti i cittadini scledensi. Le consorelle la stimavano per la sua dolcezza inalterabile, la sua squisita bontà e il suo profondo desiderio di far conoscere il Signore.
«Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!».
Venne la vecchiaia, venne la malattia lunga e dolorosa, ma M. Bakhita continuò ad offrire testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana. A chi la visitava e le chiedeva come stesse, rispondeva sorridendo: «Come vol el Paron».
L'ultima prova
Nell'agonia rivisse i terribili giorni della sua schiavitù e più volte supplicò l'infermiera che l'assisteva: «Mi allarghi le catene...pesano!».
Fu Maria Santissima a liberarla da ogni pena. Le sue ultime parole furono: «La Madonna! La Madonna!», mentre il suo ultimo sorriso testimoniava l'incontro con la Madre del Signore.
M. Bakhita si spense l'8 febbraio 1947 nella casa di Schio, circondata dalla comunità in pianto e in preghiera. Una folla si riversò ben presto nella casa dell'Istituto per vedere un'ultima volta la sua «Santa Madre Moretta» e chiederne la protezione dal cielo. La fama di santità si è ormai diffusa in tutti i continenti.
 Da: http://www.edizionisanpaolo.it/"Giuseppina Bakhita. Il cuore ci martellava nel petto: il diario di una schiava divenuta santa", pagine 108, euro 8,00.

"Quanti maltrattamenti e sferzate i poveri schiavi ricevevano senza alcun motivo.
"Per esempio, un giorno ci trovammo presenti per caso quando il padrone altercava con la moglie. Quegli, per sfogarsi, ordina a noi due di scendere in corte e comanda a due soldati di buttarci a terra supine per subire la flagellazione.
"Quei due, con quanta avevano di forza, cominciano il crudele supplizio e ci lasciano tutt'e due immerse nel nostro sangue. Ricordo come la verga, mirata a più riprese sulla coscia, mi portò via pelle e carne, mi procurò un lungo canaletto che mi fece stare immobile sul giaciglio per più mesi. [...]
"Posso proprio dire che non sono morta per un miracolo del Signore che mi destinava a migliori cose".
Bontà e zelo missionario
"Santa Giuseppina Bakhita, di origine Sudanese, rapita, venduta schiava, liberata e diventata cristiana e religiosa Canossiana. In un convegno di gioavani, uno studente bolognese chiese: “Cosa farebbe se incontrassse i suoi rapitori?”. Senza un attimo di esitazione, rispose: 
Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani; perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa”. 
Continuando il discorso sullo stesso argomento, non solo ne benediceva la provvidenziale mediazione nelle mani di Dio, ma li scusava in questi termini: 
“Poveretti, forse non sapevano di farmi tanto male: loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene, così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria” 
Nelle sofferenze non si lamentava; ricordava quanto aveva patito da schiava, “Allora non conoscevo il Signore: ho perso tanto tempo e tanti meriti, bisogna che li guadagni ora... Se stessi in ginocchio tutta la vita, non dirò mai abbastanza tutta la mia gratitudine al buon Dio”. 
Un sacerdote, per metterla alla prova, le disse: “Se nostro Signore non la volesse in paradiso, cosa farebbe?” Tranquillamente rispose: “Eh ben, mi metta dove vuole. Qunado sono con Lui e dove vuole Lui, io sto bene dappertutto: Lui è il Padrone, io sono la sua povera creatura” 
Un altro le chiese la sua storia, Bakhita eluse la sua domanda dicendo: “Il Signore mi ha voluto tanto bene... bisogna voler bene a tutti... bisogna compartire!” - “Anche chi l’ha torturata?” - “Poveretti, non conoscevano il Signore”. 
Interrogata sulla morte, con animo sereno rispose: “Quando una persona ama tanto un’altra, desidera ardentemente di andarle vicino: dunque perché aver tanto paura della morte? La morte ci porta a Dio”. 
La superiora, M. Teresa Martini, assillata da preoccupazioni, Bakhita, calma, dignitosa le disse: “Eh lei, Madre, si meraviglia che nostro Signore la triboli? Se non viene da noi altre con un poco di patire, da chi deve andare? Non siamo noi venute in convento per fare ciò che vuole? Sí, Madre, io povera grama, pregherò e tanto, ma perché si faccia la sua volontà”."
 

Preghiera 
(Composta da Santa Giuseppina nel giorno della sua totale donazione a Dio, l’8 dicembre 1896)  
O Signore, potessi io volare laggiù, presso la mia gente e predicare a tutti a gran voce la Tua bontà: Oh, quante anime potrei conquistarti! Fra i primi, la mia mamma, il mio papà, i miei fratelli, la sorella mia, ancora schiava... tutti, tutti i poveri negri dell’Africa, fà o Gesù, che anche loro ti conoscano e ti amino!”  

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