Un corpo a corpo col mistero di Dio
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Nella riflessione di un professore laico con quarant’anni di militanza
comunista s’affaccia la “questione ineludibile”. Che precede il pensiero
e fonda l’esperienza. Anche se il “mondo adulto” fa finta di niente***
Viviamo in un “mondo adulto”, che ha relegato Dio all’epoca delle favole e delle superstizioni e che si propone di spiegare tutto con i propri apparati cognitivi e scientifici. Un mondo privo di mistero e di enigmi, dove ogni evento, ogni “apparire”, può essere agevolmente spiegato dai vari saperi che analizzano i singoli elementi dell’agire umano nelle loro specifiche funzioni. Eppure stupisce che, nell’epoca della morte di Dio, della morte del soggetto, della fine della psicoanalisi e della stessa filosofia (trasformata in ausiliaria del sapere scientifico) si continui a produrre letteratura e saggistica intesa a mostrare logicamente come l’idea di Dio sia poco più che un reperto archeologico di coscienze attardate e suggestionate ancora da mitologie e superstizioni.
Francamente, provo un senso di fastidio verso quanti non sentono alcuna emozione di fronte alla questione dell’esistenza di Dio, ma si vantano soltanto del loro perfetto e appagato ateismo. L’ateo è un personaggio sostanzialmente ottuso e allo stesso tempo altezzoso, che non riesce a sopportare l’idea di non essere padrone assoluto dei propri pensieri e della propria volontà; che usa le posizioni, spesso politiche e opportunistiche, della Chiesa, per alimentare uno stolto dibattito ideologico sulla laicità della legislazione statale. Il problema di Dio non ha nulla a che fare con quello del riconoscimento mondano della Chiesa di poter intervenire sulle regole di convivenza. Il problema di Dio non è certo quello di una positiva determinazione dei precetti da seguire secondo l’istituzione ecclesiale, né quello di legittimare una qualche istituzione religiosa, bensì quello di dare dignità e rispetto a tutto ciò che, in una determinata epoca storica, gli esseri umani mettono in campo per “resistere” all’esperienza dell’indifferenza del mondo e del dolore soggettivo e all’insignificanza di ciò che appare nella sfera della cosiddetta contingenza. Dio non è un problema della logica e della filosofia teoretica, come se all’origine di ogni cosa vi fosse un sillogismo o un’evidenza del pensiero, ma un problema dell’inspiegabile all’interno dell’esperienza umana.
Dio appartiene al campo dell’esistenza, non già a quello del pensiero metafisico, giacché anche il pensiero metafisico è un’insorgenza creativa della nostra condizione esistenziale. Da quando, nella notte dei tempi, l’essere umano ha istituito la parola che interroga, la domanda sul perché della sofferenza e della gioia è iscritta nella consapevolezza della scissione tra pensiero e essere, tra io e mondo: l’uomo si è posto come colui che non sa “perché” e che attende risposte dall’altro da sé per dare senso al proprio agire. L’affermazione di Heidegger che l’esperienza umana è quella di essere “gettati” nel tempo e nello spazio del mondo, è felicemente espressiva di una condizione in cui ciascuno non decide nulla del proprio venire al mondo, né delle caratteristiche del mondo in cui si colloca l’evento della propria nascita. All’inizio di ciascuno di noi, non c’è né la logica razionale, né la libertà di decidere, ma una dipendenza fisica, affettiva, culturale, dalla madre che ci ha tenuti per tanti mesi nel ventre. Veniamo da un ventre di donna e da lì risaliamo la corrente della vita, sperimentando il lutto della separazione da un corpo accogliente e da una voce rassicurante. Diventiamo quello che siamo a partire da questa dipendenza assoluta da un processo che ci plasma senza darci alcuna possibilità di scelta. Da questo abisso senza luce veniamo al mondo e siamo “educati” a chiedere perché, educati al diritto di domandare, in nome di un piccolo io che si è costruito una provvisoria identità guardando il volto della madre e ricevendone il nutrimento. Cosa c’è oltre l’orizzonte di quel corpo protettivo e avvolgente? Se si perde il contatto con questa esperienza primordiale dell’ex-sistere, si rischia un aberrante capovolgimento che fa nascere la vita dal pensiero e non dalla vita stessa, in quanto vita che ha incorporato, nella notte dei tempi, le parole e l’interrogazione come dati costitutivi del venire al mondo degli esseri umani. (...)
Dio non è qualcosa che l’uomo può costringere entro i confini del suo pensiero e dei suoi concetti. E tuttavia, proprio perché gli esseri umani sono coloro che pongono domande a tutto ciò che si mostra ai loro sensi, il problema di Dio è anche il limite inesorabile delle nostre capacità di conoscere. L’esistenza di Dio è, infatti, un problema che si pone come enigma della nostra esistenza. Chi ci ha gettato nel mondo dell’accadere, visto che non possiamo dominare l’origine di ciò che esiste davanti ai nostri occhi? Non pretendo di avere risposte e non credo che le abbiano neppure le istituzioni religiose, la Chiesa e il papa. So, però, che mi sono trovato più volte a subire il problema dell’esistenza di Dio come un necessario presupposto per poter porre le domande che mi assillano, a partire dall’elementare questione del significato destinale dell’essere venuto al mondo. A chi pensa che questa mia dichiarazione sia frutto di una senile debolezza di fronte al pensiero della morte che si avvicina inevitabilmente, rispondo non solo che l’angoscia di morte è la prima verità da cui occorrerebbe partire, ma che questo senso della ricerca di un “oltre” mi ha spinto, sin dall’adolescenza, come un motore nascosto nelle viscere del mio “racconto personale”.
Tratto da: “Un mondo senza Dio” del professore Pietro Barcellona dal libro L’ineludibile questione di Dio, scritto dal filosofo catanese insieme a don Francesco Ventorino.
Postato da: giacabi a 07:57 |
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dio, barcellona, senso religioso
«Nelle pietre della Sagrada Familia ho trovato la fede»
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intervista a Etsuro Sotoo
Lo scultore giapponese ha lavorato alla costruzione del tempio di Barcellona: Gaudì seppe obbedire al messaggio di Dio
DI MICHELA CORICELLI
H a scolpito gli angeli e i cantori della Facciata della Natività, ha restaurato il chiostro del Rosario, ha disegnato con la pietra i grandi pinnacoli che uniscono la prima Sagrada Familia alla parte più moderna. Lo scultore giapponese Etsuro Sotoo arrivò a Barcellona nel 1978 «per caso», ammette. Da allora non ha più abbandonato la capitale catalana e l’opera d’arte di Antoni Gaudì. Il suo incontro con il genio dell’architettura modernista catalana lo ha spinto a convertirsi al cattolicesimo, una decina di anni fa. Oggi, a 57 anni, racconta ad Avvenire la sua esperienza.
Come fu il suo incontro con la Sagrada Familia?
Mi laureai a Tokyo all’Accademia di Belle Arti. Inizia ad insegnare. Ma sentivo una fortissima attrazione per la pietra: sentivo qualcosa dentro che mi obbligava a scolpire. Lasciai il mio lavoro di professore e partii per l’Europa, un continente di cui sapevo poco. Sapevo solo che lì avrei trovato la materia che cercavo: la pietra. Arrivai a Parigi e poi, quasi per caso, presi un treno per Barcellona. Entrai per la prima volta nella Sagrada Familia come un semplice turista. Nessuno può realmente predire il proprio futuro. Lì cercai un contatto con i discepoli di Gaudì e, dopo un esame, mi assunsero come aiutante scultore. Io volevo toccare la pietra, scolpirla, ma all’inizio mi affidarono i disegni, i calcoli, i modelli: allora gli scultori lavoravano così. Per un anno non ho potuto toccare la pietra. Poi è cambiato tutto e mi iniziarono a richiedere sculture vere e proprie. Il primo lavoro furono cinque pinnacoli alti cinque metri, a 60 metri di altezza, che univano la parte antica di Gaudì all’edificio moderno.
Quando sentì la necessità di avvicinarsi alla fede?
Iniziai a sentire una grande curiosità per il genio Gaudì. Mi chiedevo: da dove tirava fuori queste idee? Dopo dieci anni l’ho scoperto: il segreto di Gaudì era la fede. Lui sapeva obbedire alla forza della natura, ovvero al messaggio di Dio, grazie alla fede. Senza, non avrebbe mai potuto fare ciò che fece. Mi convertii al cattolicesimo nel 1991: come Gaudì, capii che dovevo collaborare alla costruzione della Chiesa di pietra chiedendo aiuto alla spiritualità. Io non ero battezzato, ma piano piano mi misi a studiare la spiritualità di Gaudì e capii che chi cerca la verità, alla fine raggiunge sempre lo stesso cammino.
Prima di convertirsi professava un’altra religione?
Da giovane, in Giappone, ero sempre stato un po’ particolare: mi ero sempre avvicinato alla religione. All’inizio lo feci col buddismo, poi con lo shintoismo, addirittura mi avvicinai ad una setta. Ma non trovavo mai quello che cercavo. Il buddismo, ad esempio, mi obbligava a rinunciare a tutti i desideri: ma io non potevo rinunciare alla volontà di scolpire la pietra. L’unica spiegazione la trovai in Gesù. Il cattolicesimo, del resto, dice che siamo tutti delle pietre, dei pezzi unici per costruire l’autentica Chiesa. E non siamo noi che decidiamo dove collocare quella pietra! L’autentico architetto è Dio.
In questa conversione l’ha seguita la sua famiglia?
Mia moglie, che è pianista, tre anni fa si è convertita al cattolicesimo. Ma non è stato per obbligo, io non le ho mai chiesto niente. È stata lei stessa, senza dirmi niente, ad avvicinarsi al catechismo. Anche mia figlia, che ha 23 anni, è cattolica.
Come definirebbe la Sagrada Familia?
È il futuro. È la grande occasione per capire qual è il cammino corretto dell’umanità. Siamo quasi agli inizi del terzo millennio, la gente ha molti problemi, ha paura di vivere. Bisogna apprendere da Gaudì a collaborare alla creazione divina.
Postato da: giacabi a 15:06 |
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barcellona, gaudi
UNA DELLE PIU' GRANDI MERAVIGLIE CRISTIANE:
LA SAGRADA FAMILIA
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LA SAGRADA FAMILIA
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Postato da: giacabi a 18:40 |
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barcellona, gaudi
ARTE/ L’ultima "pietra" della Sagrada Familia è di Papa Benedetto
martedì 9 novembre 2010
“La
Chiesa non smette mai di costruire, ed è per questo che il suo capo è
il Pontefice - cioè colui che costruisce ponti -; i templi sono ponti
per raggiungere la Gloria”. Antoni Gaudì (citato da Joan Bergósi Massó, Gaudí, el hombre y la obra, 1974).
Il
Papa, nella sua visita a Barcellona, ha dedicato il Tempio espiatorio
della Sagrada Familia. “Questo giorno - ha detto Benedetto XVI - è un
punto significativo in una lunga storia di aspirazioni, di lavoro e di
generosità, che dura da più di un secolo. In questi momenti, vorrei
ricordare ciascuna delle persone che hanno reso possibile la gioia che
oggi pervade tutti noi: dai promotori fino agli esecutori di
quest’opera; dagli architetti e muratori della stessa, a tutti quelli
che hanno offerto, in un modo o nell’altro, il loro insostituibile
contributo per rendere possibile la progressiva costruzione di questo
edificio”. Nella sua omelia il Papa ha voluto ricordare “l’anima
e l’artefice di questo progetto: Antoni Gaudì, architetto geniale e
cristiano coerente, la cui fiaccola della fede arse fino al termine
della sua vita, vissuta con dignità e austerità assoluta”.
In
una cerimonia dalla liturgia splendida ed in uno spazio unico, il Papa
ha consacrato un tempio “a maggiore onore e gloria della Sacra Famiglia”
e ha trasformato in realtà l’augurio del grande poeta Joan Maragall: “questo
tempio è come un grande fiore nel quale l’Oriente fiorisce, stupito di
essere nato qui cresce nell’attesa dei fedeli che arriveranno”.
Domenica
centinaia di migliaia di fedeli hanno contemplato questo tempio. Gaudì,
ci ha detto il Papa nella sua omelia, “realizzò ciò che oggi è uno dei
compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e
coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura
alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza”.
Perchè, ha continuato, “la
bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale
sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La
bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è
pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo”.
“Gaudí,
con la sua opera, ci mostra che Dio è la vera misura dell'uomo, che il
segreto della vera originalità consiste, come egli diceva, nel tornare
all'origine che è Dio. Lui stesso, aprendo in questo modo il suo spirito
a Dio, è stato capace di creare in questa città uno spazio di bellezza,
di fede e di speranza, che conduce l'uomo all'incontro con colui che è
la verità e la bellezza stessa”.
In
un avvenimensto storico, in un giorno di gratitudine, di incontro di
fede e di speranza, si è compiuto un sogno. Quello nato nel seno di
quell’Associazione dei Devoti di San Giuseppe che vollero edificare un
tempio dedicato alla Sacra Famiglia di Nazareth.
Conviene
ricordare che la figura del Papa è stata presente fin dagli inizi
dell’Associazione, fondata nel 1866 dal libraio Josep Maria Bocabella i
Verdaguer. Uno dei compiti di questa associazione era precisamente la
preghiera per il Papa e l’invio di elemosine alla sede petrina.
Nel
1871 Josep Maria Bocabella si recò a Roma e offrì a Papa Pio XI una
scultura di argento della Sacra Famiglia sotto una palma rappresentante
la fuga in Egitto. In quell’anno l’associazione contava già 400mila
associati, tra i quali lo stesso Pontefice. La composizione d’argento è
una riproduzione del dipinto Riposo nella fuga in Egitto che
presiedeva l’altare della capella di san Giuseppe del santuario di
Montserrat. Durante il ritorno a Barcellona, Bocabella e i suoi
visitarono la Santa Casa di Loreto in Italia.
Nel
febbraio del 1875 Josep Maria Bocabella decise che il progetto del
tempio che voleva costruire, dedicato alla Sacra Famiglia, fosse una
copia esatta della basilica di Loreto, la quale conserva al suo interno
la Santa Casa di Nazareth.
Il
19 marzo 1882 fu messa la prima pietra del tempio espiatorio della
Sacra Famiglia, concepito da Josep Manyanet, promosso da Bocabella e
sognato da Gaudí. Nel testo della posa della prima pietra leggiamo un
riferimento alla Santa Sede: “questa
chiesa espiatoria, a maggiore onore e gloria della Sacra Famiglia…
svegli i cuori adormentati… calmi le angoscie della Santa Sede…”.
Anche
se il progetto fu dato all’inizio in carico ad un altro architetto,
l’idea generale dell’opera fu chiara a Gaudì fin dall’inizio. Infatti,
nella spiegazione che diede al consiglio dell’Associazione nel 1891,
egli disse che
“il tempio è la casa di Dio, luogo di preghiera. Quando ci raduniamo
qui, abbiamo lo stesso spirito di quelli che, radunandosi nei primi
tempi del cristianesimo nelle catacombe di Roma, pregavano, come noi, in
una cripta. Sotto il sole di Barcellona è stato già costruito il primo
spazio (la cripta della Sagrada, ndr)
del tempio che desideriamo. È ad immagine della Santa Casa di Nazareth
portata da Loreto (...), ma noi vorremmo che tutta l’opera fosse un
simbolo, un’opera d’arte in armonia con l’epoca in cui viviamo”.
Il
Papa, con la sua presenza, ha finalmente portato a compimento
l’auspicio della messa in posa della prima pietra, il 19 marzo 1882: “che
questa basilica desti dal loro torpore i cuori addormentati, esalti la
fede, riscaldi la carità e contribuisca a che il Signore abbia pietà del
suo paese”.
Postato da: giacabi a 19:24 |
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barcellona, gaudi
Tracce N.9, Ottobre 2010
CULTURA - LA GRANDE INTERVISTA
La mia rivoluzione
Giuseppe Di Fazio
«Non
basta il pensiero di Dio, per avere un rapporto con Lui». Il filosofo
marxista PIETRO BARCELLONA anticipa i temi del suo nuovo libro.
Attraverso gli amori, il Pci, le amicizie, la ricerca di tutta la sua
vita. Dal «demone» che lo ha sempre agitato, alla lotta contro «l’idea
che tutto è nulla». Poi l’incontro «sconvolgente» con Cristo. Fino a
mettersi sui suoi passi
«Nelle scelte fondamentali della vita non contano le teorie, conta l’esperienza, che è l’accadere di una presenza». Per questa via Pietro Barcellona, filosofo del Diritto, parlamentare Pci, membro laico del Csm, è arrivato nella maturità della sua esistenza all’incontro con Gesù.
Un tratto della sua umanità l’ha accompagnato fin da ragazzo: l’incapacità di rassegnarsi «alla contingenza assoluta delle cose». E - insieme - il bisogno «disperato di trovare un punto di riferimento solido al nostro pellegrinaggio vivente». Tanto che al crollo del Muro di Berlino, «sono crollato anch’io». E si è trovato esposto al nemico di sempre: il nichilismo. Ma una storia di amicizie l’ha riportato «a casa». Alla figura di Cristo. «Non mi bastava - ci confida - indagare il pensiero di Dio per avere un rapporto con Lui. Quello che mi interessa e mi inquieta è la figura concreta di Gesù: un Uomo che è Figlio di Dio». Barcellona s’è messo sulle tracce di quest’Uomo. Che l’ha colpito «affettivamente». Ne ha cercato la presenza in fatti e persone. Persino nei luoghi, la Terrasanta, in cui Egli visse. Il filosofo catanese racconta l’incessante ricerca di una vita nel libro Incontro con Gesù (Marietti), di cui in questa conversazione ci anticipa i temi.
Nel libro parla di un «demone» che l’ha sempre spinta «ad una lotta incessante contro l’insignificanza degli esseri umani e del mondo circostante». I saggi del nostro tempo hanno ridotto questa domanda a una curiosità da fanciullini: un adulto dovrebbe ritenere che a quella domanda non c’è risposta. Perché, invece, lei resta attaccato a quella domanda e a quel demone?
Un libro appena ristampato di James Hillman, La forza del carattere, descrive in un modo affascinante il costruirsi continuo del carattere e il suo essere, per certi versi, manifestazione di una potenza profonda - lo chiama proprio demone - che abita dentro ciascuno di noi. Un perturbamento accompagna tutta la vita se uno, ogni volta che fa qualcosa, non si sottrae alla domanda: perché la faccio? A chi mi sto rivolgendo? A chi sto parlando? Io penso che questo tema lo puoi tacitare, anche rimuovere, ma prima o poi torna, perché è la forza vitale che domanda senso. La domanda su chi sono io è la domanda sul senso della mia vita. Io non riesco ad immaginare una persona che trova una risposta definitiva a questa domanda. È una molla dell’esistenza questa ricerca di senso. E si manifesta in questa forma decisiva man mano che la approfondisci, perché è una domanda che va coltivata. Il modo con cui io sento questa domanda non si può declinare in astratto, si deve declinare nelle situazioni concrete. Io mi chiedo chi sono davanti a un tu.
Nel suo percorso umano e intellettuale, tutti i passaggi chiave sono contrassegnati da una amicizia. Nel caso dell’interesse per Gesù, l’incontro significativo è con un prete e grande educatore, don Francesco Ventorino (don Ciccio, per gli amici). Ci può raccontare questa amicizia sbocciata dopo un lungo periodo in cui militavate su fronti opposti.
Nemici non lo siamo stati mai. Non era accaduto di incontrarci prima. La molla che ha fatto scattare questa amicizia, divenuta intensissima, come se fossimo amici da sempre, è stata che don Ciccio si è presentato a me come una persona autentica. Con lui ho avuto fin da subito l’impressione di trovarmi di fronte un prete che esprimeva curiosità nei miei confronti per cercare di capire quali erano state le vie che aveva percorso il mio pensiero. Rispetto a tutti gli altri rapporti che mi è capitato di avere con persone che provengono dal mondo religioso non mostrava una cosa che mi ha sempre messo in posizione di difesa: non aveva alcuna intenzione di farmi diventare buono, ma era invece estremamente curioso di ciò che io fossi. Devo aggiungere che, data la mia età, ho tantissime conoscenze, ma ho pochissimi amici. Don Ciccio è uno di questi.
La sua infanzia s’è svolta in un ambiente cattolico. Addirittura lei è stato alunno di una scuola di preti. Perché ha abbandonato la tradizione cristiana?
Naturalmente, nella fase iniziale di questo rapporto con la scuola dei preti, c’è stata una indubbia seduzione; ho trovato aspetti straordinari soprattutto nell’esperienza di gruppo dell’Azione cattolica. Mi ha progressivamente deluso e allontanato dalla Chiesa, però, il fatto che molti preti mi sembravano poco credibili. Avvertivo la finzione della ritualità e il fastidio per un certo tipo di indottrinamento che mi sembrava molto estrinseco.
Invece la fascinazione del Pci, “l’assoluto terrestre”, da dove nasceva?
La fascinazione del Pci è stata molto precoce. Per un certo periodo, l’ho tenuta nascosta a mio padre che era, come tutte le persone della borghesia, anticomunista. Il primo contatto l’ho avuto con un agit prop torinese, venuto a fare opera di proselitismo intelligente a Catania. Diventammo sempre più amici, finché in una sezione del partito conobbi quest’esperienza dell’amicizia, della fraternità. Divenuto professore, un giorno fui aggredito dai fascisti. Allora il segretario del Pci mi chiese di prendere la tessera, per avere più protezione: in un anno, mi trovai catapultato al comitato regionale, dove c’era Occhetto, e poi alla guida della segreteria cittadina del Pci. Catania era dominata dai fascisti. Quell’esperienza, tra ’73 e ’74, fu quasi una scoperta del mondo. Andai a vivere tutte le esperienze dei quartieri popolari. Il comunismo mi appariva non solo la riscoperta di un mondo reale, ma anche una risposta alla mia domanda iniziale: il proprio dell’uomo è stare insieme agli altri per costruire un futuro di salvezza. Salvezza umana, ma sempre salvezza. Alla domanda: chi sono? Rispondevo: io sono un comunista che sta lottando per una società migliore.
Questa ipotesi - la salvezza umana, comunista -, alla prova della vita, risultò inadeguata alla domanda radicale che lei si poneva. Perché?
Io mi sono ammalato, con la fine del Pci mi è venuta una depressione grave e sono andato in analisi. Crollato il Muro sono crollato pure io. Ma in realtà il motivo per cui mi sono ammalato è stata la disgregazione umana dei gruppi con cui io ero abituato a vivere. Avevo lavorato per molti anni a Roma con Pietro Ingrao al Centro per la Riforma dello Stato, dirigevo una rivista e avevo una relazione di amicizia con molti degli intellettuali italiani. Con questi pensavo di avere un rapporto di grande amicizia. Ma questa specie di rottura determinò una aggressività e un attacco reciproco inaudito che mi lasciò improvvisamente nudo.
Quindi lei ha rotto il rapporto con la tradizione comunista perché le è crollato il mondo affettivo...
Sì, perché non riesco a concepire il rapporto con una tradizione intellettuale senza vederla in qualche modo praticata e realizzata nelle persone che la professano. Questa esigenza che cercavo di applicare a me stesso, è un’esigenza che avverto anche rispetto alla Chiesa. Nelle scelte decisive non mi sono affidato alla lettura dei libri. Di libri ne ho letti tanti, ma non sono stati questi a determinare i miei processi vitali, sono state le esperienze. Sono convinto che è decisivo per le persone l’incontro. Per capire qualcosa di se stessi bisogna trovarsi insieme a un’altra persona che si pone nella posizione di disponibilità. La prima scrittura per me è l’esperienza. L’esperienza si fa con le cose concrete. Non è un’astrazione, è l’accadere di una presenza. Improvvisamente ti accorgi che c’è una cosa che prima non c’era. L’accadere di una presenza non si può non realizzare in un contesto materiale, fisico. In questo senso sono materialista, ma non nel senso marxiano. Materialista nel senso che il corpo vivente delle persone è la migliore testimonianza della loro anima.
Dopo la vicenda del Pci, lei s’è dovuto paragonare col “mostro del nichilismo”, che ha anch’esso una sua fascinazione.
Ho avuto il terrore che si diffondesse nel senso comune l’idea che tutto vale nulla. L’ho percepito nel propagarsi di una sorta di predicazione filosofica, rivolta soprattutto ai giovani, in cui il nichilismo è assunto come premessa, come una sorta di stoicismo per l’accettazione della propria mortalità e come capacità di vivere istante per istante senza pensare. Sono convinto che questo non funziona, e se funzionasse produrrebbe solo indifferenza e apatia. Del nichilismo temo questo risvolto pratico che si traduce in indifferenza e apatia. E condanna i giovani a una passività senza speranza.
Qual è oggi il suo rapporto col cristianesimo?
Io mi sono sempre interrogato sulla questione di Dio, ma negli stessi termini in cui in un certo senso s’è interrogato Cacciari nell’ultimo libro scritto con Piero Coda Io sono il Signore Dio tuo. Non basta però il pensiero di Dio per avere un rapporto con Lui. Posso parlare di Dio perché ho un rapporto con Gesù.
Eccoci al cuore del suo ultimo libro...
Quello che mi interessa, mi inquieta e mi ha condotto a queste riflessioni attuali è la figura concreta di Gesù: un Uomo che è Figlio di Dio. Mi sembra la assoluta novità del cristianesimo, anche perché Gesù Cristo non si può pensare come dottrina e quindi come una teoria. Cristo non è una teoria. È un’incarnazione. E se è un’incarnazione non può non essere una presenza. La teoria può essere stampata e trasmessa. La presenza deve essere percepita. Perché insisto sempre sulla contemporaneità? Perché se si riducesse il Vangelo a un insieme di prescrizioni, mi lascerebbe molto perplesso. La cosa singolare dei Vangeli è che in ogni momento il riferimento è alla concretezza delle situazioni. L’amore di Dio per l’uomo si trasforma addirittura nel prendere la natura umana e condividere i sentimenti, i dolori, tutte le cose che avvertiamo noi. La sensazione di fisicità te la dà l’incarnazione, la nascita da una donna, il rapporto con i compagni di viaggio, le esperienze di questi compagni, lo stesso tradimento di Pietro che non impedisce a Gesù di confermagli l’amore e la fiducia. Nella figura di Cristo c’è qualcosa di sconvolgente rispetto alla concezione temporale che abbiamo della nostra vita (inizio, fine, decorrere) e anche del rapporto fra eternità e temporalità. Quando Egli afferma, per esempio: «Il Regno di Dio si realizza dentro di voi», dice qualcosa di sconvolgente. È come se il tempo di questa presenza diventasse il tempo pieno della contestualità di tutto, della nascita e della morte.
Anche rispetto a Gesù s’è operata una riduzione, tenendolo come un grande personaggio ma del passato.
Il cristianesimo è vissuto oggi in termini - si potrebbe dire - ebraici. Come una cosa che è accaduta in passato e che dovrà ancora accadere in futuro. La pienezza del tempo della vita di Gesù, come attualità di una risposta a questa presenza, non è vissuto in questo mondo. Spesso nella Chiesa si chiede di prendere i Vangeli come un testo dottrinario, rinviando sempre a un futuro evento del ritorno il momento della resa dei conti. Questa visione, secondo me, è distorcente. È come se volessi trasformare l’amicizia in un insieme di regole per conquistarmi la simpatia di una persona. Le regole faranno un trattatello sull’amicizia, ma non faranno l’amicizia. Essa nasce quando accade quello che accade. Come l’amore. Il terreno su cui avviene l’incontro con Gesù non è un terreno filosofico, è un terreno che ha a che vedere con la contemporaneità, con la presenza attuale. Ma tu devi cercare questa presenza: perché questo incontro si “ripeta” ti devi mettere “in mezzo”; la staticità è incompatibile con questo movimento di Gesù. Gesù è un movimento continuo di incarnazione. Il Verbo che si fa carne nella realtà quotidiana: se lo fossilizzi, ti vengono i dubbi, perdi il contatto. C’è un grande rischio in questo rapporto con Gesù, un rischio quotidiano proprio perché non è un possesso.
«Nelle scelte fondamentali della vita non contano le teorie, conta l’esperienza, che è l’accadere di una presenza». Per questa via Pietro Barcellona, filosofo del Diritto, parlamentare Pci, membro laico del Csm, è arrivato nella maturità della sua esistenza all’incontro con Gesù.
Un tratto della sua umanità l’ha accompagnato fin da ragazzo: l’incapacità di rassegnarsi «alla contingenza assoluta delle cose». E - insieme - il bisogno «disperato di trovare un punto di riferimento solido al nostro pellegrinaggio vivente». Tanto che al crollo del Muro di Berlino, «sono crollato anch’io». E si è trovato esposto al nemico di sempre: il nichilismo. Ma una storia di amicizie l’ha riportato «a casa». Alla figura di Cristo. «Non mi bastava - ci confida - indagare il pensiero di Dio per avere un rapporto con Lui. Quello che mi interessa e mi inquieta è la figura concreta di Gesù: un Uomo che è Figlio di Dio». Barcellona s’è messo sulle tracce di quest’Uomo. Che l’ha colpito «affettivamente». Ne ha cercato la presenza in fatti e persone. Persino nei luoghi, la Terrasanta, in cui Egli visse. Il filosofo catanese racconta l’incessante ricerca di una vita nel libro Incontro con Gesù (Marietti), di cui in questa conversazione ci anticipa i temi.
Nel libro parla di un «demone» che l’ha sempre spinta «ad una lotta incessante contro l’insignificanza degli esseri umani e del mondo circostante». I saggi del nostro tempo hanno ridotto questa domanda a una curiosità da fanciullini: un adulto dovrebbe ritenere che a quella domanda non c’è risposta. Perché, invece, lei resta attaccato a quella domanda e a quel demone?
Un libro appena ristampato di James Hillman, La forza del carattere, descrive in un modo affascinante il costruirsi continuo del carattere e il suo essere, per certi versi, manifestazione di una potenza profonda - lo chiama proprio demone - che abita dentro ciascuno di noi. Un perturbamento accompagna tutta la vita se uno, ogni volta che fa qualcosa, non si sottrae alla domanda: perché la faccio? A chi mi sto rivolgendo? A chi sto parlando? Io penso che questo tema lo puoi tacitare, anche rimuovere, ma prima o poi torna, perché è la forza vitale che domanda senso. La domanda su chi sono io è la domanda sul senso della mia vita. Io non riesco ad immaginare una persona che trova una risposta definitiva a questa domanda. È una molla dell’esistenza questa ricerca di senso. E si manifesta in questa forma decisiva man mano che la approfondisci, perché è una domanda che va coltivata. Il modo con cui io sento questa domanda non si può declinare in astratto, si deve declinare nelle situazioni concrete. Io mi chiedo chi sono davanti a un tu.
Nel suo percorso umano e intellettuale, tutti i passaggi chiave sono contrassegnati da una amicizia. Nel caso dell’interesse per Gesù, l’incontro significativo è con un prete e grande educatore, don Francesco Ventorino (don Ciccio, per gli amici). Ci può raccontare questa amicizia sbocciata dopo un lungo periodo in cui militavate su fronti opposti.
Nemici non lo siamo stati mai. Non era accaduto di incontrarci prima. La molla che ha fatto scattare questa amicizia, divenuta intensissima, come se fossimo amici da sempre, è stata che don Ciccio si è presentato a me come una persona autentica. Con lui ho avuto fin da subito l’impressione di trovarmi di fronte un prete che esprimeva curiosità nei miei confronti per cercare di capire quali erano state le vie che aveva percorso il mio pensiero. Rispetto a tutti gli altri rapporti che mi è capitato di avere con persone che provengono dal mondo religioso non mostrava una cosa che mi ha sempre messo in posizione di difesa: non aveva alcuna intenzione di farmi diventare buono, ma era invece estremamente curioso di ciò che io fossi. Devo aggiungere che, data la mia età, ho tantissime conoscenze, ma ho pochissimi amici. Don Ciccio è uno di questi.
La sua infanzia s’è svolta in un ambiente cattolico. Addirittura lei è stato alunno di una scuola di preti. Perché ha abbandonato la tradizione cristiana?
Naturalmente, nella fase iniziale di questo rapporto con la scuola dei preti, c’è stata una indubbia seduzione; ho trovato aspetti straordinari soprattutto nell’esperienza di gruppo dell’Azione cattolica. Mi ha progressivamente deluso e allontanato dalla Chiesa, però, il fatto che molti preti mi sembravano poco credibili. Avvertivo la finzione della ritualità e il fastidio per un certo tipo di indottrinamento che mi sembrava molto estrinseco.
Invece la fascinazione del Pci, “l’assoluto terrestre”, da dove nasceva?
La fascinazione del Pci è stata molto precoce. Per un certo periodo, l’ho tenuta nascosta a mio padre che era, come tutte le persone della borghesia, anticomunista. Il primo contatto l’ho avuto con un agit prop torinese, venuto a fare opera di proselitismo intelligente a Catania. Diventammo sempre più amici, finché in una sezione del partito conobbi quest’esperienza dell’amicizia, della fraternità. Divenuto professore, un giorno fui aggredito dai fascisti. Allora il segretario del Pci mi chiese di prendere la tessera, per avere più protezione: in un anno, mi trovai catapultato al comitato regionale, dove c’era Occhetto, e poi alla guida della segreteria cittadina del Pci. Catania era dominata dai fascisti. Quell’esperienza, tra ’73 e ’74, fu quasi una scoperta del mondo. Andai a vivere tutte le esperienze dei quartieri popolari. Il comunismo mi appariva non solo la riscoperta di un mondo reale, ma anche una risposta alla mia domanda iniziale: il proprio dell’uomo è stare insieme agli altri per costruire un futuro di salvezza. Salvezza umana, ma sempre salvezza. Alla domanda: chi sono? Rispondevo: io sono un comunista che sta lottando per una società migliore.
Questa ipotesi - la salvezza umana, comunista -, alla prova della vita, risultò inadeguata alla domanda radicale che lei si poneva. Perché?
Io mi sono ammalato, con la fine del Pci mi è venuta una depressione grave e sono andato in analisi. Crollato il Muro sono crollato pure io. Ma in realtà il motivo per cui mi sono ammalato è stata la disgregazione umana dei gruppi con cui io ero abituato a vivere. Avevo lavorato per molti anni a Roma con Pietro Ingrao al Centro per la Riforma dello Stato, dirigevo una rivista e avevo una relazione di amicizia con molti degli intellettuali italiani. Con questi pensavo di avere un rapporto di grande amicizia. Ma questa specie di rottura determinò una aggressività e un attacco reciproco inaudito che mi lasciò improvvisamente nudo.
Quindi lei ha rotto il rapporto con la tradizione comunista perché le è crollato il mondo affettivo...
Sì, perché non riesco a concepire il rapporto con una tradizione intellettuale senza vederla in qualche modo praticata e realizzata nelle persone che la professano. Questa esigenza che cercavo di applicare a me stesso, è un’esigenza che avverto anche rispetto alla Chiesa. Nelle scelte decisive non mi sono affidato alla lettura dei libri. Di libri ne ho letti tanti, ma non sono stati questi a determinare i miei processi vitali, sono state le esperienze. Sono convinto che è decisivo per le persone l’incontro. Per capire qualcosa di se stessi bisogna trovarsi insieme a un’altra persona che si pone nella posizione di disponibilità. La prima scrittura per me è l’esperienza. L’esperienza si fa con le cose concrete. Non è un’astrazione, è l’accadere di una presenza. Improvvisamente ti accorgi che c’è una cosa che prima non c’era. L’accadere di una presenza non si può non realizzare in un contesto materiale, fisico. In questo senso sono materialista, ma non nel senso marxiano. Materialista nel senso che il corpo vivente delle persone è la migliore testimonianza della loro anima.
Dopo la vicenda del Pci, lei s’è dovuto paragonare col “mostro del nichilismo”, che ha anch’esso una sua fascinazione.
Ho avuto il terrore che si diffondesse nel senso comune l’idea che tutto vale nulla. L’ho percepito nel propagarsi di una sorta di predicazione filosofica, rivolta soprattutto ai giovani, in cui il nichilismo è assunto come premessa, come una sorta di stoicismo per l’accettazione della propria mortalità e come capacità di vivere istante per istante senza pensare. Sono convinto che questo non funziona, e se funzionasse produrrebbe solo indifferenza e apatia. Del nichilismo temo questo risvolto pratico che si traduce in indifferenza e apatia. E condanna i giovani a una passività senza speranza.
Qual è oggi il suo rapporto col cristianesimo?
Io mi sono sempre interrogato sulla questione di Dio, ma negli stessi termini in cui in un certo senso s’è interrogato Cacciari nell’ultimo libro scritto con Piero Coda Io sono il Signore Dio tuo. Non basta però il pensiero di Dio per avere un rapporto con Lui. Posso parlare di Dio perché ho un rapporto con Gesù.
Eccoci al cuore del suo ultimo libro...
Quello che mi interessa, mi inquieta e mi ha condotto a queste riflessioni attuali è la figura concreta di Gesù: un Uomo che è Figlio di Dio. Mi sembra la assoluta novità del cristianesimo, anche perché Gesù Cristo non si può pensare come dottrina e quindi come una teoria. Cristo non è una teoria. È un’incarnazione. E se è un’incarnazione non può non essere una presenza. La teoria può essere stampata e trasmessa. La presenza deve essere percepita. Perché insisto sempre sulla contemporaneità? Perché se si riducesse il Vangelo a un insieme di prescrizioni, mi lascerebbe molto perplesso. La cosa singolare dei Vangeli è che in ogni momento il riferimento è alla concretezza delle situazioni. L’amore di Dio per l’uomo si trasforma addirittura nel prendere la natura umana e condividere i sentimenti, i dolori, tutte le cose che avvertiamo noi. La sensazione di fisicità te la dà l’incarnazione, la nascita da una donna, il rapporto con i compagni di viaggio, le esperienze di questi compagni, lo stesso tradimento di Pietro che non impedisce a Gesù di confermagli l’amore e la fiducia. Nella figura di Cristo c’è qualcosa di sconvolgente rispetto alla concezione temporale che abbiamo della nostra vita (inizio, fine, decorrere) e anche del rapporto fra eternità e temporalità. Quando Egli afferma, per esempio: «Il Regno di Dio si realizza dentro di voi», dice qualcosa di sconvolgente. È come se il tempo di questa presenza diventasse il tempo pieno della contestualità di tutto, della nascita e della morte.
Anche rispetto a Gesù s’è operata una riduzione, tenendolo come un grande personaggio ma del passato.
Il cristianesimo è vissuto oggi in termini - si potrebbe dire - ebraici. Come una cosa che è accaduta in passato e che dovrà ancora accadere in futuro. La pienezza del tempo della vita di Gesù, come attualità di una risposta a questa presenza, non è vissuto in questo mondo. Spesso nella Chiesa si chiede di prendere i Vangeli come un testo dottrinario, rinviando sempre a un futuro evento del ritorno il momento della resa dei conti. Questa visione, secondo me, è distorcente. È come se volessi trasformare l’amicizia in un insieme di regole per conquistarmi la simpatia di una persona. Le regole faranno un trattatello sull’amicizia, ma non faranno l’amicizia. Essa nasce quando accade quello che accade. Come l’amore. Il terreno su cui avviene l’incontro con Gesù non è un terreno filosofico, è un terreno che ha a che vedere con la contemporaneità, con la presenza attuale. Ma tu devi cercare questa presenza: perché questo incontro si “ripeta” ti devi mettere “in mezzo”; la staticità è incompatibile con questo movimento di Gesù. Gesù è un movimento continuo di incarnazione. Il Verbo che si fa carne nella realtà quotidiana: se lo fossilizzi, ti vengono i dubbi, perdi il contatto. C’è un grande rischio in questo rapporto con Gesù, un rischio quotidiano proprio perché non è un possesso.
Postato da: giacabi a 18:20 |
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barcellona
Sotoo: dalle rocce del Fujiama alle pietre sacre
***
INT.
Etsuro Sotoo
sabato 13 settembre 2008
Etsuro Sotoo, scultore giapponese, laureatosi nel 1977 all'università di Belle Arti di Kyoto,
dall'anno successivo ha cominciato a lavorare incessantemente alla
Sagrada Familia di Barcellona, il cui progetto e la cui costruzione sono
state realizzate dal famoso architetto cattolico catalano, Antoni
Gaudì.
Dottor
Sotoo, sono ormai trent'anni che lei lavora all'opera del grande
artista catalano. Il suo rapporto con Gaudì si può ormai definire di
“amicizia” sebbene virtuale?
Adesso
posso dire che io e Gaudì siamo amici, mentre prima sarebbe stato
assurdo affermarlo. Quando studiavo scultura era per me un perfetto
sconosciuto e ignoravo la sua genialità. Poi quando ho dovuto studiarlo a
scuola ho cercato da subito di comprendere chi era. In seguito, non
appena cominciai a lavorare per la Sagrada Familia iniziai a raccogliere
un numero impressionante di dati e di libri che me ne potessero sempre
più chiaramente illustrare il percorso biografico e artistico.
A
un certo punto però mi sono reso conto che ero arrivato a un limite. Un
punto oltre il quale, nonostante l'immensa mole di dati accumulati non
potevo dire di conoscerlo. E andai in crisi?
Che cosa era accaduto?
Ero
in una profonda confusione, non riuscivo ad andare avanti col mio
lavoro. Più tardi pensai, o meglio capii, che Gaudi stesso stava proprio
aspettando il momento in cui avrei avuto queste difficoltà. Siccome non
potevo proseguire con la mia opera, pensai di lasciare da parte il
profilo biografico e le idee di Gaudì che erano quasi divenute
un'ossessione.
Poi
ebbi un'intuizione. Capii che per conoscerlo avrei dovuto guardare dove
guardava Gaudì. E ho la sensazione che a partire da quel momento
entrambi ci compenetrammo spiritualmente. Da subito mi sentii molto più
libero e, anche a livello del mio lavoro di scultore, se prima avevo
molte difficoltà, dopo quel momento sono riuscito a capire come
procedere. Al principio pensavo che questa fosse la felicità, il
compimento della mia vita, ma ne era solo una piccola parte. Perché dopo
ho scoperto quale era il mondo in cui Gaudì voleva condurmi.
Allude alla sua conversione al cattolicesimo?
Sì.
Il mio obbiettivo era quello di divenire un bravo scultore, ma, come
dire, questa era solo la “carota”. Io sentivo Antoni Gaudì come maestro e
anche amico, perché aveva cura di me, e un amico è proprio chi si
prende cura di un altro, lo aiuta.
Avevo
nelle mani tutti i dati relativi al mio maestro. Sapevo che portava i
baffi, che insodossava spesso il cappello, perfino come sorrideva. Ma
continuavo a ripetermi: “devi stare dove lui stava”, cioè nella Chiesa.
In
Giappone, se vuoi fare lo scultore, ti insegnano a curare molto gli
strumenti, ti insegnano l'amore per la pietra. Quindi ero preparato
all'amore per il lavoro, molto meno all'amore per l'autore (o Autore) di
un lavoro.
In
Occidente abbiamo una considerazione del Giappone come di una società
in cui le persone vengono concepite come meri elementi di un immenso
meccanismo, che può essere lo Stato o anche l'azienda. Come si può
essere protagonisti per la cultura orientale e giapponese?
In
parte questo è vero, ma aggiungerei una cosa: in Giappone la prima
nozione che insegnano a livello educativo è convivere e stare con gli
altri. Essendo un'isola è molto importante saper stare vicini a un'altra
persona. Quindi la famiglia e l'organizzazione della società rendono
impensabile il fatto che un individuo stia da solo.
Essere
protagonista in Giappone significa quindi stare con qualcuno e
aiutarlo, non concepirsi da soli, ma avere bisogno degli altri. Ci sono
modi diversi di esprimerlo però l'amore che sta alla base, il sacrificio
di uno per l'altro si capisce in tutto il mondo, anche se il modo di
esprimerlo è diverso. Quindi mi si perdoni se dico che in tal senso
senso il Giappone è un po' più avanti rispetto all'Occidente. Qui invece
si pensa forse troppo all'individuo, ma la famiglia è un bene che si
sta dimenticando.
Postato da: giacabi a 08:08 |
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barcellona
J’ACCUSE/ Barcellona:
io, da ex Pci, vi spiego chi è il potere che ci governa
giovedì 28 ottobre 2010
Lo
storico Giuseppe Giarrizzo mi chiama in causa come uno dei protagonisti
del ‘68 e mi chiede di raccontare le mie esperienze di allora per
cercare di capire cosa sta succedendo ora.
In effetti, quegli anni hanno avuto su di me un’influenza decisiva anche perché mi sono trovato in una condizione singolare: ero già professore da un anno e mi trovavo quindi dall’altra parte della barricata, ma avvertivo nella protesta studentesca il segno confuso e ambiguo di un bisogno di cambiamento rispetto ad una società profondamente irrigidita nei propri schemi mentali e nelle proprie categorie interpretative.
Il ’68 mi costrinse a rivedere il senso del mio insegnamento e a ricercare, con la contaminazione di altri saperi, le ragioni per cui una norma giuridica possa e debba essere rispettata dai cittadini. Incontrai su questo terreno la ricerca storica, sociologica e psicologica e resi il mio approccio ai problemi dell’esistenza assai più complesso di quanto non fosse stato fino ad allora.
Tuttavia non mi arresi senza combattere alle richieste degli studenti che chiedevano corsi sulla rivoluzione culturale cinese e sul modello della pianificazione sovietica. Sospesi le lezioni e restituii il registro al rettore fino a quando gli stessi studenti non cercarono un punto di compromesso. I movimenti con cui mi misurai fino in fondo furono allora rispettivamente Servire il popolo, gruppo extraparlamentare di sinistra, e Ordine nuovo, movimento di estremisti di destra.
Dopo diversi incontri, gli studenti accettarono le mie proposte. Agli studenti di sinistra proposi di studiare, come testo integrativo di Istituzioni di diritto, la critica di Marx alla filosofia del diritto hegeliano e agli studenti di destra, in particolare, l’Operaio di Jünger e la Teologia politica di Schmitt. Credo che gli studenti capirono il senso di queste proposte e si sforzarono persino di elaborare delle vere e proprie dispense di cui conservo ancora i ciclostilati. Alla fine dei corsi si fecero gli esami senza voto collettivo ma discutendo le tesi che avevano elaborato.
In effetti, quegli anni hanno avuto su di me un’influenza decisiva anche perché mi sono trovato in una condizione singolare: ero già professore da un anno e mi trovavo quindi dall’altra parte della barricata, ma avvertivo nella protesta studentesca il segno confuso e ambiguo di un bisogno di cambiamento rispetto ad una società profondamente irrigidita nei propri schemi mentali e nelle proprie categorie interpretative.
Il ’68 mi costrinse a rivedere il senso del mio insegnamento e a ricercare, con la contaminazione di altri saperi, le ragioni per cui una norma giuridica possa e debba essere rispettata dai cittadini. Incontrai su questo terreno la ricerca storica, sociologica e psicologica e resi il mio approccio ai problemi dell’esistenza assai più complesso di quanto non fosse stato fino ad allora.
Tuttavia non mi arresi senza combattere alle richieste degli studenti che chiedevano corsi sulla rivoluzione culturale cinese e sul modello della pianificazione sovietica. Sospesi le lezioni e restituii il registro al rettore fino a quando gli stessi studenti non cercarono un punto di compromesso. I movimenti con cui mi misurai fino in fondo furono allora rispettivamente Servire il popolo, gruppo extraparlamentare di sinistra, e Ordine nuovo, movimento di estremisti di destra.
Dopo diversi incontri, gli studenti accettarono le mie proposte. Agli studenti di sinistra proposi di studiare, come testo integrativo di Istituzioni di diritto, la critica di Marx alla filosofia del diritto hegeliano e agli studenti di destra, in particolare, l’Operaio di Jünger e la Teologia politica di Schmitt. Credo che gli studenti capirono il senso di queste proposte e si sforzarono persino di elaborare delle vere e proprie dispense di cui conservo ancora i ciclostilati. Alla fine dei corsi si fecero gli esami senza voto collettivo ma discutendo le tesi che avevano elaborato.
Dopo
molti anni i leader dei due movimenti, Campanella e Lombardo,
diventarono professori universitari e molti di loro, nel corso degli
anni, mi hanno ringraziato per non aver ceduto alla richiesta del voto
collettivo unico.
Ho sempre ripensato a questa mia esperienza, per me certamente positiva, non tanto per le provocazioni utopiche, che non mi hanno mai sedotto, ma per lo stimolo a capire il significato dell’insegnamento e la comunicazione con un mondo di giovani sicuramente animati da una forte passione per tutto ciò che costituiva critica e rottura dell’ordine vigente. Riflettendo, tuttavia, su quegli anni e sull’eredità che hanno lasciato, mi sono persuaso che dentro quella rivolta studentesca c’erano i germi di una degenerazione individualistica e persino narcisistica delle forme di vita della nostra società.
Le assemblee studentesche anticipavano tragicamente l’idea di “società liquida” di cui parla Baumann, e il leaderismo del microfono in mano favoriva forme primordiali di demagogia populista. Non andava al potere l’immaginazione, come Castoriadis aveva sperato in Socialismo e barbarie, ma la ricerca della soddisfazione dei bisogni nella loro immediata istintività: la libertà sfrenata di ogni desiderio minava lo stesso spirito di gruppo e quella coesione necessaria per costruire alternative reali.
Il ’68 mi è apparso sempre più non come l’ultima fiammata del grande socialismo europeo, ma come l’inizio di una confusione di ruoli e di linguaggi che tendeva a produrre un nuovo tipo di conformismo massificato attorno alla sola bandiera della trasgressione senza progetto di trasformazione. Purtroppo le letture di quel periodo divennero sempre più spesso Marcuse, Deleuze e Guattari. La rivolta si presentava come liberazione da ogni vincolo o legame in nome di una rivoluzione che si proponeva la destrutturazione e l’annichilimento di ogni “sovrastruttura ideologica”: dalla famiglia, vista come un nemico, ai partiti della sinistra tradizionale che venivano indicati come meri traditori delle idealità socialiste.
Alcuni, profeticamente, videro nel ’68 anche uno sfrenarsi dell’individualismo borghese, della media borghesia acculturata che con Marcuse metteva sotto accusa ogni forma di civiltà organizzata e che con Deleuze e Guattari, ne L’Antiedipo, predicava il primato del desiderio senza freni e un’idea astratta di libertà senza limiti. In quegli stessi anni, in un altro libro profetico, Mitscherlich constatava come si stesse formando una gioventù senza padri che non avrebbe criticato le tradizioni, in nome del legittimo diritto di innovare, ma che avrebbe fatto terra bruciata anche delle conquiste progressive che erano state realizzate in tanti decenni di conflitti sociali.
Ho sempre ripensato a questa mia esperienza, per me certamente positiva, non tanto per le provocazioni utopiche, che non mi hanno mai sedotto, ma per lo stimolo a capire il significato dell’insegnamento e la comunicazione con un mondo di giovani sicuramente animati da una forte passione per tutto ciò che costituiva critica e rottura dell’ordine vigente. Riflettendo, tuttavia, su quegli anni e sull’eredità che hanno lasciato, mi sono persuaso che dentro quella rivolta studentesca c’erano i germi di una degenerazione individualistica e persino narcisistica delle forme di vita della nostra società.
Le assemblee studentesche anticipavano tragicamente l’idea di “società liquida” di cui parla Baumann, e il leaderismo del microfono in mano favoriva forme primordiali di demagogia populista. Non andava al potere l’immaginazione, come Castoriadis aveva sperato in Socialismo e barbarie, ma la ricerca della soddisfazione dei bisogni nella loro immediata istintività: la libertà sfrenata di ogni desiderio minava lo stesso spirito di gruppo e quella coesione necessaria per costruire alternative reali.
Il ’68 mi è apparso sempre più non come l’ultima fiammata del grande socialismo europeo, ma come l’inizio di una confusione di ruoli e di linguaggi che tendeva a produrre un nuovo tipo di conformismo massificato attorno alla sola bandiera della trasgressione senza progetto di trasformazione. Purtroppo le letture di quel periodo divennero sempre più spesso Marcuse, Deleuze e Guattari. La rivolta si presentava come liberazione da ogni vincolo o legame in nome di una rivoluzione che si proponeva la destrutturazione e l’annichilimento di ogni “sovrastruttura ideologica”: dalla famiglia, vista come un nemico, ai partiti della sinistra tradizionale che venivano indicati come meri traditori delle idealità socialiste.
Alcuni, profeticamente, videro nel ’68 anche uno sfrenarsi dell’individualismo borghese, della media borghesia acculturata che con Marcuse metteva sotto accusa ogni forma di civiltà organizzata e che con Deleuze e Guattari, ne L’Antiedipo, predicava il primato del desiderio senza freni e un’idea astratta di libertà senza limiti. In quegli stessi anni, in un altro libro profetico, Mitscherlich constatava come si stesse formando una gioventù senza padri che non avrebbe criticato le tradizioni, in nome del legittimo diritto di innovare, ma che avrebbe fatto terra bruciata anche delle conquiste progressive che erano state realizzate in tanti decenni di conflitti sociali.
Il
carattere narcisistico, che cominciava a diventare il vero motore di
ogni iniziativa, si rendeva sempre più evidente nella proliferazione di
gruppi e gruppetti che si chiudevano spesso in un settarismo fanatico,
praticando persino riti di un’improbabile iniziazione ad una nuova
immagine dell’uomo.
A distanza di anni registravo in un libro, intitolato L’individualismo proprietario (1987), che gli anni trascorsi avevano prodotto una forma di individualismo povero, di mero consumo -come scriveva in quegli anni O’Connor- fondato sulla universale appropriabilità di tutto ciò che veniva prodotto capitalisticamente. Non si era formata, invece, alcuna nuova idea di bene comune e nessuno aveva posto il problema dei limiti naturali allo spreco delle risorse. Ho scritto in quegli anni che si era formato un nuovo individualismo di massa del consumo senza limiti che avrebbe conformato l’idea del benessere come possesso illimitato di oggetti usa e getta.
Questo giudizio così severo vuole aiutare soltanto a capire perché oggi non riusciamo a costruire alcun senso comunitario di appartenenza che non sia legato all’effimera connessione nelle reti dei social network. Forse ciò si spiega con questa sotterranea pulsione alla soddisfazione immediata del bisogno e con la generale infantilizzazione della società. Una infantilizzazione che ha spento totalmente la spinta allo sviluppo della democrazia partecipata che fu pure una componente positiva dell’intera fenomenologia del ’68.
Negli anni ’70, infatti, accanto al movimento degli studenti, si sviluppò nella società italiana una straordinaria volontà di impegno personale nella organizzazione della scuola, della sanità e della giustizia, alla quale fu aggiunto l’aggettivo “democratico” per segnare una nuova fase dell’attivismo sociale. Proliferavano i comitati di quartiere e le organizzazioni di base che si proponevano di inserire le regole democratiche nella vita di istituzioni sclerotizzate.
L’insieme dei fenomeni, tuttavia, fu contrassegnata da una sorta di anticipazione dell’anti-politica che assumeva i caratteri di un vero e proprio disprezzo e ripulsa dei partiti della sinistra italiana ed europea, accusati di aver ceduto alle sirene del capitalismo riformabile. Come dirigente comunista mi trovai più volte nell’amara situazione di essere accusato di servire i padroni e di tradire la classe operaia. Non era però un fatto che riguardava la mia persona, ma un atteggiamento generale che tendeva a delegittimare i partiti storici: insomma un’anticipazione della componente anti-politica che oggi impedisce di produrre una nuova narrazione delle vicende del nostro Paese a partire dalla prima guerra mondiale.
A distanza di anni registravo in un libro, intitolato L’individualismo proprietario (1987), che gli anni trascorsi avevano prodotto una forma di individualismo povero, di mero consumo -come scriveva in quegli anni O’Connor- fondato sulla universale appropriabilità di tutto ciò che veniva prodotto capitalisticamente. Non si era formata, invece, alcuna nuova idea di bene comune e nessuno aveva posto il problema dei limiti naturali allo spreco delle risorse. Ho scritto in quegli anni che si era formato un nuovo individualismo di massa del consumo senza limiti che avrebbe conformato l’idea del benessere come possesso illimitato di oggetti usa e getta.
Questo giudizio così severo vuole aiutare soltanto a capire perché oggi non riusciamo a costruire alcun senso comunitario di appartenenza che non sia legato all’effimera connessione nelle reti dei social network. Forse ciò si spiega con questa sotterranea pulsione alla soddisfazione immediata del bisogno e con la generale infantilizzazione della società. Una infantilizzazione che ha spento totalmente la spinta allo sviluppo della democrazia partecipata che fu pure una componente positiva dell’intera fenomenologia del ’68.
Negli anni ’70, infatti, accanto al movimento degli studenti, si sviluppò nella società italiana una straordinaria volontà di impegno personale nella organizzazione della scuola, della sanità e della giustizia, alla quale fu aggiunto l’aggettivo “democratico” per segnare una nuova fase dell’attivismo sociale. Proliferavano i comitati di quartiere e le organizzazioni di base che si proponevano di inserire le regole democratiche nella vita di istituzioni sclerotizzate.
L’insieme dei fenomeni, tuttavia, fu contrassegnata da una sorta di anticipazione dell’anti-politica che assumeva i caratteri di un vero e proprio disprezzo e ripulsa dei partiti della sinistra italiana ed europea, accusati di aver ceduto alle sirene del capitalismo riformabile. Come dirigente comunista mi trovai più volte nell’amara situazione di essere accusato di servire i padroni e di tradire la classe operaia. Non era però un fatto che riguardava la mia persona, ma un atteggiamento generale che tendeva a delegittimare i partiti storici: insomma un’anticipazione della componente anti-politica che oggi impedisce di produrre una nuova narrazione delle vicende del nostro Paese a partire dalla prima guerra mondiale.
I
giovani del ’68, rimasti orfani della utopia libertaria che si
proponeva un continuo nuovo inizio della storia senza radici e senza
appartenenze, senza vera identità e vere differenze, in realtà
cominciavano a neutralizzare l’idea del conflitto sociale come conflitto
di interessi e di valori e trasformavano persino il lessico quotidiano
delle nuove generazioni.
Al posto di “tempo” la parola “flusso”, al posto di “popolo” la parola “moltitudine”, al posto di partecipazione libera e responsabile delle persone, la vaga idea di un “comune” che non è né pubblico né privato. Di tutte le speranze di quegli anni e anche delle forme nuove di democrazia è rimasto soltanto un nuovo linguaggio stereotipo che, accompagnato dalla rivoluzione informatico-capitalistica, dalla globalizzazione e dalle innovazioni tecnologiche, ha completamente frantumato il tessuto sociale, rendendo negativa ogni nozione di vincolo e di legame, di fedeltà e responsabilità.
È davvero una strana coincidenza che, a partire dagli anni ’70, cominci un costante declino della sinistra in Italia e nel mondo, e che l’offensiva neoliberista riesca a camuffare l’istanza libertaria in uno straordinario e inaudito potere dell’impresa. Marx, negli Scritti giovanili, aveva previsto che, senza un processo di maturazione della coscienza popolare, il comunismo sarebbe potuto diventare una forma di comunismo rozzo e primitivo, in cui anche le donne vengono messe in comune in una forma di generale prostituzione mercificata e in una alienazione senza freno della personalità individuale.
Non è un caso che molte ideologie e linguaggi contemporanei, che si ispirano alla cosiddetta biopolitica e descrivono la società come assoggettata nella forma vivente ad un astratto potere manipolativo, attacchino proprio il concetto di “persona”. Concetto rimasto sepolto dalle nuove parole che tendono a screditare ogni forma di responsabilità individuale.
Credo che tutti coloro che hanno vissuto queste esperienze e che si interrogano sulla crisi attuale, debbano chiedersi quali siano le radici di questa trasformazione della massa degli uomini in bambini viziati che cercano soltanto il modo di esibirsi e di essere applauditi.
Come vedi, caro amico Giarrizzo, ti restituisco la palla, anche per cercare di capire specificamente perché il nostro Ateneo, che in quegli anni sembrava un polo di attrazione e di elaborazione innovativa, sia diventato la palude mediocre di questi anni e di questi giorni di nuovo, apparente tumulto.
da: www.sussidiario.net
Al posto di “tempo” la parola “flusso”, al posto di “popolo” la parola “moltitudine”, al posto di partecipazione libera e responsabile delle persone, la vaga idea di un “comune” che non è né pubblico né privato. Di tutte le speranze di quegli anni e anche delle forme nuove di democrazia è rimasto soltanto un nuovo linguaggio stereotipo che, accompagnato dalla rivoluzione informatico-capitalistica, dalla globalizzazione e dalle innovazioni tecnologiche, ha completamente frantumato il tessuto sociale, rendendo negativa ogni nozione di vincolo e di legame, di fedeltà e responsabilità.
È davvero una strana coincidenza che, a partire dagli anni ’70, cominci un costante declino della sinistra in Italia e nel mondo, e che l’offensiva neoliberista riesca a camuffare l’istanza libertaria in uno straordinario e inaudito potere dell’impresa. Marx, negli Scritti giovanili, aveva previsto che, senza un processo di maturazione della coscienza popolare, il comunismo sarebbe potuto diventare una forma di comunismo rozzo e primitivo, in cui anche le donne vengono messe in comune in una forma di generale prostituzione mercificata e in una alienazione senza freno della personalità individuale.
Non è un caso che molte ideologie e linguaggi contemporanei, che si ispirano alla cosiddetta biopolitica e descrivono la società come assoggettata nella forma vivente ad un astratto potere manipolativo, attacchino proprio il concetto di “persona”. Concetto rimasto sepolto dalle nuove parole che tendono a screditare ogni forma di responsabilità individuale.
Credo che tutti coloro che hanno vissuto queste esperienze e che si interrogano sulla crisi attuale, debbano chiedersi quali siano le radici di questa trasformazione della massa degli uomini in bambini viziati che cercano soltanto il modo di esibirsi e di essere applauditi.
Come vedi, caro amico Giarrizzo, ti restituisco la palla, anche per cercare di capire specificamente perché il nostro Ateneo, che in quegli anni sembrava un polo di attrazione e di elaborazione innovativa, sia diventato la palude mediocre di questi anni e di questi giorni di nuovo, apparente tumulto.
da: www.sussidiario.net
Postato da: giacabi a 09:59 |
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comunismo, barcellona
12 ottobre 2010
LA TESTIMONIANZA di Pietro Barcellona
Io, folgorato sulla via del Muro
***
Dopo
il crollo del muro di Berlino, nel 1989, una depressione devastante si
impadronì dei miei pensieri, costringendomi per quasi due anni ad una
sorta di assenza vegetativa. Certamente era
un crollo della mia comunità di affetti ma anche delle idealizzazioni
effimere che avevo costruito in quegli anni per rendere omaggio ad un
ideale dell’Io in cui si alienavano la mia libertà e la mia creatività.
La delusione per il perduto orizzonte del progresso umano e il contatto costante con alcuni amici, che mi aprirono le porte al pensiero della crisi e alla cultura del pessimismo, mi fecero incontrare il mostro contro il quale avevo per tanti anni combattuto inutilmente: il nichilismo. Non il nichilismo dei filosofi, la critica della metafisica e l’alienazione originaria dell’Occidente di cui parla Emanuele Severino, ma il senso della vuotezza, una fascinazione del cupio dissolvi che attanagliava il mio corpo come una camicia di forza. Le alternative razionalizzanti alla fine del messianesimo mondano della rivoluzione proletaria non davano nessuna risposta, come non la davano i nuovi saperi emergenti, che attraverso lo studio della mente ripropongono l’evoluzionismo come unica spiegazione possibile delle metamorfosi della vita.
Ci sono molte cose convincenti nell’evoluzionismo, ma c’è un’obiezione dell’esistenza che si ribella alla doppia contingenza del nascere per caso e del vivere per funzionare come parti di un processo che, però, può fare anche a meno di te. Evoluzionismo, casualità e funzionalismo non consentono di attribuire alcun valore in sé a nessun evento della nostra esistenza quotidiana; tutto ciò che facciamo e siamo finisce per essere il mero risultato di una sequenza di fatti casuali e funzionali, senza alcuna dignità. Può sembrare paradossale, ma casualità e funzionalismo non sono contraddittori: il caso lascia accadere gli eventi nella loro successione lineare e la funzione li seleziona in vista della loro utilità nell’evoluzione successiva. Io non esisto prima perché sono una pura possibilità e non esisto dopo perché sono un mero supporto di una catena successiva. Il venire al mondo di un essere umano non ha nessun significato nella sequenza dell’evoluzione.
E non è tanto per rivendicare la mia illusoria libertà di decidere o il significato della mia volontà di esistere che mi rivolto contro l’evoluzionismo, ma per la ragione che non accetto, o meglio, che non riesco ad accettare di essere soltanto una particella insignificante del moto incessante della materia vivente. In fondo, anche l’evoluzionismo è nichilista, poiché il nichilismo non riguarda la possibilità della metafisica o i rapporti che la ragione istituisce fra essere e divenire secondo uniformità calcolabili, ma la negazione del «valore» come segno di una irriducibilità o di un’eccedenza rispetto alla neurobiologia. Senza il «valore», e il soggetto che lo incarna, non si capisce neppure in virtù di che cosa siamo abilitati a pensare, a parlare e ad interrogarci. Ma il «chi è» che diviene consapevole dell’insignificanza cosmica non si lascia ridurre ad una pura increspatura della stessa insignificanza. Nichilismo, evoluzionismo e relativismo conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale.
Attraversando gli strati della mia esperienza, ripercorrendo le cose che ho fatto, gli amori e le passioni che ho vissuto, mi sono persuaso che la mia destinazione sia da sempre stata segnata dal profondo desiderio di sconfiggere le potenze che tendono all’annichilimento di ogni significato. Sembra naturale che, a questo punto della storia, si torni a riflettere sul tema che ha segnato le vicende dell’Occidente: il rapporto fra l’umano e il divino, poiché solo la presenza del divino nell’umano potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle.
L’ineludibile questione di Dio si è presentata, così, alla mia mente sotto l’aspetto apparentemente innocuo dei preti che ho incontrato e di uno in particolare che mi ha chiesto di cercare insieme, senza dare nulla per scontato. Certo, l’immagine di Dio può apparire un punto fermo nella precipitosa corsa nella quale giorno per giorno siamo coinvolti. Ho letto molti libri su come e perché gli esseri umani hanno pensato che la terra e il sole fossero creati da un dio onnipotente e onnisciente. Tutta la storia della nostra civiltà, a partire dalle tradizioni più antiche dell’Egitto e della Mesopotamia, testimonia come gli esseri umani abbiano immaginato di essere salvati dal pericolo della morte da un dio che, dall’alto del proprio trono, ogni tanto volgesse lo sguardo a ciò che accadeva sulla terra. Ma confesso che questo percorso fra storia e teologia mi restituisce una figura divina troppo metafisica per non apparire, come ha scritto di recente Lopez, una pura proiezione psicologica degli esseri umani.
Infatti, in questa visione del Dio onnipotente, l’umano e il divino rimangono due poli troppo distanti per consentirci di accettare il dolore e la sofferenza, le malattie e la morte, le stragi e i genocidi. La storia umana non può essere «salvata» – non nel senso di una redenzione ma nel senso della comprensione del significato di ciò che è accaduto e accade – senza che il divino innervi intimamente le vicende terrene degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Ecco perché sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo e dalla sua predicazione nella terra di Galilea. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto fra Dio e mondo, fra divino e umano, una discontinuità assoluta rispetto a tutte le ipotesi di configurazione del Dio delle religioni. Il Verbo incarnato, l’essere Figlio dell’uomo e figlio di Dio, che assume i connotati di una persona fisica, in un tempo determinato, in un luogo preciso e assolutamente fuori anche dalla stessa attesa messianica delle scritture bibliche, è una rottura totale della continuità del tempo storico.
La nascita di Cristo, come evento impensabile e impensato nelle sue caratteristiche concrete, ci immerge in una temporalità che non è il flusso ordinato degli avvenimenti, ma una dimensione di contestualità di presenza e pienezza che, non a caso, dà origine a un nuovo calcolo dei giorni e degli anni. Cristo è come il punto zero che a lungo i matematici hanno cercato di rintracciare e che non può essere ricondotto allo schema dell’inizio e della fine. Eppure, questa trascendenza incarnata appare profondamente mischiata alla carne e al sangue dell’uomo. Solo questa contestualità può consentire di parlare di Cristo come Persona, poiché, come sostiene ancora Lopez, la Persona non è la segmentazione dell’Io e dell’Es, della natura e della cultura, ma la consapevolezza unitaria di una molteplicità che si integra nelle diverse parti umane e divine.
Quando mi capita di assistere alla proiezione dello straordinario film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo ho la sensazione che quella figura biancovestita pronunci frasi e parole che vanno oltre la filosofia greca e la sapienza orientale, per arrivare fin dentro al cuore delle persone, e non ci si può stupire più che quell’uomo sia Dio e che Dio sia un uomo.
La delusione per il perduto orizzonte del progresso umano e il contatto costante con alcuni amici, che mi aprirono le porte al pensiero della crisi e alla cultura del pessimismo, mi fecero incontrare il mostro contro il quale avevo per tanti anni combattuto inutilmente: il nichilismo. Non il nichilismo dei filosofi, la critica della metafisica e l’alienazione originaria dell’Occidente di cui parla Emanuele Severino, ma il senso della vuotezza, una fascinazione del cupio dissolvi che attanagliava il mio corpo come una camicia di forza. Le alternative razionalizzanti alla fine del messianesimo mondano della rivoluzione proletaria non davano nessuna risposta, come non la davano i nuovi saperi emergenti, che attraverso lo studio della mente ripropongono l’evoluzionismo come unica spiegazione possibile delle metamorfosi della vita.
Ci sono molte cose convincenti nell’evoluzionismo, ma c’è un’obiezione dell’esistenza che si ribella alla doppia contingenza del nascere per caso e del vivere per funzionare come parti di un processo che, però, può fare anche a meno di te. Evoluzionismo, casualità e funzionalismo non consentono di attribuire alcun valore in sé a nessun evento della nostra esistenza quotidiana; tutto ciò che facciamo e siamo finisce per essere il mero risultato di una sequenza di fatti casuali e funzionali, senza alcuna dignità. Può sembrare paradossale, ma casualità e funzionalismo non sono contraddittori: il caso lascia accadere gli eventi nella loro successione lineare e la funzione li seleziona in vista della loro utilità nell’evoluzione successiva. Io non esisto prima perché sono una pura possibilità e non esisto dopo perché sono un mero supporto di una catena successiva. Il venire al mondo di un essere umano non ha nessun significato nella sequenza dell’evoluzione.
E non è tanto per rivendicare la mia illusoria libertà di decidere o il significato della mia volontà di esistere che mi rivolto contro l’evoluzionismo, ma per la ragione che non accetto, o meglio, che non riesco ad accettare di essere soltanto una particella insignificante del moto incessante della materia vivente. In fondo, anche l’evoluzionismo è nichilista, poiché il nichilismo non riguarda la possibilità della metafisica o i rapporti che la ragione istituisce fra essere e divenire secondo uniformità calcolabili, ma la negazione del «valore» come segno di una irriducibilità o di un’eccedenza rispetto alla neurobiologia. Senza il «valore», e il soggetto che lo incarna, non si capisce neppure in virtù di che cosa siamo abilitati a pensare, a parlare e ad interrogarci. Ma il «chi è» che diviene consapevole dell’insignificanza cosmica non si lascia ridurre ad una pura increspatura della stessa insignificanza. Nichilismo, evoluzionismo e relativismo conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale.
Attraversando gli strati della mia esperienza, ripercorrendo le cose che ho fatto, gli amori e le passioni che ho vissuto, mi sono persuaso che la mia destinazione sia da sempre stata segnata dal profondo desiderio di sconfiggere le potenze che tendono all’annichilimento di ogni significato. Sembra naturale che, a questo punto della storia, si torni a riflettere sul tema che ha segnato le vicende dell’Occidente: il rapporto fra l’umano e il divino, poiché solo la presenza del divino nell’umano potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle.
L’ineludibile questione di Dio si è presentata, così, alla mia mente sotto l’aspetto apparentemente innocuo dei preti che ho incontrato e di uno in particolare che mi ha chiesto di cercare insieme, senza dare nulla per scontato. Certo, l’immagine di Dio può apparire un punto fermo nella precipitosa corsa nella quale giorno per giorno siamo coinvolti. Ho letto molti libri su come e perché gli esseri umani hanno pensato che la terra e il sole fossero creati da un dio onnipotente e onnisciente. Tutta la storia della nostra civiltà, a partire dalle tradizioni più antiche dell’Egitto e della Mesopotamia, testimonia come gli esseri umani abbiano immaginato di essere salvati dal pericolo della morte da un dio che, dall’alto del proprio trono, ogni tanto volgesse lo sguardo a ciò che accadeva sulla terra. Ma confesso che questo percorso fra storia e teologia mi restituisce una figura divina troppo metafisica per non apparire, come ha scritto di recente Lopez, una pura proiezione psicologica degli esseri umani.
Infatti, in questa visione del Dio onnipotente, l’umano e il divino rimangono due poli troppo distanti per consentirci di accettare il dolore e la sofferenza, le malattie e la morte, le stragi e i genocidi. La storia umana non può essere «salvata» – non nel senso di una redenzione ma nel senso della comprensione del significato di ciò che è accaduto e accade – senza che il divino innervi intimamente le vicende terrene degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Ecco perché sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo e dalla sua predicazione nella terra di Galilea. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto fra Dio e mondo, fra divino e umano, una discontinuità assoluta rispetto a tutte le ipotesi di configurazione del Dio delle religioni. Il Verbo incarnato, l’essere Figlio dell’uomo e figlio di Dio, che assume i connotati di una persona fisica, in un tempo determinato, in un luogo preciso e assolutamente fuori anche dalla stessa attesa messianica delle scritture bibliche, è una rottura totale della continuità del tempo storico.
La nascita di Cristo, come evento impensabile e impensato nelle sue caratteristiche concrete, ci immerge in una temporalità che non è il flusso ordinato degli avvenimenti, ma una dimensione di contestualità di presenza e pienezza che, non a caso, dà origine a un nuovo calcolo dei giorni e degli anni. Cristo è come il punto zero che a lungo i matematici hanno cercato di rintracciare e che non può essere ricondotto allo schema dell’inizio e della fine. Eppure, questa trascendenza incarnata appare profondamente mischiata alla carne e al sangue dell’uomo. Solo questa contestualità può consentire di parlare di Cristo come Persona, poiché, come sostiene ancora Lopez, la Persona non è la segmentazione dell’Io e dell’Es, della natura e della cultura, ma la consapevolezza unitaria di una molteplicità che si integra nelle diverse parti umane e divine.
Quando mi capita di assistere alla proiezione dello straordinario film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo ho la sensazione che quella figura biancovestita pronunci frasi e parole che vanno oltre la filosofia greca e la sapienza orientale, per arrivare fin dentro al cuore delle persone, e non ci si può stupire più che quell’uomo sia Dio e che Dio sia un uomo.
PIetro Barcellona
Postato da: giacabi a 17:48 |
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barcellona
Barcellona:
il vero declino dell’Italia? Uomini senza "patria"
giovedì 22 luglio 2010
La
politica vive giorni impopolari. La procura di Caltanissetta, che ha
riaperto i fascicoli sulle stragi di mafia dei primi anni ’90, minaccia
la rivelazione imminente di verità sconvolgenti, chiedendosi se «la
politica» sarebbe capace di portarne il peso. Nel dubbio, meglio
aspettare. Un grande giornale di sinistra attacca una delle realtà
politiche più virtuose del paese, ma sulla base di ragioni di
appartenenza ideale che esulano dalla politica.
Più raffinata è stata l’analisi di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere,
alla quale è seguito un dibattito. L’Italia è in declino perché è un
«paese senza politica». Prende le mosse invece Pietro Barcellona da un
recente articolo di Barbara Spinelli sul nostro declino industriale.
«Non mi convincono diverse cose. Ma qui non si tratta soltanto di fare
una critica tradizionale al capitalismo o alla politica», dice. Occorre
spingersi più addentro la grande crisi che stiamo vivendo. Che sarà
anche politica, ma la politica, dice Barcellona, viene dopo. Prima
vengono le persone. E il lavoro. «Chi lavora ha smarrito il senso del
lavoro - dice Barcellona -. Ma questo è l’esito della caduta di un
qualsiasi tipo di adesione alla vita». Ecco perché a farci superare la
crisi non potranno essere gli intellettuali, con le loro analisi, ma
«piccoli gruppi». Gruppi creativi, fatti di persone che «mettono in
gioco una trascendenza umana storica».
Professore,
il futuro del paese appare pieno di incertezza. Per Galli della Loggia
manca la politica. Per Barbara Spinelli manca un pensiero, anche
economico, capace di alternative, di non rassegnarsi cioè al «dogma» del
presente.
Ci
sono fenomeni di declino e di degrado evidenti. Penso che tuttavia la
prima ragione di incertezza sia nella crisi che sta attraversando lo
stesso Occidente, e che noi viviamo in modo drammatico per una serie di
ragioni, anche storiche, che riguardano il cuore del nostro modello di
vita. Non si tratta più soltanto di mettere in questione il capitalismo
economico e finanziario, ma di chiedersi se anche il nostro modello
produttivo non sia al tramonto.
Non
si direbbe: proprio l’Italia, grazie al suo tessuto di piccole e medie
imprese, sembra aver superato la crisi meglio di tanti altri paesi che
davano lezioni di sviluppo.
Ma
le piccole e le medie imprese che cosa sono, se non le persone che le
fanno? Non si tratta più di fare l’elogio delle maestranze e
dell’inventiva degli imprenditori italiani giustamente noti in tutto il
mondo. Prima c’era un paese forte di un’identità definita, che nel
lavoro esprimeva una forma non solo di ricerca dei mezzi per vivere, ma
anche di cura di sé e di attenzione alla società. C’era nel lavoro degli
italiani, insomma, qualcosa di più della semplice ricerca della
retribuzione. Oggi questo quid va scomparendo.
Lei sembra fare un discorso ampio, che comprende la storia del nostro paese dal dopoguerra fino ad oggi.
Il
grande capitalismo, le industrie italiane e di stato che erano nelle
classifiche italiane e internazionali, si sono ridimensionate o sono
addirittura scomparse. Il nostro tessuto di medie e piccole imprese
certamente è una delle ragioni per cui questo paese ancora non è morto.
Esso alimenta occupazione e legami sociali, ma tutto questo è una realtà
a macchia di leopardo, gli stessi distretti sono in difficoltà e il
loro andamento non rende completamente la situazione di diffusa
difficoltà che si registra nel paese.
Dove sta il punto?
Nella
soggettività di chi lavora. Come vede non ne faccio un problema di
disoccupazione, anche se la delocalizzazione produttiva presenta
risvolti drammatici. Il
vero problema è lo «scollamento» totale di chi lavora rispetto al
proprio lavoro. Un lavoratore non può non sapere cosa produce, per chi
produce e «perché» produce. Oggi secondo me in pochi saprebbero rispondere e le conseguenze di questo fatto rischiano di essere terribili.
Sta
dicendo, in altre parole, che mentre crediamo di essere usciti dalla
crisi, una crisi ben più grave potrebbe essere alle porte. È così?
Il
grande problema di oggi è la caduta di un qualsiasi tipo di adesione
alla vita. La situazione che stiamo vivendo mi ricorda quello che scrive
Peter Brown nel suo studio dedicato al crollo dell’impero romano, che
non si è sfaldato innanzitutto per una crisi politica o territoriale ma
di motivazioni. Il cittadino romano della decadenza non credeva più
all’impero, non sapeva più per quale motivo partecipare alla vita
collettiva. Per molti versi è una situazione che ricorda quella attuale.
Siamo vittime - e prigionieri - di una forma allucinata di godimento
che rompe ogni legame, non fa più vedere l’insieme, rende invisibile la
totalità dei rapporti e rescinde, giorno per giorno, il legame con la
vita.
Quali sono le conseguenze di questo declino?
Si
è progressivamente privatizzato, in modo meschino e mediocre, il nostro
immaginario. Non si proietta più verso il futuro, con una meta non solo
per sé ma anche per gli altri e per le nuove generazioni. Siamo alla
mercé di un presente senza prospettive. Ecco perché, se anche
riuscissimo ad elaborare le strategie più raffinate, potremmo fare ben
poco. La rivoluzione industriale ha cambiato i costumi della società, ma
è stata una rivoluzione caratterizzata da alcune coordinate
circoscritte: il territorio, la famiglia, la parrocchia, il quartiere.
Ora la nostra malattia spirituale ci ha reso privi di un collante
identitario. Ha «frammentato» la mente delle persone che vivono e
lavorano. Parliamo di una crisi verso la quale ben poco possono fare i
Berlusconi, le Marcegaglia e i Montezemolo.
Torniamo alle cause della «malattia spirituale». Dal suo discorso par di capire che l’Italia del boom economico era diversa.
Sì.
Il dopoguerra è stato per tutti un periodo entusiasmante, il desiderio
di costruzione e di cooperazione era palpabile. Lo si vedeva anche al
sud, che non era allora il «deserto dei Tartari» che si è visto dopo.
Quello spirito è andato perduto. Ma anche negli anni ’70, così carichi
di ambiguità per la rivolta giovanile piccolo-borghese che li ha segnati
- e che io non ho mai amato - c’è stato un periodo di grande
entusiasmo. Forse proprio lì però vanno cercate le cause storiche della
nostra crisi.
Perché?
Perché sono
gli anni della rivolta contro i padri. La profezia di Alexander
Mitscherlich, secondo la quale saremmo andati verso una società senza
padri, si è avverata e spiega quello che sta ora sotto i nostri occhi:
una società frantumata in atomi senza nascita, uomini che non sanno
perché vivono e lavorano. E non lo sanno perché non riconoscono più di
essere nati da qualcuno. Ma senza padre è pregiudicata la nascita e
dunque il perché di tutto: del posto di lavoro, dei partiti, del paese,
degli altri. L’idea di avere un debito verso il passato, che possa anche
essere di stimolo per guardare al futuro del nostro mondo, è stata
cancellata.
Non
trova, come scrive Galli della Loggia, che il vuoto sia determinato
anche dalla scomparsa della politica, «vero cuore duro - scrive
l’editorialista - della nostra crisi»?
No,
la politica viene dopo. Per fare politica le persone debbono stare
insieme, ma per stare insieme debbono lavorare insieme, trovare una
sintesi. Un fattore chiave di questa sintesi è la famiglia. La politica
non è un artefatto astratto della società umana. La società prima si
costruisce nelle pratiche collettive e poi si dà una rappresentazione
politica. Oggi ad essere in crisi è il rapporto con ciò che vedo, che
tocco, che consumo, e il cui senso non riesco più a collegare con una
comunità operosa.
Traduca, professore.
Nessuno,
ai tempi della Fiat 500 - la prima però! - poteva guidarla senza
pensare alle fabbriche di Torino, a chi vi lavorava e alle decisioni di
Agnelli e Valletta. Oggi i popoli dei paesi che falliscono non sanno
realmente «perché», dal punto di vista della concretezza della loro
esistenza.
A questo punto la domanda è d’obbligo: dove passa la via per uscire dalla crisi?
Credo
che occorra ripartire dai piccoli gruppi. Ogni analisi che prescinde da
un riferimento al ruolo che possono avere le persone in carne e ossa, è
destinata ad essere nulla più che un gioco di parole. Solo piccoli
gruppi possono agire, allargando la loro attività di comunicazione e con
essa il loro essere. Non importa da chi sono composti: uno può fare
l’ingegnere elettronico, un altro il filosofo del linguaggio, un altro
l’idraulico. Importa ritrovare il senso della comunità e superare il
modello individualistico meschino che ci distrugge.
In
che cosa «ritrovare il senso della comunità» è essenziale per ridare
uno spessore al soggetto, e come può il suo discorso non essere
equivocato in senso ideologico?
In effetti preferisco parlare di gruppi, perché «comunità» può essere un termine obsoleto. Il
problema è cominciare a rendersi conto che se un individuo resta
isolato, pensa meno ed è meno creativo. Nei gruppi l’individualità non
si mortifica ma si esalta, perché la persona trova il suo pieno valore
non nell’isolamento ma nell’essere in relazione. Dal punto di vista
teorico lo sentiamo ogni giorno, basti pensare alla retorica
dell’«altro» che continuamente ci sommerge. Ma nella pratica tutto
questo manca, perché gli individui appaiono incapaci di aprirsi davvero
ad una esperienza di differenza.
Nel
suo articolo, Barbara Spinelli invece afferma che senza alternative non
c’è futuro. «C’è arretratezza - scrive - anche nel mondo degli
imprenditori, dove a dominare sono spesso forze timorose del futuro, e
delle conversioni montali e produttive che il futuro comporta».
In questo ha ragione, perché se pensiamo che la storia è finita non ha più senso far nulla. Ma il
progresso economico, scientifico e tecnologico non solo non ha risposto
al bisogno di futuro degli uomini, li ha anche ingannati. Non si può
impunemente scambiare il progresso con Dio. Il bisogno di Dio può non
essere vissuto in termini cattolici, ma non può essere ignorato il
bisogno umano di una trascendenza rispetto al presente. C’è, come non
mai, la necessità di ritrasformare l’istante, quello della nostra
«triste allegria» ottusa ed istantanea, in durata, sia a livello
personale che comunitario. Per questo insisto sul gruppo: ogni gruppo
mette in gioco una trascendenza umana storica.
Cosa rimprovera all’eterno dibattito sulla «crisi morale» del paese?
Il
non andare alla radice. La crisi che io avverto non è quella della
politica o della costruzione di alternative, ma l’estinzione della
passione di vivere. Non si riesce a capire che una società vive non
perché dibatte di politica o si inventa futuri possibili, ma perché
possiede uno «statuto antropologico», vive cioè di una rappresentazione
di cos’è l’uomo. Questa rappresentazione, la nostra società, l’ha persa.
(Federico Ferraù)
Postato da: giacabi a 20:13 |
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barcellona
LETTURE/
La domanda di senso,
un "discorso inutile" e perciò più vero
martedì 15 giugno 2010
Elogio del discorso inutile
è l’opera che meglio delle altre caratterizza la svolta culturale e
spirituale che ha segnato gli ultimi vent’anni della vita di Pietro
Barcellona. Dalla militanza nel Partito comunista, dopo il crollo del
muro di Berlino e la conseguente drammatica evidenza delle degenerazioni
dei regimi comunisti strumentalmente legati alla lotta del
proletariato, attraverso il travaglio di una revisione profonda della
sua personalità, perviene come a una sorta di “resurrezione della
consapevolezza di sé”, nella quale tutto è recuperato, soprattutto il
suo passato, nei desideri più profondi che l’avevano contrassegnato.
Importanti, direi decisivi, sono stati per lui gli incontri fatti.
«Non
si può comprare a nessun prezzo la gioia di essere vivi dopo una notte
di tempestosa trasvolata nel cielo. Il “senza prezzo” dell’eccedenza è
il valore dei rapporti fra l’io e il mondo, fra sé e l’altro, che non si
può ridurre a valore di scambio e che non è calcolabile con criteri di misura utilitaristici» (p. 16).
Ecco si potrebbe dire che la storia di sé che Barcellona vuole raccontare è un’esaltazione dell’incalcolabile,
come senso e fondamento di speranza per l’esistenza umana,
dell’“irruzione dell’impensato” e dell’“esperienza dell’eccedenza”, che
possono essere descritti solo con il “linguaggio incommensurabile della gioia della vita” o, se vogliamo, del discorso inutile.
È una opposizione netta contro la pretesa di ricondurre tutto a ciò che è spiegabile e al linguaggio scientifico come onnicomprensivo, che nell’epoca attuale sembra la sola via per l’accesso a una qualche verità. La soggettività umana nella sua esigenza di comprendere e raccontare la realtà non si lascia costringere all’interno di una descrizione o spiegazione scientifica di essa. È necessario, dunque, dare spazio a discorsi “alternativi”. In primo luogo al discorso psicoanalitico.
«Ho maturato, nel corso della mia vita e delle mie esperienze, la profonda convinzione che il discorso psicoanalitico non risponda ai canoni della ragione calcolante
e che non ci siano risultati pratici causalmente imputabili a una
qualche modificazione fisiobiologica. […] Per questo credo che la
psicoanalisi tenda a realizzare una comprensione del mondo e di se stessi, non già ad apprendere tecniche comportamentali utili ad agire in una determinata situazione» (p. 68).
Se la psicanalisi tende a realizzare “una comprensione del mondo e di se stessi”, essa apre inevitabilmente al discorso filosofico o alla ricerca dell’originario.
Quel discorso - confessa Barcellona - che fin da ragazzo lo ha
attratto, con una modalità quasi “socratica”, e che lo ha segnato poi
per tutta la vita.
A questo punto l’autore si chiede perché la filosofia nel corso della storia abbia smesso di essere un discorso inutile, cioè “inteso a comprendere se stessi” e si sia tramutata in discorso strumentale, cioè atto “a spiegare il perché degli eventi che accadono lungo il cammino della nostra esistenza. Ed ecco la risposta:
«La
tragica esperienza del fallimento del possesso della verità assoluta,
senza ombre né misteri, ha spinto i filosofi a sostituirla con la
“certezza” acquisita attraverso la sperimentazioni delle ipotesi, come
risultato di un metodo “scientifico”, fondato su regole precise. Mentre
il discorso filosofico finisce con il coincidere completamente con la
filosofia della scienza, bisognerebbe invece ripartire dal rovesciamento
del rapporto tra pensiero e vita effettiva e tornare a recuperare
l’“inutile” elementarità della filosofia come “vita che si sa”, per
comprendere che la “verità” sta nell’esperienza immediata che ciascuno
fa del rapporto con sé, gli altri e il mondo» (p. 104).
Cosa c’è, dunque, dietro la riduzione della domanda sullo specifico umano a logica, epistemologia e teoria della conoscenza?
«È un’opera di rimozione del problema della finitezza degli “esseri mortali”».
È
la negazione da parte dell’uomo dell’appartenenza originaria e
costitutiva del suo essere che ci ha portato all’epoca della “morte di
Dio” cui è seguita la “morte dell’uomo”.
«Come
conseguenza estrema della volontà di uccidere dio, oggi, con le teorie
post-umane, neuro scientiste e cognitiviste, siamo di fronte ad un
tentativo di “uccidere l’uomo”, mettendo in crisi la dimensione della
“soggettività spirituale” che ne ha accompagnato la vicenda storica» (p. 125).
Eppure nel cuore di ogni essere umano rimane “il
senso profondo della dimensione religiosa” come “ricerca di una via di
salvezza, che non è soltanto la speranza di un perdono per le proprie
colpe, ma soprattutto il desiderio di conservare, oltre la soglia
dell’oscuro silenzio, gli affetti e il senso della propria esistenza” (p. 131).
A
questa esigenza viene incontro in modo impensato e impensabile il
cristianesimo per la straordinaria innovazione che Cristo introduce
nella storia della condizione umana.
«L’evento
della nascita di Cristo è un sussulto dell’Universo che si ribella al
proprio destino mortale; è un’energia che non rimanda a null’altro che
alla propria manifestazione, che irrompe nella storia umana e ne
sospende il flusso, perché la sua piena presenza non è pensabile se non
come evento istantaneo, senza presupposti» (pp. 134-35).
Nella conclusione dell’opera l’autore confessa che il discorso religioso, che trova nell’annuncio dell’evento cristiano il suo culmine di significato per l’esistenza umana e la sua salvezza dal niente, è quel discorso inutile nel quale si compiono tutti gli altri discorsi, perché
«l’essere umano non può sapersi, nel suo essere “fuori misura”, nel suo essere sottoposto alle leggi del tempo e della morte, se non incontra nella propria esistenza l’esplosione dell’Evento assoluto, in cui il figlio dell’uomo e il figlio di Dio si ricongiungono nell’amore» (p. 148).
Confessione che mi commuove perché mi riguarda personalmente. Barcellona, infatti, riconosce che questo incontro per lui è accaduto attraverso “un prete, di cui sono diventato amico in questi ultimi anni” (p. 147).
Postato da: giacabi a 08:24 |
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barcellona, ventorino
|
Postato da: giacabi a 07:43 |
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barcellona
da Avvenire del 22 aprile 2009
L’uomo-macchina, idolo della scienza di Pietro Barcellona
***
Non
c’è dubbio che oggi ci troviamo di fronte a un mutamento radicale del
funzionamento mentale e della configurazione lessicale del mondo, che
richiederebbe un approccio completamente nuovo alla strategia d’analisi
della realtà e dei modi dell’apprendimento. Non riesco a parlare con un
giovane immerso nella logica dell’istantaneità sui temi della tradizione
storica, della lettura per successione di eventi. C’è uno scarto
linguistico che rischia la rottura della comunicazione fra generazioni.
In realtà noi
non parliamo coi nostri figli perché essi vivono in un altro universo
linguistico, perché la società si è disintegrata sotto l’azione dei
mutamenti epocali che vengono rappresentati come globalizzazione e
pensiero unico, ma che ancora non sono compresi in una adeguata
rappresentazione del mondo. L’uomo
ha dimenticato di essere un granello infinitesimale rispetto
all’immensità sconosciuta dell’universo e si è arrogato il potere di
creare la vita senza la vita.
Certo,
i frutti del sapere razionale sono enormi e le tecnologie consentono
prestazioni prima inimmaginabili. Il progresso scientifico è stato il
traguardo di sforzi inauditi e in esso sono state riposte le speranze di
un mondo migliore. Il prezzo pagato per questo vero e proprio delirio
di onnipotenza è, però, che la razionalità si è trasformata in una
macchina costruita secondo principi logico-matematici che consentono di
calcolare funzioni e prestazioni producendo continuamente strutture
idonee a operare secondo impulsi codificati in appositi programmi
operazionali. Il mondo è sistema e gli uomini sono inclusi nella logica
sistemica: macchine per sopravvivere senza vivere. La
ragione ha disintegrato l’uomo e ne ha fatto oggetto di studio. La
psicologia, l’economia, la politica e via via il cuore, il fegato, i
polmoni, il pancreas, gli occhi, sono diventati oggetto di sapere,
guidati dall’unico metodo scientifico che si conosce: il riconoscimento
della stessa comunità degli scienziati. Umberto Veronesi, sul Corriere della Sera
di qualche mese fa, ha scritto che nel giro di qualche generazione la
differenza sessuale fra uomini e donne perderà ogni significato, che
l’umanità si riprodurrà senza bisogno dell’accoppiamento di un uomo e di
una donna, ma attraverso l’inseminazione artificiale e la clonazione,
che l’evoluzione naturale della società ci porta oltre i confini dei
tradizionali comportamenti sessuali e ci destina a nuove forme di
relazioni interpersonali.
Così, in una qualsiasi pagina di giornale, viene
annunciata senza alcun clamore la fine delle leggi che hanno fin qui
governato il problema della riproduzione sociale, del ruolo della
generazione, della responsabilità verso il futuro. Nel
proclama di Veronesi, di una umanità senza differenze, è lo spazio, lo
spazio della memoria e del sogno, che viene negato e distrutto. Nell’universo
indifferente ciascuno vive per se stesso, per il proprio godimento
immediato che è garantito dalle nuove possibilità offerte dalla scienza,
dalle biotecnologie, dalla chimica, dalla fisica e dalle neuroscienze.
Veronesi non annuncia il futuro della libertà umana, ma la morte
dell’immagine dell’uomo che è stata faticosamente costruita nella storia
dell’Occidente. L’indifferenza
sessuale non è un progetto di umanizzazione della società e della
natura, non è un progetto di sviluppo della consapevolezza del
significato del nostro essere al mondo, ma la cancellazione di ogni
spazio mentale, non riducibile a sinapsi e a neuroni, dove possa
svilupparsi la domanda umana sul senso della vita, sul valore
squisitamente umano del sogno di un futuro diverso, sulle speranze di un
avvenire di salvezza dall’ingiustizia e dalla sofferenza.
Oggi
la scienza e la filosofia non sopportano il mondo delle passioni e dei
sentimenti (a meno che non si riducano a formule chimiche o a errori
logici) perché esso ci porta dentro una dimensione che non riesce a
conciliarsi con la loro pretesa di assoluto e di eternità: la
temporalità caduca e divoratrice. Per la scienza come per tutti gli
assoluti non esiste il tempo, il tempo della nascita né il tempo della
morte, il tempo della gioia né il tempo del dolore. Ciò che accade,
accade per caso o per necessità. Non è un problema di coscienza, né una
questione che riguarda soltanto ogni singolo individuo, ma la stessa
domanda del chi siamo e del perché viviamo. Non si tratta soltanto di
rievocare le grandi storie che ci hanno appassionato e formato: le
passioni terribili che hanno scatenato le guerre antiche e moderne, gli
amori tragici di Paolo e Francesca, di Tristano e Isotta, di Giulietta e
Romeo, ma l’intero clima culturale in cui si è venuto sviluppando
nell’Occidente lo spazio specifico dell’essere umano combattuto fra le
forze primordiali della natura, fra la implacabile legge dell’Eros senza
limiti, e il bisogno di un ordine che sanzioni anche la responsabilità
verso la progenie chiamata a raccogliere il testimone della vita. Gli
dei greci, il Dio del cristianesimo, hanno reso possibile agli uomini
istituire lo spazio mondano dell’interrogazione sulla verità come
domanda sul senso della vita.
In
questo spazio sono apparse "figure" che non hanno nulla a che fare col
divino, né col naturale: la tenerezza dei corpi che si stringono, la
bellezza di un neonato dalla pelle rosata, la coscienza del tramonto del
vigore giovanile, la nostalgia e la memoria, il sapere e la speranza,
la sofferenza e la gioia, l’estasi e il tormento. Attraverso di essi
l’uomo ha cercato di sfuggire ad ogni statuto di necessità e di assumere
sempre più la responsabilità della propria esistenza. Tutti
sono bravi a descrivere la globalizzazione, i mercati finanziari, il
problema delle borse, i nuovi orizzonti interculturali, la scoperta
delle cause di tutte le malattie, ma nessuno
è più capace di parlare a un bambino mutilato da una bomba americana
caduta per caso su un villaggio pacifico o ai superstiti di un attentato
kamikaze che ha stroncato la vita di giovani in festa in un piccolo
centro israeliano. Perché abbiamo perduto il senso della vita, le
domande tragiche che nascono dal dolore senza spiegazioni? Perché
abbiamo confuso, forse intenzionalmente, la ragione con il pensiero e la
conoscenza con la comprensione. Questa è un’epoca in cui la ragione ha
distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa affettiva.
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Postato da: giacabi a 17:41 |
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barcellona, ateismo, scienza - articoli
Solo Cristo ci salva da questo autismo
***
“È venuto meno lo statuto antropologico tradizionale e la sacralità del legame sociale, sul quale si fonda la coesistenza umana.
L'individualismo della nostra civiltà mi appare come una regressione
pre-infantile, e ci fa scivolare verso una deriva solipsistica, malattia
sociale che è una specie di forma di autismo. Non
sentiamo più il pianto del vicino, lo strazio di una persona che
subisce un incidente, il grido di chi subisce violenza o ingiustizia.
Basta viaggiare in treno, sostare in qualche sala d'attesa per toccare
con mano l'aspetto autistico della nostra società: ognuno è intento a
parlare col proprio cellulare, mai o raramente con le persone che ha di
fronte”.
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Postato da: giacabi a 20:48 |
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barcellona
Due opposte visioni del mondo ***
“L’alternativa di fronte alla quale ci troviamo è
quella di due opposte visioni del mondo: la
prima nega ogni possibile scarto fra i
nostri pensieri, le nostre rappresentazioni e
l’accadere fisico degli eventi del mondo reale,
giacché tutto si risolve nell’immanenza
radicale di ogni criterio di valore (normativo) al
processo evolutivo della selezione naturale (non
c’è alcun valore oltre i fatti della cosiddetta
vita quotidiana); la seconda ritiene che il
campo
specificamente umano dell’esperienza rimandi da ogni lato a una
trascendenza dell’Origine di ogni cosa e della Natura come potenza ed
energia sottratta alla disponibilità della tecnica.”
Pietro Barcellona* giornale:La Sicilia 22 maggio 2007
*ex dirigente e parlamentare Pci, prima di entrare anche al Csm
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Postato da: giacabi a 21:43 |
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barcellona
Perché il cristianesimo non diventi spiritualismo
***
Napoleoni. Lui nell'ostia c'è o non c'è? Questo è il punto.
La Valle. Si;ma non c'e in questo modo fisicistico a cui si e voluto ridurre.
Napoleoni.Si, c'e in modo fisico.
La Valle. C'è, come c'e qui tra noi...
Napoleoni. No...
La Valle: E
come no: ti sembra più importante la presenza di Cristo nell'ostia che
la presenza di Cristo in te e in me in questo momento? Non è così,
Claudio.
Napoleoni. Perché se no il cristianesimo diventa uno spiritualismo.
La Valle.No, diventa
precisamente la fondazione dell'immagine e della somiglianza di Dio,
diventa l'andare al Padre senza mediazioni che non sia la
sua; diventa questa liberazione in atto, diventa il ritorno al Genesi,
diventa la restaurazione precisamente nella condizione del giardino.
Napoleoni. Si, ma l'uomo per arrivare a questo ha bisogno di condizioni che non possono essere concepite solo come condizioni spirituali.
La Valle. Certo, certo, nella natura. ..
Napoleoni. Ma la natura vuol dire il corpo.
La Valle. Il corpo, la storia, certo.
Napoleoni. Ma questo vuol dire... io credo che il punto centrale del cristianesimo sia l’incarnazione. Questo era il Figlio di Dio.
Claudio Napoleoni(il più famoso economista della sinistra, prima di morire riapprodò alla fede) da : Conversazione con il deputato Raniero La Valle
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Postato da: giacabi a 19:04 |
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perle, barcellona, cristianesimo, macciocchi
Io, Cristo e la Zambrano
***
Davide Perillo Riportare la domanda di senso nel mondo, a cominciare dalla scuola. Ed essere «disponibili a qualcosa che accade». Solo così l’umanità può «salvarsi dal suicidio». Parola di Pietro Barcellona, filosofo ex comunista. Che al Meeting ha fatto una scoperta
«Scusi, lei è Pietro Barcellona? Volevo ringraziarla per quello che ha detto ieri». Capita anche questo, a Rimini. E lascia il segno sul filosofo del diritto già marxista
a tutto tondo, che è venuto per parlare di scuola e si ritrova
intercettato dalla gratitudine dei giessini. «L’impressione del Meeting?
Enorme. Non vedo niente di paragonabile. E non solo in Italia». Detto
da uno che ha attraversato mezzo secolo di storia nostrana partendo da
sponde lontane (è stato dirigente e parlamentare Pci, prima di entrare anche al Csm),
fa una certa impressione. Con Cl c’era già un buon rapporto, alimentato
da amicizie private (tra tutte, don Ciccio Ventorino) e uscite
pubbliche (vedi il caso del liceo “Spedalieri”, dove è sceso in campo
accanto ai ragazzi di Gs che - dopo la morte allo stadio di Filippo
Raciti - reclamavano il diritto a parlare di verità anche a scuola, cfr.
Tracce n. 4/2007). Ma da Rimini in poi, c’è da scommettere che l’amicizia si farà più salda.
Barcellona ha parlato di «verità tra i banchi». Della necessità che nelle aule si torni a porre la domanda di senso. Dell’idea che la scuola, insomma, diventi quello che deve essere: un luogo dove accade e cresce l’umano, perché - ha detto citando Saint-Exupery - «se c’è una terra su cui crescono le arance, quella è la verità delle arance», mentre una società che non si pone più il problema del destino «è destinata a suicidarsi». Molti applausi all’incontro, parecchie domande dopo, tra gli stand. E tanti fili che vale la pena di riprendere. A cominciare dalla questione di partenza.
Perché questa “domanda di vero” ormai viene regolarmente archiviata?
Non è archiviata: è combattuta. Se ne nega la legittimità. Come se riguardasse solo chi ha la testa tra le nuvole. Il senso comune oggi diffonde sostanzialmente cinismo, apatia, impotenza. Sembra che tutto quello che accade non sia controllabile. Che non ci sia nessuno spazio di intenzionalità. Siamo precipitati in un’astrazione assoluta, indeterminata. Abbiamo talmente frantumato gli aspetti del mondo che non riusciamo più a percepire le connessioni.
Da dove si può ripartire?
Da quella che Gramsci definiva «una rivoluzione morale». Le transizioni forti avvengono in maniera molecolare, per piccoli gruppi. Cenobi, comunità. Da questo punto di vista il Meeting è una cosa enorme. Ci sono migliaia di persone, qui. Se ognuna di loro facesse nascere forme di vita diverse, questa sì che sarebbe una rivoluzione. Io la rivoluzione non la penso più come un avvenimento che da un giorno all’altro cambia i connotati del potere. È un progressivo sgretolarsi dell’ideologia del potere che penetra nei nostri comportamenti. Tante pratiche diffuse, esemplari. Per esempio, questa mostra della Cometa mi ha molto colpito. Questa dimensione del rapporto comunitario nella vita di oggi è completamente esaurita. E invece riguarda le persone, le vite reali. Ecco, Rimini mi sembra una cosa importante perché si vedono le persone.
In fondo è una conferma che l’umano ricomincia da un’educazione, come diceva anche lei nell’incontro…
Io una volta ho dato questa definizione della democrazia: l’assunzione consapevole di un progetto di paideia, cioè di educazione, da parte dell’intera comunità. Non in un’ottica statalista o burocratica, ci mancherebbe. Prenda la grande tradizione greca o quella stessa cristiana: avevano grandi progetti educativi, un’idea precisa di paideia. Ma non era mica l’idea di produrre esseri omologati: avevano in testa la costruzione della libertà dell’individuo. Noi invece abbiamo confuso l’educazione con l’informazione. Abbiamo ridotto la scuola a una specie di trasmissione coatta di informazioni. Mentre le informazioni, di per sé, non significano niente, senza la capacità di elaborarle.
Per
questo lei ha parlato di una scuola «che rimetta insieme i cocci»,
ovvero che combatta gli eccessi di specialismi e ristabilisca il più
possibile dei nessi.
Io ho insegnato per anni Diritto, poi sono passato a insegnare Filosofia. Sa perché? Più spiegavo i dettagli delle norme e meno gli studenti capivano. Allora mi sono chiesto: faccio capire di più a che serve il diritto raccontando il succedersi delle leggi o affrontando, per dire, il problema del rapporto tra ordine e disordine? Questo vale per tutto, anche la medicina. Si studiano gli organi: fegato, pancreas, cuore… Ma non si studia più il malato come persona.
E questo può accadere solo se si parte dalla domanda di verità, di scoperta del nesso tra l’io e la realtà.
E chi è il pazzo che lo nega?
Be’, nella vicenda dello “Spedalieri” certi docenti mettevano in discussione proprio questo…
Il problema è che ormai c’è un arroccamento: ognuno si tiene quello che ha. Dopo quei fatti io mi sono trovato a rispondere a domande stranissime: ma che ti sei convertito? Non eri ateo? In primo luogo, mai stato ateo. Ci sono persone che non professano una fede pubblica, ma ammettono che senza il problema di Dio, il pensiero muore. Il pensiero esiste perché la prima domanda che un uomo si fa è: ma perché io non sono Dio? Una mia nipotina di sette anni ha dato questa spiegazione dell’esistenza di Dio: nonno, noi esistiamo, io sono figlia di papà e mamma, loro sono figli vostri… Ma all’inizio della catena chi c’è? Ecco, questa è una domanda che si pongono anche i bambini. Guardano la realtà e si domandano da dove viene. E infatti la sanno molto più lunga dei grandi.
Ma noi “grandi” siamo ancora capaci di appassionarci al vero?
Il problema è appassionarci alla vita. La passione per la vita ha in sé la ricerca della verità. Che, alla fine, è l’adesione alla vita. È una dimensione dell’esistenza in cui questa tensione si placa. Quando uno si trova a vivere un momento di pienezza, quella è la verità. Non è una deduzione logica da una serie di premesse. Il problema è che questa società per certi versi è la più innovativa, ma di fatto è anche la più statica. Non riesce ad avere un orizzonte diverso da quello che si è dato all’inizio della modernità: individuo, consumo, denaro. Stop.
Come si spezza la catena?
Questa domanda è un po’ nella logica della stessa modernità, che vuole sapere prima cosa succede. C’è poca disponibilità ad accogliere il nuovo, l’evento. In fondo nessuno si aspettava che Cristo nascesse. Al di là di quello che uno pensa di lui, nessuno si aspettava che arrivasse uno che andava in giro a dire: io sono il Figlio di Dio. Ecco, è la stessa cosa: i profeti possono dare delle visioni, ma nessuno può dire che ci siano ricette matematiche per prevedere quello che succederà. Né ci sono ricette che garantiscono il cambiamento.
Bisogna che accada qualcosa, allora. Un avvenimento.
Sì, ma il problema preliminare è essere disponibili a farlo accadere.
E
se l’avvenimento accadesse proprio così, come una proposta alla nostra
disponibilità? Quando parlava di “evento”, prima, lei stesso ha
accennato a Cristo.
Certo, quello è un grande evento con cui tocca misurarsi. Però anche lì non si può fossilizzarlo come un accaduto da contemplare, del passato. A me piace molto l’idea di María Zambrano di una Parola vivente. Io non ho la fortuna di avere un rapporto di fede. Ma la questione di Cristo, con questa affermazione scandalosa, «io sono il Figlio di Dio», è molto interessante. E poi, il suo era un invito a seguirlo senza promesse di benessere economico, anzi mostrando una strada segnata da povertà e rinuncia.
Però con una promessa di compimento umano.
Vero. Ma questo deve portare a un’interpretazione dinamica della presenza del Divino. Una presenza che si incarna continuamente, che rinasce.
Non le sembra che la pretesa della Chiesa, in fondo, sia proprio questa? Essere un luogo dove quella Presenza permane.
Sì, ma questo non riaccade perché c’è qualcuno che schiaccia il bottone. La Chiesa è un po’ una contraddizione che vivete anche voi. C’è il problema della gerarchia, ci sono certi schematismi...
Però la vita che si vede qui a Rimini nasce da lì, da quella Presenza.
La vita, per fortuna, come diceva Saint-Exupery, è più forte di una logica.
Perdoni la brutalità: ma lei perché non è cristiano?
Cristo è una figura che mi inquieta molto. Soprattutto per via di certe letture. Io sono stato a scuola dai preti. Poi mi sono staccato. E ho iniziato a studiare la teologia protestante. Soprattutto Kierkegaard. Oggi mi affascina molto il pensiero della Zambrano. Però, c’è una cosa che mi fa ostacolo: Cristo è venuto in un luogo e un momento precisi della storia. In un contesto che era stato preparato ad accoglierlo. E questo mi sembra strano. Perché è venuto proprio in quel momento? Questa domanda mi fa sbandare.
In
fondo, però, è la stessa questione di prima: occorre che accada
qualcosa per salvare l’umano. Ma un avvenimento può accadere solo in un
punto della storia.
Infatti continuo a pensarci. Non ho preconcetti. Ma da quello che leggo, anche dalla Zambrano, quando uno incontra Cristo ha una sensazione di pace interiore, di grande illuminazione. Ecco, io questa non l’ho mai avuta. Per ora. |
Postato da: giacabi a 15:23 |
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barcellona, senso religioso, zambrano
Siamo un essere mancante di qualcosa
***
Nel comunismo c’è stato il bisogno di sfidare il processo naturale della storia, di costruire una soggettività umana in grado di reggere ai problemi dell’esistenza e all’angoscia della morte. Oggi ci vuole qualcosa d’altro. Ad esempio? La riscoperta del sacro. Ci vuole qualcosa che irrompa nella storia con la forza dirompente della messa in discussione dello stato di cose esistente. Qualcosa che irrompa nella storia: è la dinamica del cristianesimo. Un Dio che si fa uomo… In effetti in questo periodo ci sto molto pensando. Mi hanno aiutato i libri della Zambrano, una grande pensatrice spagnola. Quando si arriva al deserto dei Tartari il sacro ricompare. Come idea o come esperienza? Come esperienza. Non è certo un fattore programmabile. Lei nelle settimane passate ha difeso gli studenti di Catania che avevano chiesto ai loro professori di poter affrontare a scuola le grandi questioni della vita. Una richiesta semplice che ha incredibilmente sollevato scandalo tra i docenti. Perché lei ha rotto il fronte? A scuola si elaborano desideri e passioni. Il problema è più degli insegnanti che degli studenti, che pongono una questione del tutto condivisibile: anni fa ho scritto un libro, Le passioni negate, in cui cercavo di capire perché dopo il Novecento gli uomini avessero tanta paura ad appassionarsi, e il grande sforzo comune fosse quello di neutralizzare, davanti alla cose, la passionalità. Ora quegli studenti hanno espresso una grande passione: quella di capire che senso ha la loro vita. In questo modo hanno messo a nudo una debolezza del mondo adulto. Perché ribattere che su queste cose ci vuole neutralità è un grande sbaglio. Chi insegna deve rischiare un proprio punto di vista. Attorno a una domanda di senso si possono costruire legami sociali? Sì, perché il resto è puro calcolo. Il resto è intelligenza calcolante che abbiamo in comune con gli animali. Le formiche costruiscono alla perfezione il loro formicaio e lo fanno sulla base di un’intelligenza naturale selettiva. Noi invece abbiamo bisogno di senso, perché non siamo saturi. Siamo un essere mancante di qualcosa.
(Pietro Barcellona intervistato da Giuseppe Frangi, 5 maggio) Vita
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Postato da: giacabi a 21:11 |
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barcellona
In www.tempi.it di questa settimana c’è questo interessante articolo di cui riporto ampi stralci:
Il sacro costituisce il fondamento esistenziale
del gruppo umano
Contrordine compagni, il sacro è di sinistra. Un marxista all'attacco dei nuovi illuministi
Il professor Barcellona, ex deputato berlingueriano, demolisce lo scientismo dilagante, che in ossequio alla dea modernità ha smesso di «sostare nello spazio dell'interrogazione», soffocando così l'autentica laicità
di Cavallari Fabio
Si intitola Critica della ragion laica l'ultimo libro di Pietro Barcellona (ordinario di filosofia del diritto all'università di Catania ed ex deputato nelle file del Pci dell'epoca berlingueriana). Il professore è un uomo di sinistra, …..L'uomo che vuole creare l'uomo, che per soddisfare il proprio desiderio è arrivato a manipolare, a farsi padrone del patrimonio genetico. Ci sono beni che, da buon marxista, il professor Barcellona ritiene debbano rimanere patrimonio di tutti perché riguardano tutta l'umanità e non possono servire per esaudire egoismi individuali, e uno di questi è proprio il patrimonio genetico. Patrimonio genetico che non è solo un dato biologico ma è la somma delle esperienze umane, che danno luogo allo statuto antropologico di una civiltà. Non usa mezzi termini, Barcellona, quando ricorda a tutti i compagni, oramai protesi verso altri orizzonti, che lo statuto antropologico nel quale siamo cresciuti è quello secondo cui i bambini nascono all'interno e in virtù di una relazione affettiva tra due figure fondamentali, la figura materna e la figura paterna. Distaccando il fatto procreativo dalla relazione affettiva e sessuale, il futuro ci consegnerà l'artificialità umana. Come è possibile immaginare che i figli possano nascere in modo astratto, solo per un desiderio, si chiede Barcellona. L'uomo non è fatto di mere reazioni chimiche e tutto quello che accade non è il semplice risultato di un determinismo flessibile come pensano i neuroscienziati. Il conflitto, intrinseco nel mistero dell'uomo e della sua nascita, è l'origine del pensiero, della passione del nostro futuro.
Tutto oggi viene nascosto sotto l'abusato termine "laicismo", ma che cos'è la laicità? Barcellona risponde attraverso un'immagine evocativa e al tempo stesso concreta e reale. «La mia laicità corrisponde a sostare, il più a lungo possibile, nello spazio dell'interrogazione, rifiutando, il più a lungo possibile, la risposta che chiude l'interrogazione, la risposta che risolve. [.] Lo spazio dell'interrogazione è lo spazio stesso della laicità. Voglio dire di più: l'interrogazione ha origine nel sacro. E il sacro costituisce il fondamento esistenziale del gruppo umano, ciò che non abbiamo a nostra disposizione, che non possiamo predeterminare, né calcolare, che non può essere posseduto e manipolato. E quando questo accade, ne va dell'ossatura antropologica dell'uomo». Non possiamo cedere il nostro "essere" alla scienza, ammonisce Barcellona, dobbiamo resposabilizzarci, educare non accontentarci del pensiero anaffettivo che ci viene offerto. Fare i conti con la morte, con il nostro limite, con la nostra identità e con il nostro passato. Abbiamo bisogno della passione del nostro pensiero, come un bambino ha la necessità di ricevere l'affetto che non è sentimentalismo od emozione.
Barcellona conclude, senza mai citare la sinistra ma rivolgendosi ai molti che hanno assunto la modernità come paradigma, indicando una via d'uscita: «L'idea del limite è andata perduta, ed è un'idea essenziale perché, privi di limiti, perdiamo il rapporto con le generazioni, perché stentiamo a formulare una responsabilità verso il futuro». Un invito non troppo velato ad abbandonare la religione laica della modernità e del desiderio tout court, pena la perdita dell'umanità.
Il professor Barcellona, ex deputato berlingueriano, demolisce lo scientismo dilagante, che in ossequio alla dea modernità ha smesso di «sostare nello spazio dell'interrogazione», soffocando così l'autentica laicità
di Cavallari Fabio
Si intitola Critica della ragion laica l'ultimo libro di Pietro Barcellona (ordinario di filosofia del diritto all'università di Catania ed ex deputato nelle file del Pci dell'epoca berlingueriana). Il professore è un uomo di sinistra, …..L'uomo che vuole creare l'uomo, che per soddisfare il proprio desiderio è arrivato a manipolare, a farsi padrone del patrimonio genetico. Ci sono beni che, da buon marxista, il professor Barcellona ritiene debbano rimanere patrimonio di tutti perché riguardano tutta l'umanità e non possono servire per esaudire egoismi individuali, e uno di questi è proprio il patrimonio genetico. Patrimonio genetico che non è solo un dato biologico ma è la somma delle esperienze umane, che danno luogo allo statuto antropologico di una civiltà. Non usa mezzi termini, Barcellona, quando ricorda a tutti i compagni, oramai protesi verso altri orizzonti, che lo statuto antropologico nel quale siamo cresciuti è quello secondo cui i bambini nascono all'interno e in virtù di una relazione affettiva tra due figure fondamentali, la figura materna e la figura paterna. Distaccando il fatto procreativo dalla relazione affettiva e sessuale, il futuro ci consegnerà l'artificialità umana. Come è possibile immaginare che i figli possano nascere in modo astratto, solo per un desiderio, si chiede Barcellona. L'uomo non è fatto di mere reazioni chimiche e tutto quello che accade non è il semplice risultato di un determinismo flessibile come pensano i neuroscienziati. Il conflitto, intrinseco nel mistero dell'uomo e della sua nascita, è l'origine del pensiero, della passione del nostro futuro.
Tutto oggi viene nascosto sotto l'abusato termine "laicismo", ma che cos'è la laicità? Barcellona risponde attraverso un'immagine evocativa e al tempo stesso concreta e reale. «La mia laicità corrisponde a sostare, il più a lungo possibile, nello spazio dell'interrogazione, rifiutando, il più a lungo possibile, la risposta che chiude l'interrogazione, la risposta che risolve. [.] Lo spazio dell'interrogazione è lo spazio stesso della laicità. Voglio dire di più: l'interrogazione ha origine nel sacro. E il sacro costituisce il fondamento esistenziale del gruppo umano, ciò che non abbiamo a nostra disposizione, che non possiamo predeterminare, né calcolare, che non può essere posseduto e manipolato. E quando questo accade, ne va dell'ossatura antropologica dell'uomo». Non possiamo cedere il nostro "essere" alla scienza, ammonisce Barcellona, dobbiamo resposabilizzarci, educare non accontentarci del pensiero anaffettivo che ci viene offerto. Fare i conti con la morte, con il nostro limite, con la nostra identità e con il nostro passato. Abbiamo bisogno della passione del nostro pensiero, come un bambino ha la necessità di ricevere l'affetto che non è sentimentalismo od emozione.
Barcellona conclude, senza mai citare la sinistra ma rivolgendosi ai molti che hanno assunto la modernità come paradigma, indicando una via d'uscita: «L'idea del limite è andata perduta, ed è un'idea essenziale perché, privi di limiti, perdiamo il rapporto con le generazioni, perché stentiamo a formulare una responsabilità verso il futuro». Un invito non troppo velato ad abbandonare la religione laica della modernità e del desiderio tout court, pena la perdita dell'umanità.