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sabato 4 febbraio 2012

bellezza, 2

LA STORIA/
Oleg Supereco, il pittore russo che riporta l’arte cristiana in Sicilia

 

lunedì 16 agosto 2010
Mentre il montacarichi - una specie di barca metallica rettangolare da cui sporge l’intero busto degli occupanti - sale sferragliando verso l’interno della cupola nella cattedrale di Noto, cittadina barocca in provincia di Siracusa protetta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, una forza antica invade gli occhi.
Le panche dei fedeli, giù, diventano sempre più piccole. Al contrario delle figure dei quattro evangelisti, affrescate da poco nei pennacchi, che avvicinandosi svelano l’imponenza dei loro sei metri e mezzo di muscoli michelangioleschi. Ci passiamo accanto, fino quasi a sfiorare il giallo arancio del manto di Giovanni.
Superato il tamburo, e lasciato il montacarichi, ci si inerpica su piccole scale che conducono alla cupola, metà della quale è già occupata da sette dei dodici apostoli. Oltre ai restanti, manca ancora la Madonna. Entro l’anno la Pentecoste sarà terminata.
Oleg Supereco, la nostra guida, sembra non curarsi dei 40 metri che lo separano dal pavimento. Si muove a suo agio sopra il ponteggio rotante che si è fatto costruire apposta dalla stessa azienda che ha realizzato l’impalcatura per i restauri del Parmigianino nella chiesa Santa Maria della Steccata a Parma.
Oleg ha 36 anni e viene da Mosca, ma da circa un decennio vive in Italia, attualmente a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Ha preso persino l’accento e quando va a bere con gli amici siciliani, li invita a prendere un’“ombra” o un’“ombreta”. Oleg è un pittore. È l’artista incaricato di affrescare i pennacchi e la cupola della chiesa Madre di San Nicolò, la cattedrale di Noto crollata in una notte del 1996 e riconsegnata come nuova nel 2007.
Ha iniziato la sua opera l’anno scorso. La tecnica dell’affresco con la quale sta abbellendo l’edificio sacro ormai è stata pressoché abbandonata, sia per la difficoltà del procedimento (una volta stesa la malta sulla parete, si ha tempo 2-3 ore per dipingere prima che l’intonaco si asciughi) sia per la mancanza di grandi committenti. Quella di Noto, quindi, è una sfida. Oltre che una di quelle occasioni che si presentano una sola volta nella vita.
A chi gli chiede perché dipinge, risponde: «Perché non posso non dipingere», oppure: «La pittura è la mia preghiera attraverso cui comunico con il Signore e Lui comunica con me. Perché quello che faccio non lo faccio io, non lo detto io. Fa sempre Lui attraverso di me. A volte non so nemmeno come mi riescono certe cose. Io sono solo uno strumento». Se gli domandano, invece, quando ha capito che sarebbe diventato un pittore, non ha dubbi: «Da sempre».
La prima volta che suo padre, accorgendosi dell’interesse del piccolo Oleg per le arti figurative, lo portò in un museo, lo accompagnò a visitare soltanto le sale dei moderni. Passando per i corridoi, Oleg intravide, in un’altra zona separata, alcuni quadri particolari che raffiguravano volti seri su fondi dorati. Nonostante le sue insistenze, il padre non gli permise di andare a osservarli da vicino. Erano gli anni prima della Perestrojka. Quello fu il primo incontro dell’artista con le icone russe. Un incontro che confermò una passione sorta a 5-6 anni, sfogliando una rivista che riportava i grandi affreschi di Raffaello e Michelangelo.
«Fui preso subito da quella forza espressiva - ricorda -. Non mi hanno mai entusiasmato i quadri degli impressionisti o l’arte sovietica che parlava del quotidiano. Né la pittura realistica in cui ci sono i “veci” seduti che bevono le “ombre”. Chiacchiere, insomma. sono stato colpito solo dai volti delle icone, qualcosa di superiore, non fatto da mani d’uomo, e dalle figure di Michelangelo e Raffaello. E allora lì è scattato qualcosa. Ho detto: io devo fare quello».
Dopo il liceo artistico, Oleg si iscrive all’Accademia di Belle arti di Mosca. Avviene così l’incontro con un maestro, Ilja Glazunov, attuale rettore dell’Accademia e uno dei pittori contemporanei più importanti della Russia. «Un combattente contro le forze oscure - dice Oleg -, che afferma il Cristo ogni giorno con la sua arte. Un uomo grande, che va controcorrente, di fronte al quale ci si sente piccoli. Una di quelle persone che capita di incontrare ogni cento anni. Lui forse è stato l’unico che mi ha capito, che mi ha anche salvato».
Infatti, nonostante il forte legame con la tradizione russa, Gladunov intuisce le potenzialità del giovane allievo, accusato dagli altri insegnanti di essere troppo occidentale e troppo italianizzato. Artisticamente troppo cattolico. Ma il maestro lo difende e invita gli altri a lasciarlo stare in pace. Oggi, tra i tanti studenti che ha avuto nel corso della sua lunga carriera, Gladunov ne nomina solo tre o quattro. Oleg è tra questi.
Nel 1999, conclusi gli studi a Mosca, grazie a una borsa di studio approda all’Accademia di Belle arti di Venezia dove otterrà nuovamente la laurea con il massimo dei voti. «Anche in Italia sono stato fortunato. Ho avuto almeno tre grandi amici. Uno di questi è monsignor Carlo Chenis». Chenis, eletto vescovo di Civitavecchia-Tarquinia nel 2006, è morto il 19 marzo di quest’anno. È stato segretario della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa e membro della Pontificia commissione di archeologia sacra. È lui a fare il nome di Oleg per gli affreschi della cattedrale siciliana.
Il 26 gennaio 2010, indirizzando ai fedeli della sua diocesi una lettera con la quale comunicava di avere un tumore invasivo, scriveva: «Questa settimana sono entrato nel tunnel chemioterapico per tentare di arginare la malattia, per quanto clinicamente possibile. È davvero un tunnel oscuro, pieno d’imprevisti e d’incertezze. Seguendo questo mio percorso faccio esperienza del dissesto organico nel quale sono caduto. In siffatta situazione sto riscoprendo quanto complesso e mirabile sia il nostro organismo nel suo ordinario e silenzioso funzionamento».
Questa scoperta, di un ordine dentro il caos e la sofferenza, per analogia è la stessa che fa Oleg nel suo itinerario espressivo, aiutato anche da monsignor Chenis: «I cristiani - sostiene il pittore - hanno aggiunto qualcos’altro all’arte antica greco-romana: il “bello” della sofferenza. L’arte cristiana scopre un bello anche nel brutto. È una bellezza che trasforma tutto. Il contrario dell’arte moderna, che trova il brutto nel brutto. E perfino il brutto nel bello».
Un mese prima che il vescovo di Civitavecchia-Tarquinia morisse, Oleg è andato a trovarlo: «Monsignor Chenis mi ha fatto capire che anche nella chiesa cattolica, e non solo in quella ortodossa, ci sono le persone sante. Aveva un senso profondo dell’arte cristiana e mi ha aiutato nel mio cammino personale e nelle mie ricerche sui simboli».
Ma esiste ancora un’arte che possa considerarsi cristiana? Sembrerebbe di no, a giudicare da tante opere architettoniche commissionate per i luoghi di culto. «Questi architetti sono innamorati di se stessi - taglia corto il pittore -. Esprimono se stessi. Credono di essere dei geni, ma una volta non era così. Una volta gli artisti erano servitori di Cristo, di Dio. Ma se uno nell’arte non serve Cristo, chi serve? Il suo avversario. Nel mondo c’è una lotta continua tra il bene e il male, tra Cristo e l’anticristo. E oggi l’arte è diventata anticristiana. Le forme moderne che dicono “arte, arte, arte” sono solo provocazioni. Sono solo distruzione». È l’estetica del brutto che avanza, pervasa, secondo il pittore moscovita, da una continua violenza in cui l’erotismo diventa pornografia e Cristo stesso è ritratto molte volte come una sorta di indemoniato.
«La cosa più grave - aggiunge - è che i giovani non sono più in grado di vedere la bellezza. Non riescono più a “leggere” la bellezza di un semplice dipinto del 400 o 500. Sembrano tutti arabi che, guardando queste opere, non sanno più che cosa siano. È stata cancellata la tradizione. Il bello di oggi coincide con il kitsch, che vuol dire cattivo gusto. E se oggi va così tanto di moda, significa che stiamo perdendo il gusto nel costruire e nel fare». Non c’è futuro, allora, per l’arte, e per quella cristiana in particolare? «Ci deve essere, per forza. Altrimenti…», sospira Oleg Supereco senza completare la frase e alzando lievemente la testa. Proprio come nell’espressione del San Giovanni raffigurato in uno dei pennacchi della cattedrale di Noto, a cui somiglia in modo impressionante.
 
(Carmelo Greco)
 da www.sussidiario.it

Postato da: giacabi a 17:48 | link | commenti
bellezza

lunedì, 12 luglio 2010

La speranza di Ferenc Fricsay

 
***
venerdì 20 febbraio 2009 da: www.ilsussidiario.it

 

Cosa aiuta a sostenere la nostra speranza? Ce lo siamo chiesti dopo la triste conclusione della vicenda di Eluana. Ce lo chiediamo ogni mattina e, soprattutto, ogni volta che ci scontriamo con qualcosa che sembra contraddire le nostre attese. Cosa ci aiuta? Sicuramente la testimonianza di un uomo che spera.
 
 
 
È proprio sulla base di tale certezza che questo giornale ha cercato di seguire, con tutte le difficoltà del caso, l’animato dibattito intorno alla tragica storia di Eluana Enlgaro. Lungi dal criminalizzare qualcuno, o dal ridurre a questione politica qualcosa che andava a toccare gli interrogativi più profondi dell’animo umano, abbiamo cercato di dare voce, appunto, a uomini che sperano. Così, è stato toccante sentire la testimonianza di persone che lottano tutti i giorni per affermare il valore della vita anche laddove questo valore sembra nascosto. E ci piace ricordarne i nomi: Pietro Crisafulli, Cesare Lia, Claudio Taliento, Fulvio De Nigris, Mario Dupuis, i carcerati di Padova. E poi ancora le parole bellissime di Bob Schindler, il padre di Terri Schiavo, della vedova Coletta, di Oscar Giannino.
 
Sono state voci non di polemica, ma di speranza. Una speranza che non si spegne nemmeno di fronte alla morte.
 
Ancor di più: nemmeno in prossimità della morte. Ed è proprio per dar conto di quest’ultimo aspetto che abbiamo deciso di sottoporre a voi lettori i video che trovate qui sotto. Sono la registrazione delle prove della Moldava di Smetana, effettuate da Ferenc Fricsay il 14 giugno 1960. Si tratta certamente di un documento di alta scuola musicale, di straordinario e raffinato aiuto all’ascolto. Ma sono soprattutto una testimonianza di speranza. Come spiega lo speaker della tv che le ha mandate in onda per la prima volta, Fricsay (direttore d’orchestra ungherese, nato nel 1914) era allora già molto malato; aveva subito due operazioni e aveva passato una brutta notte; tanto che avrebbe voluto sospendere le prove. Eppure, potrete vedere con che passione, finezza, precisione Fricsay conduce gli orchestrali a comprendere l’intimo della musica di Smetana. Una musica che racconta la nascita e lo scorrere di un fiume; che poco a poco capiamo essere la figura del fluire della nostra stessa vita.
 
Fricsay sarebbe morto, non ancora cinquantenne, nel 1963. Al tempo di queste prove la malattia lo segnava già duramente. Per questo è ancora più commovente quando, all’inizio del quinto spezzone, il direttore si ferma e, per spiegare un passaggio orchestrale ai musicisti, dice: «Perché è veramente bello vivere!».
 
La nostra speranza, tanto spesso fragile, ha bisogno di testimoni così.
 
 
GUARDA IL VIDEO
 

Postato da: giacabi a 14:35 | link | commenti (1)
speranza, bellezza

giovedì, 08 luglio 2010
La bellezza del creato
***
 
"Lo scienziato non studia la natura perché è utile, ma perché ne prova piacere perché è bella: se la natura non fosse bella,non varrebbe la pena di studiarla per tutta la vita e la vita non varrebbe la pena di essere vissuta"

 Henri Poincaré -

Postato da: giacabi a 17:26 | link | commenti
bellezza, scienza - articoli

sabato, 05 giugno 2010

Vassili Grossman: La Madonna Sistina.
È in questo modo che l’uomo va incontro al suo destino

 



La Madonna Sistina
di Vassili Grossman
tradotto a cura della nostra redazione dalla versione francese di Sophie Benech, edita da Editions Interférences, Parigi, 2002



Dopo aver schiacciato e annientato l’esercito della Germania fascista, le vittoriose truppe sovietiche hanno portato a Mosca alcuni quadri del museo di Dresda. Questi quadri sono stati conservati sotto chiave per quasi dieci anni.
Nella primavera del 1955, il governo sovietico ha deciso di rimandare i quadri a Dresda. Prima di rispedirli in Germania, si è deciso di mostrarli al pubblico per novanta giorni.
E fu così che i
l 30 maggio 1955, di buon’ora in una fredda mattina, dopo aver risalito la via Volkhonka lungo i cordoni con cui la milizia moscovita convogliava le migliaia di persone che volevano vedere i quadri dei grandi maestri, sono entrato nel museo Puskin, sono salito al primo piano e mi sono avvicinato alla Madonna Sistina.
Fin dal primo sguardo c'è una cosa che si impone, immediatamente, prima di tutto: è immortale. Ho compreso allora che prima di aver visto la Madonna Sistina avevo usato con leggerezza una parola dal potere terribile, la parola “immortalità”, ho capito che avevo confuso con l’immortalità la potente vita di alcune, particolarmente sublimi, opere umane. E pieno di venerazione per Rembrandt, per Beethoven e Tolstoji, ho capito che fra tutte le creazioni di pennello, bulino o penna che avevano stupito il mio cuore e il mio spirito, solo questo quadro di Raffaello non sarebbe morto, finché non fossero scomparsi gli uomini. E che forse, fossero scomparsi loro, le altre creature che ne avessero preso il loro posto sulla faccia della terra, lupi, ratti, orsi o rondini, si sarebbero precipitati a quattro zampe o a colpi d’ala per venire a vedere la Madonna…
Dodici generazioni hanno guardato questo quadro, un quinto dell’umanità vissuta sulla terra a partire dall’inizio dei tempi storici fino ai giorni nostri.
È stato guardato da vecchi mendicanti e da imperatori d’Europa, da studenti, da miliardari venuti da oltre gli oceani, da papi e da principi russi, è stato guardato da vergini pure e da prostitute, da colonnelli di stato maggiore, da ladri, da geni, da tessitori, da piloti di aeri da guerra e da istitutori, è stato guardato dai buoni e dai cattivi.

Da quando questo quadro esiste, sono stati fondati imperi europei e coloniali e sono crollati, è sorto il popolo americano, le fabbriche di Pittsburgh e di Detroit, ci sono state rivoluzioni, e la struttura sociale del mondo è stata trasformata… Da allora, l’umanità ha lasciato alle sue spalle le superstizioni degli alchimisti, i telai dei tessitori; i bastimenti a vela e le diligenze, i moschetti e le alabarde; è entrata nel secolo dei motori elettrici e delle turbine, il secolo dei reattori atomici e delle reazioni termonucleari.Da allora, Galileo ha scritto i sui Discorsi formulando la conoscenza dell’universo, Newton ha scritto i Principia, Einstein Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento. Da allora, Rembrandt, Goethe, Beethoven, Dostoevskij e Tolstojhanno reso più profonda la nostra anima e più bella la vita.
Ho visto una giovane madre tenere un bambino fra le sue braccia. Come posso rendere la grazia squisita d’un melo, esile e delicato, che abbia appena dato la sua prima mela, piena e bianca; la grazia d’un uccellino coi suoi pulcini appena nati, o di una cerbiatta appena diventata madre… La maternità e la grazia di una ragazzina, quasi ancora bambina.
Questa grazia, dopo aver visto la Madonna Sistina, non si può più dire che sia ineffabile o che sia misteriosa.
Nella sua Madonna Raffaello ha svelato il mistero della maternità e della sua bellezza. Ma non è da questo che dipende l’inesauribile vitalità del suo quadro. Dipende invece dal fatto che il corpo e il volto di questa giovane donna sono la sua anima, ed è questa la ragione per cui la Madonna è così bella. C’è in questa rappresentazione visiva dell’anima materna qualcosa di inaccessibile alla consapevolezza umana.

Noi sappiamo che le reazioni termonucleari trasformano la materia in una quantità di energia potentissima, ma non sappiamo rappresentarci il processo inverso, come cioè avvenga che l’energia si trasformi in materia; e qui, ecco la forza dello spirito, la maternità, cristallizzata e trasmutata in un’umile Madonna.
La sua bellezza è strettamente connessa alla vita su questa terra. Lei è democratica, umana; lei è inerente alla massa degli esseri umani – quelli dalla pelle gialla, gli strabici, i gobbi dai lunghi nasi pallidi, i neri dai capelli ricci e dalle grosse labbra – lei è universale. Lei è l’anima e lo specchio dell’umano, e tutti quelli che la guardano vedono in lei l’umano: lei è l’immagine dell’anima materna, ed è per questo che la sua bellezza è mista in modo inestricabile, si confonde con la bellezza nascosta, indistruttibile e profonda della vita che nasce all’essere – nelle cantine, nei granai, nei palazzi e nei bassifondi.
A me pare che questa Madonna sia l’espressione più atea possibile della vita, dell’umano senza alcuna partecipazione del divino.
C’erano istanti in cui mi è parso che esprimesse non solo l’umano, ma anche qualcosa di inerente alla vita terrestre nel suo senso più ampio, il mondo animale là dove negli occhi scuri della giumenta, della mucca o della cagna che nutrono i loro piccoli si può vedere, o indovinare, l’ombra prodigiosa della Madonna.
E più terrestre ancora mia pare sia il bambino che tiene fra le braccia. Il suo viso sembra più adulto di quello di sua madre. Uno sguardo che è ad un tempo triste e serio, si dirige ad un tempo diritto davanti a sé e dentro di sé, uno sguardo capace di conoscere, di vedere il destino.

I loro volti sono tranquilli e tristi. Forse vedono il Golgota, la via di polvere e sassi che vi conduce, e la croce, mostruosa, tozza e pesante, di legno grezzo, che è destinata ad appoggiarsi a questa piccola spalla che per ora non sente altro che il calore del seno materno…
Ed ecco che il cuore si serra, ma non è per l’angoscia, e non è per il dolore. È afferrato da un sentimento nuovo, mai provato prima. È umano, eppure è nuovo, questo sentimento è come se emergesse dalle salate e amare profondità oceaniche, ed è talmente insolito che la sua novità fa venire il batticuore.
È ancora una volta una caratteristica unica di questo quadro.
Suscita qualcosa di nuovo, come se ai sette colori dello spettro se ne aggiungesse un ottavo, ancora sconosciuto alla vista.
Perché non c’è paura sul viso della madre, e perché le sue dita non si intrecciano intorno al corpo di suo figlio con una forza tale da impedire che la morte le disserri; perché non vuole sottrarlo al suo destino?
Lei offre suo figlio al destino, non cerca di nasconderlo.
E il bambino non nasconde la faccia nel seno della madre. Anzi, è sul punto di strapparsi alla sua stretta per andare incontro al suo destino sui suoi piccoli piedi nudi.
Come spiegarlo, e come comprenderlo?
Sono un’unica cosa, e sono distinti. Vedono, sentono e pensano insieme, si fondono l’uno nell’altra, ma tutto indica che si separeranno, che l’essenza della loro comunione, della loro fusione è che si separeranno.
Succede che in certi momenti difficili siano proprio i bambini a sorprendere gli adulti con il loro buon senso, la loro tranquillità, la loro arrendevolezza. Di queste qualità bambini cristiani hanno dato prova nel corso di carestie, figli di negozianti e di artigiani ebrei durante i pogrom di Kichinev, figli di minatori, quando l’urlo della sirena annuncia che c'è stata un’esplosione sotterranea.
Ciò che nell’uomo vi è di umano, va incontro al suo destino, e in ogni epoca questo destino è particolare, è diverso da quello dell’epoca precedente. Ciò che accomuna questi diversi destini è il fatto di essere tutti ugualmente difficili…
Ma ciò che nell’uomo vi è di umano, ha continuato ad essere anche quando lo si inchiodava alla croce, anche quando lo si torturava in prigione.
Continua a vivere, questo qualcosa, nelle cave di pietra, nel freddo a meno cinquanta gradi, sui cantieri da macello della taiga, nelle trincee allagate di Przemysl e di Verdun. Continua a vivere nell’esistenza monotona dei servi, nella miseria delle lavandaie e delle donne di servizio, nella vana lotta condotta contro il bisogno, fino all’esaurimento, nella fatica senza gioia degli operai in fabbrica.

La Madonna con suo figlio fra le braccia, è ciò che c’è di umano nell’uomo, e sta in questo la sua immortalità.
Guardando la Madonna Sistina, la nostra epoca prende coscienza del proprio destino. Ogni epoca ha guardato questa donna con suo figlio nelle braccia, e fra uomini di generazioni diverse, di popoli, razze e tempi diversi, nasce una fraternità di una tenerezza commovente e dolorosa. L’uomo prende coscienza di se stesso, della sua croce, e comprende improvvisamente il meraviglioso legame che unisce tutte le epoche, il legame fra ciò che vive ora, e ciò che è stato, e tutto ciò che sarà.


II
Più tardi, mentre camminavo per la strada stupefatto e sconvolto dalla potenza di queste impressioni senza precedenti, non feci neppure il tentativo di sgarbugliare quel che sentivo e quel che pensavo.
Non potevo paragonare quest’emozione né con i giorni di lacrime e di felicità che avevo conosciuto a quindici anni leggendo Guerra e pace, né a quel che avevo provato in momenti particolarmente bui e difficili della mia vita ascoltando la musica di Beethoven.
E allora compresi che le visione di questa giovane madre con il suo bambino nelle braccia non mi riconduceva né a un libo né alla musica, ma a Treblinka…
“Questi pini, questa sabbia, questi vecchi tronchi, sono stati guardati da milioni di occhi umani dalle inferriate dai vagoni che si avvicinavano lentamente al marciapiedi… Entriamo nel campo, i nostri piedi calpestano la terra di Trblinka…. Il ticchettio dei grani che cadono e il suono dei baccelli che si aprono si fondono in una melodia triste e tranquilla. Ed è come se montando dalle profondità della terra, delle campanelle mandassero un rintocco a morto, udibile appena, triste, ampio, pieno di pace… Ecco delle camicie appartenute ai morti, semidecomposte, delle scarpe, ingranaggi di orologi, dei coltellini, delle scarpine da bambino con pompon rossi, sottovesti di pizzo, asciugamani con ricami ucraini, dei vasi, dei bidoni, delle tazze da bambino in plastica, lettere da bambino scritte a matita, dei quadretti con delle poesie,…
“Continuiamo ad avanzare su questa terra senza fondo, terra di vertigine, sulla terra di Treblinka, e improvvisamente ci arrestiamo. Sono capigliature bionde e ricce, è rame ondulato, sono capelli di ragazza, fini, leggeri, pieni di fascino, calpestati a terra, e accanto ci sono altri riccioli biondi, e più oltre, sulla sabbia chiara, delle folte trecce nere, e poi ancora, e ancora…
“E i baccelli di lupino risuonano, i grani tamburellano. Come se veramente dalle profondità della terra venisse un rintocco funebre d’innumerevoli piccole campanelle.
“Si ha l’impressione che il cuore si bloccherà, stretto dalla desolazione, da un dolore, da un’angoscia tali che un essere umano mai potrà sopportare…
[1]
Mi è sorto nell’animo il ricordo di Treblinka, e di primo acchito non ho capito…
Era lei che calcava coi suoi piedi nudi e leggeri la terra fremente di Treblinka, camminando dal luogo dove svuotavano i vagoni fino alla camera a gas. L’ho riconosciuta per l’espressione del volto e degli occhi. Ho visto suo figlio, e l’ho riconosciuto per la sua strana espressione, senza niente di infantile. Era questa l’espressione delle madri e dei bambini quando sul fondo verde scuro dei pini vedevano il muro bianco della camera a gas di Treblinka, è così che erano le loro anime.
Quante volte avevo visto come attraverso una nebbia questa gente scendere dai treni, ma non li vedevo con chiarezza, a volte i loro volti parevano sfigurati da un orrore senza nome e tutto veniva coperto da un terribile gridare, a volte lo sfinimento fisico e morale, la disperazione velavano i loro volti di un’indifferenza ottusa e cocciuta, a volte un sorriso folle e incosciente si cristallizzava sui volti di quelli che scendevano dal vagone e si avviavano verso la camera a gas.
Ed ecco che ora io potevo vedere la verità di quei volti, Raffaello li aveva disegnati quattro secoli prima: è in questo modo che l’uomo va incontro al suo destino.
La cappella Sistina, le camere a gas di Treblinka…

Ai giorni nostri una giovane madre mette al mondo un figlio. È terribile portare un bambino stretto al cuore ed ascoltare nello stesso tempo l’abbaiare di un popolo che saluta Adolf Hitler. La madre guarda il volto di suo figlio appena nato e sente nello stesso tempo gli scricchiolii, lo stridore di vetri infranti, il muggito delle sirene, il branco di lupi che canta la marcia di Horst Wessel nelle vie di Berlino. Ed ecco il rumore sordo dell’ascia della Moabita.
La madre allatta il suo bambino al seno mentre in centinaia di migliaia costruiscono muri e tendono filo spinato, erigono baracche… In uffici tranquilli si mettono a punto le camere a gas, le automobili omicide, i forni crematori…
È giunto il tempo dei lupi, il tempo del fascismo. In questo tempo gli uomini vivono come fossero lupi, e i lupi vivono come fossero uomini.
In questo tempo una giovane madre ha messo al mondo il suo bambino e l’ha fatto crescere. E Hitler, il pittore, è davanti a lei nell’edificio del museo di Dresda per decidere del suo destino. Ma il padrone d’Europa non può sostenerne lo sguardo, non può incrociare lo sguardo di suo figlio, perché loro sono esseri umani.
La loro forza umana trionfa della sua violenza: la Madonna avanza coi suoi piedi nudi e leggeri verso la camera a gas, è lei ad aver portato suo figlio sulla terra vertiginosa di Treblinka.
Il fascismo tedesco è stato annientato, la guerra ha mietuto decine di milioni di vittime, città enormi sono state trasformate in cumoli di rovine.
Nella primavera del 1945, la Madonna ha visto il cielo del nord. È venuta da noi in visita, pur non essendo invitata, ma non come una straniera di passaggio, perché era accompagnata da soldati e da autisti, su strade sfondate dalla guerra, e perciò lei fa parte della nostra vita, è a noi contemporanea.
Tutto qui da noi le è familiare, la nostra neve, il fango freddo del’autunno, la gamella ammaccata del soldato con la sua minestra così poco densa, e la cipolla ammuffita che accompagna la crosta di pane nero.
Lei ha camminato con noi, ha viaggiato per un mese e mezzo su di un treno sferragliante, ha spidocchiato i capelli sporchi e dolci del suo bambino.
Eccola avanzare a piedi nudi con il suo bambino, e venir caricata su di un vagone. Quanta strada l’aspetta, da Oboiane, vicino a Kursk, dalle terre nere di Voronez verso la taiga, verso le paludi boscose dall’altra parte degli Urali, verso le sabbie del Kazakistan?
Dov’è tuo padre? In quale cratere scavato da un obice è morto? O in quale drappello spedito a lavorare sui cantieri della taiga? O in quale baracca di dissenterici? Vania, mio piccolo Vania, perché il tuo volto è così triste? Dietro te e tua madre, il destino ha chiuso e inchiodato le finestre della tua casa natale ormai deserta. Che lungo viaggio vi attende mai? Arriverete fino in fondo? O forse morirete di sfinimento in qualche luogo ai bordi della strada, in una stazione ferroviaria, in fondo a una foresta, sulla riva paludosa di un piccolo fiume dall’altra parte degli Urali?
Certo, è proprio lei. L’ho vista nel 1930 alla stazione di Konotop in Ucraina, si era avvicinata al vagone dell’espresso, era scura per le sofferenze, e alzando i suoi splendidi occhi aveva detto, senza parlare, solo muovendo le labbra: “del pane…”
Ho visto suo figlio, aveva già trent’anni, era calzato di scalcagnati scarponi militari, di quelli che si lasciano ai piedi anche dei morti tanto sono inutilizzabili, vestito di una giacca imbottita che da uno squarcio lasciava vedere la sua spalla di un biancore latteo, mentre camminava su un sentiero di palude, con una nuvola d’insetti sospesa sopra la testa, e lui non riusciva a cacciare il nembo palpitante di miliardi d’insetti perché le sue mani reggevano sulla sua spalla un tronco umido e pesante. Ha sollevato la testa che teneva abbassata e ho visto il suo volto, la sua barba riccia e chiara che gli divorava il volto, le sue labbra semiaperte, ho visto i suoi occhi e li ho immediatamente riconosciuti: erano quelli gli occhi che mi guardavano dal quadro di Raffaello.
L’abbiamo incontrata nel 1937
[2]
: era lei che in piedi nella sua stanza stringeva fra le braccia suo figlio per l’ultima volta, gli diceva addio e gli divorava il volto con gli occhi, e poi scendeva le scale deserte del palazzo che si era ammutolito… Un sigillo di cera veniva posto sulla porta della sua camera, una macchina ufficiale l’attendeva di sotto. .. Che strano, sgomentosilenzio in quest’ora grigia e cinerea del primo mattino, e come si erano ammutoliti tutti quei palazzi…
Ed ecco che dalla penombra dell’alba sorge il suo nuovo presente: il convoglio, la prigione di transito, le sentinelle sulle torrette di legno, il fil di ferro spinato, il lavoro notturno nelle officine, e delle brande di legno, sempre queste brande…
Con un passo lento ed elastico, calzando degli stivaletti di capretto dal tacco basso, Stalin si è avvicinato al quadro e ha lungamente guardato, molto a lungo, i volti della madre e del figlio, accarezzandosi i baffi grigi.
Forse l’ha riconosciuta? L’aveva incontrata all’epoca della sua deportazione in Siberia, a Novoiudinsk, a Turukan, a Kureika, l’aveva incontrata sui treni, nelle prigioni di transito… Ha mai pensato a lei quando è diventato potente?
Ma noi uomini, noi l’abbiamo riconosciuta, abbiamo riconosciuto suo figlio: lei è noi, il loro destino siamo noi, loro sono ciò che vi è di umano nell’uomo. E se in futuro la Madonna sarà condotta in Cina o in Sudan, ovunque gli uomini la riconosceranno, come l’abbiamo riconosciuta noi oggi.
La forza miracolosa e serena di questo quadro sta anche nel fatto che ci parla della gioia di essere una creatura vivente su questa terra.
Il mondo intero, tutta l’immensità dell’universo, non è altro che materia inanimata, rassegnata nella sua schiavitù: solo la vita è il miracolo della libertà.
Questo quadro ci dice quanto la vita si a preziosa e magnifica, e che non c’è forza al mondo capace di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, pur somigliandole esteriormente, non sia più la vita.

La forza della vita, la forza di ciò che vi è di umano nell’uomo è una forza immensa, e la violenza più estrema e più assoluta non può soggiogare questa forza, perché può solamente ucciderla. È per questo che il volto della madre e del figlio sono tanto sereni: sono invincibili. In questi tempi di ferro, la morte della vita non coincide con la sua sconfitta.
Ed eccoci davanti a lei, noi, giovani e vecchi che viviamo in Russia. In un’epoca di angoscia… Le ferite non sono ancora cicatrizzate, le rovine sono ancora nere di fango, non sono ancora stati innalzati i monumenti ai caduti sulle fosse comuni di milioni di soldati, figli e fratelli nostri. I pioppi e i ciliegi selvatici calcinati, morti, si drizzano ancora nelle campagne arse vive, tristi erbacce crescono sui corpi dei vecchi, delle madri, e delle bimbe bruciati nei villaggi che hanno resistito. La terra si scuote e freme ancora nei fossati sul fondo dei quali riposano i corpi dei bambini ebrei uccisi con le loro madri. I singhiozzi delle vedove risuonano ancora di notte in innumerevoli case russe, bielorusse, ucraine. La Madonna ha attraversato tutto questo con noi, perché lei è noi, suo figlio siamo noi.
E si ha paura e vergogna, si ha dolore: perché la vita è stata tanto orribile? Non sarà per colpa mia o per colpa nostra? Perché noi siamo rimasti in vita? Che domanda terribile, penosa, e i morti sono gli unici che possono porla ai vivi. Ma i morti tacciono, e non fanno domande.
A volte, il silenzio del dopoguerra è interrotto da un’esplosione, e una nebbia radioattiva si diffonde nel cielo.
La terra sulla quale viviamo tutti ha trasalito: le armi termonucleari prendono il posto della bomba atomica.
E presto ci congederemo dalla Madonna.
Lei ha vissuto la nostra vita, con noi. E giudicateci dunque, noi, tutti gli uomini, con la Madonna e suo figlio. Noi fra poco ce ne andremo i nostri capelli essendo già bianchi. Ma lei, questa giovane madre, lei andrà incontro al suo destino portando suo figlio fra le braccia e con un’altra generazione di uomini vedrà una luce potente e accecante: la prima esplosione di una bomba superpotente all’idrogeno, con cui si annuncia l’inizio di una nuova guerra, totale.
Cosa possiamo dire noi, gli uomini dell’epoca del fascismo, davanti al tribunale del passato e del futuro? Non abbiamo alcuna giustificazione.
E diremo: non c’è mai stato un tempo duro come il nostro, eppure non abbiamo lasciato che morisse ciò che di umano c’è nell’uomo.
Guardando partire la Madonna Sistina, noi conserviamo la fede che la vita e la libertà sono una cosa sola, e che non c’è niente al di sopra di ciò che di umano c’è nell’uomo.
Ed è questo che vivrà in eterno, e vincerà.

[1]Tratto da « L’inferno di Treblinka» di V. Grossman, in Anni di guerra. Qui se ne trova online una trascrizione della traduzione in francese.
[2]L’anno delle purghe staliniane, detto anche l’anno del Grande Terrore
redazione del Centro Culturale della Svizzera Italiana

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bellezza, maria, grossman

mercoledì, 02 giugno 2010


Dalla neve a Debussy

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http://www.galois.it/drupal/materiali/moduliapprofondimento/scalaurea.jpg


ABBAZIA BENEDETTINA DI MELK
Scala a chiocciola a forma di spirale logaritmica

CAVOLFIORE CON RAMI SPIRALIFORMI
Il “numero d’oro”. Con cui l’artista si rifà alla Creazione. Se grandi e antiche architetture, opere pittoriche e composizioni musicali sono nate dall’armonia di un numero dalle infinite cifre dopo la virgola (1,6180...), è perché “dentro” alla realtà circostante quell’armonia già esisteva. Decifrata da quel numero.
Si chiama f. Come l’iniziale dello scultore e architetto greco Fidia, da cui prende il nome. È il numero che rappresenta la sezione aurea: il rapporto tra due grandezze, diverse tra loro, dove la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la loro somma. È il rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica con il tutto.
Si ritrova nella composizione di un girasole visto al microscopio, nella geometria delle farfalle, nei cristalli di ghiaccio dei fiocchi di neve. Nel corpo umano. Se proporzionato, ripete dalla testa ai piedi questo rapporto (la distanza dal gomito alla mano, per esempio, moltiplicata per 1,618 dà la lunghezza del braccio).
Si può scorgere negli animali: nelle corna a spirale di un ariete, in una stella marina a cinque punte. Nei minerali, nella chimica. Nella botanica: nella spaziatura tra le foglie su uno stelo, nella disposizione dei petali di una margherita, in una pigna. Tutte “figure” che presentano schemi riconducibili alla sezione aurea e ai numeri della successione di Fibonacci. Una sequenza di numeri interi naturali, strettamente legata alla “divina proporzione”, in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti. E il rapporto tra due termini successivi si avvicina molto rapidamente a quello “aureo”.
C’è quindi una dimensione armonica, che imprime la natura vivente come la creazione artistica. Quella che si sorprende nel rapporto tra base e altezza della piramide egizia di Cheope. Nel rettangolo “aureo” più volte ripetuto nell’architrave del Partenone di Atene. O in una spirale logaritmica, come quella che crea la scala a chiocciola dell’abbazia benedettina di Melk. Fino alla musica. Claude Debussy è tra i compositori che più rimasero affascinati dalle proporzioni della sezione aurea. L’esempio più rigoroso è l’opera per orchestra La Mer, basata sul “numero d’oro”.


da: www.tracce.it di marzo 2010

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bellezza, reale

sabato, 17 aprile 2010
L'arte
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http://files.splinder.com/e952d63ab433f24c8e7cfdd08d224d79.jpeg
 L'arte è come un bambino buono. Non c'è scuola per questo. Non bisogna cercare di disegnare bene, di dipingere bene. Non c'è professionismo in me.
 Marc Chagall
questo quadro l'ho ha dipinto a 90 anni, si vede lui in basso a destra  che pittura

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bellezza

sabato, 27 marzo 2010


Il nostro enorme bisogno del bello

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È quasi scandalosa la risposta di don Giussani a quella missionaria che si sentiva impotente di fronte a tutta la sofferenza dei suoi bambini: non dimenticarti di ciò che ci meraviglia e commuove, è memoria di Dio
diMarina Corradi

Ho conosciuto una donna che fa la missionaria con i bambini di una terra sperduta dell’Est. Mi ha raccontato di figli abbandonati e madri sole, in un paese che ha perso quasi ogni memoria cristiana. La ascoltavo e cercavo di immaginare le sue giornate in quel posto lontano, dove l’inverno dura sei mesi e gli uomini vengono educati semplicemente a sopravvivere. A un certo punto mi è venuto istintivo domandare: ma di fronte a tanta solitudine e dolore non ti senti mai impotente, mai travolta, visto che ciò che puoi fare è comunque una goccia nel mare? (Glielo ho chiesto nel ricordo di un viaggio, anni fa, in Moldavia, quando il numero e lo stato di abbandono dei bambini di strada mi erano parsi una tale mole di sofferenza da portare inevitabilmente alla disperazione). Lei ha afferrato subito il senso della mia domanda, che in questi anni laggiù deve essersi ripresentata davanti tante volte, ora impellente, ora freddamente quieta. «Sì, accade di vedere la tua impotenza. Accade di entrare in un orfanotrofio dove cento bambini ti si accalcano attorno e ti domandano qualcosa; e allora capisci che ciò che puoi dare, comunque, non basterà mai».
Succede anche a te allora, ho detto, più attenta, come avessi incontrato una compagna di strada. E dimmi, che risposta ti sei data? Lei ha detto che non aveva saputo darsi risposta, e che dunque scrisse a don Luigi Giussani. Lui rispose. Una lettera non troppo lunga, e dei soldi, una discreta somma. Cara A., diceva, ti mando questo denaro perché tu ti compri qualcosa che sia per te molto bello. Ricordati: perché tu possa continuare a dare agli uomini che incontri, è essenziale che tu non perda il gusto del bello.
Una risposta che stupisce, soprattutto se viene da un prete. La risposta ovvia sarebbe stata una beneficenza per i poveri, e l’esortazione a mettere da parte il pensiero della propria impotenza, seme possibile di disperazione. E invece no: Giussani alla missionaria in una terra desolata diceva di badare, prima di tutto, a «non perdere il gusto del bello».
Abituata a un cristianesimo moralista e pauperista, questa risposta mi è sembrata dapprima quasi scandalosa. Poi ho capito. Ricordati, quando hai davanti abbandono e solitudine, ciò che è profondamente bello. (Le Dolomiti in un’alba d’estate, lo sguardo limpido di un bambino, i colori di un quadro di Giotto, ma anche la gatta che cova fiera i suoi gattini). Conserva il gusto del bello. Non dimenticarti mai di ciò che ci meraviglia e commuove. Perché la bellezza è orma di Dio, segno lasciato dalla sua mano. Di ciò che è bello abbiamo bisogno quasi più che del pane. Ogni bellezza è memoria di Lui, lasciata scritta, come smarrita su questa terra – lasciata lì perché noi vediamo.È il fiore che sboccia in alta montagna, fra le crepe delle rocce, dove non lo vedrà nessuno se non forse un gitante, come per caso, un mattino. E dirà fra sé: a cosa serve un fiore qui? Tanta bellezza, per chi? Per te che passi, per te che l’hai visto e ti sei fermato. È un’orma. È la Bellezza che lascia traccia di sé, perché affascinati la seguiamo.

di Marina Corradi, tratto da [Tempi.it] 23 febbraio 2009
 

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bellezza

lunedì, 15 marzo 2010
Se non ritornerete come bambini…
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"Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l'arte del ragionare e del riflettere".
Planck,padre della fisica dei quanti

"Quando noi guardiamo un fenomeno fisico particolare, ad esempio una notte piena di stelle, sentiamo dentro di noi un messaggio che ci trascende e ci domina"
Carlo Rubbia

"schiera di coloro che hanno colto la bellezza che è propria della ricerca scientifica. Uno scienziato in laboratorio non è solo un tecnico: si trova di fronte alle leggi della natura come un bambino nel mondo delle fiabe"
.

Marie Curie

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bellezza, stupore, plank

lunedì, 01 marzo 2010

La bellezza

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 La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è piú amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo piú credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è piú capace di pregare e, presto, nemmeno di amare. Il secolo XIX si è ancora aggrappato, in un’ebbrezza appassionata, alle vesti della bellezza fuggente, alle cocche svolazzanti del vecchio mondo che si dissolveva (“Elena abbraccia Faust, il corporeo svanisce, la veste e il velo gli rimangono tra le braccia... le vesti di Elena si dissolvono in nubi, circondando Faust, lo sollevano in alto e si dileguano con lui”, Faust II, atto III); il mondo illuminato da Dio diventa apparenza e sogno, romanticismo, presto ormai soltanto musica, ma, dove la nube si dissolve, rimane l’immagine insostenibile dell’angoscia, la nuda materia; poiché però non c’è piú nulla e tuttavia si ha pur bisogno di abbracciar qualcosa, allora si spinge l’uomo del nostro tempo a questo Imene impossibile, che alla fine gli fa venire in uggia qualsiasi forma di amore. Ma ciò di cui l’uomo non è piú capace, ciò per cui è diventato impotente, non può piú, proprio perché si sottrae alla sua sottomissione, essere da lui sostenuto. Non resta che negarlo o circondarlo di un silenzio di morte.
In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è piú in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto piú eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda piú nessuno e la stessa conclusione non conclude piú.
E se è cosí dei trascendentali, solo perché uno di essi è stato trascurato, che ne sarà dell’essere stesso? Se Tommaso poteva contrassegnare l’essere come “una certa luce” per l’ente, questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa e non si lascia piú che il mistero dell’essere esprima se stesso? Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce piú a cogliere il bello.
H. U. von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. I, pagg. 10-12

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bellezza, von balthasar

giovedì, 18 febbraio 2010

Un grande artista illusionista

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perle, bellezza

martedì, 05 gennaio 2010


La bellezza
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La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto
H.U.von Balthasar, La percezione della forma

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bellezza, von balthasar

giovedì, 31 dicembre 2009

Il segreto dell’armonia, quel numero divino che scorre nel sangue   
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di Vittorio Messori, Corriere della Sera, 28.12.09
La medicina s’imbatte nella “sezione aurea” 
Ne ha dato notizia, di recente, anche questo giornale. Stando ai risultati di una vasta inchiesta di un’università austriaca (ben 150.000 soggetti di entrambi i sessi controllati e seguiti per anni), hanno miglior salute e speranza di vita più elevata coloro che hanno un rapporto tra pressione arteriosa massima e minima pari a 1,618. Il curioso è che, a quanto pare, i medici che hanno pubblicato i dati dell’indagine non erano consapevoli del fatto che non si tratta di un rapporto numerico «qualunque» e si sono sorpresi quando qualcuno ha rivelato loro di che si trattava. Che cos’è, infatti, questo 1,618? Gli strumenti elettronici ne mostrano sempre più la presenza, ma era già ben noto agli antichi, che lo legarono al Sacro, chiamandolo «proporzione divina» o «sezione aurea».
Per spiegarsi con l’esempio più semplice: da un bastone di un metro se ne taglino 38,2 centimetri, lasciandone dunque 61,8 centimetri. I due pezzi sono così in una dimensione armonica tra loro: in effetti, il rapporto tra il pezzo più lungo e il più corto è eguale al rapporto tra il pezzo più lungo e il bastone quando era intero. Questo rapporto è costante ed è sempre di 1,618, per dare solo i tre primi decimali. Questo numero è ancor più enigmatico di quanto non apparisse agli antichi che non conoscevano, pare, la «successione di Fibonacci», dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti: 0,1,1,2,3,5,8,13... Sin dall’inizio, il rapporto tra due numeri successivi della serie si avvicina al valore esatto e, a partire da 34, diviene pari alla «sezione aurea» e tale resta all’infinito, diventando sempre più preciso. È certo che scultori, pittori e architetti greci e romani - e, forse, ancor prima egizi - si servirono largamente della «proporzione divina», tanto che secondo molti critici starebbe qui il segreto dell’armonia inimitabile di quelle opere d’arte. Forse la Grande Piramide di Cheope, certamente il Partenone di Atene, l’Arco di Costantino il Pantheon di Roma, l’acquedotto di Segovia e del Gard e molto altro hanno dimensioni calcolate in 1,618. Le Corbusier, forse il più celebre costruttore del secolo scorso, pur comunista e ateo, si fece apostolo della «proporzione divina», sostenendo che era il segreto per ritrovare una architettura a misura d’uomo. Partendo da quella dimensione armonica voleva disegnare case da abitazione e città intere, certo di contribuire così alla «pacificazione interiore». Comunque, gli artisti antichi non facevano che rifarsi al Creato che li circondava, secondo la legge classica: natura magistra  artis, la natura maestra dell’arte. In effetti era noto ai sapienti dell’era classica quanto siamo in grado di stabilire oggi con gli strumenti elettronici: quel rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica col tutto è presente nella fisica, nella botanica, nella zoologia, nella mineralogia, nella chimica. Come mostrò Leonardo con il celeberrimo disegno ispirato a Vitruvio, lo stesso corpo umano, quando le sue proporzioni sono perfette, è tagliato alla vita secondo il «numero d’oro» e nel medesimo rapporto stanno le varie parti tra loro, dal naso all’alluce. Secondo valori che coincidono o si avvicinano all’1,618 (o secondo dimensioni che rispettano la «sequenza di Fibonacci», legata direttamente a quel rapporto) sono molti altri organismi viventi, dai pesci, agli uccelli, alle farfalle. Sino al caso particolarmente evidente della stella di mare a cinque punte che non per nulla, con il pentagono che ne deriva, è antichissimo simbolo religioso - e poi massonico - perché tutto basato su questa misura. Così come molte conchiglie, cioè spirali logaritmiche rette dagli stessi rapporti presenti pure in botanica, a partire dalle foglie le quali, tra l’altro (lo si è scoperto di recente) con questa disposizione godono della migliore insolazione. Il caso più sorprendente, analizzato al computer, è il fiore di girasole, con le sue migliaia di gialli semi disposti in perfetta successione «alla Fibonacci». Bisogna guardarsi, certo, da forzature apologetiche e riconoscere che non tutto, nella natura, è misura ed armonia. L’ordine sembra convivere con il disordine, almeno apparente. Ma c’è da capire coloro che, dai tempi pagani sino ad oggi - in ambienti non solo cristiani ma anche ebraici, musulmani, buddisti, non dimenticando la tradizione delle Logge - dicono di scorgere nella «sezione aurea» le impronte digitali del Deus absconditus, del Dio che si cela e al contempo si rivela, lasciando tracce, indizi, segnali nella Sua creazione. La scoperta attuale dei ricercatori austriaci della presenza del «numero divino» nella circolazione del sangue, simbolo stesso della vita umana, sarà ulteriore conferma per chi crede di scorgere qui un enigma su cui indagare e meditare.


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bellezza, messori

mercoledì, 30 dicembre 2009

Nella bellezza l'occhio ha la sua pace
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l'occhio è sempre in cerca di sicurezza. Questo spiega l'appetito dell'occhio per la bellezza, e l'esistenza stessa della bellezza è innocua, è sicura. Non minaccia di ucciderti, non ti fa soffrire. Una statua di Apollo non morde, né morderà un cagnolino del Carpaccio.
Quando non riesce a trovare bellezza – alias sollievo – l'occhio ordina al corpo di crearla o, in alternativa, lo adatta a cogliere il lato buono della bruttezza...
Perché la bellezza è là dove l'occhio riposa nella bellezza l'occhio ha la sua pace – per parafrasare Dante.
Il senso estetico è gemello dell'istinto di conservazione ed è più attendibile dell'etica. L'occhio – principale strumento dell'estetica – è assolutamente autonomo. Nella sua autonomia è inferiore soltanto a una lacrima.”

Josif Alexandrovic Brodskij

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bellezza

lunedì, 28 dicembre 2009

Bellezza
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Bellezza è quella speciale grazia per cui una persona, una cosa, un’azione desta ammirazione, suscita incanto, affascina, procura piacere. […] Davanti alla bellezza noi restiamo estatici. La bellezza si guarda, si fissa, si contempla, si ascolta silenziosamente. La bellezza prende tutto il nostro essere. Un bel sole sull’oceano, il panorama delle Alpi, la Cappella Sistina, lo spettacolo di un bel film o di un’opera musicale… ci prendono talmente che vorremmo che non finissero mai. Nella bellezza c’è qualcosa di prodigioso, straordinario, sublime, soprannaturale che non può provenire dalla materia. Per questo motivo filosofi, teologi e poeti hanno visto nella bellezza una perfezione divina”
B. Mondin, Il problema di Dio,

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bellezza

sabato, 26 dicembre 2009

L’incontro con la bellezza ***
L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera, dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al Vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e, altrettanto spontaneamente, ci dicemmo «Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di Realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della Verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore
(Messaggio del Cardinale Joseph Ratzinger al Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini del 2002, dedicato alla via pulchritudinis)

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bellezza, benedettoxvi

domenica, 13 dicembre 2009

Arte
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 « Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio». 

Hermann Hesse

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hesse, bellezza

domenica, 18 ottobre 2009
La bellezza
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La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori.
Alda Merini

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bellezza

martedì, 29 settembre 2009
La bellezza
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Chi mantiene la capacità
di vedere la bellezza
non invecchia mai.
Franz Kafka Confessioni e diari

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bellezza, kafka

domenica, 27 settembre 2009
Ci sono due modi di vivere la vita
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Ci sono due modi di vivere la propria vita: l’uno è vivere come se nulla fosse un miracolo, e l’altro è vivere come se tutto fosse un miracolo
 Albert Einstein

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einstein, bellezza

mercoledì, 23 settembre 2009
La bellezza

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   La bellezza non è nel viso, è nella luce del cuore.
Kahlil Gibran

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gibran, bellezza

venerdì, 18 settembre 2009
 Niente progetti a tavolino:
 la lezione dell’esperienza
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 DI GIORGIO PAOLUCCI           da:
www.avvenire.it/18-09-09



Q uattordici figli naturali, ventiquattro ragazzi ospitati in affido residenziale in quattro comunità familiari, 75 in affido diurno. E poi la Contrada degli artigiani, una scuo­la- bottega dove gli artigiani insegnano vecchi mestieri ai giovani: falegnameria, tappezzeria, restauro , decorazione. E ancora, un’associazione sportiva con 100 mini-atleti (calcio, a­tletica leggera, nuoto, pallavolo), un centro diurno e varie atti­vità di sostegno ai genitori in difficoltà. Cometa, l’associazione non profit che ha promosso la scuola Oliver Twist che s’inau­gura domani, è tutto questo, ma è molto di più: è un’esperien­za di comunione. All’origine di Cometa stanno due frasi. Una la pronuncia il pa­dre dei fratelli Figini (Innocente, Erasmo e Maria Grazia) poco prima di morire: «Vi lascio la mia fede. E una sola raccomanda­zione: vivere in comunione». L’altra è di don Giussani, che per anni li ha accompagnati: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi la realtà ha lanciato le sue provocazioni, e loro le hanno raccolte. La richiesta di aiuto di un sacerdote che propone a Erasmo di prendere in casa un bambino sieropositi­vo – cosa impopolare al giorno d’oggi, figuriamoci nel 1987 –, poi l’acquisto di una vecchia cascina alla periferia di Como, che diventa la casa comune dei due fratelli e delle loro famiglie, a cui presto se ne aggiungono altre due. E il luogo attorno al quale negli anni sono na­te opere di accoglienza e educazione. «Non siamo eroi né progettisti di alcunché – si schermisce Innocente Figini –. È Dio che si fa vivo attraverso la realtà, noi rispondiamo. Alla fonte di tutto c’è un io cambiato dal­l’incontro con Cristo, unito al desiderio di condividere la vita con chi ha fatto la me­desima esperienza di cambiamento. Così, di incontro in incontro, è nato tutto ciò che oggi si chiama Cometa».
  Lui se la ricorda come fosse oggi quella fra­se profetica che Giussani gli disse durante una conversazione:
«Tra non molto diven­terà difficile,

quasi impossibile comunicare qualcosa di impor­tante

alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il

desi­derio che abita nel cuore di ogni uomo possa

essere risveglia­to
».
E chi avvicina l’esperienza di Cometa è contagiato dal fa­scino che ne promana. Un fascino che si esprime nelle opere e nella bellezza che le accompagna: il giardino, i fiori sui tavoli, l’arredo curato, la scelta dei colori, l’attenzione ai particolari. Si avverte la mano di Erasmo, affermato stilista di tessuti da arre­do, ma non c’è nessuna concessione all’estetismo formale. La bellezza non è un vestito, non è un’aggiunta, è il modo con cui si manifesta l’amore alla vita. È, ultimamente, un richiamo al Mi­stero presente in ogni cosa.
L’esperienza di Cometa ha fatto scuola ed è diventata oggetto di studio a livello accademico. L’anno scorso per conoscerla è arrivato dagli Stati Uniti il professor Lester Salamon, direttore del Centro studi sulla società civile alla Johns Hopkins Univer­sity di Baltimora, uno dei massimi esperti di non profit a livello mondiale: «Da vent’anni giro il mondo per studiare l’argomen­to, ma devo ammettere che non ho mai visto niente di simile e che questa è una delle esperienze più belle che abbia mai co­nosciuto ». Ciò che l’ha colpito di più (e che quest’anno l’ha spin­to a portare in visita alla sede di Cometa 50 suoi collaboratori provenienti da tutto il mondo) è avere visto quanto l’esperien­za della fede vissuta in una dimensione comunitaria è capace di generare un cambiamento rilevante anche a livello sociale.
Proprio quello che 

 
«La vita è tortuosa e piena di prove, ma chi ha

incontrato Gesù sa che con Lui ogni passo è

possibile, che la comunione è la ve­ra liberazione
».
 Il consiglio di Giussani: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi il fiorire di opere educative e di accoglienza

per saperne di più: http://www.puntocometa.org/

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bellezza, cattolico

giovedì, 17 settembre 2009

Come Guido d'Arezzo inventò l'alfabeto musicale
 ***
 


 
Prima di Guido d’Arezzo tutta la musica veniva necessariamente imparata a memoria, perché potesse essere anche trasmessa alle generazioni successive.

Ci furono tentativi per fissare sopra un rigo di carta i suoni musicali, ed erano degli accenti rivolti verso l’alto o verso il basso, a indicare l’andamento della melodia. Ma è chiaro che da quei segni sibillini non si poteva ricavare nulla, se il canto non era conosciuto a memoria.

Il monaco benedettino Guido, che insegnava nella scuola episcopale di Arezzo agli inizi del 1000, notò che un canto gregoriano, l’inno dei primi vespri di S. Giovanni Battista, aveva una caratteristica particolare: ogni mezzo versetto (emistichio) iniziava con una nota che saliva di un tono o semitono, secondo l’ordine naturale, conosciuto fin dal tempo di Pitagora.

L’inno era questo:

UT queant laxis REsonare fibris
MIra gestorum FAmuli tuorum
SOLve polluti LAbii reatum
Sancte Iohannes.

(Affinché i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue azioni, cancella il peccato del loro labbro impuro, oh San Giovanni).

Egli pensò così di segnare sopra dei righi (in genere 4, il tetragramma) e negli spazi intermedi le singole note di qualsiasi canto, semplicemente confrontandole a mente con quelle iniziali dell’inno di S. Giovanni.
Aveva così inventato il solfeggio cantato e soprattutto il nome delle note (Ut Re Mi Fa Sol La) e il modo di segnarle sui righi: aveva inventato l'alfabeto musicale, come i fenici quello letterale.

La prima nota, per la durezza della pronunzia, nei paesi latini (ma non in Francia) venne sostituita con il DO (che è l’inizio della seconda strofa del medesimo innno); la settima nota, il SI venne aggiunta da altri, e sono le iniziali di Sancte Iohannes.

Il papa, Giovanni XIX, venuto a conoscenza del nuovo sistema di scrittura musicale, chiamò Guido monaco a Roma e volle cimentarsi con la scrittura guidoniana. Con sua stessa grande meraviglia imparò in pochi minuti un canto che altrimenti avrebbe richiesto ore ed ore. Ed era ovviamente un canto monodico.

Pensiamo ai canti polifonici, oppure alla VIII sinfonia di Mahler, denominata Sinfonia dei Mille: mille sono gli orchestrali e i coristi…
Noi oggi non potremmo ascoltare la musica che ci piace, qualunque sia, se il monaco Guido, ad Arezzo, nel 1025, non avesse inventato l’alfabeto musicale.

 grazie a: amicusplato

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bellezza, medioevo

mercoledì, 16 settembre 2009

La bellezza
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«L’uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio, vuole trasfigurare il mondo prima di averlo esaurito, ordinarlo prima d’averlo capito. Per quanto dica, essa diserta da questo mondo».
(Albert Camus, Lo straniero)
...................................
«La verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non può essere né decifrata né spiegata con le parole, ma quando un essere umano, una persona si trova accanto a questa bellezza, si imbatte in questa bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa sentire la sua presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la schiena. La bellezza è come un miracolo, del quale l’uomo diventa involontariamente testimone. Tutto qua».
(Andrej Tarkovskij, Intervista a Poiesis)


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bellezza, tarkovskij

lunedì, 31 agosto 2009
La scala “miracolosa”

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Scala
July 06th, 2009 | Categoria: Antidoti
Sull’ultimo numero (giugno 2009) del «Timone» (rivista solo in abbonamento; fatevene mandare copia gratis: info@iltimone.org) Matteo Salvatti ricorda l’incredibile scala della chiesa di Our Lady of Loretto a Santa Fè nel New Mexico. Costruita nel 1873, è visitata da almeno 250mila persone all’anno. E’ di legno, a chiocciola, ma non si sa chi l’abbia fatta e come: non ci sono chiodi e il legno, dicono gli esperti, è di natura sconosciuta. Salita da centinaia di persone ogni giorno dal 1873, non ha alcun segno di usura e chi ci sale avverte una piacevole sensazione di leggerezza. Trentatré gradini con balaustra, è priva di pilone centrale e si regge tutta -cosa fisicamente impossibile- solo sul primo gradino. Quando le suore fecero fare la cappella in stile neogotico l’architetto Mouly semplicemente dimenticò l’accesso al coro. Era già morto quando se ne accorsero. Tutti gli ingegneri consultati dissero che non c’era nulla da fare: non c’era spazio per scale, occorreva abbattere e rifare. Le suore, che avevano esaurito il denaro, ricorsero a s. Giuseppe, cui la cappella era dedicata. Una novena continua, giorno e notte, al patrono dei carpentieri. Il nono giorno bussò alla porta uno sconosciuto che si disse in grado di eseguire l’opera. Lavorò tre mesi. Poi sparì, senza chiedere compenso. Le suore lo cercarono dappertutto ma nessuno lo aveva visto né ne aveva sentito parlare. Rimase il mistero. Che divenne miracolo quando gli esperti poterono esaminare la scala. Se andate in vacanza negli Usa, è sempre lì.


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bellezza

domenica, 30 agosto 2009
La scala “miracolosa”
A Santa Fe (New Mexico) la scala "miracoloso"
Nostra Signora della Luce
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Nel settembre del 1852, le Suore di Loreto venne a stabilirsi nella zona sud-occidentale degli Stati Uniti, via Kentucky, Missouri e Kansas. Un viaggio difficile, il rischio e ad alto in cui la Superiora, Madre Matilde, che morì di colera. Si stabilirono a Santa Fe, New Mexico. The Magdalene Sisters (sopra indicate vengono dal vescovo Lamy), Catherine, Hilary e Robert, si stabilì in una piccola casa di mattoni, circondato da una popolazione composta prevalentemente da messicani e indiani. La loro preoccupazione principale sarà quello di costruire un convento e una cappella. Essi hanno quindi fatto uso di carpentieri del Messico e ben presto lasciato il campo scuola: il Collegio di Loreto. La costruzione della cappella cominciò Luglio 25, 1873 sui piani di Mouly architetto che ha progettato la cattedrale di Santa Fe Arcivescovo Lamy è francese, ha avuto l'idea di "qualcosa di simile" a Sainte-Chapelle Paris! Questa cappella sarà la prima struttura gotica a ovest del Mississippi.
L'edificio dovrebbe essere di 8 metri di larghezza, 23 m di lunghezza, 26 m di altezza. E 'stato posto sotto il patronato di San Giuseppe. La cappella è finito, le sorelle si rese conto che se il successo è stato notevole, un grossolano errore era stato fatto: non era stata prevista la connessione tra la tribuna e il coro. N. scale e, data l'altezza della piattaforma, impossibile da installare!
Suor Madeleine appello a molti falegnami cercando di risolvere il problema. Invano. Alcuni hanno proposto di scala, altri radere tutto l'edificio da ricostruire. Le sorelle, che, ha preferito fare una novena. E aspettare e vedere.

Magazine St. Joseph
, Aprile 1960) scrive:
"Molti architetti ha affermato che sarebbe crollato a terra proprio come qualsiasi persona avrebbe osato sul primo gradino. E tuttavia è stato utilizzato quotidianamente da oltre un centinaio di anni. La scala è stato assemblato interamente a pioli di legno: non c'è un solo chiodo. La parte sotto le scale e attraverso il fango e il rack appare ora come il legno chiaro. In gesso realtà mista con crine di cavallo da utilizzare per dare rigidità. Anche molti visitatori hanno ceduto alla tentazione di portarsi a casa un souvenir, e di averla strappata la scala dei pezzi di intonaco. Nel 1952, quando le sorelle celebrato il centenario del loro arrivo a Santa Fe, che hanno sostituito l'intonaco, e dipinte in modo da dare l'impressione di vernice legno. "
Al momento della sua costruzione, le scale non aveva corrimano. Sono stati aggiunti cinque anni più tardi. Una delle ragazze che sono state poi al college era di 13. Successivamente divenne Suor Maria con le Suore di Loreto. Ha spiegato come lei ei suoi compagni furono probabilmente i primi ad usare le scale
À l’époque de sa construction, l’escalier L'ultimo giorno della novena, un uomo anziano spingendo un asino carico di strumenti, proposte per costruire una scala. Questo è stato concesso, naturalmente. In strumenti, infatti, l'uomo aveva una sega, un martello e un tee quadrato. Dopo sei mesi, il lavoro è stato completato. E l'uomo scomparve durante la notte. Senza lasciare traccia. E senza chiedere un soldo.
Madre di Madeleine, desideroso di pagare il suo debito, è andato al mulino a pagare il falegname e discreto del legno d'ordine. Ma poi, la sorpresa: non si sapeva l'uomo e non i documenti relativi ad un controllo in legno per la cappella.
Primo mistero. La seconda, e non meno importante, per le scale. Si tratta di un vero capolavoro
che ha fatto due giri completi (2 x 360 °) su se stesso. Diversamente dalla maggior parte delle scale circolari, non aveva pilastro di sostegno. Questo significa che è stata sospesa senza alcun sostegno. Tutto il suo peso si basa sul primo gradino.
Florian Sorella, OSF, che ha lasciato un resoconto della storia di questo "miracoloso" (Magazine St. Joseph, Aprile 1960) scrive:
"Molti architetti ha affermato che sarebbe crollato a terra proprio come qualsiasi persona avrebbe osato sul primo gradino. E tuttavia è stato utilizzato quotidianamente da oltre un centinaio di anni. La scala è stato assemblato interamente a pioli di legno: non c'è un solo chiodo. La parte sotto le scale e attraverso il fango e il rack appare ora come il legno chiaro. In gesso realtà mista con crine di cavallo da utilizzare per dare rigidità. Anche molti visitatori hanno ceduto alla tentazione di portarsi a casa un souvenir, e di averla strappata la scala dei pezzi di intonaco. Nel 1952, quando le sorelle celebrato il centenario del loro arrivo a Santa Fe, che hanno sostituito l'intonaco, e dipinte in modo da dare l'impressione di vernice legno. "
Al momento della sua costruzione, le scale non aveva corrimano. Sono stati aggiunti cinque anni più tardi. Una delle ragazze che sono state poi al college era di 13. Successivamente divenne Suor Maria con le Suore di Loreto. Ha spiegato come lei ei suoi compagni furono probabilmente i primi ad usare le scale
  (
Ma abbiamo così paura di salire sul podio che stavamo andando verso il basso sulle mani e sulle ginocchia.
Migliaia di visitatori è venuto - e il mondo - per esplorare questa scala misteriosa. Tra loro, molti architetti. Tutti dicevano che assolutamente non capisco come la scala è stata costruita. Né come avrebbe potuto rimanere in buono stato, come, dopo decenni di uso.


Suor Florian spiega inoltre:
"Ho parlato con le scale con il signor Urbano C. Weidner, architetto della regione di Santa Fe e la lavorazione del legno di esperti. Ha detto che non aveva mai visto una scala a chiocciola di 360 ° che non è supportato da un pilastro centrale. Una delle cose più sorprendenti su questa scala è, secondo il signor Weidner, le curve perfette di limo. Ha spiegato che il legno è collegato (carpenteria dicono "innestati") sui lati delle traverse da nove articolazioni delle dita sulla parte esterna, e sette sulla parte interna. La curvatura di ogni pezzo è perfetto. Come è stato realizzato nel 1870 da un uomo che lavora da solo in una zona appartata con gli strumenti più rudimentali? Questo non è mai stato spiegato. "
Molti esperti del legname ha cercato di identificare il legno utilizzato per indovinare le sue origini. Senza trovare alcuna risposta. I passaggi utilizzati instancabilmente per oltre un secolo, non mostrano segni di usura sul bordo. Uno di questi esperti sono convinti di aver individuato il legname come "una specie di pino granulosa sui bordi. Ancora, l'unità di grano di legno non viene dal New Mexico.
"La nostra Santa Madre Chiesa è sempre molto cauta quando si tratta di giudicare le cose soprannaturali. Pertanto, le suore ei sacerdoti della regione di Santa Fe state evitate con lo stesso spirito, di dire qualcosa di definitivo per le scale. Le suore del Collegio di Notre Dame de Lorette conosciamo oggi, come già detto la sorella Madeleine e la sua comunità, la scala è stata la risposta di San Giuseppe nelle loro preghiere. Molti piace pensare che il falegname è stato lo stesso San Giuseppe. Eppure, gli annali della comunità, come gli archivi diocesani si tace sul tema: la storia si impara, tuttavia, che la Cappella della Madonna della Luce è stata dedicata Aprile 25, 1878, ", ricorda suor Florian.

Ulteriori informazioni
La polemica è alimentato ad almeno tre fonti:
- Un libro di Jean Mary Cook. Dà, dopo un esame privato e non autenticata, la costruzione delle scale di Jean-Francois Roche dal necrologio pubblicato Gennaio 6, 1896 in Gazzetta
Nuovo Messicano Santa Fe e, riportando la scoperta del cadavere della persona uccisa, dice di essere stato "onorevolmente conosciuto a Santa Fe in qualità di esperto in legno, e aveva costruito la bellissima scalinata di Loretto Chapel.
- Un articolo di Joe Nickel, pubblicato nella
Magazine Investigator scettico (Novembre-dicembre 1998) dal titolo: "La spirale verso il cielo: gli stand scala, ma il mito crolla. Molte spiegazioni per il ragionamento del supporto tecnico di parte e molto poveri.
- Un altro sito cita un certo Oscar Hadweiber, maestro d'ascia, che, nel 1965, è affascinato dalla bellezza della scala. Ha annunciato che aveva trovato nel 1970 nella soffitta della sua sorella, la prova che suo nonno Johan, anche mastro carpentiere, che aveva viaggiato in Colorado e New Mexico, al momento della costruzione della cappella Loretto, è stato infatti l'autore delle scale. Nulla è stato autenticato. Oscar e morì nel 1980.
Il Collegio Loreto è stata chiusa nel 1968 e la proprietà è stata messa all'asta. Al momento della vendita, nel 1971, la cappella di Notre-Dame-de-la luce è stato rimosso dalla fede cattolica. Il forum di accesso è stato vietato nel 1970. Non a causa della obsolescenza delle scale, ma a causa della rigorosa applicazione delle norme di sicurezza: la galleria non ha uscite di emergenza ...
La Cappella Loretto è ora un museo privato conservato e mantenuto, in parte, per la conservazione delle Miracolosa Scala e la Cappella stessa. Serve ancora matrimoni "romantica".
Alain Sanders
- Riferimenti: http://www.christ-roi.net

Early cronologia
-- 1622La Chiesa di San Francesco a Santa Fe è costruito.
-- 1812
L'ordine delle Suore di Loreto è stata fondata 25 aprile in Kentucky.
-- 1823
, Il Messico ottenne l'indipendenza dalla Spagna.
-- 1848
La parte sud-ovest degli Stati Uniti è venduta.
-- 1849
Il Vicariato del New Mexico è stabilita e affidata a Mons. Jean Baptiste Lamy.
-- 1852Le Suore di Loreto rispondere alla chiamata del vescovo Lamy, che ha chiesto rinforzi per istruire il suo gregge, l'invio di sei insegnanti sorelle.
-- 1853, Gli edifici primo collegio.
-- 1854Il Collegio riceve i suoi primi studenti.
-- 1855, Suore Ulteriori arrivare a Santa Fe
-- 1856Un terzo gruppo di suore è arrivato a Santa Fe
-- 1870-1880Costruzione della attuale Cattedrale di San Francesco.
-- 1873Primi lavori della cappella.
-- 1878Fine della costruzione della cappella.
Bibliografiche
Albach, Carl R. (1965) Miracolo o meraviglia di costruzione? Ristampato da un elenco di consulenza ingegnere.
Bobin, Jay (1998).
La scala, retrospettiva TV, The Buffalo News, 12 aprile, PP1, 24-25.
Bullock, Alice (1978)
Loreto e la scala miracolosa, Santa Fe, N.M., Sunstone Press.
Easley, Forrest N. (1997)
Una scala del cielo? (Stampa privata).
Knight, Christopher (1997), "proprio questo tipo di legno ...? "
Wall Street Journal.
La Scala (Ann Rinaldi, romanzo), Libri Gulliver.
La Scala. Telefilm CBS 12/04/98. Barbara Herschley. David Caradine.
"La Escalera de San José" in
San Jose Journal (Buenos Aires), 1986.
"La scala misteriosa di Santa Fe", in
Liguorian Journal (1979, Liguori, Missouri).

Postato da: giacabi a 22:37 | link | commenti
bellezza

L’ordine e il disordine
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"Se nell'ordine fissato inizialmente da Dio risiede ogni bellezza, e se la bellezza, la giustizia e la bontà sono una stessa cosa considerata da diversi punti di vista, ne consegue che al di fuori dell'ordine stabilito da Dio non esiste bontà, né bellezza, né giustizia: e poiché queste tre cose costituiscono il bene supremo, l'ordine che tulle le contiene è il bene supremo. Dato che non esiste alcuna specie di bene al di fuori dell'ordine, ciò che esiste al di fuori dell'ordine non può essere che male, né esiste alcuna specie di male che non consista nel porsi al di fuori dell'ordine; per questo motivo, come l'ordine è il bene supremo, così il disordine è il male per eccellenza".

(Juan Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano 1972, p. 204).

Postato da: giacabi a 20:22 | link | commenti
giustizia, bellezza

sabato, 08 agosto 2009
La bellezza
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" ...La bellezza non è un fatto estrinseco, ornamentale, che sopraggiunge quando tutto il resto è a posto. La bellezza nasce dal di dentro. Splendore della verità, secondo la filosofia medievale. Non è un elemento intellettuale, ma il segno di una pienezza che è maturità interiore, qualche cosa di splendente che si manifesta quando una cosa diviene ciò che veramente dovrebbe essere, secondo la sua vera essenza. Bellezza: nella maggior parte dei casi si pensa a qualche cosa di grazioso, di leggiadro, di stupendo, a meno che non si confonda con un fatto sensuale. La bellezza è qualche cosa di straordinariamente grande, che l'uomo riesce a vedere allorché l'essenza delle cose raggiunge la chiara espressione. Questa essenza è fulgida visione che rifulge nell'opera d'arte..."
(Romano Guardini)


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bellezza

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l'anima non vede la bellezza , se non è divenuta essa stessa bella
 Plotino 203-270 d.C.


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bellezza

sabato, 11 luglio 2009
PETRUCCIANI   UNO CHE SUONAVA LA VOGLIA DI VIVERE
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Dieci anni senza Michel Petrucciani; dieci anni senza uno degli artisti più geniali e sensibili che abbiano mai calcato le scene del jazz, stroncato nel 1999 (a soli 36 anni) da un implacabile morbo - osteogenesis imperfecta, meglio conosciuto come “malattia delle ossa di vetro” - che ne ha bloccato la crescita, ma che non ha gli ha mai impedito di affrontare la propria esistenza da protagonista assoluto, con l’intensità tipica di chi ama la vita fino in fondo e non vuole sprecare neppure un attimo del dono ricevuto.
Novantasette centimetri di altezza per ventisette chili di peso; numeri che farebbero sobbalzare sulla sedia i professori della scienza biogenetica e i grandi maestri del pensiero laico (e in particolare quelli che si domandano se sia vera vita quella destinata agli «esseri mostruosi e deformi» ospitati nella Piccola casa della Divina Provvidenza del Cottolengo…), ma che il piccolo pianista francese ha saputo sbandierare con baldanza e fierezza, fino a farli sembrare quelli di un gigante, sia dal punto di vista umano che artistico; arrivando a suonare al fianco di alcuni dei più grandi jazzisti della storia, da Kenny Clarke e Lee Konitz a Dizzy Gillespie e Wayne Shorter, ma anche a esibirsi in un memorabile concerto di fronte a Giovanni Paolo II in occasione del Congresso Eucaristico di Bologna del 1997.
Di Petrucciani si possono ammirare il virtuosismo funambolico e la padronanza tecnica, ma non si deve trascurare quell’immediatezza espressiva che gli permetteva di raggiungere il cuore di chiunque avesse di fronte con la più semplice e cantabile delle melodie. Vederlo suonare dal vivo era un’esperienza indimenticabile, perché ogni sua performance appariva una sfida all’impossibile. Saliva sul palco portato in braccio dagli stessi musicisti, ma non appena si sedeva al suo pianoforte - dotato di uno speciale marchingegno che gli permetteva di raggiungere i pedali - e iniziava a suonare, quel piccolo uomo diventava uno spettacolo nello spettacolo. La sua figura minuta che si contorceva e dilatava per raggiungere magicamente le estremità del pianoforte, l’agilità del suo fraseggio e la potenza del suo tocco, la poesia dei suoi refrain: ogni cosa gridava di continuo al miracolo.
Un miracolo immortalato nel Dvd-Video recentemente pubblicato dall’etichetta Dreyfus, che a un concerto di “piano solo” registrato a Marciac nel 1996 - durante il quale è possibile ascoltare alcune splendide composizioni dello stesso Petrucciani (come Looking Up o Manhattan) insieme con i tributi all’amatissimo Duke Ellington (Caravan e Take The “A” Train) - affianca il documentario Lettre à Michel Petrucciani, che il regista Frank Gassenti ha strutturato come un lungo racconto autbiografico in cui l’artista ripercorre le tappe principali della sua carriera, ma anche le toccanti interviste al papà, musicista, e al collega Aldo Romano, che Michel chiamava “il mio angelo custode”.
Una testimonianza a 360 gradi, intensa e commovente, in cui la personalità di Petrucciani emerge in tutta la sua grandezza: nell’ironia delle sue risposte, nei silenzi così eloquenti, nella profondità del suo pensiero, nella bellezza della musica. Una vera sfida alla forza di gravità che troppo spesso spinge verso il basso il nostro “mal di vivere.


Andrea Milanesi       da:   www.tracce.it



grazie all'amica : Utente: StellaNuova Stellanuova

Postato da: giacabi a 08:06 | link | commenti
canti, bellezza

domenica, 05 luglio 2009
Conoscenza attraverso la corrispondenza
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« Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo "altro" però l’anima non riesce a esprimerlo, "ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma". Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: "Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo".
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. "Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore". Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore". Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, "di seconda mano" e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. "Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato". La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, "dalla personale presenza di Cristo stesso" come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo»
CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

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