LA STORIA/
Oleg Supereco, il pittore russo che riporta l’arte cristiana in Sicilia
lunedì 16 agosto 2010
Mentre
il montacarichi - una specie di barca metallica rettangolare da cui
sporge l’intero busto degli occupanti - sale sferragliando verso
l’interno della cupola nella cattedrale di Noto, cittadina barocca in
provincia di Siracusa protetta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità,
una forza antica invade gli occhi.
Le
panche dei fedeli, giù, diventano sempre più piccole. Al contrario
delle figure dei quattro evangelisti, affrescate da poco nei pennacchi,
che avvicinandosi svelano l’imponenza dei loro sei metri e mezzo di
muscoli michelangioleschi. Ci passiamo accanto, fino quasi a sfiorare il
giallo arancio del manto di Giovanni.
Superato
il tamburo, e lasciato il montacarichi, ci si inerpica su piccole scale
che conducono alla cupola, metà della quale è già occupata da sette dei
dodici apostoli. Oltre ai restanti, manca ancora la Madonna. Entro
l’anno la Pentecoste sarà terminata.
Oleg
Supereco, la nostra guida, sembra non curarsi dei 40 metri che lo
separano dal pavimento. Si muove a suo agio sopra il ponteggio rotante
che si è fatto costruire apposta dalla stessa azienda che ha realizzato
l’impalcatura per i restauri del Parmigianino nella chiesa Santa Maria
della Steccata a Parma.
Oleg
ha 36 anni e viene da Mosca, ma da circa un decennio vive in Italia,
attualmente a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Ha preso persino
l’accento e quando va a bere con gli amici siciliani, li invita a
prendere un’“ombra” o un’“ombreta”. Oleg è un pittore. È l’artista
incaricato di affrescare i pennacchi e la cupola della chiesa Madre di
San Nicolò, la cattedrale di Noto crollata in una notte del 1996 e
riconsegnata come nuova nel 2007.
Ha
iniziato la sua opera l’anno scorso. La tecnica dell’affresco con la
quale sta abbellendo l’edificio sacro ormai è stata pressoché
abbandonata, sia per la difficoltà del procedimento (una volta stesa la
malta sulla parete, si ha tempo 2-3 ore per dipingere prima che
l’intonaco si asciughi) sia per la mancanza di grandi committenti.
Quella di Noto, quindi, è una sfida. Oltre che una di quelle occasioni
che si presentano una sola volta nella vita.
A
chi gli chiede perché dipinge, risponde: «Perché non posso non
dipingere», oppure: «La pittura è la mia preghiera attraverso cui
comunico con il Signore e Lui comunica con me. Perché quello che faccio
non lo faccio io, non lo detto io. Fa sempre Lui attraverso di me. A
volte non so nemmeno come mi riescono certe cose. Io sono solo uno
strumento». Se gli domandano, invece, quando ha capito che sarebbe
diventato un pittore, non ha dubbi: «Da sempre».
La
prima volta che suo padre, accorgendosi dell’interesse del piccolo Oleg
per le arti figurative, lo portò in un museo, lo accompagnò a visitare
soltanto le sale dei moderni. Passando per i corridoi, Oleg intravide,
in un’altra zona separata, alcuni quadri particolari che raffiguravano
volti seri su fondi dorati. Nonostante le sue insistenze, il padre non
gli permise di andare a osservarli da vicino. Erano gli anni prima della
Perestrojka. Quello fu il primo incontro dell’artista con le icone
russe. Un incontro che confermò una passione sorta a 5-6 anni, sfogliando una rivista che riportava i grandi affreschi di Raffaello e Michelangelo.
«Fui
preso subito da quella forza espressiva - ricorda -. Non mi hanno mai
entusiasmato i quadri degli impressionisti o l’arte sovietica che
parlava del quotidiano. Né la pittura realistica in cui ci sono i “veci”
seduti che bevono le “ombre”. Chiacchiere, insomma. sono
stato colpito solo dai volti delle icone, qualcosa di superiore, non
fatto da mani d’uomo, e dalle figure di Michelangelo e Raffaello. E
allora lì è scattato qualcosa. Ho detto: io devo fare quello».
Dopo il liceo artistico, Oleg si iscrive all’Accademia di Belle arti di Mosca. Avviene
così l’incontro con un maestro, Ilja Glazunov, attuale rettore
dell’Accademia e uno dei pittori contemporanei più importanti della
Russia. «Un combattente contro le forze oscure - dice Oleg -, che
afferma il Cristo ogni giorno con la sua arte. Un uomo grande, che va
controcorrente, di fronte al quale ci si sente piccoli. Una di quelle
persone che capita di incontrare ogni cento anni. Lui forse è stato
l’unico che mi ha capito, che mi ha anche salvato».
Infatti,
nonostante il forte legame con la tradizione russa, Gladunov intuisce
le potenzialità del giovane allievo, accusato dagli altri insegnanti di
essere troppo occidentale e troppo italianizzato. Artisticamente troppo
cattolico. Ma il maestro lo difende e invita gli altri a lasciarlo stare
in pace. Oggi, tra i tanti studenti che ha avuto nel corso della sua
lunga carriera, Gladunov ne nomina solo tre o quattro. Oleg è tra
questi.
Nel
1999, conclusi gli studi a Mosca, grazie a una borsa di studio approda
all’Accademia di Belle arti di Venezia dove otterrà nuovamente la laurea
con il massimo dei voti. «Anche in Italia sono stato fortunato. Ho
avuto almeno tre grandi amici. Uno
di questi è monsignor Carlo Chenis». Chenis, eletto vescovo di
Civitavecchia-Tarquinia nel 2006, è morto il 19 marzo di quest’anno. È
stato segretario della Pontificia commissione per i beni culturali della
Chiesa e membro della Pontificia commissione di archeologia sacra. È
lui a fare il nome di Oleg per gli affreschi della cattedrale siciliana.
Il
26 gennaio 2010, indirizzando ai fedeli della sua diocesi una lettera
con la quale comunicava di avere un tumore invasivo, scriveva: «Questa
settimana sono entrato nel tunnel chemioterapico per tentare di
arginare la malattia, per quanto clinicamente possibile. È davvero un
tunnel oscuro, pieno d’imprevisti e d’incertezze. Seguendo questo mio
percorso faccio esperienza del dissesto organico nel quale sono caduto.
In siffatta situazione sto riscoprendo quanto complesso e mirabile sia
il nostro organismo nel suo ordinario e silenzioso funzionamento».
Questa
scoperta, di un ordine dentro il caos e la sofferenza, per analogia è
la stessa che fa Oleg nel suo itinerario espressivo, aiutato anche da
monsignor Chenis: «I
cristiani - sostiene il pittore - hanno aggiunto qualcos’altro all’arte
antica greco-romana: il “bello” della sofferenza. L’arte cristiana
scopre un bello anche nel brutto. È una bellezza che trasforma tutto. Il
contrario dell’arte moderna, che trova il brutto nel brutto. E perfino
il brutto nel bello».
Un
mese prima che il vescovo di Civitavecchia-Tarquinia morisse, Oleg è
andato a trovarlo: «Monsignor Chenis mi ha fatto capire che anche nella
chiesa cattolica, e non solo in quella ortodossa, ci sono le persone
sante. Aveva un senso profondo dell’arte cristiana e mi ha aiutato nel
mio cammino personale e nelle mie ricerche sui simboli».
Ma
esiste ancora un’arte che possa considerarsi cristiana? Sembrerebbe di
no, a giudicare da tante opere architettoniche commissionate per i
luoghi di culto. «Questi
architetti sono innamorati di se stessi - taglia corto il pittore -.
Esprimono se stessi. Credono di essere dei geni, ma una volta non era
così. Una volta gli artisti erano servitori di Cristo, di Dio. Ma se uno
nell’arte non serve Cristo, chi serve? Il suo avversario. Nel mondo c’è
una lotta continua tra il bene e il male, tra Cristo e l’anticristo. E
oggi l’arte è diventata anticristiana. Le forme moderne che dicono
“arte, arte, arte” sono solo provocazioni. Sono solo distruzione». È
l’estetica del brutto che avanza, pervasa, secondo il pittore moscovita,
da una continua violenza in cui l’erotismo diventa pornografia e Cristo
stesso è ritratto molte volte come una sorta di indemoniato.
«La
cosa più grave - aggiunge - è che i giovani non sono più in grado di
vedere la bellezza. Non riescono più a “leggere” la bellezza di un
semplice dipinto del 400 o 500. Sembrano tutti arabi che, guardando
queste opere, non sanno più che cosa siano. È stata cancellata la
tradizione. Il bello di oggi coincide con il kitsch, che vuol dire
cattivo gusto. E se oggi va così tanto di moda, significa che stiamo
perdendo il gusto nel costruire e nel fare». Non c’è futuro, allora, per
l’arte, e per quella cristiana in particolare? «Ci deve essere, per
forza. Altrimenti…», sospira Oleg Supereco senza completare la frase e
alzando lievemente la testa. Proprio come nell’espressione del San
Giovanni raffigurato in uno dei pennacchi della cattedrale di Noto, a
cui somiglia in modo impressionante.
(Carmelo Greco)
da www.sussidiario.it
Postato da: giacabi a 17:48 |
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bellezza
La speranza di Ferenc Fricsay
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venerdì 20 febbraio 2009 da: www.ilsussidiario.it
Cosa
aiuta a sostenere la nostra speranza? Ce lo siamo chiesti dopo la
triste conclusione della vicenda di Eluana. Ce lo chiediamo ogni mattina
e, soprattutto, ogni volta che ci scontriamo con qualcosa che sembra
contraddire le nostre attese. Cosa ci aiuta? Sicuramente la
testimonianza di un uomo che spera.
È
proprio sulla base di tale certezza che questo giornale ha cercato di
seguire, con tutte le difficoltà del caso, l’animato dibattito intorno
alla tragica storia di Eluana Enlgaro. Lungi dal criminalizzare
qualcuno, o dal ridurre a questione politica qualcosa che andava a
toccare gli interrogativi più profondi dell’animo umano, abbiamo cercato
di dare voce, appunto, a uomini che sperano. Così, è stato toccante
sentire la testimonianza di persone che lottano tutti i giorni per
affermare il valore della vita anche laddove questo valore sembra
nascosto. E ci piace ricordarne i nomi: Pietro Crisafulli, Cesare Lia,
Claudio Taliento, Fulvio De Nigris, Mario Dupuis, i carcerati di Padova.
E poi ancora le parole bellissime di Bob Schindler, il padre di Terri
Schiavo, della vedova Coletta, di Oscar Giannino.
Sono state voci non di polemica, ma di speranza. Una speranza che non si spegne nemmeno di fronte alla morte.
Ancor di più: nemmeno in prossimità della morte. Ed è proprio per dar conto di quest’ultimo aspetto che abbiamo deciso di sottoporre a voi lettori i video che trovate qui sotto. Sono la registrazione delle prove della Moldava di Smetana, effettuate da Ferenc Fricsay il 14 giugno 1960.
Si tratta certamente di un documento di alta scuola musicale, di
straordinario e raffinato aiuto all’ascolto. Ma sono soprattutto una
testimonianza di speranza. Come spiega lo speaker della tv che le ha
mandate in onda per la prima volta, Fricsay (direttore d’orchestra
ungherese, nato nel 1914) era allora già molto malato; aveva subito due
operazioni e aveva passato una brutta notte; tanto che avrebbe voluto
sospendere le prove. Eppure, potrete vedere con che passione, finezza,
precisione Fricsay conduce gli orchestrali a comprendere l’intimo della
musica di Smetana. Una musica che racconta la nascita e lo scorrere di
un fiume; che poco a poco capiamo essere la figura del fluire della
nostra stessa vita.
Fricsay
sarebbe morto, non ancora cinquantenne, nel 1963. Al tempo di queste
prove la malattia lo segnava già duramente. Per questo è ancora più
commovente quando, all’inizio del quinto spezzone, il direttore si ferma
e, per spiegare un passaggio orchestrale ai musicisti, dice: «Perché è
veramente bello vivere!».
La nostra speranza, tanto spesso fragile, ha bisogno di testimoni così.
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Postato da: giacabi a 14:35 |
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speranza, bellezza
La bellezza del creato
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Henri Poincaré -
Postato da: giacabi a 17:26 |
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bellezza, scienza - articoli
Vassili Grossman: La Madonna Sistina.
È in questo modo che l’uomo va incontro al suo destino
La Madonna Sistina
di Vassili Grossman
tradotto a cura della nostra redazione dalla versione francese di Sophie Benech, edita da Editions Interférences, Parigi, 2002
Dopo aver schiacciato e annientato l’esercito della Germania fascista, le vittoriose truppe sovietiche hanno portato a Mosca alcuni quadri del museo di Dresda. Questi quadri sono stati conservati sotto chiave per quasi dieci anni.
Nella primavera del 1955, il governo sovietico ha deciso di rimandare i quadri a Dresda. Prima di rispedirli in Germania, si è deciso di mostrarli al pubblico per novanta giorni.
E fu così che il 30 maggio 1955, di buon’ora in una fredda mattina, dopo aver risalito la via Volkhonka lungo i cordoni con cui la milizia moscovita convogliava le migliaia di persone che volevano vedere i quadri dei grandi maestri, sono entrato nel museo Puskin, sono salito al primo piano e mi sono avvicinato alla Madonna Sistina.
Fin dal primo sguardo c'è una cosa che si impone, immediatamente, prima di tutto: è immortale. Ho compreso allora che prima di aver visto la Madonna Sistina avevo usato con leggerezza una parola dal potere terribile, la parola “immortalità”, ho capito che avevo confuso con l’immortalità la potente vita di alcune, particolarmente sublimi, opere umane. E pieno di venerazione per Rembrandt, per Beethoven e Tolstoji, ho capito che fra tutte le creazioni di pennello, bulino o penna che avevano stupito il mio cuore e il mio spirito, solo questo quadro di Raffaello non sarebbe morto, finché non fossero scomparsi gli uomini. E che forse, fossero scomparsi loro, le altre creature che ne avessero preso il loro posto sulla faccia della terra, lupi, ratti, orsi o rondini, si sarebbero precipitati a quattro zampe o a colpi d’ala per venire a vedere la Madonna…
Dodici generazioni hanno guardato questo quadro, un quinto dell’umanità vissuta sulla terra a partire dall’inizio dei tempi storici fino ai giorni nostri.
È stato guardato da vecchi mendicanti e da imperatori d’Europa, da studenti, da miliardari venuti da oltre gli oceani, da papi e da principi russi, è stato guardato da vergini pure e da prostitute, da colonnelli di stato maggiore, da ladri, da geni, da tessitori, da piloti di aeri da guerra e da istitutori, è stato guardato dai buoni e dai cattivi.
Da quando questo quadro esiste, sono stati fondati imperi europei e coloniali e sono crollati, è sorto il popolo americano, le fabbriche di Pittsburgh e di Detroit, ci sono state rivoluzioni, e la struttura sociale del mondo è stata trasformata… Da allora, l’umanità ha lasciato alle sue spalle le superstizioni degli alchimisti, i telai dei tessitori; i bastimenti a vela e le diligenze, i moschetti e le alabarde; è entrata nel secolo dei motori elettrici e delle turbine, il secolo dei reattori atomici e delle reazioni termonucleari.Da allora, Galileo ha scritto i sui Discorsi formulando la conoscenza dell’universo, Newton ha scritto i Principia, Einstein Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento. Da allora, Rembrandt, Goethe, Beethoven, Dostoevskij e Tolstojhanno reso più profonda la nostra anima e più bella la vita.
Ho visto una giovane madre tenere un bambino fra le sue braccia. Come posso rendere la grazia squisita d’un melo, esile e delicato, che abbia appena dato la sua prima mela, piena e bianca; la grazia d’un uccellino coi suoi pulcini appena nati, o di una cerbiatta appena diventata madre… La maternità e la grazia di una ragazzina, quasi ancora bambina.
Questa grazia, dopo aver visto la Madonna Sistina, non si può più dire che sia ineffabile o che sia misteriosa.
Nella sua Madonna Raffaello ha svelato il mistero della maternità e della sua bellezza. Ma non è da questo che dipende l’inesauribile vitalità del suo quadro. Dipende invece dal fatto che il corpo e il volto di questa giovane donna sono la sua anima, ed è questa la ragione per cui la Madonna è così bella. C’è in questa rappresentazione visiva dell’anima materna qualcosa di inaccessibile alla consapevolezza umana.
Noi sappiamo che le reazioni termonucleari trasformano la materia in una quantità di energia potentissima, ma non sappiamo rappresentarci il processo inverso, come cioè avvenga che l’energia si trasformi in materia; e qui, ecco la forza dello spirito, la maternità, cristallizzata e trasmutata in un’umile Madonna.
La sua bellezza è strettamente connessa alla vita su questa terra. Lei è democratica, umana; lei è inerente alla massa degli esseri umani – quelli dalla pelle gialla, gli strabici, i gobbi dai lunghi nasi pallidi, i neri dai capelli ricci e dalle grosse labbra – lei è universale. Lei è l’anima e lo specchio dell’umano, e tutti quelli che la guardano vedono in lei l’umano: lei è l’immagine dell’anima materna, ed è per questo che la sua bellezza è mista in modo inestricabile, si confonde con la bellezza nascosta, indistruttibile e profonda della vita che nasce all’essere – nelle cantine, nei granai, nei palazzi e nei bassifondi.
A me pare che questa Madonna sia l’espressione più atea possibile della vita, dell’umano senza alcuna partecipazione del divino.
C’erano istanti in cui mi è parso che esprimesse non solo l’umano, ma anche qualcosa di inerente alla vita terrestre nel suo senso più ampio, il mondo animale là dove negli occhi scuri della giumenta, della mucca o della cagna che nutrono i loro piccoli si può vedere, o indovinare, l’ombra prodigiosa della Madonna.
E più terrestre ancora mia pare sia il bambino che tiene fra le braccia. Il suo viso sembra più adulto di quello di sua madre. Uno sguardo che è ad un tempo triste e serio, si dirige ad un tempo diritto davanti a sé e dentro di sé, uno sguardo capace di conoscere, di vedere il destino.
I loro volti sono tranquilli e tristi. Forse vedono il Golgota, la via di polvere e sassi che vi conduce, e la croce, mostruosa, tozza e pesante, di legno grezzo, che è destinata ad appoggiarsi a questa piccola spalla che per ora non sente altro che il calore del seno materno…
Ed ecco che il cuore si serra, ma non è per l’angoscia, e non è per il dolore. È afferrato da un sentimento nuovo, mai provato prima. È umano, eppure è nuovo, questo sentimento è come se emergesse dalle salate e amare profondità oceaniche, ed è talmente insolito che la sua novità fa venire il batticuore.
È ancora una volta una caratteristica unica di questo quadro.
Suscita qualcosa di nuovo, come se ai sette colori dello spettro se ne aggiungesse un ottavo, ancora sconosciuto alla vista.
Perché non c’è paura sul viso della madre, e perché le sue dita non si intrecciano intorno al corpo di suo figlio con una forza tale da impedire che la morte le disserri; perché non vuole sottrarlo al suo destino?
Lei offre suo figlio al destino, non cerca di nasconderlo.
E il bambino non nasconde la faccia nel seno della madre. Anzi, è sul punto di strapparsi alla sua stretta per andare incontro al suo destino sui suoi piccoli piedi nudi.
Come spiegarlo, e come comprenderlo?
Sono un’unica cosa, e sono distinti. Vedono, sentono e pensano insieme, si fondono l’uno nell’altra, ma tutto indica che si separeranno, che l’essenza della loro comunione, della loro fusione è che si separeranno.
Succede che in certi momenti difficili siano proprio i bambini a sorprendere gli adulti con il loro buon senso, la loro tranquillità, la loro arrendevolezza. Di queste qualità bambini cristiani hanno dato prova nel corso di carestie, figli di negozianti e di artigiani ebrei durante i pogrom di Kichinev, figli di minatori, quando l’urlo della sirena annuncia che c'è stata un’esplosione sotterranea.
Ciò che nell’uomo vi è di umano, va incontro al suo destino, e in ogni epoca questo destino è particolare, è diverso da quello dell’epoca precedente. Ciò che accomuna questi diversi destini è il fatto di essere tutti ugualmente difficili…
Ma ciò che nell’uomo vi è di umano, ha continuato ad essere anche quando lo si inchiodava alla croce, anche quando lo si torturava in prigione.
Continua a vivere, questo qualcosa, nelle cave di pietra, nel freddo a meno cinquanta gradi, sui cantieri da macello della taiga, nelle trincee allagate di Przemysl e di Verdun. Continua a vivere nell’esistenza monotona dei servi, nella miseria delle lavandaie e delle donne di servizio, nella vana lotta condotta contro il bisogno, fino all’esaurimento, nella fatica senza gioia degli operai in fabbrica.
La Madonna con suo figlio fra le braccia, è ciò che c’è di umano nell’uomo, e sta in questo la sua immortalità.
Guardando la Madonna Sistina, la nostra epoca prende coscienza del proprio destino. Ogni epoca ha guardato questa donna con suo figlio nelle braccia, e fra uomini di generazioni diverse, di popoli, razze e tempi diversi, nasce una fraternità di una tenerezza commovente e dolorosa. L’uomo prende coscienza di se stesso, della sua croce, e comprende improvvisamente il meraviglioso legame che unisce tutte le epoche, il legame fra ciò che vive ora, e ciò che è stato, e tutto ciò che sarà.
II
Più tardi, mentre camminavo per la strada stupefatto e sconvolto dalla potenza di queste impressioni senza precedenti, non feci neppure il tentativo di sgarbugliare quel che sentivo e quel che pensavo.
Non potevo paragonare quest’emozione né con i giorni di lacrime e di felicità che avevo conosciuto a quindici anni leggendo Guerra e pace, né a quel che avevo provato in momenti particolarmente bui e difficili della mia vita ascoltando la musica di Beethoven.
E allora compresi che le visione di questa giovane madre con il suo bambino nelle braccia non mi riconduceva né a un libo né alla musica, ma a Treblinka…
“Questi pini, questa sabbia, questi vecchi tronchi, sono stati guardati da milioni di occhi umani dalle inferriate dai vagoni che si avvicinavano lentamente al marciapiedi… Entriamo nel campo, i nostri piedi calpestano la terra di Trblinka…. Il ticchettio dei grani che cadono e il suono dei baccelli che si aprono si fondono in una melodia triste e tranquilla. Ed è come se montando dalle profondità della terra, delle campanelle mandassero un rintocco a morto, udibile appena, triste, ampio, pieno di pace… Ecco delle camicie appartenute ai morti, semidecomposte, delle scarpe, ingranaggi di orologi, dei coltellini, delle scarpine da bambino con pompon rossi, sottovesti di pizzo, asciugamani con ricami ucraini, dei vasi, dei bidoni, delle tazze da bambino in plastica, lettere da bambino scritte a matita, dei quadretti con delle poesie,…
“Continuiamo ad avanzare su questa terra senza fondo, terra di vertigine, sulla terra di Treblinka, e improvvisamente ci arrestiamo. Sono capigliature bionde e ricce, è rame ondulato, sono capelli di ragazza, fini, leggeri, pieni di fascino, calpestati a terra, e accanto ci sono altri riccioli biondi, e più oltre, sulla sabbia chiara, delle folte trecce nere, e poi ancora, e ancora…
“E i baccelli di lupino risuonano, i grani tamburellano. Come se veramente dalle profondità della terra venisse un rintocco funebre d’innumerevoli piccole campanelle.
“Si ha l’impressione che il cuore si bloccherà, stretto dalla desolazione, da un dolore, da un’angoscia tali che un essere umano mai potrà sopportare…”[1]
Mi è sorto nell’animo il ricordo di Treblinka, e di primo acchito non ho capito…
Era lei che calcava coi suoi piedi nudi e leggeri la terra fremente di Treblinka, camminando dal luogo dove svuotavano i vagoni fino alla camera a gas. L’ho riconosciuta per l’espressione del volto e degli occhi. Ho visto suo figlio, e l’ho riconosciuto per la sua strana espressione, senza niente di infantile. Era questa l’espressione delle madri e dei bambini quando sul fondo verde scuro dei pini vedevano il muro bianco della camera a gas di Treblinka, è così che erano le loro anime.
Quante volte avevo visto come attraverso una nebbia questa gente scendere dai treni, ma non li vedevo con chiarezza, a volte i loro volti parevano sfigurati da un orrore senza nome e tutto veniva coperto da un terribile gridare, a volte lo sfinimento fisico e morale, la disperazione velavano i loro volti di un’indifferenza ottusa e cocciuta, a volte un sorriso folle e incosciente si cristallizzava sui volti di quelli che scendevano dal vagone e si avviavano verso la camera a gas.
Ed ecco che ora io potevo vedere la verità di quei volti, Raffaello li aveva disegnati quattro secoli prima: è in questo modo che l’uomo va incontro al suo destino.
La cappella Sistina, le camere a gas di Treblinka…
Ai giorni nostri una giovane madre mette al mondo un figlio. È terribile portare un bambino stretto al cuore ed ascoltare nello stesso tempo l’abbaiare di un popolo che saluta Adolf Hitler. La madre guarda il volto di suo figlio appena nato e sente nello stesso tempo gli scricchiolii, lo stridore di vetri infranti, il muggito delle sirene, il branco di lupi che canta la marcia di Horst Wessel nelle vie di Berlino. Ed ecco il rumore sordo dell’ascia della Moabita.
La madre allatta il suo bambino al seno mentre in centinaia di migliaia costruiscono muri e tendono filo spinato, erigono baracche… In uffici tranquilli si mettono a punto le camere a gas, le automobili omicide, i forni crematori…
È giunto il tempo dei lupi, il tempo del fascismo. In questo tempo gli uomini vivono come fossero lupi, e i lupi vivono come fossero uomini.
In questo tempo una giovane madre ha messo al mondo il suo bambino e l’ha fatto crescere. E Hitler, il pittore, è davanti a lei nell’edificio del museo di Dresda per decidere del suo destino. Ma il padrone d’Europa non può sostenerne lo sguardo, non può incrociare lo sguardo di suo figlio, perché loro sono esseri umani.
La loro forza umana trionfa della sua violenza: la Madonna avanza coi suoi piedi nudi e leggeri verso la camera a gas, è lei ad aver portato suo figlio sulla terra vertiginosa di Treblinka.
Il fascismo tedesco è stato annientato, la guerra ha mietuto decine di milioni di vittime, città enormi sono state trasformate in cumoli di rovine.
Nella primavera del 1945, la Madonna ha visto il cielo del nord. È venuta da noi in visita, pur non essendo invitata, ma non come una straniera di passaggio, perché era accompagnata da soldati e da autisti, su strade sfondate dalla guerra, e perciò lei fa parte della nostra vita, è a noi contemporanea.
Tutto qui da noi le è familiare, la nostra neve, il fango freddo del’autunno, la gamella ammaccata del soldato con la sua minestra così poco densa, e la cipolla ammuffita che accompagna la crosta di pane nero.
Lei ha camminato con noi, ha viaggiato per un mese e mezzo su di un treno sferragliante, ha spidocchiato i capelli sporchi e dolci del suo bambino.
Eccola avanzare a piedi nudi con il suo bambino, e venir caricata su di un vagone. Quanta strada l’aspetta, da Oboiane, vicino a Kursk, dalle terre nere di Voronez verso la taiga, verso le paludi boscose dall’altra parte degli Urali, verso le sabbie del Kazakistan?
Dov’è tuo padre? In quale cratere scavato da un obice è morto? O in quale drappello spedito a lavorare sui cantieri della taiga? O in quale baracca di dissenterici? Vania, mio piccolo Vania, perché il tuo volto è così triste? Dietro te e tua madre, il destino ha chiuso e inchiodato le finestre della tua casa natale ormai deserta. Che lungo viaggio vi attende mai? Arriverete fino in fondo? O forse morirete di sfinimento in qualche luogo ai bordi della strada, in una stazione ferroviaria, in fondo a una foresta, sulla riva paludosa di un piccolo fiume dall’altra parte degli Urali?
Certo, è proprio lei. L’ho vista nel 1930 alla stazione di Konotop in Ucraina, si era avvicinata al vagone dell’espresso, era scura per le sofferenze, e alzando i suoi splendidi occhi aveva detto, senza parlare, solo muovendo le labbra: “del pane…”
Ho visto suo figlio, aveva già trent’anni, era calzato di scalcagnati scarponi militari, di quelli che si lasciano ai piedi anche dei morti tanto sono inutilizzabili, vestito di una giacca imbottita che da uno squarcio lasciava vedere la sua spalla di un biancore latteo, mentre camminava su un sentiero di palude, con una nuvola d’insetti sospesa sopra la testa, e lui non riusciva a cacciare il nembo palpitante di miliardi d’insetti perché le sue mani reggevano sulla sua spalla un tronco umido e pesante. Ha sollevato la testa che teneva abbassata e ho visto il suo volto, la sua barba riccia e chiara che gli divorava il volto, le sue labbra semiaperte, ho visto i suoi occhi e li ho immediatamente riconosciuti: erano quelli gli occhi che mi guardavano dal quadro di Raffaello.
L’abbiamo incontrata nel 1937[2]: era lei che in piedi nella sua stanza stringeva fra le braccia suo figlio per l’ultima volta, gli diceva addio e gli divorava il volto con gli occhi, e poi scendeva le scale deserte del palazzo che si era ammutolito… Un sigillo di cera veniva posto sulla porta della sua camera, una macchina ufficiale l’attendeva di sotto. .. Che strano, sgomentosilenzio in quest’ora grigia e cinerea del primo mattino, e come si erano ammutoliti tutti quei palazzi…
Ed ecco che dalla penombra dell’alba sorge il suo nuovo presente: il convoglio, la prigione di transito, le sentinelle sulle torrette di legno, il fil di ferro spinato, il lavoro notturno nelle officine, e delle brande di legno, sempre queste brande…
Con un passo lento ed elastico, calzando degli stivaletti di capretto dal tacco basso, Stalin si è avvicinato al quadro e ha lungamente guardato, molto a lungo, i volti della madre e del figlio, accarezzandosi i baffi grigi.
Forse l’ha riconosciuta? L’aveva incontrata all’epoca della sua deportazione in Siberia, a Novoiudinsk, a Turukan, a Kureika, l’aveva incontrata sui treni, nelle prigioni di transito… Ha mai pensato a lei quando è diventato potente?
Ma noi uomini, noi l’abbiamo riconosciuta, abbiamo riconosciuto suo figlio: lei è noi, il loro destino siamo noi, loro sono ciò che vi è di umano nell’uomo. E se in futuro la Madonna sarà condotta in Cina o in Sudan, ovunque gli uomini la riconosceranno, come l’abbiamo riconosciuta noi oggi.
La forza miracolosa e serena di questo quadro sta anche nel fatto che ci parla della gioia di essere una creatura vivente su questa terra.
Il mondo intero, tutta l’immensità dell’universo, non è altro che materia inanimata, rassegnata nella sua schiavitù: solo la vita è il miracolo della libertà.
Questo quadro ci dice quanto la vita si a preziosa e magnifica, e che non c’è forza al mondo capace di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, pur somigliandole esteriormente, non sia più la vita.
La forza della vita, la forza di ciò che vi è di umano nell’uomo è una forza immensa, e la violenza più estrema e più assoluta non può soggiogare questa forza, perché può solamente ucciderla. È per questo che il volto della madre e del figlio sono tanto sereni: sono invincibili. In questi tempi di ferro, la morte della vita non coincide con la sua sconfitta.
Ed eccoci davanti a lei, noi, giovani e vecchi che viviamo in Russia. In un’epoca di angoscia… Le ferite non sono ancora cicatrizzate, le rovine sono ancora nere di fango, non sono ancora stati innalzati i monumenti ai caduti sulle fosse comuni di milioni di soldati, figli e fratelli nostri. I pioppi e i ciliegi selvatici calcinati, morti, si drizzano ancora nelle campagne arse vive, tristi erbacce crescono sui corpi dei vecchi, delle madri, e delle bimbe bruciati nei villaggi che hanno resistito. La terra si scuote e freme ancora nei fossati sul fondo dei quali riposano i corpi dei bambini ebrei uccisi con le loro madri. I singhiozzi delle vedove risuonano ancora di notte in innumerevoli case russe, bielorusse, ucraine. La Madonna ha attraversato tutto questo con noi, perché lei è noi, suo figlio siamo noi.
E si ha paura e vergogna, si ha dolore: perché la vita è stata tanto orribile? Non sarà per colpa mia o per colpa nostra? Perché noi siamo rimasti in vita? Che domanda terribile, penosa, e i morti sono gli unici che possono porla ai vivi. Ma i morti tacciono, e non fanno domande.
A volte, il silenzio del dopoguerra è interrotto da un’esplosione, e una nebbia radioattiva si diffonde nel cielo.
La terra sulla quale viviamo tutti ha trasalito: le armi termonucleari prendono il posto della bomba atomica.
E presto ci congederemo dalla Madonna.
Lei ha vissuto la nostra vita, con noi. E giudicateci dunque, noi, tutti gli uomini, con la Madonna e suo figlio. Noi fra poco ce ne andremo i nostri capelli essendo già bianchi. Ma lei, questa giovane madre, lei andrà incontro al suo destino portando suo figlio fra le braccia e con un’altra generazione di uomini vedrà una luce potente e accecante: la prima esplosione di una bomba superpotente all’idrogeno, con cui si annuncia l’inizio di una nuova guerra, totale.
Cosa possiamo dire noi, gli uomini dell’epoca del fascismo, davanti al tribunale del passato e del futuro? Non abbiamo alcuna giustificazione.
E diremo: non c’è mai stato un tempo duro come il nostro, eppure non abbiamo lasciato che morisse ciò che di umano c’è nell’uomo.
Guardando partire la Madonna Sistina, noi conserviamo la fede che la vita e la libertà sono una cosa sola, e che non c’è niente al di sopra di ciò che di umano c’è nell’uomo.
Ed è questo che vivrà in eterno, e vincerà.
[1]Tratto da « L’inferno di Treblinka» di V. Grossman, in Anni di guerra. Qui se ne trova online una trascrizione della traduzione in francese.
[2]L’anno delle purghe staliniane, detto anche l’anno del Grande Terrore
redazione del Centro Culturale della Svizzera Italiana
Postato da: giacabi a 08:32 |
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bellezza, maria, grossman
Dalla neve a Debussy
***
ABBAZIA BENEDETTINA DI MELK
Scala a chiocciola a forma di spirale logaritmica
CAVOLFIORE CON RAMI SPIRALIFORMI
Il “numero d’oro”. Con cui l’artista si rifà alla Creazione. Se
grandi e antiche architetture, opere pittoriche e composizioni musicali
sono nate dall’armonia di un numero dalle infinite cifre dopo la
virgola (1,6180...), è perché “dentro” alla realtà circostante quell’armonia già esisteva. Decifrata da quel numero.
Si chiama f. Come l’iniziale dello scultore e architetto greco Fidia, da cui prende il nome. È il numero che rappresenta la sezione aurea: il rapporto tra due grandezze, diverse tra loro, dove la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la loro somma. È il rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica con il tutto.
Si ritrova nella composizione di un girasole visto al microscopio, nella geometria delle farfalle, nei cristalli di ghiaccio dei fiocchi di neve. Nel corpo umano. Se proporzionato, ripete dalla testa ai piedi questo rapporto (la distanza dal gomito alla mano, per esempio, moltiplicata per 1,618 dà la lunghezza del braccio).
Si può scorgere negli animali: nelle corna a spirale di un ariete, in una stella marina a cinque punte. Nei minerali, nella chimica. Nella botanica: nella spaziatura tra le foglie su uno stelo, nella disposizione dei petali di una margherita, in una pigna. Tutte “figure” che presentano schemi riconducibili alla sezione aurea e ai numeri della successione di Fibonacci. Una sequenza di numeri interi naturali, strettamente legata alla “divina proporzione”, in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti. E il rapporto tra due termini successivi si avvicina molto rapidamente a quello “aureo”.
C’è quindi una dimensione armonica, che imprime la natura vivente come la creazione artistica. Quella che si sorprende nel rapporto tra base e altezza della piramide egizia di Cheope. Nel rettangolo “aureo” più volte ripetuto nell’architrave del Partenone di Atene. O in una spirale logaritmica, come quella che crea la scala a chiocciola dell’abbazia benedettina di Melk. Fino alla musica. Claude Debussy è tra i compositori che più rimasero affascinati dalle proporzioni della sezione aurea. L’esempio più rigoroso è l’opera per orchestra La Mer, basata sul “numero d’oro”.
da: www.tracce.it di marzo 2010
Si chiama f. Come l’iniziale dello scultore e architetto greco Fidia, da cui prende il nome. È il numero che rappresenta la sezione aurea: il rapporto tra due grandezze, diverse tra loro, dove la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la loro somma. È il rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica con il tutto.
Si ritrova nella composizione di un girasole visto al microscopio, nella geometria delle farfalle, nei cristalli di ghiaccio dei fiocchi di neve. Nel corpo umano. Se proporzionato, ripete dalla testa ai piedi questo rapporto (la distanza dal gomito alla mano, per esempio, moltiplicata per 1,618 dà la lunghezza del braccio).
Si può scorgere negli animali: nelle corna a spirale di un ariete, in una stella marina a cinque punte. Nei minerali, nella chimica. Nella botanica: nella spaziatura tra le foglie su uno stelo, nella disposizione dei petali di una margherita, in una pigna. Tutte “figure” che presentano schemi riconducibili alla sezione aurea e ai numeri della successione di Fibonacci. Una sequenza di numeri interi naturali, strettamente legata alla “divina proporzione”, in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti. E il rapporto tra due termini successivi si avvicina molto rapidamente a quello “aureo”.
C’è quindi una dimensione armonica, che imprime la natura vivente come la creazione artistica. Quella che si sorprende nel rapporto tra base e altezza della piramide egizia di Cheope. Nel rettangolo “aureo” più volte ripetuto nell’architrave del Partenone di Atene. O in una spirale logaritmica, come quella che crea la scala a chiocciola dell’abbazia benedettina di Melk. Fino alla musica. Claude Debussy è tra i compositori che più rimasero affascinati dalle proporzioni della sezione aurea. L’esempio più rigoroso è l’opera per orchestra La Mer, basata sul “numero d’oro”.
da: www.tracce.it di marzo 2010
Postato da: giacabi a 07:52 |
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bellezza, reale
L'arte
***
L'arte è come un bambino buono. Non c'è scuola per questo. Non bisogna cercare di disegnare bene, di dipingere bene. Non c'è professionismo in me.Marc Chagall questo quadro l'ho ha dipinto a 90 anni, si vede lui in basso a destra che pittura |
Postato da: giacabi a 14:01 |
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bellezza
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Postato da: giacabi a 11:46 |
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bellezza
Se non ritornerete come bambini… *** "Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l'arte del ragionare e del riflettere". Planck,padre della fisica dei quanti "Quando noi guardiamo un fenomeno fisico particolare, ad esempio una notte piena di stelle, sentiamo dentro di noi un messaggio che ci trascende e ci domina" Carlo Rubbia "schiera di coloro che hanno colto la bellezza che è propria della ricerca scientifica. Uno scienziato in laboratorio non è solo un tecnico: si trova di fronte alle leggi della natura come un bambino nel mondo delle fiabe". Marie Curie |
Postato da: giacabi a 10:17 |
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bellezza, stupore, plank
La bellezza***
La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La
bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di
pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di
splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il
loro indissolubile rapporto.
Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era
incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di
piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua
cupidità e alla sua tristezza. Essa
è la bellezza che non è piú amata e custodita nemmeno dalla
religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo
scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli
uomini.
Essa è la bellezza alla quale non osiamo piú credere e di cui abbiamo
fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa
è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno
altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e
la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due
sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi,
al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il
ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri
che – segretamente o apertamente – non è piú capace di pregare e,
presto, nemmeno di amare. Il
secolo XIX si è ancora aggrappato, in un’ebbrezza appassionata, alle
vesti della bellezza fuggente, alle cocche svolazzanti del vecchio
mondo che si dissolveva (“Elena abbraccia Faust, il corporeo svanisce,
la veste e il velo gli rimangono tra le braccia... le vesti di Elena
si dissolvono in nubi, circondando Faust, lo sollevano in alto e si
dileguano con lui”, Faust II, atto III); il mondo
illuminato da Dio diventa apparenza e sogno, romanticismo, presto
ormai soltanto musica, ma, dove la nube si dissolve, rimane l’immagine
insostenibile dell’angoscia, la nuda materia; poiché
però non c’è piú nulla e tuttavia si ha pur bisogno di abbracciar
qualcosa, allora si spinge l’uomo del nostro tempo a questo Imene
impossibile, che alla fine gli fa venire in uggia qualsiasi forma di
amore. Ma
ciò di cui l’uomo non è piú capace, ciò per cui è diventato
impotente, non può piú, proprio perché si sottrae alla sua
sottomissione, essere da lui sostenuto. Non resta che negarlo o
circondarlo di un silenzio di morte.
In
un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a
meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra,
equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che
non è piú in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il
bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo
dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto piú eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici?
In un mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli
argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di
conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo
prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici
che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il
processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda piú
nessuno e la stessa conclusione non conclude piú.
E se
è cosí dei trascendentali, solo perché uno di essi è stato trascurato,
che ne sarà dell’essere stesso? Se Tommaso poteva contrassegnare
l’essere come “una certa luce” per l’ente, questa luce non si spegnerà
là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa e non si
lascia piú che il mistero dell’essere esprima se stesso? Ciò che
avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito,
pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia
completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce piú a cogliere il bello.
H. U. von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. I, pagg. 10-12
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Postato da: giacabi a 22:02 |
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bellezza, von balthasar
Un grande artista illusionista
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Postato da: giacabi a 16:57 |
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perle, bellezza
La bellezza
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La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto
H.U.von Balthasar, La percezione della forma
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Postato da: giacabi a 17:51 |
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bellezza, von balthasar
Il segreto dell’armonia, quel numero divino che scorre nel sangue
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di Vittorio Messori, Corriere della Sera, 28.12.09
La medicina s’imbatte nella “sezione aurea”
Ne ha dato notizia, di recente, anche questo giornale. Stando ai risultati di una vasta inchiesta
di un’università austriaca (ben 150.000 soggetti di entrambi i sessi
controllati e seguiti per anni), hanno miglior salute e speranza di
vita più elevata coloro che hanno un rapporto tra pressione arteriosa
massima e minima pari a 1,618. Il curioso è che, a quanto pare, i
medici che hanno pubblicato i dati dell’indagine non erano consapevoli
del fatto che non si tratta di un rapporto numerico «qualunque» e si
sono sorpresi quando qualcuno ha rivelato loro di che si trattava. Che cos’è, infatti, questo 1,618? Gli strumenti elettronici ne mostrano sempre più la presenza, ma era già ben noto agli antichi, che lo legarono al Sacro, chiamandolo «proporzione divina» o «sezione aurea».
Per
spiegarsi con l’esempio più semplice: da un bastone di un metro se ne
taglino 38,2 centimetri, lasciandone dunque 61,8 centimetri. I due
pezzi sono così in una dimensione armonica tra loro: in effetti, il
rapporto tra il pezzo più lungo e il più corto è eguale al rapporto tra
il pezzo più lungo e il bastone quando era intero. Questo rapporto è
costante ed è sempre di 1,618,
per dare solo i tre primi decimali. Questo numero è ancor più
enigmatico di quanto non apparisse agli antichi che non conoscevano,
pare, la «successione di Fibonacci», dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti: 0,1,1,2,3,5,8,13... Sin dall’inizio, il rapporto tra due numeri successivi della serie si avvicina al valore esatto e, a partire da 34, diviene pari alla «sezione aurea» e tale resta all’infinito, diventando sempre più preciso.
È certo che scultori, pittori e architetti greci e romani - e, forse,
ancor prima egizi - si servirono largamente della «proporzione
divina», tanto che secondo molti critici starebbe qui il segreto
dell’armonia inimitabile di quelle opere d’arte. Forse la
Grande Piramide di Cheope, certamente il Partenone di Atene, l’Arco di
Costantino il Pantheon di Roma, l’acquedotto di Segovia e del Gard e
molto altro hanno dimensioni calcolate in 1,618. Le
Corbusier, forse il più celebre costruttore del secolo scorso, pur
comunista e ateo, si fece apostolo della «proporzione divina»,
sostenendo che era il segreto per ritrovare una architettura a misura
d’uomo. Partendo da quella dimensione armonica voleva disegnare case
da abitazione e città intere, certo di contribuire così alla
«pacificazione interiore». Comunque, gli artisti antichi non
facevano che rifarsi al Creato che li circondava, secondo la legge
classica: natura magistra artis, la natura
maestra dell’arte. In effetti era noto ai sapienti dell’era classica
quanto siamo in grado di stabilire oggi con gli strumenti elettronici:
quel rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica col
tutto è presente nella fisica, nella botanica, nella zoologia, nella
mineralogia, nella chimica. Come mostrò Leonardo con il
celeberrimo disegno ispirato a Vitruvio, lo stesso corpo umano, quando
le sue proporzioni sono perfette, è tagliato alla vita secondo il
«numero d’oro» e nel medesimo rapporto stanno le varie parti tra loro,
dal naso all’alluce. Secondo valori che coincidono o si avvicinano all’1,618
(o secondo dimensioni che rispettano la «sequenza di Fibonacci»,
legata direttamente a quel rapporto) sono molti altri organismi
viventi, dai pesci, agli uccelli, alle farfalle. Sino al caso
particolarmente evidente della stella di mare a cinque punte che non
per nulla, con il pentagono che ne deriva, è antichissimo simbolo
religioso - e poi massonico - perché tutto basato su questa misura.
Così come molte conchiglie, cioè spirali logaritmiche rette
dagli stessi rapporti presenti pure in botanica, a partire dalle
foglie le quali, tra l’altro (lo si è scoperto di recente) con questa
disposizione godono della migliore insolazione. Il caso più
sorprendente, analizzato al computer, è il fiore di girasole, con le
sue migliaia di gialli semi disposti in perfetta successione «alla
Fibonacci». Bisogna guardarsi, certo, da forzature apologetiche e
riconoscere che non tutto, nella natura, è misura ed armonia. L’ordine
sembra convivere con il disordine, almeno apparente. Ma c’è da capire
coloro che, dai tempi pagani sino ad oggi - in ambienti non solo
cristiani ma anche ebraici, musulmani, buddisti, non dimenticando la
tradizione delle Logge - dicono di scorgere nella «sezione
aurea» le impronte digitali del Deus absconditus, del Dio che si cela
e al contempo si rivela, lasciando tracce, indizi, segnali nella Sua
creazione. La scoperta attuale dei ricercatori austriaci della
presenza del «numero divino» nella circolazione del sangue, simbolo
stesso della vita umana, sarà ulteriore conferma per chi crede di
scorgere qui un enigma su cui indagare e meditare.
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Postato da: giacabi a 19:19 |
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bellezza, messori
Nella bellezza l'occhio ha la sua pace
***
“l'occhio è sempre in cerca di sicurezza.
Questo spiega l'appetito dell'occhio per la bellezza, e l'esistenza
stessa della bellezza è innocua, è sicura. Non minaccia di ucciderti,
non ti fa soffrire. Una statua di Apollo non morde, né morderà un
cagnolino del Carpaccio.
Quando
non riesce a trovare bellezza – alias sollievo – l'occhio ordina al
corpo di crearla o, in alternativa, lo adatta a cogliere il lato buono
della bruttezza...
Perché la bellezza è là dove l'occhio riposa – nella bellezza l'occhio ha la sua pace – per parafrasare Dante.
Il
senso estetico è gemello dell'istinto di conservazione ed è più
attendibile dell'etica. L'occhio – principale strumento dell'estetica –
è assolutamente autonomo. Nella sua autonomia è inferiore soltanto a
una lacrima.”
Josif Alexandrovic Brodskij |
Postato da: giacabi a 09:31 |
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bellezza
Bellezza
***
“Bellezza
è quella speciale grazia per cui una persona, una cosa, un’azione
desta ammirazione, suscita incanto, affascina, procura piacere.
[…] Davanti alla bellezza noi restiamo estatici. La bellezza si guarda,
si fissa, si contempla, si ascolta silenziosamente. La bellezza
prende tutto il nostro essere. Un bel sole sull’oceano, il panorama
delle Alpi, la Cappella Sistina, lo spettacolo di un bel film o di
un’opera musicale… ci prendono talmente che vorremmo che non finissero
mai. Nella
bellezza c’è qualcosa di prodigioso, straordinario, sublime,
soprannaturale che non può provenire dalla materia. Per questo motivo
filosofi, teologi e poeti hanno visto nella bellezza una perfezione
divina”
B. Mondin, Il problema di Dio,
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Postato da: giacabi a 08:06 |
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bellezza
L’incontro con la bellezza ***
L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi,
tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di
giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti.
Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach
diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera, dopo la precoce
scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al Vescovo evangelico
Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi
Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo
spontaneamente l’uno all’altro e, altrettanto spontaneamente, ci
dicemmo «Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di Realtà presente da rendersi conto, non
più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò
non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla
forza della Verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore”
(Messaggio del Cardinale Joseph Ratzinger al Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini del 2002, dedicato alla via pulchritudinis)
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Postato da: giacabi a 21:25 |
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bellezza, benedettoxvi
Arte
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« Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».
Hermann Hesse |
Postato da: giacabi a 12:59 |
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hesse, bellezza
La bellezza
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Alda Merini
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Postato da: giacabi a 20:53 |
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bellezza
La bellezza
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Chi mantiene la capacità
di vedere la bellezza
non invecchia mai.
Franz Kafka Confessioni e diari
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Postato da: giacabi a 14:45 |
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bellezza, kafka
Ci sono due modi di vivere la vita
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Ci sono due modi di vivere la propria vita: l’uno è vivere come se nulla fosse un miracolo, e l’altro è vivere come se tutto fosse un miracolo”
Albert Einstein
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Postato da: giacabi a 22:22 |
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einstein, bellezza
La bellezza
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La bellezza non è nel viso, è nella luce del cuore.
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Postato da: giacabi a 21:23 |
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gibran, bellezza
Niente progetti a tavolino:
la lezione dell’esperienza
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DI GIORGIO PAOLUCCI da: www.avvenire.it/18-09-09
Q
uattordici figli naturali, ventiquattro ragazzi ospitati in affido
residenziale in quattro comunità familiari, 75 in affido diurno. E
poi la Contrada degli artigiani, una scuola- bottega dove gli
artigiani insegnano vecchi mestieri ai giovani: falegnameria,
tappezzeria, restauro , decorazione. E ancora, un’associazione sportiva
con 100 mini-atleti (calcio, atletica leggera, nuoto, pallavolo), un
centro diurno e varie attività di sostegno ai genitori in difficoltà.
Cometa, l’associazione non profit che ha promosso la scuola Oliver Twist
che s’inaugura domani, è tutto questo, ma è molto di più: è
un’esperienza di comunione. All’origine
di Cometa stanno due frasi. Una la pronuncia il padre dei fratelli
Figini (Innocente, Erasmo e Maria Grazia) poco prima di morire: «Vi
lascio la mia fede. E una sola raccomandazione: vivere in comunione».
L’altra è di don Giussani, che per anni li ha accompagnati: «Andate a
vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi la realtà ha lanciato le sue provocazioni, e loro le hanno raccolte. La
richiesta di aiuto di un sacerdote che propone a Erasmo di prendere in
casa un bambino sieropositivo – cosa impopolare al giorno d’oggi,
figuriamoci nel 1987 –, poi l’acquisto di una vecchia cascina alla
periferia di Como, che diventa la casa comune dei due fratelli e delle
loro famiglie, a cui presto se ne aggiungono altre due. E il luogo attorno al quale negli anni sono nate opere di accoglienza e educazione. «Non
siamo eroi né progettisti di alcunché – si schermisce Innocente Figini
–. È Dio che si fa vivo attraverso la realtà, noi rispondiamo. Alla
fonte di tutto c’è un io cambiato dall’incontro con Cristo, unito al
desiderio di condividere la vita con chi ha fatto la medesima
esperienza di cambiamento. Così, di incontro in incontro, è nato tutto
ciò che oggi si chiama Cometa».
per saperne di più: http://www.puntocometa.org/Lui se la ricorda come fosse oggi quella frase profetica che Giussani gli disse durante una conversazione: «Tra non molto diventerà difficile, quasi impossibile comunicare qualcosa di importante alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il desiderio che abita nel cuore di ogni uomo possa essere risvegliato ». E chi avvicina l’esperienza di Cometa è contagiato dal fascino che ne promana. Un fascino che si esprime nelle opere e nella bellezza che le accompagna: il giardino, i fiori sui tavoli, l’arredo curato, la scelta dei colori, l’attenzione ai particolari. Si avverte la mano di Erasmo, affermato stilista di tessuti da arredo, ma non c’è nessuna concessione all’estetismo formale. La bellezza non è un vestito, non è un’aggiunta, è il modo con cui si manifesta l’amore alla vita. È, ultimamente, un richiamo al Mistero presente in ogni cosa. L’esperienza di Cometa ha fatto scuola ed è diventata oggetto di studio a livello accademico. L’anno scorso per conoscerla è arrivato dagli Stati Uniti il professor Lester Salamon, direttore del Centro studi sulla società civile alla Johns Hopkins University di Baltimora, uno dei massimi esperti di non profit a livello mondiale: «Da vent’anni giro il mondo per studiare l’argomento, ma devo ammettere che non ho mai visto niente di simile e che questa è una delle esperienze più belle che abbia mai conosciuto ». Ciò che l’ha colpito di più (e che quest’anno l’ha spinto a portare in visita alla sede di Cometa 50 suoi collaboratori provenienti da tutto il mondo) è avere visto quanto l’esperienza della fede vissuta in una dimensione comunitaria è capace di generare un cambiamento rilevante anche a livello sociale. Proprio quello che «La vita è tortuosa e piena di prove, ma chi ha incontrato Gesù sa che con Lui ogni passo è possibile, che la comunione è la vera liberazione». Il consiglio di Giussani: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi il fiorire di opere educative e di accoglienza |
Postato da: giacabi a 16:05 |
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bellezza, cattolico
Come Guido d'Arezzo inventò l'alfabeto musicale
***
Prima di Guido d’Arezzo
tutta la musica veniva necessariamente imparata a memoria, perché
potesse essere anche trasmessa alle generazioni successive.
Ci
furono tentativi per fissare sopra un rigo di carta i suoni musicali,
ed erano degli accenti rivolti verso l’alto o verso il basso, a indicare
l’andamento della melodia. Ma è chiaro che da quei segni sibillini non
si poteva ricavare nulla, se il canto non era conosciuto a memoria.
Il
monaco benedettino Guido, che insegnava nella scuola episcopale di
Arezzo agli inizi del 1000, notò che un canto gregoriano, l’inno dei
primi vespri di S. Giovanni Battista, aveva una caratteristica
particolare: ogni mezzo versetto (emistichio) iniziava con una nota che
saliva di un tono o semitono, secondo l’ordine naturale, conosciuto fin
dal tempo di Pitagora.
L’inno era questo:
UT queant laxis REsonare fibris
MIra gestorum FAmuli tuorum
SOLve polluti LAbii reatum
Sancte Iohannes.
(Affinché
i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue
azioni, cancella il peccato del loro labbro impuro, oh San Giovanni).
Egli
pensò così di segnare sopra dei righi (in genere 4, il tetragramma) e
negli spazi intermedi le singole note di qualsiasi canto, semplicemente
confrontandole a mente con quelle iniziali dell’inno di S. Giovanni.
Aveva
così inventato il solfeggio cantato e soprattutto il nome delle note
(Ut Re Mi Fa Sol La) e il modo di segnarle sui righi: aveva inventato
l'alfabeto musicale, come i fenici quello letterale.
La prima nota, per la durezza della pronunzia, nei paesi latini (ma non in Francia) venne sostituita con il DO (che è l’inizio della seconda strofa del medesimo innno); la settima nota, il SI venne aggiunta da altri, e sono le iniziali di Sancte Iohannes.
Il
papa, Giovanni XIX, venuto a conoscenza del nuovo sistema di scrittura
musicale, chiamò Guido monaco a Roma e volle cimentarsi con la scrittura
guidoniana. Con sua stessa
grande meraviglia imparò in pochi minuti un canto che altrimenti avrebbe
richiesto ore ed ore. Ed era ovviamente un canto monodico.
Pensiamo
ai canti polifonici, oppure alla VIII sinfonia di Mahler, denominata
Sinfonia dei Mille: mille sono gli orchestrali e i coristi…
Noi
oggi non potremmo ascoltare la musica che ci piace, qualunque sia, se
il monaco Guido, ad Arezzo, nel 1025, non avesse inventato l’alfabeto
musicale.
grazie a: amicusplato
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Postato da: giacabi a 09:00 |
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bellezza, medioevo
La bellezza
***
«L’uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio, vuole trasfigurare il mondo prima di averlo esaurito, ordinarlo prima d’averlo capito. Per quanto dica, essa diserta da questo mondo».
(Albert Camus, Lo straniero) ...................................
«La verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non può essere né decifrata né spiegata con le parole, ma quando
un essere umano, una persona si trova accanto a questa bellezza, si
imbatte in questa bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa
sentire la sua presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la
schiena. La bellezza è come un miracolo, del quale l’uomo diventa involontariamente testimone. Tutto qua».
(Andrej Tarkovskij, Intervista a Poiesis) |
Postato da: giacabi a 21:12 |
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bellezza, tarkovskij
La scala “miracolosa”
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Scala
July 06th, 2009 | Categoria: Antidoti
Sull’ultimo
numero (giugno 2009) del «Timone» (rivista solo in abbonamento;
fatevene mandare copia gratis: info@iltimone.org) Matteo Salvatti
ricorda l’incredibile scala della chiesa di Our Lady of Loretto a Santa Fè nel New Mexico. Costruita nel 1873, è visitata da almeno 250mila persone all’anno. E’
di legno, a chiocciola, ma non si sa chi l’abbia fatta e come: non ci
sono chiodi e il legno, dicono gli esperti, è di natura sconosciuta. Salita
da centinaia di persone ogni giorno dal 1873, non ha alcun segno di
usura e chi ci sale avverte una piacevole sensazione di leggerezza.
Trentatré gradini con balaustra, è priva di pilone centrale e si regge
tutta -cosa fisicamente impossibile- solo sul primo gradino.
Quando le suore fecero fare la cappella in stile neogotico l’architetto
Mouly semplicemente dimenticò l’accesso al coro. Era già morto quando
se ne accorsero. Tutti gli ingegneri consultati dissero che non c’era
nulla da fare: non c’era spazio per scale, occorreva abbattere e rifare.
Le suore, che avevano esaurito il denaro, ricorsero a s. Giuseppe, cui
la cappella era dedicata. Una novena continua, giorno e notte, al
patrono dei carpentieri. Il nono giorno bussò alla porta uno sconosciuto
che si disse in grado di eseguire l’opera. Lavorò tre mesi. Poi sparì,
senza chiedere compenso. Le suore lo cercarono dappertutto ma nessuno lo
aveva visto né ne aveva sentito parlare. Rimase il mistero. Che divenne
miracolo quando gli esperti poterono esaminare la scala. Se andate in
vacanza negli Usa, è sempre lì.
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Postato da: giacabi a 14:51 |
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bellezza
Postato da: giacabi a 22:37 |
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bellezza
L’ordine e il disordine
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"Se
nell'ordine fissato inizialmente da Dio risiede ogni bellezza, e se la
bellezza, la giustizia e la bontà sono una stessa cosa considerata da
diversi punti di vista, ne
consegue che al di fuori dell'ordine stabilito da Dio non esiste bontà,
né bellezza, né giustizia: e poiché queste tre cose costituiscono il
bene supremo, l'ordine che tulle le contiene è il bene supremo. Dato che
non esiste alcuna specie di bene al di fuori dell'ordine, ciò
che esiste al di fuori dell'ordine non può essere che male, né esiste
alcuna specie di male che non consista nel porsi al di fuori
dell'ordine; per questo motivo, come l'ordine è il bene supremo, così il
disordine è il male per eccellenza".
(Juan Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano 1972, p. 204).
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Postato da: giacabi a 20:22 |
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giustizia, bellezza
La bellezza
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" ...La bellezza non è un fatto estrinseco, ornamentale, che sopraggiunge quando tutto il resto è a posto. La bellezza nasce dal di dentro. Splendore della verità, secondo la filosofia medievale.
Non è un elemento intellettuale, ma il segno di una pienezza che è
maturità interiore, qualche cosa di splendente che si manifesta quando
una cosa diviene ciò che veramente dovrebbe essere, secondo la sua vera
essenza.
Bellezza: nella maggior parte dei casi si pensa a qualche cosa di
grazioso, di leggiadro, di stupendo, a meno che non si confonda con un
fatto sensuale. La
bellezza è qualche cosa di straordinariamente grande, che l'uomo riesce
a vedere allorché l'essenza delle cose raggiunge la chiara espressione.
Questa essenza è fulgida visione che rifulge nell'opera d'arte..."
(Romano Guardini)
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Postato da: giacabi a 07:03 |
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bellezza
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“l'anima non vede la bellezza , se non è divenuta essa stessa bella”
Plotino 203-270 d.C.
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Postato da: giacabi a 06:58 |
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bellezza
PETRUCCIANI UNO CHE SUONAVA LA VOGLIA DI VIVERE
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Dieci anni senza Michel Petrucciani; dieci anni senza uno degli artisti più geniali e sensibili che abbiano mai calcato le scene del jazz, stroncato nel 1999 (a soli 36 anni) da un implacabile morbo - osteogenesis imperfecta, meglio conosciuto come “malattia delle ossa di vetro” - che ne ha bloccato la crescita, ma che non
ha gli ha mai impedito di affrontare la propria esistenza da
protagonista assoluto, con l’intensità tipica di chi ama la vita fino in
fondo e non vuole sprecare neppure un attimo del dono ricevuto.
Novantasette centimetri di altezza per ventisette chili di peso;
numeri che farebbero sobbalzare sulla sedia i professori della scienza
biogenetica e i grandi maestri del pensiero laico (e in particolare
quelli che si domandano se sia vera vita quella destinata agli «esseri
mostruosi e deformi» ospitati nella Piccola casa della Divina
Provvidenza del Cottolengo…),
ma che il piccolo pianista francese ha saputo sbandierare con baldanza e
fierezza, fino a farli sembrare quelli di un gigante, sia dal punto di
vista umano che artistico; arrivando a suonare al fianco di alcuni dei
più grandi jazzisti della storia, da Kenny Clarke e Lee Konitz a Dizzy
Gillespie e Wayne Shorter, ma anche a esibirsi in un memorabile concerto
di fronte a Giovanni Paolo II in occasione del Congresso Eucaristico di
Bologna del 1997.
Di
Petrucciani si possono ammirare il virtuosismo funambolico e la
padronanza tecnica, ma non si deve trascurare quell’immediatezza
espressiva che gli permetteva di raggiungere il cuore di chiunque avesse
di fronte con la più semplice e cantabile delle melodie. Vederlo
suonare dal vivo era un’esperienza indimenticabile, perché ogni sua
performance appariva una sfida all’impossibile.
Saliva sul palco portato in braccio dagli stessi musicisti, ma non
appena si sedeva al suo pianoforte - dotato di uno speciale marchingegno
che gli permetteva di raggiungere i pedali - e iniziava a suonare, quel
piccolo uomo diventava uno spettacolo nello spettacolo. La sua figura
minuta che si contorceva e dilatava per raggiungere magicamente le
estremità del pianoforte, l’agilità del suo fraseggio e la potenza del
suo tocco, la poesia dei suoi refrain: ogni cosa gridava di continuo al
miracolo.
Un
miracolo immortalato nel Dvd-Video recentemente pubblicato
dall’etichetta Dreyfus, che a un concerto di “piano solo” registrato a
Marciac nel 1996 - durante il quale è possibile ascoltare alcune
splendide composizioni dello stesso Petrucciani (come Looking Up o
Manhattan) insieme con i tributi all’amatissimo Duke Ellington (Caravan e
Take The “A” Train) - affianca il documentario Lettre à Michel
Petrucciani, che il regista Frank Gassenti ha strutturato come un lungo
racconto autbiografico in cui l’artista ripercorre le tappe principali
della sua carriera, ma anche le toccanti interviste al papà, musicista, e
al collega Aldo Romano, che Michel chiamava “il mio angelo custode”.
Una
testimonianza a 360 gradi, intensa e commovente, in cui la personalità
di Petrucciani emerge in tutta la sua grandezza: nell’ironia delle sue
risposte, nei silenzi così eloquenti, nella profondità del suo pensiero,
nella bellezza della musica. Una vera sfida alla forza di gravità che
troppo spesso spinge verso il basso il nostro “mal di vivere.
Andrea Milanesi da: www.tracce.it
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Postato da: giacabi a 08:06 |
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canti, bellezza
Conoscenza attraverso la corrispondenza
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« Una
prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche
con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per
esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la
bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se
stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice
Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora
egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice.
Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa
fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo
dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso.
Questo "altro" però l’anima non riesce a esprimerlo, "ha solamente una
vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa
come un enigma". Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del
teologo bizantino Nicolas Kabasilas si
ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo
della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova
esperienza cristiana. Kabasilas afferma: "Uomini
che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura,
ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono
aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli
stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza.
L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del
desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo".
La
bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino
ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non
ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo,
con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è
conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché
colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è
rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio.
"Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore". Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore". Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione
che rimane conoscenza, per così dire, "di seconda mano" e non implica
alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al
contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. "Quindi,
fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto,
non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato". La
vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce
l’uomo, essere toccati dalla realtà, "dalla personale presenza di Cristo
stesso" come egli dice.
L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è
conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale.
Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione
teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane
assolutamente necessario. Ma da
qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza
del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della
conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo»
CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.
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