Postato da: giacabi a 08:00 |
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perle, bellezza, mistero
A che serve la bellezza mortale
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A che serve la bellezza mortale — pericolosa; muove a danza il sangue — l'O-suggellate-così-quel-volto, forma più fiera lanciata di quella a cui invita l'aria di Purcell? Vedi, fa così: tiene calda l'intelligenza dell'uomo alle cose che sono; a quanto significa il bene — dove un'occhiata domina meglio d'uno sguardo fisso, sguardo di sconcerto. Un tempo quei ragazzi belli, orrido fresco frutto caduto per tempesta di guerra, come li avrebbe allora spigolati Gregorio, un padre, dalla affol- lata Roma? Ma Dio a una nazione offrì preziosa fortuna di quel giorno. All'uomo, che un tempo adorò roccia o sterile pietra, la nostra legge dice: Ama le cose d'amore più degne, fossero tutte note; del mondo le più amabili — il sé dell'uomo. Il sé splende dalla forma e dal volto. Che fare allora? come incontrare bellezza? Basta che l'incontri; riconosci, in cuor tuo, del cielo il dolce dono; poi parti, abbandonalo. Sì, augura, a tutti augura, di Dio la più graziosa bellezza, la grazia. To what serves mortal beauty — dangerous; does set danc- ing blood — the O-seal-that-so feature, flung prouder form Than Purcell tune lets tread to? See: it does this: keeps warm Men's wits to the things that are; what good means—where a glance Master more may than gaze, gaze out of countenance. Those lovely lads once, wet-fresh windfalls of war's storm, How then should Gregory, a father, have gleanèd else from swarm- ed Rome? But God to a nation dealt that day's dear chance. To man, that needs would worship block or barren stone, Our law says: Love what are love's worthiest, were all known; World's loveliest — men's selves. Self flashes off frame and face. What do then? how meet beauty? Merely meet it; own, Home at heart, heaven's sweet gift; then leave, let that alone. Yea, wish that though, wish all, God's better beauty, grace. Gerard Manley Hopkins, To what serves mortal beauty?
Postato da: giacabi a 20:31 |
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bellezza, hopkins
Liszt cattolico, ma la critica lo ignora
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di Tommaso Scandroglio
05-11-2011
Libertino, affabulatore, animale da palcoscenico – fu lui ad inventare il concerto pianista-centrico tutt’ora in voga – viveur, presenzialista nei principali salotti bene dell’epoca e pure in quelli equivoci. Il soggetto in questione è il pianista-compositore ungherese Franz Liszt, nato esattamente due secoli fa (22 Ottobre 1811).
Nell’immaginario collettivo dei musicologi però non c’è posto per la qualifica di credente cattolico, anzi di cattolico teo-con tanto che chiuse gli occhi per sempre nella condizione di abate fiero difensore dell’ortodossia cattolica. E sì, perché la parabola di questo eccezionale artista iniziò tra amorazzi ed eccessi ma si concluse nel silenzio del Convento della Madonna del Rosario a Monte Mario. Lassù lo andò a trovare anche Pio IX che lo chiamava “il mio Palestrina”. Dopo otto giorni di esercizi spirituali il 25 aprile 1865 ricevette la tonsura in Vaticano, il 30 agosto gli ordini minori dall’elemosiniere del Pontefice e divenne così abate pur non vestendone mai l’abito. In genere l’afflato religioso del Nostro viene liquidato anche dalla più occhiuta esegesi storiografica come approdo ultimo di un bizzarro viaggiatore delle esperienze che la vita può offrire. Un’eccentricità tra le molte.
Ma le cose non stanno così come ben testimoniano le sue opere e i suoi scritti. In merito alle prime la produzione di carattere sacro è sterminata ed inizia anche in tenera età: difficile quindi sostenere che l’argomento “Dio” fosse estemporaneo e dettato da romantici umori. Spigoliamo qua e là tra i titoli dei suoi pezzi sacri o addirittura liturgici: la Messa per l’Incoronazione di Francesco Giuseppe, la Missa Choralis, la Missa Solemnis, il Requiem, le Campane del Duomo di Strasburgo, gli oratori Christus e La leggenda di Santa Elisabetta, la Via Crucis, le Armonie poetiche e religiose, le Consolations, l’Hymne de l’enfant à son réveil, l’Ave Maria, il Pater noster, il Pio IX – Inno al Papa, e poi un’infinità di variazioni e trascrizioni per uso liturgico, e mottetti, salmi, inni biblici.
Ma a parlar chiaro sulla fede religiosa di impronta cattolica di Liszt ci pensano anche e soprattutto le sue lettere. Queste ci testimoniano che la sua appartenenza a Santa Romana Chiesa non era frutto di un’insana senescenza ma scelta assunta con consapevolezza sin dagli anni più verdi. In una lettera del 1837 il 26enne di allora mette sotto la lente di ingrandimento il Liszt dell’altro ieri quando ne aveva appena 18 di anni, e scrive: «Verso quel tempo ebbi una malattia che si prolungò per due anni, in seguito alla quale la mia imperiosa necessità di fede e di dedizione, non trovando altra via d’uscita mi condusse alle austere pratiche del cattolicesimo. La mia fronte si chinò sugli umidi marmi di San Vincenzo de' Paoli; feci sanguinare il mio cuore, e il mio pensiero si umiliò. Una immagine di donna, pura e casta come l’alabastro dei scari vasi, fu l’ostia che offersi colle lacrime al Dio dei Cristiani; la rinuncia alle cose terrene fu l’unico movente, la sola parola della mia vita. Mi lasciavo vedere qual’ero, ragazzo entusiasta, artista simpatico, austero credente: in una parola tutto quello che si è a diciotto anni, quando si ama Dio e si amano gli uomini con animo appassionato e ardente». Tanto austero che critica il falso e svenevole pietismo: «Le lacrime amare, che talvolta scendono dalle nostre palpebre, sono come quelle di chi adora il vero Dio, vedi il suo tempio profanato dagli idoli e la folla stupida che si inginocchia davanti a divinità di fango e pietra, abbandonando l’altare della Madonna e il culto del Dio vivente».
Una fede quindi incardinata in Cristo eucarestia e nel culto mariano. Per Liszt la musica doveva possedere una missione di carattere principalmente religioso. Nel 1834 sulla Gazette Musicale esordisce con lo scritto “Sulla musica religiosa dell’avvenire”: «Oggi, quando l’altare trema e vacilla, oggi, quando il pulpito e le cerimonie religiose sono diventati motivo di dubbio e di ironia, bisogna necessariamente che l’arte esca dal tempio, che s’estenda e compia al di fuori le sue vaste evoluzioni». E in alcune lettere di qualche anno dopo: «L’arte deve ricordar al popolo le nobili dedizioni, le risoluzioni eroiche, la fortezza e l’umanità; essa deve farsi annunciatrice della provvidenza di Dio… Iddio ha forse racchiuso più gioia nell’obolo dell’artista che in tutto l’oro del milionario». In questi scritti giovanili riverbera la simpatia di Liszt per le correnti saint-simoniste e lamennesiane aperte ad un cristianesimo sociale (“Dio e il Popolo” era il suo motto in quegli anni). Egli infatti nel ’34 parla di «Musica umanitaria che unisca in colossale relazione teatro e chiesa», ed aggiunge, con tono quasi giacobino, che «diciotto secoli sono trascorsi da quando il Cristo ha predicato la fraternità umana e la sua parola non è ancora meglio compresa!».
Ma Liszt non si è mai piegato al credo statalista: «L’elemento poetico, e cioè religioso, dell’umanità è scomparso dai governi», così appunta in una lettera del ’37 lamentandosi delle derive laiciste degli stati europei. Già nel ’34 vagheggiava di farsi monaco ma l’idea di monachesimo che egli aveva in mente era molto simile a quella dei nostri preti post-contestazione del ’68. L’eremo deve essere riformato: una specie di luogo di lavoro dove ci sono operai, artisti, intellettuali, una sorta di opificio in cui si suda e prega tutti insieme, laici e religiosi. Nonostante ciò non cede alle lusinghe delle dottrine protosocialiste di matrice illuminista: «L’ombra di Voltaire, la statua di Rousseau – questi grandi distruttori di monasteri – ci attendevano sulle rive del Lemano», annota nella descrizione di un suo pellegrinaggio ad un santuario. E mai pensò alla musica come strumento di impegno sociale, di lotta culturale. Nel ’49 così scrive infatti: «Oggi l’arte non deve mescolarsi ai gridi rochi delle barricate: la sua religione è più alta e più pura, la sua azione è insieme più benefica e più durevole».
Né fu mai un idealista, un’utopista alla Rousseau: «Non sono artista al punto di essere assolutamente privo di buon senso nelle cose della vita reale e positiva». Poi con la maturità queste infezioni progressiste svanirono e la musica divenne strumento unicamente ascetico, scevro da ogni rivendicazione sociale. Alle soglie dei 55 anni così scrive: «Si può dire che la musica è essenzialmente religiosa e, come l’anima umana, naturalmente cristiana. E poiché s’unisce alla parola, quale più legittimo impiego delle sue energie che cantare l’uomo a Dio e di servire così da punto d’incontro tra i due mondi, il finito e l’infinito?». E nel ’77: «La musica è la sola arte che continua nel Paradiso». Queste righe non sono espressione di un vago sentimento religioso panteista e romantico bensì comprovano la vera fede cattolica del compositore ungherese: «L’arte non è affatto una religione a parte, ma è l’incarnazione formale della vera religione cattolica, apostolica e romana». E’ la bellezza stessa a portare a Dio. Ma se è vera bellezza, nata anche dal genio di artisti protestanti e illuministi, l’incontro non potrà che essere con l’unico vero Dio, cioè quello cattolico: «Palestrina e Lasso fino a Bach e Beethoven, che sono le cime dell’arte cattolica».
Ecco perché negli ultimi anni della sua vita si dedicherà alla musica liturgica, perché la più connaturata al fine di avvicinare l’uomo a Dio. Una musica che però deve avere un’aderenza strettissima con il rituale liturgico previsto da Santa Romana Chiesa altrimenti è “pseudo musica sacra” (ce l’aveva con Haydn e Mozart). In una lettera a Saint-Saëns, in cui gli consigliava di accorciare la sua Messa Solenne, così si esprime: «Si tratta di mantenere la pace, soprattutto in chiesa dove bisogna saper ubbidire in ispirito e nei fatti. L’arte qui deve essere soltanto un correlativo e tendere alla concomitanza più perfetta possibile con il rito».
La sua tensione esistenziale all’essenziale, cifra caratteristica dell’ultimo periodo della sua vita, lo conduce anche in campo musicale a cesellare composizioni le quali si fanno spesso – ma non sempre – semplici dal punto di vista stilistico, secondo l’estetica dei puristi ceciliani allora in voga. Le critiche non mancano ma con profonda umiltà così ribatte: «Che la mia antifona Cantantibus organis abbia prodotto un magro effetto non mi sorprende. Il pubblico cerca il divertimento. Volentieri mi rassegno a restarmene per le mie spese di modestia nelle mie composizioni religiose. Esse sono deboli, senza dubbio, e forse anche mancate – ma non di gusto volgare! Mi ripugna far brillare, trillare, tubare e sbraitare Santa Cecilia!». Sentisse il buon Franz le musiche che accompagnano oggi le celebrazioni liturgiche...
Postato da: giacabi a 11:55 |
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musica, bellezza
Dannazione ragazzo, non innamorarti di una ragazza solo perché
ha un bel culo, o una terza piazzata bene, Non innamorarti solo perché
ha belle forme, quelle con il tempo andranno a farsi fottere. Piuttosto,
innamorati del profumo della sua pelle, dell'emozioni che ti regala con
un sorriso. Innamorati dei suoi abbracci e delle sue carezze.
Innamorati delle sue imperfezioni, rendile uniche e inimitabili. Cogli
la sua vera essenza, ubriacati di lei. Non badare alle forme, scava
nel suo animo e arriva fino al centro del suo cuore. Innamorati di
questo, perché è l'unica cosa che troverai sempre....
(Bob Marley)
Postato da: giacabi a 14:39 |
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bellezza, amore
La Bellezza rimanda ad Altro
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Ricordo sempre con commozione il racconto di san Luigi IX,***
re di Francia che invitò san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino
a cenare nella sua dimora reale. Intorno al tavolo vi erano
lì loro tre, oltre alla moglie del sovrano. La cena era iniziata e
mangiavano tutti con gusto. L'unico che non toccava cibo era
san Tommaso d'Aquino,che era come estasiato dalla bellezza
della moglie del re.
I suoi occhi continuavano a guardare in direzione della donna.
Il re se ne accorse e, un po' nervoso, chiese spiegazioni
al santo per quell'atteggiamento. Tommaso d'Aquino
rispose: «Maestà, sono commosso dalla bellezza
di sua moglie, che mi obbliga a pensare: se ella
è tanto bella, come sarà il suo Artefice,
il Creatore di tutto?
Padre Aldo Trento
Postato da: giacabi a 21:10 |
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bellezza, stommaso, padre trento
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Dio, la prospettiva, il colore, la Bibbia, la forma, le linee,
le
tradizioni e tutto ciò che viene chiamato "umano" e cioè l’amore, la
protezione,a famiglia, la scuola, l’educazione dei profeti,
ed anche la vita con Cristo…tutto questo è andato smarrito.
Forse
anch’io sono stato assalito talvolta dai dubbi e in tali situazioni ho
dipinto un mondo a rovescio e tagliato le teste alle mie figure che ho
fatto a pezzi e lasciato volare, da qualche parte, nei miei quadri.
marc Chagall
Postato da: giacabi a 14:41 |
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perle, bellezza
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Uomo colto é colui che sa trovare
un significato bello alle cose belle.
(Oscar Wilde) Uomo colto é colui che sa trovare
un significato bello alle cose belle.
«È l'amore, e non la filosofia tedesca, la vera spiegazione di questo mondo, e Dio solo sa qual è la spiegazione dell'altro mondo»
(Oscar Wilde)
Postato da: giacabi a 11:29 |
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bellezza, wilde
La via della bellezza
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«Oggi
vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono
condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via
delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” –
“via della bellezza” - di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi
dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo. Forse vi è
capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni
versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima
emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di
fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo,
una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma
qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il
cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera
d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si
interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso
profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei
colori, dei suoni. L’arte è
capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare
oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito.
Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una
verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire
gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto».***
[Benedetto XVI, Udienza del 31 agosto 2011]
Postato da: giacabi a 20:19 |
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bellezza, benedettoxvi
GRAZIA E BELLEZZA
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Se
consideriamo le cose della natura, ciò che vi troviamo di più
sorprendente è la loro bellezza, bellezza che va del resto accentuandosi
nella misura in cui la natura si eleva dall’inorganico all’organico,
dalla pianta all’animale, dall’animale all’uomo. Dunque, più il lavoro
della natura è intenso, più l’opera prodotta è bella. È come dire che,
se la bellezza ci rivelasse il suo segreto, noi penetreremmo per suo
tramite nell’intimità del lavoro della natura.***
Ma quel segreto la natura lo libererà per noi? Forse sì, se consideriamo che essa è, in quanto tale, un effetto, e ne risaliamo la causa. La bellezza appartiene alle forme e ogni forma ha origine in un movimento che la traccia: la forma non è altro che un movimento registrato.
Ora, se ci chiediamo quali sono i movimenti che descrivono forme belle, troviamo che sono i movimenti graziosi: la bellezza è la grazia fissata, diceva Leonardo da Vinci. La questione allora è di sapere in che consiste la grazia. Ma questo problema è più difficile da risolvere perché in tutto ciò che è grazioso noi vediamo, sentiamo, indoviniamo una specie di abbandono, quasi un accondiscendere.
Per colui che contempla l’universo con occhi d’artista, è la grazia che si legge attraverso la bellezza ed è la bontà che traspare attraverso la grazia. Ogni cosa manifesta, nel movimento che la sua forma registra, la generosità infinita di un principio che si offre. Non a torto si chiama con lo stesso nome il fascino che si vede nel movimento e l’atto di liberalità che è proprio della bontà divina: i due sensi della parola grazia fanno tutt’uno .
(Henri Bergson, "Pensiero e movimento", trad. it. Bompiani, Milano 2000, pp. 232-233).
Postato da: giacabi a 17:49 |
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bellezza, bergson
La bellezza
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1. È meglio godere della bellezza di una rosa che studiarla al microscopio***
2. Il guardare una cosa è ben diverso dal vederla. Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza
(O. Wilde).
Postato da: giacabi a 14:47 |
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bellezza, wilde
LA BELLEZZA
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"In
Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a
Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità
senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come «un
cembalo che tintinna» (1Cor 13,1)".***
E’ proprio dall’unione, vorrei dire dalla sinfonia, dalla perfetta armonia di verità e carità, che emana l’autentica bellezza, capace di suscitare ammirazione, meraviglia e gioia vera nel cuore degli uomini. Il mondo in cui viviamo ha bisogno che la verità risplenda e non sia offuscata dalla menzogna o dalla banalità; ha bisogno che la carità infiammi e non sia sopraffatta dall’orgoglio e dall’egoismo.
Abbiamo bisogno che la bellezza della verità e della carità colpisca l’intimo del nostro cuore e lo renda più umano.
Cari amici, vorrei rinnovare a voi e a tutti gli artisti un amichevole e appassionato appello: non scindete mai la creatività artistica dalla verità e dalla carità, non cercate mai la bellezza lontano dalla verità e dalla carità, ma con la ricchezza della vostra genialità, del vostro slancio creativo, siate sempre, con coraggio, cercatori della verità e testimoni della carità; fate risplendere la verità nelle vostre opere e fate in modo che la loro bellezza susciti nello sguardo e nel cuore di chi le ammira il desiderio e il bisogno di rendere bella e vera l’esistenza, ogni esistenza, arricchendola di quel tesoro che non viene mai meno, che fa della vita un capolavoro e di ogni uomo uno straordinario artista: la carità, l’amore.
Lo Spirito Santo, artefice di ogni bellezza che è nel mondo, vi illumini sempre e vi guidi verso la Bellezza ultima e definitiva, quella che scalda la nostra mente e il nostro cuore e che attendiamo di poter contemplare un giorno in tutto il suo splendore.
Postato da: giacabi a 10:13 |
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bellezza, benedettoxvi
La Bellezza
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La
nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima
parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa
non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile,
il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto.
Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era
incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi
dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e
alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è piú amata e custodita
nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto,
mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire
incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza
alla quale non osiamo piú credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza
per potercene liberare a cuor leggero. Essa è
la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno
altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e
la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle
senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi,
al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il
ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri
che – segretamente o apertamente – non è piú capace di pregare e,
presto, nemmeno di amare. Il
secolo XIX si è ancora aggrappato, in un’ebbrezza appassionata, alle
vesti della bellezza fuggente, alle cocche svolazzanti del vecchio mondo
che si dissolveva (“Elena abbraccia Faust, il corporeo svanisce, la
veste e il velo gli rimangono tra le braccia... le vesti di Elena si
dissolvono in nubi, circondando Faust, lo sollevano in alto e si
dileguano con lui”, Faust II,atto III);
il mondo illuminato da Dio diventa apparenza e sogno, romanticismo,
presto ormai soltanto musica, ma, dove la nube si dissolve, rimane
l’immagine insostenibile dell’angoscia, la nuda materia; poiché
però non c’è piú nulla e tuttavia si ha pur bisogno di abbracciar
qualcosa, allora si spinge l’uomo del nostro tempo a questo Imene
impossibile, che alla fine gli fa venire in uggia qualsiasi forma di
amore. Ma ciò di cui l’uomo non è piú capace, ciò
per cui è diventato impotente, non può piú, proprio perché si sottrae
alla sua sottomissione, essere da lui sostenuto. Non resta che negarlo o
circondarlo di un silenzio di morte.***
In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è piú in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto piú eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda piú nessuno e la stessa conclusione non conclude piú.
E se è cosí dei trascendentali, solo perché uno di essi è stato trascurato, che ne sarà dell’essere stesso? Se Tommaso poteva contrassegnare l’essere come “una certa luce” per l’ente, questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa e non si lascia piú che il mistero dell’essere esprima se stesso? Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce piú a cogliere il bello.
H. U. von Balthasar, Gloria,Jaca Book, Milano, 1985, vol. I, pagg. 10-12
Postato da: giacabi a 06:48 |
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bellezza, von balthasar
Quel volto nascosto in tutto ciò che è bello
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di Giovanni Fighera
06-08-2011
Qual è l’«utilità» della bellezza nella nostra vita? Qual è il legame tra il bello e la civiltà, tra il bello e le altre discipline, tra il bello e le dimensioni concrete dell’esistenza? Affermare che la bellezza sia «disinteressata» coincide con l’attestazione della inutilità della bellezza?
Iniziamo col dire che la bellezza ha una suprema funzione educativa. Se, infatti, il bello produce sull’uomo l’effetto della contemplazione, allora esso ci educa a cogliere la realtà per quella che è. Di fronte al bello, cioè, l’uomo è portato, come primo, iniziale e puro impeto, a contemplarlo: è, quindi, educato a trasformare l’amore di concupiscenza in amore per l’oggetto in sé stesso. Questo sguardo puro, distaccato e contemplativo di fronte alla bellezza del reale si chiama verginità. Dostoevskij non aveva dubbi nel riconoscere l’importanza della bellezza. Scriveva nei Demoni: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono già un frutto, il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! ».
Bisogna, però, sfatare un inveterato luogo comune, quello che la bellezza riguardi solo le discipline artistiche. La bellezza riguarda ogni ambito della vita e della realtà come scrive Dante nel Paradiso: «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante». Quindi, la bellezza è alla base di ogni passione e interesse umano. Così si esprime lo scienziato italiano Antonino Zichichi sullo sviluppo della scienza a partire da G. Galilei: «La scienza nasce da questo atto di umiltà intellettuale: dare a oggetti volgari dignità intellettuale, studiandoli. Questa umiltà intellettuale aveva in Galileo Galilei radici profonde: la fede nel fatto che in ciascun oggetto, fosse esso volgare o inutile, ci doveva esser la mano del Creatore […]. Le grandi scoperte galileiane sono le prime impronte di colui che ha fatto il mondo. Esse sono state ottenute partendo non da tecnologie, ma da semplicissime pietre, spaghi e legni. […] E invece Galilei considera quegli oggetti depositari delle impronte del Creatore».
Senza lo stupore per il creato e per l’ordine nascosto ivi presente, l’indagine scientifica non partirebbe. Quindi, non solo l’arte, ma anche la scienza deriva dall’osservazione e dallo stupore per la bellezza. Anche Albert Einstein afferma che il sentimento religioso dello scienziato «consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo […]. La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza». Stupore, contemplazione, estasi di fronte alla bellezza della realtà: questi sono gli sproni che inducono il «vero uomo di scienza» a ricercare le leggi che descrivono (cioè dicono il «come», ma non il «perché») quell’ordine e quell’armonia che tralucono dal creato. Senza la certezza di un ordine nascosto non vi sarebbe ricerca.
L’uomo medioevale, che certo non possiede gli strumenti tecnici per l’indagine, è, però, convinto dell’esistenza di un ordine e lo comunica attraverso la presenza del numero tre (con valore religioso di richiamo alla Trinità) ovunque. La certezza di quest’ordine appartiene all’uomo prima che questi sia in grado di dimostrarlo scientificamente. È lo sguardo che si fa contemplazione delle cose che lo percepisce e fa scaturire il desiderio di coglierlo più in profondità. La bellezza ha, quindi, la capacità di muovere l’uomo all’ardore della conoscenza e alla ricerca della verità, nel contempo lo sprona al desiderio di bene come il protagonista del bellissimo film Le vite degli altri dimostra quando si chiede: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver ascoltato questa musica?».
La bellezza e l’arte, poi, consolano l’uomo dalle sofferenze quotidiane. È questa una convinzione da sempre presente nell’espressione artistica. La storia letteraria è un monumento, cioè una testimonianza imperitura, del valore dell’arte come consolazione delle afflizioni, tentativo, seppur sempre parziale e imperfetto, di lenire le sofferenze per la perdita di un caro. Indubbiamente, gli esempi al riguardo si sprecano. Come non ricordare le poesie di Pascoli dedicate alla morte del padre, assassinato nel 1867 («X agosto», «La cavallina storna», …) oppure il resoconto diaristico composto da Ungaretti durante la Prima guerra mondiale, intitolato Il porto sepolto, in cui il poeta si sofferma sulla scomparsa dei compagni di guerra («Veglia», «Soldati», …)? Come scordarsi versi come «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…», scritti sempre da Ungaretti quando vuole raccontare la sua sofferenza per la morte del figlio di soli nove anni?
La funzione eternatrice dell’arte scaturisce, poi, in concomitanza stessa della sua nascita: essa può rendere immortale il nome di chi è stato e non c’è più. Basti pensare ai poemi omerici o, per addurre esempi tratti dalla nostra letteratura, alla poesia dantesca. Quanti personaggi nell’Inferno chiedono che la propria memoria sia rinverdita e procrastinata da Dante, evidentemente attraverso il suo racconto memoriale! Pensiamo a Ciacco che si congeda da Dante viator con una richiesta: «Quando sarai nel dolce mondo, / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi».
Cinquecento anni più tardi, Foscolo costruirà un intero poema sulla bellezza, sull’arte e sull’efficacia che esse hanno nel rendere immortale il nome dei grandi: I sepolcri. Si pensi all’icastica catena di trionfi in cui Foscolo raffigura le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere sul tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge: «Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / Il tempo con sue fredde ale vi spazza/Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/Di lor canto i deserti, e l’armonia/ Vince di mille secoli il silenzio». È somma poesia, questa, ove Foscolo tocca uno dei vertici della letteratura di sempre. Se Foscolo afferma che la bellezza dell’arte e della poesia avrebbe trionfato sul deserto del tempo, Dostoevskij arriverà a scrivere nei Demoni che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Che cosa significa?
Papa Giovanni Paolo II commenta nella «Lettera agli artisti» chiosando che la bellezza genererà sempre quello stupore da cui sorgerà l’entusiasmo che permetterà all’uomo di rialzarsi. Rivolgendosi sempre agli artisti Papa Benedetto XVI spiegherà, poi, che «speranza è vera figlia di bellezza». Charles Moeller scrive in Saggezza greca e paradosso cristiano: «Una sola cosa supera la bellezza della Divina Commedia sulla Terra ed è la bellezza del volto dei santi». Per questo nei primi secoli la Didaché spronava i cristiani a guardare sempre il volto dei santi e a trarre conforto dai loro discorsi. La bellezza del santo deriva dal suo amore per Cristo, il bello e il buono per eccellenza, via verità e vita.
La ricerca della bellezza nella vita riguarda, quindi, la felicità dell’uomo. Ne è ben cosciente Dante che ha scritto la Commedia per «accompagnare gli uomini dalla condizione di peccato e di infelicità alla condizione di felicità e di beatitudine» (si veda la lettera a Cangrande della Scala). Nella poesia «Alla sua donna» Leopardi, poi, scrive rivolgendosi alla bellezza che se l’uomo la incontrasse e la amasse allora la sua vita sarebbe felice, addirittura sarebbe come quella che «nel ciel india».
Per questo san Giustino martire poteva affermare: «Tutto il bello ci interessa, perché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua pienezza. Ne consegue che tutto ciò che di buono è stato espresso da chiunque appartiene a noi cristiani». La bellezza è cioè una modalità con cui Dio ci attira a sé
Postato da: giacabi a 21:20 |
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einstein, bellezza, dante, dostoevskij
L'ultima intervista di Andrej Tarkovskij
"Le Figaro" - Ottobre 1986
"Le Figaro" - Ottobre 1986
***
I
miei due ultimi film si basano su impressioni personali, ma non hanno
nulla a che fare né con l'infanzia né col passato, essi riguardano
piuttosto il presente. Richiamo l'attenzione sulla parola "impressioni".
I ricordi dell'infanzia non hanno mai fatto di un uomo un artista. Vi
rimando ai racconti di Anna Achmatova sulla sua infanzia. Oppure a
Marcel Proust. Noi attribuiamo un significato eccessivo al ruolo
dell'infanzia. Il metodo degli psicoanalisti di guardare alla vita
attraverso l'infanzia, di trovare in essa la spiegazione di tutto, e uno
dei modi di infantilizzazione della personalità. Poco tempo addietro ho
ricevuto una strana lettera da un famoso psicoanalista, il quale cerca
di spiegarmi la mia attività creativa con i metodi della psicoanalisi.
L'approccio al processo artistico, alla creazione da questo punto di
vista, se me lo consentite, rattrista addirittura. Rattrista perché i
motivi e l'essenza della creazione sono molto più complessi, di gran
lunga più impercettibili che i semplici ricordi sull'infanzia e la loro
spiegazione. Ritengo che le interpretazioni psicoanalitiche dell'arte
sono troppo semplicistiche, persino primitive.
Ogni artista nel corso della sua permanenza sulla terra trova e lascia
dopo di se una particella di verità sulla civilizzazione, sull'umanità.
Il concetto stesso di ricerca e oltraggioso per un artista. Assomiglia
alla raccolta di funghi in un bosco. Forse ne troveremo o forse no.
Picasso diceva addirittura: "io non cerco, trovo". A mio parere,
l'artista non procede affatto come un ricercatore, egli non agisce
empiricamente in nessuna maniera ("proverò a fare questo, tenterò
quest'altro"). L'artista da una testimonianza sulla verità, sulla sua
verità del mondo. L'artista deve essere certo che egli e la sua
creazione rispondono alla verità. Io rifiuto il concetto di esperimento,
di ricerca nella sfera dell'arte. Qualsiasi ricerca in questo ambito,
tutto ciò che chiamano pomposamente "avanguardia" e semplicemente
menzogna. Nessuno
sa che cos'è la bellezza. L'idea che la gente si fa della bellezza, il
concetto stesso di bellezza, mutano nel corso della storia assieme alle
pretese filosofiche e al semplice sviluppo dell'uomo nel corso della sua
vita personale. E questo mi spinge a pensare che, effettivamente, la
bellezza e il simbolo di qualcos'altro. Ma di cosa esattamente? La
bellezza e simbolo della verità. Non dico nel senso della contraddizione
"verità/menzogna", ma nel senso di cammino di verità, che l'uomo
sceglie. La bellezza (si intende quella relativa!) ha nelle diverse
epoche testimoniato del livello di consapevolezza, che gli uomini di una
determinata epoca hanno della verità. Ci fu un tempo in cui questa
verità aveva l'aspetto della Venere di Milo.
Ne consegue che l'intera collezione di ritratti femminili, diciamo, di
un Picasso non ha, a rigor di termini, la minima relazione con la
verità. Ma qui non parliamo della capacita di attrazione ne di qualcosa
di carino - parliamo della bellezza armonica, della bellezza nascosta,
della bellezza in quanto tale. Picasso, invece di celebrare la bellezza,
si e comportato come il suo distruttore, il suo detrattore, il suo
sterminatore. La
verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non puo essere ne
decifrata ne spiegata con le parole, ma quando un essere umano, una
persona si trova accanto a questa bellezza, si imbatte in questa
bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa sentire la sua
presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la schiena. La
bellezza è come un miracolo, del quale l'uomo diventa involontariamente
testimone. Tutto qua. Mi sembra che l'essere umano sia stato creato per
vivere. Vivere nel cammino verso la verità. Ecco perché l'uomo crea. In
una certa misura l'uomo crea nel cammino verso la verità.
Questo e il suo modo di esistere, e l'interrogativo sulla creazione
("Per chi gli uomini creano? Perché essi creano?") e senza risposta.
Effettivamente ogni artista non soltanto ha una sua concezione sulla
creazione ma ha anche un suo modo personale di interrogarsi su ciò.
Questo si
collega a quanto io adesso dico sulla verità, alla quale noi tendiamo,
alla quale contribuiamo con le nostre piccole forze. Un ruolo
fondamentale gioca qui l'istinto, l'istinto del creatore. L'artista crea
istintivamente, egli non sa perché proprio in quel momento fa una cosa
oppure un'altra, scrive proprio di questo, dipinge proprio questo.
Soltanto dopo egli comincia ad analizzare, a trovare spiegazioni, a
filosofeggiare e giunge alle risposte che non hanno nulla in comune con
l'istinto, col bisogno istintivo di fare, creare, esprimere se stesso.
In un certo senso la creazione e rappresentazione dell'essenza
spirituale nell'uomo ed è la contrapposizione all'essenza fisica; la
creazione è in un certo senso la dimostrazione dell'esistenza di questa
essenza spirituale. Nell'ambito delle attività umane non c'è
nulla che sarebbe più inutile, più senza scopo, non c'e nulla che
sarebbe più a se stante della creazione. Se si esclude dalle attività umane tutto quanto attiene al raggiungimento del profitto, rimarrà soltanto l'arte.
Per contemplazione io intendo soltanto dire quello che origina
l'immagine artistica o l'idea che noi ce ne facciamo. Questo è
assolutamente individuale. L'immagine
artistica, il significato dell'immagine artistica possono scaturire
soltanto dall'osservazione. Se non si basa sulla contemplazione,
l'immagine artistica si trasforma in simbolo, cioè in qualcosa che forse
puo essere spiegato dalla ragione, e, allora, l'immagine artistica non
esiste: essa infatti non riflette più l'umanità, il mondo. L'autentica
immagine artistica deve riflettere non soltanto la ricerca di un povero
artista alle prese con i suoi problemi umani, con i suoi desideri e
bisogni. Essa deve riflettere il mondo. Ma non il mondo
dell'artista ma il cammino dell'umanità verso la verità. Della semplice
sensazione del contatto con l'anima, che qui, da qualche parte, al di
sopra di noi, dinanzi a noi vive nell'opera d'arte in misura tale da
stimarla geniale. In questo e l'impronta originale del genio.
Ci
fu un tempo in cui io potevo chiamare miei ex-maestri, le persone che
hanno avuto un'influenza su di me. Adesso, nella mia coscienza, si
conservano soltanto dei "personaggi", per meta santi, per meta folli.
Questi "personaggi" sono forse un po' invasati ma non dal diavolo; si
potrebbe dire che sono "i pazzi di dio". Tra i vivi cito Robert Bresson. Tra i morti, Lev Tolstoj, Bach, Leonardo da Vinci...
In fin dei conti, tutti costoro erano pazzi. Perché non hanno
assolutamente cercato nulla nella loro testa. Hanno creato senza il
concorso della testa... Essi mi spaventano e mi ispirano. Non e
assolutamente possibile spiegare la loro creazione. Sono state scritte
migliaia di pagine su Bach, Leonardo e Tolstoj ma, in conclusione,
nessuno ha potuto spiegare nulla. Nessuno, grazie a dio, ha potuto
trovare, sfiorare la verità, toccare l'essenza della loro creazione!
Questo dimostra ancora una volta che il miracolo è inspiegabile...
Nel
senso più alto di questo concetto - la libertà, soprattutto nel senso
artistico, nel senso della creazione, non esiste. Si, l'idea della
libertà esiste, e una realtà nella vita sociale e politica. In diverse
regioni e paesi gli uomini vivono avendo più o meno libertà; ma vi sono
note testimonianze che dimostrano che nelle più orribili circostanze ci
sono stati uomini che hanno avuto una inaudita libertà interiore, un
mondo interiore, nobiltà. Mi sembra che la libertà non consista nella qualità della scelta: la libertà è una condizione dello spirito.
Per esempio, si può essere socialmente, politicamente, completamente
"liberi" e non di meno morire per la sensazione di precarietà, di
oppressione, di mancanza di futuro. Per ciò che concerne la libertà
della creazione, di questo non si può assolutamente discutere. Senza di
essa non può esistere una sola arte. L'assenza della libertà deprezza
automaticamente l'opera d'arte, poiché questa assenza impedisce a chi
viene per ultimo di rivelarsi nella forma migliore. L'assenza di questa
libertà porta a che l'opera d'arte, nonostante la sua esistenza fisica,
non esista di fatto. Nella creazione dobbiamo vedere non soltanto la
creazione. Purtroppo, nel
XX secolo appare predominante la tendenza secondo la quale l'artista-
individualista, invece di tendere alla creazione dell'opera d'arte, se
ne serve per evidenziare il proprio "io". L'opera d'arte
diventa manifestazione dell'io del suo creatore e si trasforma, possiamo
dire, in megafono delle sue minime pretese. Questo vi e noto meglio che
a me. Ne ha scritto molto Paul Valery. Al contrario,
il vero artista, e a maggior ragione il genio, appaiono schiavi del
dono che distribuiscono. Essi sono legati da questo dono agli uomini, al
cui nutrimento spirituale e al cui servizio sono stati scelti. Ecco in
cosa consiste per me la libertà
Andrej Tarkovskij
Postato da: giacabi a 21:10 |
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bellezza, tarkovskij
La bontà come bellezza
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"come
dice Kant la bontà risplende come un gioiello ed è vista persino
nell’oscurità. Le persone buone sono persone belle. Tutti noi lo
sappiamo per esperienza e lo hanno sempre saputo gli artisti, i pittori:
la bellezza risplende sul volto della persona buona."Agnes Heller, la bontà come bellezza | Cultura | www.avvenire.it
Agnes Heller,
Postato da: giacabi a 15:33 |
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bellezza, amore
Il mondo in cui viviamo ha bisogno che
***
***
"Il mondo in cui viviamo ha bisogno che
la verità risplenda e non sia offuscata dalla menzogna o dalla banalità;
ha bisogno che
la carità infiammi e non sia sopraffatta dall’orgoglio e dall’egoismo.
Abbiamo bisogno che
la bellezza della verità e della carità colpisca l’intimo del nostro cuore e lo renda più umano"
BENEDETTO XVI
Postato da: giacabi a 21:44 |
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bellezza, verità , benedettoxvi, amore
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Credo in Dio perché esiste la bellezza.
Postato da: giacabi a 15:05 |
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bellezza, solzenicyn
Il richiamo della......bellezza
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La descrive Giacomo Leopardi in una pagina dello Zibaldone :"Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci,salti ecc. un non so che di divino, che niente può agguagliare.Qualunque sia il suo carattere , il suo gusto; allegra o malinconica,capricciosa o grave,vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza, d'ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell'oggetto."
grazie a :pepeannamaria61
http://pannacioccolata.splinder.com
Postato da: giacabi a 21:30 |
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bellezza, leopardi
L’uomo è capace di contemplare la bellezza
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Il
bello è presente nell’armonia di tutti gli elementi e ci pone dinanzi a
un’evidenza indimostrabile, che non può essere giustificata se non
contemplandola. Il suo mistero illumina dal di dentro l’esteriorità fenomenologia come l’anima irradia misteriosamente in uno sguardo. Il bello ci viene incontro, si fa intimo, prossimo, apparentato alla sostanza stessa del nostro essere.***
I grandi pittori affermano di non aver mai visto nulla di brutto nella natura. Un artista ci presta i suoi occhi e ci fa vedere un frammento dove nondimeno il Tutto è presente, come il sole si riflette in una goccia di rugiada. Come un essere vivente, il mondo si rivolge verso di noi, ci parla, ci confida i suoi canti e i suoi colori segreti, ci riempie di una gioia traboccante e rompe la nostra solitudine. Noi comunichiamo con la bellezza di un paesaggio, di un volto o di una poesia come comunichiamo con un amico, e sperimentiamo una strana consonanza con una realtà che ci sembra essere la patria della nostra anima, perduta e ritrovata.
(P. N. Evdokìmov, La teologia della bellezza, Milano, 1996)
Postato da: giacabi a 11:34 |
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bellezza, evdokimov
Postato da: giacabi a 18:07 |
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bellezza, dostoevskij
L’arte
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Cezanne, Maison avec criqué murs
«L’arte è il contrario della disintegrazione. Perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà. [...] La purezza dell’arte non consiste nello scansare quei moti della natura che la legge sociale censura come perversi o immondi; ma nel riaccoglierli spontaneamente alla dimensione reale, dove si riconoscono naturali, e quindi innocenti. La qualità dell’arte è liberatoria, e quindi, nei suoi effetti, sempre rivoluzionaria. Qualsiasi momento dell’esperienza reale e transitoria, diventa, nell’attenzione poetica, un momento religioso»
Elsa Morante
Postato da: giacabi a 19:46 |
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bellezza
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Postato da: giacabi a 19:01 |
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bellezza
01/06/2002
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Tracce pp. ss |
Verso il Meeting
Il bello è splendore del vero
Mimmo Stolfi*** |
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Luzi, Degas, Solmi, Weil… Pillole di genialità verso il prossimo Meeting: «Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza». Apparenza, Mistero e realtà nella percezione di artisti del Novecento Con buona pace di Platone e di tutti i suoi seguaci, numerosissimi ancora oggi, la bellezza non è l’idea del bello. L’oggetto dell’estetica è la percezione, non un concetto. Non c’è dunque niente di più concreto della bellezza, la cui contemplazione non avviene nell’iperuranio, ma qui e ora nel mondo attraverso i sensi. Ecco perché in questa scelta antologica ispirata alla frase «il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza», non troverete quasi mai citazioni tratte da filosofi di professione, ma piuttosto pensieri di poeti, artisti, scrittori. Tutta gente per la quale la bellezza non è materia teorica, ma quello stimolo, quella scossa o quella carezza che la realtà spesso concede a chi non distolga lo sguardo dalle cose e dai volti. Ma la potenza della bellezza è tale che spesso assume i caratteri di una vera propria epifania. Di un’apparizione improvvisa che può coglierci anche nel tran tran quotidiano. Un vero e proprio urto che ci scuote suscitando in noi quell’anelito a un oltre, soffocato dal chiacchiericcio assordante che ci circonda. È quello che accade, per esempio, nella poesia A una passante di Baudelaire: «La via assordante strepitava intorno a me./ Una donna alta, sottile, a lutto, in un dolore immenso,/ passò sollevando e agitando/ con mano fastosa il pizzo e l’orlo della sua gonna/ (...) Un lampo...poi la notte! - bellezza fuggitiva/ dallo sguardo che m’ha fatto subito rinascere,/ ti rivedrò solo nell’eternità?». L’urto della bellezza risveglia anche quella promessa di felicità, quel desiderio di infinito che alberga in ogni uomo. E ancora una volta a donarci le parole più intense per dire quell’emozione che ci lavora dentro, e la cui intensità è tale che spesso non riusciamo a verbalizzarla, è un poeta. Un poeta, Rainer Maria Rilke, che quella felicità, quella bellezza, non la coglie in un platonico “mondo delle Idee”, ma nella terra, la nostra terra: «E noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa, ne avremmo l’emozione/ quasi sconcertante/ di quando cosa ch’è felice, cade». «Quella che io intendo per bellezza, ed è la sola che mi interessa, mi tocca e mi commuove, è una promanazione interiore armonizzata con la forma esterna». (Mario Luzi, Intervista a Doriano Fasoli, Radiotre) «Tanto in cuore aver d’amore/ da dire tutto è bello,/ anche l’uomo e il suo male,/ anche in me quello che m’addolora». (Umberto Saba, Canzoniere) «Se non vedi il gioiello nel sassolino circondato da fili d’oro, può darsi che ti lavi le mani così spesso da sbiadire i pensieri che vi sono stati riposti». (Emily Dickinson, Poesie) «Ho visto cose bellissime, grazie alla diversa prospettiva suggerita dalla mia perenne insoddisfazione, e quel che mi consola ancora, è che non smetto di osservare». (Edgar Degas, Scritti) «Il colore di ogni cosa ci commuove come un’armonia; ci vien voglia di piangere vedendo che le rose son rose o, se è inverno, scorgendo sui tronchi delle piante dei bei colori verdi quasi riflettenti; e, se un poco di luce batte su quei colori, come, ad esempio, nell’ora del tramonto, quando il lilla bianco fa cantare la propria bianchezza, ci si sente inondati di bellezza». (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto) «Altrove, senza dubbio, esistono i tramonti. Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con stelle all’orizzonte». (Fernando Pessoa, Il libro) «L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra». (Martin Heidegger, L’abbandono) «La verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non può essere né decifrata né spiegata con le parole, ma quando un essere umano, una persona si trova accanto a questa bellezza, si imbatte in questa bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa sentire la sua presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la schiena. La bellezza è come un miracolo, del quale l’uomo diventa involontariamente testimone. Tutto qua». (Andrej Tarkovskij, Intervista a Poiesis) «La rivelazione della poesia, una volta affacciandomi a una finestra, si impersonò per me in un grande mandorlo fiorito, candido nell’abbagliante chiarore della luna piena». (Sergio Solmi, Meditazioni e ricordi) «Ma perché essere qui è molto, e perché sembra che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste effimere che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri». (Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi) «Sono solo un uomo, ho bisogno di segni sensibili, costruire scale di astrazioni mi stanca presto. Desta, dunque, o Dio, un uomo in un posto qualsiasi della terra e permetti che guardandolo io possa ammirare Te». (Czeslaw Milosz, La mente prigioniera) «Ringraziavo Dio del fatto di avermi creato artista per amare tutte le forme in cui Egli si manifesta, e piangere di esultanza e di giubilo davanti ad esse». (Boris Pasternak, Il soffio della vita) «Il bello è l’apparenza manifesta del reale». (Simone Weil, Quaderni) «L’uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio, vuole trasfigurare il mondo prima di averlo esaurito, ordinarlo prima d’averlo capito. Per quanto dica, essa diserta da questo mondo». (Albert Camus, Lo straniero) «La bellezza si nasconde in ogni piega del mondo, anche nei posti più inimmaginabili. Coglierla significa dischiudersi alle ricchezze della vita. E anche comprenderne la responsabilità». (Elaine Scarry, Sulla bellezza) |
Postato da: giacabi a 20:13 |
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baudelaire, bellezza, luzi, proust, camus, rilke, tarkovskij, pasternak
LA BELLEZZA
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Basilica della Sagrada Familia, Barcellona
"In
realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla
quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra
speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui,
l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa
dall’egoismo".
Benedetto XVI, da Omelia per la dedicazione della Sagrada Familia
Postato da: giacabi a 21:40 |
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bellezza, benedettoxvi
La bellezza
***
“la
bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale
sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La
bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è
pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo”.***
“Gaudí, con la sua opera, ci mostra che Dio è la vera misura dell'uomo, che il segreto della vera originalità consiste, come egli diceva, nel tornare all'origine che è Dio. Lui stesso, aprendo in questo modo il suo spirito a Dio, è stato capace di creare in questa città uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l'uomo all'incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa”.
BENEDETTO XVI
Postato da: giacabi a 19:12 |
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bellezza, benedettoxvi
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-
"Il nostro essere è solo il punto di incidenza tra il non essere e il sempre essere, e la nostra esistenza temporale è solo il mezzo attraverso cui l'eternità si manifesta".
(Mann, Giuseppe il Nutritore, 1943)
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"Perchè la Bellezza, odimi bene, Fedro, la Bellezza soltanto è divina e visibile a un tempo, ed è per questo che essa è la via al sensibile, è, piccolo Fedro, la via che mena l'artista allo spirito".
(Mann, La morte a Venezia, 1912) -
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"I medici non sono al mondo per facilitare la morte ma per conservare a qualunque prezzo la vita".
(Mann, Buddenbrooks, 1901)
- grazie a : Ragione e Fede
Postato da: giacabi a 18:18 |
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bellezza, eutanasia, mann
La Bellezza
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Noi non ci accontentiamo di vedere la Bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos'altro, che è difficile esprimere a parole. Vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarci parte.
C.S Lewis il peso della gloria
Postato da: giacabi a 21:49 |
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bellezza, lewis
Le persone buone sono persone belle
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"dice Kant la bontà risplende come un gioiello ed è vista persino nell’oscurità. Le persone buone sono persone belle. Tutti
noi lo sappiamo per esperienza e lo hanno sempre saputo gli artisti, i
pittori:la bellezza risplende sul volto della persona buona".***
Agnes Heller
Postato da: giacabi a 10:44 |
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bellezza, amore
Post-bellezza, ferita moderna
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ « La bellezza in quanto tale, da sola, forse non salverà mai il mondo. Ma essa, nonostante la sua intima fragilità, sembra almeno salvaguardare la nostra dignità di umani. Per questo, conviene sempre conservare per le generazioni future delle riserve di ciò che l’incontro con il bello ci ha ispirato». Da un quarto di secolo la riflessione del filosofo francese Jean-Louis Chrétien, nato nel 1952, docente alla Sorbona, già appartenente alla sinistra radicale e convertitosi al cristianesimo in età adulta, sonda il fondo spirituale della condizione umana a partire dalle manifestazioni vitali più elementari: il corpo e i suoi linguaggi, il desiderio di parola e la risposta naturale a una chiamata. Temi che s’intrecciano, con sviluppi imprevedibili, in due sue opere penetranti da poco apparse anche in Italia: La ferita della bellezza (Marietti) e Simbolica del corpo. La tradizione cristiana del Cantico dei cantici (Cittadella). Professore, lei sostiene che la bellezza può atterrire. Cosa intende esattamente? «Questa riflessione trae in parte ispirazione da Platone. Se la consideriamo in un senso forte, la bellezza prende sempre nella vita la forma di un’apparizione capace immediatamente di attirare la nostra attenzione, poiché ciò che incontriamo sfugge all’ordinario. Una persona che passa, un riflesso di luce sul paesaggio o un altro fenomeno ci colpiscono e ci raggiungono con la loro dimensione quasi sacra, facendoci paradossalmente sentire subito la loro distanza rispetto a tutto ciò che compone la nostra routine». Ma si tratta davvero di uno stato prossimo alla paura? «Per quanto forse un po’ drammatico, un esempio può risultare illuminante. Si pensi alle forme ricorrenti di violenza contro ciò che si manifesta come bello. La violenza del vandalismo che si scaglia ad esempio contro un quadro, ma anche quella privata o collettiva contro le persone. In certi individui, può sorgere l’impulso di rovinare, profanare, distruggere ciò che al contempo affascina. Proprio perché la bellezza è l’apparizione di un’altra possibilità di esistenza, un’apparizione capace di sconvolgerci in profondità. Non è mai semplice recepirla e accettarla in pieno». Questo senso di sorpresa nasce anche quando si scorge la bellezza dove non la si attendeva? «Proprio così. Sono rimasto personalmente molto commosso dalle testimonianze di alcuni miei lettori che lavorano nel mondo ospedaliero. In particolare, medici o infermieri del reparto grandi ustionati, un luogo subito associato all’orrore. Eppure, queste persone mi hanno raccontato la loro gioia profonda nel veder apparire un sorriso su un volto plasticamente rovinato o distrutto. Ciò illustra bene il fatto che la bellezza non è qualcosa di fisso, ma che essa è prima di tutto un avvenimento. Si può dire lo stesso dei volti solcati da rughe di persone molto anziane, quando di colpo sono illuminate da un’espressione di meraviglia e apertura al mondo. Si pensi poi ai volti che ascoltano con profonda attenzione, in modo appassionato». Ciò che è bello, direbbero alcuni, è anche raro. È d’accordo? «Non proprio, almeno nel senso che la bellezza può manifestarsi dappertutto e divenire parte integrante di ogni nostra giornata. È vero che chi si apre alla cultura può allargare la propria sensibilità verso certe forme del bello. Ma al contempo, non si può certo dire che la bellezza sia inaccessibile per gli altri. Se non saranno forse le opere d’arte a colpire questi ultimi, potrà essere comunque la bellezza di un qualsiasi essere vivente o di un paesaggio. In tutti questi casi, dopo l’impatto iniziale, si può rispondere alla bellezza con un elogio che utilizza la parola o che resta invece silenzioso». La bellezza può sempre divenire un cammino verso la trascendenza? «Non esistono sentieri già tracciati, proprio perché è la bellezza a chiamarci e a venirci incontro. Ma occorre mantenere lo spirito attento, così come gli occhi, le orecchie e ogni altro senso aperti a quest’incontro. In definitiva, occorre rispondere agli appuntamenti che ci vengono offerti, anche quelli con la trascendenza». Di sensi aperti all’incontro trattano anche le interpretazioni cristiane del Cantico dei cantici. Cosa l’ha spinta a riscoprire questi testi? «Si tratta di una tradizione estremamente ricca e oggi troppo poco conosciuta. In tutte queste interpretazioni, l’immagine del corpo umano respira e traspira i significati più diversi. Il Cantico dei cantici è il libro della Bibbia più attento al corpo umano. E lungo i secoli, le sue innumerevoli interpretazioni hanno dato vita a una sorta di paradosso: i concetti più sottili e spirituali della teologia mistica sono stati espressi proprio attraverso la simbolica del corpo e delle sue singole parti. Luogo per sua natura dove il significato viene al mondo, il corpo è diventato in particolare il cuore del pensiero filosofico e teologico dell’Incarnazione». Lei ricorda che la Chiesa stessa è stata spesso rappresentata come un corpo umano. «Si tratta di una tradizione legata profondamente al Nuovo Testamento e in particolare alla teologia paolina. Questo linguaggio al contempo corporale e mistico è rimasto prevalente fin oltre il Medioevo e ancora presente nel Seicento. Solo con l’avvento della modernità, in corrispondenza anche della distinzione cartesiana fra anima e corpo, una certa diffidenza ha finito per prendere il sopravvento. Designare degli atti interiori con metafore corporali è parso vieppiù strano e talora decisamente inopportuno. Ma la sensibilità odierna, di nuovo attenta ai fenomeni più semplici della condizione umana, potrebbe rivelarsi propizia per una riscoperta della tradizione precedente». «Le cose ci raggiungono con la loro dimensione sacra di avvenimento, ci fanno sentire la loro distanza rispetto alla nostra routine» «Alcuni profanano quel che li affascina: vi vedono un’altra possibilità di vivere. Riscopriamo il Cantico dei cantici: la Bibbia è attenta al corpo» da: www.avvenire.it 26.08.10 |
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Postato da: giacabi a 08:12 |
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bellezza
La bellezza del bene
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C’è molta gente che sa fare la predica sul peccato, ma troppo pochi sanno far sentire che il bene è bello, che il volersi bene è bello, che il prodigarsi è bello (P. Mazzolari).
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