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sabato 4 febbraio 2012

benedettoXVI, 3

La morale cosiddetta laica non è ragionevole
***
Nel suo libro Fede, Verità, Tolleranza, l’allora cardinale Ratzinger riferisce un episodio – narrato da Werner Heisenberg – molto significativo, accaduto a Bruxelles nell’ambito di una discussione tra scienziati.

«Ci si trovò a discutere del fatto che Einstein parlava spesso di Dio e Max Planck sosteneva l’opinione che non ci sia alcuna contraddizione tra scienze della natura e religione [...]. Secondo Heisenberg, a fondamento di tale apertura [di Planck] stava la concezione che scienze naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è l’alternativa tra vero e falso, nella religione l’alternativa tra bene e male, tra valore e disvalore. [...] “Le scienze naturali sono, in certo senso, il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà [...]. La fede religiosa,
viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la
quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita”. [...] A questo punto Heisenberg aggiunge: “Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione. Dubito che, alla lunga, delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere”. A un certo punto interviene Wolfgang Pauli e rafforza
il dubbio di Heisenberg, addirittura lo eleva al grado di certezza: La separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente d’emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell’ambito culturale occidentale, potrebbe venire in un futuro non troppo lontano il momento in cui le parabole e le immagini della religione qual è stata finora non possiederanno più alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo, anche l’etica finora vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di una atrocità che non ci possiamo neppure immaginare”».
Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 145-146.
don Carron
Da:  ESE R C I Z I D E L L A F R A T E R N I T À d i C O M U N I O N E E L I B E R A Z I O N E  2009

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lunedì, 04 maggio 2009
Il brindisi del convertito e Socrate profeta di Cristo
***
 
Un primo sguardo deve rivolgersi al cardinale Newman, la cui vita e opera potrebbero ben essere designati come un unico grande commento al problema della coscienza. A chi non viene in mente, a proposito del tema «Newman e la coscienza», la famosa frase della Lettera al Duca di Norfolk: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo - cosa che non è molto indicato fare - allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa»? Secondo l' intenzione di Newman, questo doveva essere una chiara confessione del papato, ma anche un' interpretazione del papato, il quale è rettamente inteso solo quando è visto insieme col primato della coscienza - dunque non ad essa contrapposto, ma piuttosto su di essa fondato e garantito. A questo punto diventa chiara l' estrema radicalità dell' odierna disputa sull' etica e sul suo centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i Sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: da una parte, la fiducia nella possibilità per l' uomo di conoscere la verità; dall' altra, una visione del mondo in cui l' uomo crea da sé i criteri per la sua vita. Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale. Prendiamo in considerazione ancora un' idea di San Basilio: l' amore di Dio, che si concretizza nei comandamenti, non ci viene imposto dall' esterno, ma viene infuso in noi precedentemente. Il senso del bene è stato impresso in noi, dichiara Agostino. A partire da ciò siamo ora in grado di comprendere correttamente il brindisi di Newman prima per la coscienza e solo dopo per il Papa. Il Papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell' autorità può soltanto deformare l' autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell' epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all' autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall' esterno. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un' antropologia della coscienza. L' anàmnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall' esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo «dal di fuori» non è affatto qualcosa di contrapposto: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell' anàmnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Joseph Ratzinger
(26 aprile 2009) - Corriere della Sera

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Il libero Stato secondo la Chiesa ***
 
Che cosa è dunque lo Stato? A che cosa esso è funzionale? Potremmo rispondere in maniera molto elementare che il compito dello Stato è «permettere e conservare l’ordinata convivenza tra gli uomini», dunque creare un equilibrio tra la libertà e i beni, tale che ciascuno possa condurre un’esistenza degna dell’uomo. Potremmo altresì dire che lo Stato garantisce il diritto come condizione della libertà e del benessere generale. Perciò, per un verso è carattere essenziale dello Stato il fatto che esso debba essere governato; per l’altro, che l’attività di governo non è semplicemente esercizio di potere, bensì tutela dei diritti di ciascun individuo e del benessere di tutti. Non è compito dello Stato procurare la felicità degli uomini, e non è perciò suo compito creare “uomini nuovi”. Più in là, neppure è suo compito trasformare il mondo in un paradiso, e neanche lo può fare; quando però lo tenta, finisce per porsi come “assoluto” e decide perciò i limiti che gli sono propri. Si comporta allora come se fosse esso stesso Dio, e per tale ragione diviene quella “bestia” terrificante e il potere dell’Anticristo di cui dice il Libro dell’Apocalisse.
In questo contesto, è importante considerare sempre in parallelo due passi biblici, che solo apparentemente si contraddicono, ma che in realtà sono essenzialmente correlati l’un l’altro: il capitolo 13 della Lettera ai Romani e il capitolo 13 dell’Apocalisse.
 La Lettera ai Romani descrive lo Stato nella sua forma ordinata, lo Stato che si attiene a ciò che rientra nelle sue competenze e dunque non pretende di porsi come la fonte della verità e del diritto. Paolo ha presente lo Stato come amministratore fiduciario di un più ampio ordine complessivo, che come tale rende possibile all’uomo sia la sua esistenza individuale che quella nella collettività. A questo Stato è dovuta obbedienza. L’obbedienza alla legge e agli organi che sono autentiche forme di diritto non è impedimento della libertà, bensì sua condizione. D’altra parte, la misteriosa rivelazione dell’Apocalisse mostra allo Stato che pretenda di accreditarsi come Dio e rivendichi il diritto di consistere solo in se stesso che cosa è invece legittimo e deve aver valore in quanto verità. Uno Stato del genere annichila l’uomo. Esso nega la sua propria essenza e non può perciò neanche più esigere obbedienza alcuna.
È significativo che, in fondo, tanto il nazionalsocialismo quanto il marxismo abbiano negato lo Stato ed il diritto, concepito i vincoli della legge come illibertà e, a fronte di ciò, preteso di affermare qualcosa di più elevato ancora: la cosiddetta volontà del popolo o la società senza classi, che avrebbero dovuto subentrare allo Stato, puro strumento dell’egemonia della classe dominante.

Punti fondamentali

Mi sembra che il risultato della nostra ricognizione del dibattito odierno si possa sintetizzare nelle seguenti sette affermazioni.
a. Lo Stato non è di per sé fonte di verità né di morale. Esso non può da sé “produrre” verità alcuna né in virtù di un’ideologia - fondata sul popolo, o sulla classe, o su qualsivoglia altra grandezza - di cui sia particolare depositario, e neppure per la via del principio maggioritario. Lo Stato non è realtà assoluta.
b. Allo stesso modo, il fine dello Stato non può consistere nella promozione di una mera libertà, del tutto priva di contenuti; per fondare un’ordinata convivenza tra gli uomini, che abbia senso e sia vivibile, esso ha bisogno di un minimo di verità e di conoscenza del bene; si badi però, non manipolabile. Altrimenti esso decadrà, come afferma Agostino, al livello di un’efficiente associazione a delinquere, perché si troverebbe ad esser definito come questa in una prospettiva esclusivamente strumentale e non sulla base della giustizia che significa il bene in senso realmente universale ed è eguale per tutti.
c. Conseguentemente, lo Stato deve disporsi ad accogliere da “fuori” di sé, e a far proprio, il patrimonio di conoscenza e di verità intorno al bene da cui non può prescindere.
d. Idealmente, questo “fuori” potrebbe essere la pura evidenza razionale che sarebbe in particolar modo compito di una filosofia scevra da condizionamenti conservare e custodire. Ma di fatto un’evidenza razionale di tale purezza, ed indipendente dalla dimensione storica, non si dà. La ragione metafisica e la ragione morale “funzionano” e si attestano presenti soltanto dentro un contesto storico: ne dipendono, e nel contempo però lo travalicano. Di fatto, tutti gli Stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti (che ad un tempo sono state anche ambiti di formazione morale). La ragionevolezza ed i contorni della nozione di bene sono ovviamente molto diversi da una religione all’altra, ed altrettanto differenti le forme di correlazione tra Stato e religione. La tentazione dell’identificazione e così dell’assolutizzazione idolatrica dello Stato - che nel medesimo tempo corrompe la stessa religione - è presente lungo tutto il corso della Storia. Ma altrettanto essa attesta anche modelli positivi di relazione tra un sapere morale religiosamente fondato e gli ordinamenti statali. Sotto questo punto di vista, si può perfino affermare che nelle grandi formazioni religiose e statali si evidenzia un consenso di fondo circa tratti importanti ed essenziali del “bene” in senso morale, che rinvia ad una comune razionalità.
e. La fede cristiana ha dato prova di sé come creatrice di cultura religiosa universale e razionale in sommo grado. Anche oggi, essa offre alla ragione quel patrimonio di base di intuizioni morali che conduce ad acquisire certe e fondate evidenze in campo etico o, almeno, giustifica quella ragionevole fede morale senza la quale una società ed uno Stato non possono elementarmente consistere.
f. Conseguentemente, come abbiamo già detto, quanto sostiene in radice ed essenzialmente lo Stato, lo Stato lo riceve da “fuori” di sé: non da una “pura ragione” - che in ambito morale non è sufficiente - bensì da una ragione che è divenuta matura in forme storiche di cristallizzazione culturale della fede religiosa. È essenziale che tale distinzione non venga cancellata: non è lecito alla Chiesa trasformarsi in entità politica o voler agire in essa o per suo tramite come gruppo di potere. Allora essa si muterebbe in Stato e darebbe forma così allo Stato assoluto dal quale essa deve invece mettere in guardia. Mediante la sua fusione con lo Stato essa annichilirebbe sia l’essenza dello Stato che la propria.
g. Per lo Stato, la Chiesa rimane un “corpo estraneo”. Soltanto allora entrambi sono quello che devono essere. La Chiesa deve restare al suo posto e non travalicare i limiti che le sono propri, altrettanto quanto deve fare lo Stato
Joseph Ratzinger
da: Elogio della coscienza. La verità interroga il cuore Cantagalli Edizioni

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lunedì, 27 aprile 2009
Scienze naturali e religione
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“Secondo Heisenberg, a fondamento di questa apertura [dello scienziato verso la religione, ndGA] stava la concezione che scienze naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è l’alternativa tra vero e falso, nella religione l’alternativa tra bene e male, tra valore e disvalore. Le due sfere si indirizzano l’una al lato oggettivo, l’altra a quello soggettivo del mondo”
Joseph Ratzinger Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003.

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lunedì, 13 aprile 2009
MESSAGGIO PASQUALE
DEL SANTO PADRE E BENEDIZIONE "URBI ET ORBI", 12.04.2009
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Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Formulo di cuore a voi tutti l’augurio pasquale con le parole di sant’Agostino: "Resurrectio Domini, spes nostra – la risurrezione del Signore è la nostra speranza" (Agostino, Sermo 261, 1). Con questa affermazione, il grande Vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza (cfr ibid.).

In effetti, una delle domande che più angustiano l’esistenza dell’uomo è proprio questa: che cosa c’è dopo la morte? A quest’enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che
la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso. Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna.

Quest’annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico. Lo dichiara con vigore san Paolo: "Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede". E aggiunge: "Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini" (1 Cor 15,14.19).
Dall’alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l’avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.

La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall’Uomo Gesù Cristo mediante la sua "pasqua", il suo "passaggio", che ha aperto una "nuova via" tra la terra e il Cielo (cfr Eb 10,20). Non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del Venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba.

Infatti all’alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota. Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel Cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.

L’annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo. Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell’esistenza umana. È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il "vuoto" sarebbe destinato ad avere il sopravvento. Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c’è scampo per l’uomo e ogni sua speranza rimane un’illusione. Ma proprio oggi prorompe con vigore l’annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoèlet: "C’è forse qualcosa di cui si possa dire: / Ecco, questa è una novità?" (Qo 1,10). Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato. "Mors et vita / duello conflixere mirando: dux vitae mortuus/ regnat vivus - Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello: / il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa. Questa è la novità! Una novità che cambia l’esistenza di chi l’accoglie, come avvenne nei santi. Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.

Più volte, nel contesto dell’Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull’esperienza del grande Apostolo. Saulo di Tarso, l’accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui "conquistato". Il resto ci è noto. Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: "Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Cor 5,17).
Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l’entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora. Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolino a ricercare il Signore Gesù.
Ci incoraggino a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l’umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione. Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: "Nemmeno le tenebre per te sono tenebre / e la notte è luminosa come il giorno" (139[138],12). Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio. Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli "inferi" è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v. 8).

Se è vero che la morte non ha più potere sull’uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio. Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.

E’ questo il messaggio che, in occasione del
recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all’ascolto.
L’Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti – spesso dimenticati – che lacerano e insanguinano diverse sue Nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia.
Il medesimo messaggio ripeterò con forza in
Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana. La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese.
Dalla Terrasanta, poi, lo sguardo si allargherà sui Paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all’incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza. Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il Quale – lo ripeto – cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.

Resurrectio Domini, spes nostra! La risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa.

Oggi la Chiesa canta "il giorno che ha fatto il Signore" ed invita alla gioia. Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l’umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l’Agnello che "ha redento il mondo", l’Innocente che "ha riconciliato noi peccatori col Padre". A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia !

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana


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domenica, 29 marzo 2009
VOLANTONE  DI  PASQUA
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La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche il presente più faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. La presenza di Cristo non è soltanto una realtà attesa,  ma una vera presenza.
Benedetto XVI

Noi diciamo quello che dovrebbe essere  o quello che non va e non  "si parte dall'affermazione che Cristo ha vinto".  Che  Cristo ha vinto, che Cristo è risorto, significa che il senso della mia vita e del mondo è presente, è già presente, e il tempo è l'operazione profonda e misteriosa del suo manifestarsi.
Luigi Giussani

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lunedì, 23 marzo 2009
 In gioco c’è la
natura della Chiesa
***
di Stefano Alberto*

Perché questo continuo e crescente accanirsi dei media contro la persona del Papa, questa sistematica riduzione del suo insegnamento a titoli fuorvianti e ad effetto, che suscitano reazioni astiose e polemiche in tutto il mondo?

In molti commenti giornalistici sulla straordinaria Lettera di Benedetto XVI ai vescovi si è battuto sui tasti della solitudine del Papa, della crescente incomprensione del suo messaggio, ritenuto troppo dottrinale e poco pastorale, del suo isolamento, nella Curia, tra i fedeli, nell’opinione pubblica mondiale…
C’è chi non manca, poi, di rimarcare con puntiglio il ripetersi di supposti “incidenti” di comunicazione (a partire dal discorso di Regensburg in poi).
Sul «mito della mia solitudine», lo stesso Benedetto XVI ha sorriso durante il
colloquio coi giornalisti nel volo verso il Camerun per il suo primo viaggio apostolico in Africa.
La stessa serenità con cui pronunciò altre parole - ora possiamo dire profetiche -, quando
nell’omelia di inizio pontificato in piazza San Pietro (24 aprile 2005) accennò due volte all’«essere solo»; la prima, ricordando Giovanni Paolo II («Chi crede non è mai solo, non lo è nella vita e neanche nella morte»); la seconda, riferita a se stesso, unito alla compagnia dei santi in cielo e alla preghiera, alla fede, alla speranza e alla carità di tutti i fedeli: «Non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo».
In quella circostanza Benedetto XVI affermò che «il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».

Sono affermazioni che aiutano a comprendere il senso profondo e la portata per tutta la Chiesa della recente Lettera, che, senza nulla tacere delle difficoltà e degli errori, delle divisioni, perfino dell’odio, esprime tutta la passione per Cristo e per l’uomo di Benedetto XVI, la coscienza viva del suo servizio, unico, alla Chiesa e al mondo, e l’intensità del suo magistero. Esso va ben oltre le puntuali precisazioni e chiarimenti del gesto di misericordia con cui è stata
rimessa la scomunica, maturata nel momento stesso dell’ordinazione illegittima dei quattro vescovi lefebvriani, con tutte le dolorose polemiche e confusioni che ne sono seguite.

Molti hanno già notato che questo testo rappresenta un unicum nella storia non solo recente della Chiesa per lo stile (vicino a quello delle lettere paoline e dei Padri dei primi secoli cristiani, è stato osservato) e per il decisivo contenuto magisteriale. Il Papa stesso ha voluto chiarire, innanzitutto al collegio episcopale di cui è capo, che i problemi affrontati sono di natura «essenzialmente dottrinale» e riguardano «soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi».
Al centro c’è il delicato processo di ricezione del Vaticano II, tuttora in corso (anche se c’è sempre qualcuno che vagheggia la necessità di un “Vaticano III”), e il rapporto tra il Concilio e la Tradizione della Chiesa. Non sono questioni riservate solo ai vescovi o alla cerchia ristretta degli specialisti e degli “addetti ai lavori”, perché in gioco c’è la natura stessa della Chiesa e della sua missione verso l’uomo contemporaneo. Lo ricorda con accenti accorati lo stesso Pontefice: «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è in pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al disopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio».
Il Papa coglie con lucidità drammatica i segni di un tempo in cui «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini» e «l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi si manifestano sempre di più».
I membri della Fraternità Pio X sono richiamati al fatto che nessuno può pretendere di «congelare l’autorità magisteriale della Chiesa» a prima del Concilio. Ma anche a coloro che il Papa, non senza una sottile ironia, chiama «grandi difensori del Concilio», viene ricordato che «il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa» e che la fedeltà al Concilio implica «la fede professata nel corso dei secoli», senza «tagliare le radici di cui l’albero vive».

C’è chi ha voluto vedere in queste sobrie ed efficaci espressioni una sorta di mutamento, addirittura una “svolta”, rispetto alle indicazioni dell’importante discorso alla Curia del 2005.
In quella occasione il Papa parlò della necessità di una ermeneutica del Concilio della continuità e della riforma, invece di una ermeneutica, oggi di fatto ancora dominante in vasti settori della Chiesa, che interpreta l’“aggiornamento” del Vaticano II, la sua “apertura al mondo” come discontinuità rispetto alla tradizione precedente, quasi un nuovo inizio della Chiesa nella modernità.

Una tale lettura rischia di ridurre subito la forza della Lettera papale, senza cogliere la vera posta in gioco, che è il superamento della latente divisione nella Chiesa tra contenuto e metodo dell’annuncio cristiano.

Se si riduce razionalisticamente il contenuto del cristianesimo solo a dottrina o a precetti morali, continuamente interpretabili secondo criteri soggettivi inevitabilmente parziali (tradizionalismo, progressismo, spiritualismo…), il metodo del suo annuncio finisce per essere dettato non dal fatto stesso dell’avvenimento di Cristo, sempre presente nella vita della Chiesa, ma dalle sue varie conseguenze, secondo le priorità dettate dalla contingenza storica, ultimamente dal potere.
Come Dio oggi si rende presente, come parla all’uomo, come gli manifesta il suo «amore spinto sino alla fine», di cui tutti abbiamo estremo bisogno? È a questa priorità che Benedetto XVI guarda, giocandosi in prima persona e riproponendo con serena fermezza la perenne novità dell’avvenimento cristiano e le condizioni della sua permanenza originale, nei tempi dell’affievolirsi della fede e del senso di appartenenza alla Chiesa.
Nell’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore di tutta la Chiesa, Benedetto XVI è ben cosciente della missione affidata dal Signore stesso a Pietro e ai suoi successori: «Tu…conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32).
C’è un passaggio che illumina questa consapevolezza nel
discorso tenuto il 16 marzo alla Congregazione del clero: «Nel mistero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto cioè che Dio si è fatto uomo come noi, sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano».
Potremmo ricordare ancora l’incipit della
prima Enciclica, citata nella Lettera ai vescovi: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, n. 1).
Con la sua testimonianza di fede e di amore misericordioso, con lo struggente richiamo all’unità dei credenti, segno principale di credibilità dell’annuncio cristiano (da qui la priorità per l’ecumenismo e la necessità del dialogo interreligioso), il Papa, fedele al carisma di Pietro, ripresenta attraverso la sua persona il metodo stesso dell’annuncio: «È Lui, Cristo, a guidare la sua Chiesa».

La grande libertà di Benedetto XVI di accettare con amore il peso e l’impegno faticoso della sua missione unica, ma non solitaria, incurante «dell’ostilità pronta all’attacco», è la vera garanzia della libertà e della speranza di ogni credente nella sequela di Cristo, e di ogni uomo sinceramente proteso nella fatica quotidiana del suo cammino al destino. È l’alternativa vera a «una libertà male interpretata», sempre pronta a «mordere e divorare», dentro e fuori la Chiesa.


*Docente di Introduzione alla teologia all’Università Cattolica di Milano

© Copyright
Il Riformista, 23 marzo 2009 consultabile online anche qui

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sabato, 14 marzo 2009
«Una misericordia che ci sfida»
***

Julián Carrón
Avvenire, 14 marzo 2009


La prima cosa che colpisce è il fatto che il Papa abbia sentito il bisogno di scrivere una lettera così: piena di dolore davanti all’incomprensione non tanto degli estranei, quanto dei cattolici. Caso insolito nella storia recente, da quanto ricordi, e segno del fatto che non capiamo un gesto che, come dimostra  la lettera, è pieno di ragionevolezza.
Nella sua semplicità, è stato un gesto di misericordia per una parte di fedeli affidati alla sua paternità di pastore universale della Chiesa, che acquista tutta la sua portata davanti agli irrigidimenti di coloro che lo criticano, inclusi quelli a cui era rivolto. Questo gesto pone davanti a tutti lo scandalo cristiano. È difficile, infatti, che leggendo la lettera non vengano alla mente le parole di Gesù: «Beato colui che non si scandalizza di me», rivolte a chi si arrabbiava perché mangiava coi pubblicani e i peccatori. La misericordia, gesto inequivocabile del divino, continua a scandalizzare come il primo giorno. Peccato che questo succeda anche tra chi appartiene al popolo dei redenti, vale a dire, tra chi per primo è stato oggetto di una sconfinata misericordia.
Diversamente da quanti pensano che Benedetto XVI confermi i destinatari nella loro posizione, il suo gesto costituisce la sfida più grande davanti alla quale si siano mai trovati. Soltanto la misericordia sfida come nessun altro richiamo la nostra testardaggine. A chi molto viene perdonato, molto ama, dice Gesù. A nessun altro gesto è sensibile l’uomo come alla misericordia, tanto è vero che è stato il metodo di Gesù, come ci ricorda San Paolo: «Quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Quella del Papa è una risposta alla «priorità che sta al di sopra di tutte, rendere Dio presente in questo mondo», un Dio incarnato il cui nome è “misericordia”, che si manifesta attraverso «l’unità dei credenti».
Questa lettera ha un “respiro” di cui non possiamo non ringraziare il Papa, tanto più quanto più aumentano gli irrigidimenti di coloro che riducono la vita cristiana a un moralismo soffocante. Niente più di una lettera così mi fa sentire orgoglioso della mia appartenenza ecclesiale, pieno di fiducia che il giorno in cui io dovessi sbagliare sarei trattato con altrettanta misericordia.
Julián Carrón

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benedettoxvi, carron

Questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa
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« Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. »
BENEDETTO PP. XVI

  Dal Vaticano, 10 Marzo 2009
da:http://www.clonline.org/
LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA
DEI 4 VESCOVI CONSACRATI DALL'ARCIVESCOVO LEFEBVRE

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Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini
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« La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.»
BENEDETTO PP. XVI
  Dal Vaticano, 10 Marzo 2009
da:http://www.clonline.org/

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sabato, 07 marzo 2009
Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente
(1 Tm 4,10)
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la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù. Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero. La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo. Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17).
La giovinezza, tempo della speranza
A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani. Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità. La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea. Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi. La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative. Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita. E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale. Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza?
Alla ricerca della “grande speranza”
L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca. Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo. Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n. 31). Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione. Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17,5-6).
La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze. Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche. Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile. Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità. Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione. L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore. A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13). Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza
Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr At 9,1). Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”. E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr At 9,3-5). Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo. Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo. Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma. Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo
Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo. E’ Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna. Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza
Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani. Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo. Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia. Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi. La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130,8,17). La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr Enc. Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr Mt 18,20). Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede. Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti. Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna. Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione. I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo. L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza.
Agire secondo la speranza cristiana
Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei. Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli. La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate. Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza. Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale. Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi. Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere. Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza
Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18). Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza. Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno. Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto. Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani. Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria ... Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria... Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore. Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2,17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
PER LA XXIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
5 APRILE 2009
Cari amici,

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benedettoxvi

domenica, 22 febbraio 2009
Il realista
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“Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. E per essere realisti, dobbiamo proprio contare su questa realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza.
BENEDETTO XVI
NEL CORSO DELLA PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE 6 ottobre09

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reale, benedettoxvi

mercoledì, 11 febbraio 2009
Cristo da senso alla vita
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“Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore".
Benedetto XVI, da Spe salvi
grazie ad Annina

Postato da: giacabi a 16:50 | link | commenti (2)
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lunedì, 02 febbraio 2009
L’eutanasia
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"l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto "dolce", ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio".
Papa Benedetto XVI

Postato da: giacabi a 14:45 | link | commenti (3)
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domenica, 04 gennaio 2009
Prima di Cristo e il dopo Cristo
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Il limite tra il prima di Cristo e il dopo Cristo non è un confine tracciato dalla storia o sulla carta geografica, ma è un segno interiore che attraversa il nostro cuore. Finché viviamo nell’egoismo, siamo ancora oggi coloro che vivono prima di Cristo
J. Ratzinger

Postato da: giacabi a 08:05 | link | commenti (1)
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mercoledì, 24 dicembre 2008
Buon Natale a tutti!
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Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non é un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos - presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14)… Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
Benedetto XVI –

L’avvenimento di Cristo diventa presente ora in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere e lo muove a seguire. Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di un’umanità diversa. L’incontro, l’impatto è con un’umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove.
Luigi Giussani

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domenica, 07 dicembre 2008
Avvento
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“Cari fratelli e sorelle,
con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della nostra storia. Adventus è la parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.
Adottando questo termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.
 SANTO PADRE BENEDETTO XVI     da: Omelia I Domenica di Avvento, 30 novembre 2008

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domenica, 23 novembre 2008
La gioia nasce dalla certezza di essere amati dal Creatore
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"È possibile individuare infatti due linee di fondo dell'attuale cultura secolarizzata, tra loro chiaramente interdipendenti, che spingono in direzione contraria all'annuncio cristiano e non possono non avere un'incidenza su coloro che stanno maturando i propri orientamenti e scelte di vita. Una di esse è quell'agnosticismo che scaturisce dalla riduzione dell'intelligenza umana a semplice ragione calcolatrice e funzionale e che tende a soffocare il senso religioso iscritto nel profondo della nostra natura. L'altra è quel processo di relativizzazione e di sradicamento che corrode i legami più sacri e gli affetti più degni dell'uomo, col risultato di rendere fragili le persone, precarie e instabili le nostre reciproche relazioni Proprio in questa situazione tutti noi abbiamo bisogno, e specialmente i nostri ragazzi, adolescenti e giovani hanno bisogno, di vivere la fede come gioia, di assaporare quella serenità profonda che nasce dall'incontro con il Signore. Ho scritto nell'Enciclica Deus caritas est: "Abbiamo creduto all'amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1). La fonte della gioia cristiana è questa certezza di essere amati da Dio, amati personalmente dal nostro Creatore, da Colui che tiene nelle sue mani l'universo intero e che ama ciascuno di noi e tutta la grande famiglia umana con un amore appassionato e fedele, un amore più grande delle nostre infedeltà e peccati, un amore che perdona. Questo amore "è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso", come appare in maniera definitiva nel mistero della Croce: "Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore" (Deus caritas est, 10).. "
BENEDETTO XVI
dal:
DISCORSO AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA 5-6-2006

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venerdì, 21 novembre 2008
La difesa
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" La difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata.
Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza.
Joseph Ratzinger, “L’Occidente, l’islam e i fondamenti della pace”

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giovedì, 06 novembre 2008
La corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza
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Da: http://www.30giorni.it/ 
     “ Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo «entusiasma» attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’Origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. È al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo “altro” però l’anima non riesce a esprimerlo, «ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma». Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana.
      Kabasilas afferma:
«Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo».
     
      La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. «Origine dell’amore è la conoscenza», egli afferma, «la conoscenza genera l’amore». «Occasionalmente» così prosegue «la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore». Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, «di seconda mano» e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. «Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato».
      La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della Bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, «dalla personale Presenza di Cristo stesso» come egli dice.
L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.”
cardinale Joseph Ratzinger Messaggio al XXIII Meeting
      per l’amicizia fra i popoli, Rimini, 21 agosto 2002)

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bellezza, benedettoxvi

domenica, 02 novembre 2008
Cristo contemporaneo a noi nel corpo della sua Chiesa
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L'amicizia con Gesù è per antonomasia sempre amicizia con i suoi. Possiamo essere amici di Gesù soltanto nella comunione con il Cristo intero, con il capo e il corpo; nella vite rigogliosa della Chiesa animata dal suo Signore. Solo in essa la Sacra Scrittura è, grazie al Signore, Parola viva ed attuale. Senza il vivente soggetto della Chiesa che abbraccia le età, la Bibbia si frantuma in scritti spesso eterogenei e diventa così un libro del passato. Essa è eloquente nel presente soltanto là dove c'è la "Presenza" – là dove Cristo resta in permanenza contemporaneo a noi: nel corpo della sua Chiesa.
Benedetto XVI giovedì santo 2006
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chiesa, benedettoxvi

Evoluzione e Creazione
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La Evolución del Hombre [Parte III] by 赤.



“Vedo attualmente in Germania, ma anche negli Stati Uniti, un dibattito abbastanza accanito tra il cosiddetto creazionismo e l’evoluzionismo, presentati come fossero alternative che si escludono: chi crede nel Creatore non potrebbe pensare all’evoluzione e chi invece afferma l’evoluzione dovrebbe escludere Dio.

Questa contrapposizione è un’assurdità, perché da una parte ci sono tante prove scientifiche in favore di un’evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell’essere come tale. Ma la dottrina dell’evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde soprattutto al grande quesito filosofico: da dove viene tutto? e come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all’uomo?

Mi sembra molto importante, questo volevo dire anche a Ratisbona nella mia lezione, che la ragione si apra di più, che veda sì questi dati, ma che veda anche che non sono sufficienti per spiegare tutta la realtà. Non è sufficiente, la nostra ragione è più ampia e può vedere anche che la ragione nostra non è in fondo qualcosa di irrazionale, un prodotto della irrazionalità, ma che la ragione precede tutto, la ragione creatrice, e che noi siamo realmente il riflesso della ragione creatrice.
Siamo pensati e voluti e, quindi, c’è una idea che mi precede, un senso che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia grande missione è scoprire questo senso, viverlo e dare così un nuovo elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così, allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità, di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo concepimento fino all’ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il senso della sofferenza e del dolore; certamente c’è un dolore che dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall’odio e dalla violenza. Ma c’è anche nel dolore un senso profondo e solo se possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra vita.

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benedettoxvi, evoluzionismo

Evoluzione e Creazione
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Il Papa:
La traduzione del discorso del Papa
Illustri signore e signori,
sono lieto di salutare voi, membri della Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione della vostra assemblea plenaria, e ringrazio il professor Nicola Cabibbo per le parole che mi ha cortesemente rivolto a vostro nome.
Nella scelta del tema "Comprensione scientifica dell'evoluzione dell'universo e della vita", cercate di concentrarvi su un'area di indagine che solleva grande interesse. Infatti, oggi molti nostri contemporanei desiderano riflettere sull'origine fondamentale degli esseri, sulla loro causa, sul loro fine e sul significato della storia umana e dell'universo.
In questo contesto, è naturale che sorgano questioni relative al rapporto fra la lettura che le scienze fanno del mondo e quella offerta dalla rivelazione cristiana. I miei predecessori Papa Pio xii e Papa Giovanni Paolo ii hanno osservato che non vi è opposizione fra la comprensione di fede della creazione e la prova delle scienze empiriche. Agli inizi la filosofia ha proposto immagini per spiegare l'origine del cosmo sulla base di uno o più elementi del mondo materiale. Questa genesi non era considerata come una creazione, quanto piuttosto come una mutazione o trasformazione. Implicava una interpretazione in qualche modo orizzontale dell'origine del mondo. Un progresso decisivo nella comprensione dell'origine del cosmo è stato la considerazione dell'essere in quanto essere e l'interesse della metafisica per la questione fondamentale dell'origine prima e trascendente dell'essere partecipato. Per svilupparsi ed evolversi il mondo deve prima essere, e quindi essere passato dal nulla all'essere. Deve essere creato, in altre parole, dal primo Essere che è tale per essenza.
Affermare che il fondamento del cosmo e dei suoi sviluppi è la sapienza provvida del Creatore non è dire che la creazione ha a che fare soltanto con l'inizio della storia del mondo e della vita. Ciò implica, piuttosto, che il Creatore fonda questi sviluppi e li sostiene, li fissa e li mantiene costantemente.
Tommaso d'Aquino ha insegnato che la nozione di creazione deve trascendere l'origine orizzontale del dispiegamento degli eventi, ossia della storia, e di conseguenza tutti i nostri modi meramente naturalistici di pensare e di parlare dell'evoluzione del mondo. Tommaso ha osservato che la creazione non è né un movimento né una mutazione. È piuttosto il rapporto fondazionale e costante che lega le creature al Creatore poiché Egli è la causa di tutti gli esseri e di tutto il divenire (cfr. Summa theologiae, I, q. 45, a.3).
"Evolvere" significa letteralmente "srotolare un rotolo di pergamena", cioè, leggere un libro. L'immagine della natura come libro ha le sue origini nel cristianesimo ed è rimasta cara a molti scienziati.

Galileo vedeva la natura come un libro il cui autore è Dio così come lo è delle Scritture. È un libro la cui storia, la cui evoluzione, la cui "scrittura" e il cui significato "leggiamo" secondo i diversi approcci delle scienze, presupponendo per tutto il tempo la presenza fondamentale dell'autore che vi si è voluto rivelare.

Questa immagine ci aiuta a comprendere che il mondo, lungi dall'essere stato originato dal caos, assomiglia a un libro ordinato. È un cosmo. Nonostante elementi irrazionali, caotici e distruttivi nei lunghi processi di cambiamento del cosmo, la materia in quanto tale è "leggibile". Possiede una "matematica" innata. La mente umana, quindi, può impegnarsi non solo in una "cosmografia" che studia fenomeni misurabili, ma anche in una "cosmologia" che discerne la logica interna visibile del cosmo.


All'inizio potremmo non riuscire a vedere né l'armonia del tutto né delle relazioni fra le parti individuali né il loro rapporto con il tutto. Tuttavia, resta sempre un'ampia gamma di eventi intellegibili, e il processo è razionale poiché rivela un ordine di corrispondenze evidenti e finalità innegabili: nel mondo inorganico fra microstruttura e macrostruttura, nel mondo animale e organico fra struttura e funzione, e nel mondo spirituale fra conoscenza della verità e aspirazione alla libertà. L'indagine filosofica e sperimentale scopre gradualmente questi ordini. Percepisce che operano per mantenersi in essere, difendendosi dagli squilibri e superando ostacoli. Grazie alle scienze naturali abbiamo molto ampliato la nostra comprensione dell'unicità del posto dell'umanità nel cosmo.
La distinzione fra un semplice essere vivente e un essere spirituale, che è capax Dei, indica l'esistenza dell'anima intellettiva di un libero oggetto trascendente. Quindi, il Magistero della Chiesa ha costantemente affermato che "ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio - non è "prodotta" dai genitori - ed è immortale" (
Catechismo della Chiesa cattolica, n. 366). Ciò evidenzia gli elementi distintivi dell'antropologia e invita il pensiero moderno ad esplorarli.
Illustri accademici, desidero concludere ricordando le parole che vi rivolse il mio predecessore Papa Giovanni Paolo ii nel novembre del 2003: "Sono sempre più convinto che la verità scientifica, che è di per sé una partecipazione alla Verità divina, possa aiutare la filosofia e la teologia a comprendere sempre più pienamente la persona umana e la Rivelazione di Dio sull'uomo, una rivelazione compiuta e perfezionata in Gesù Cristo. Per questo importante arricchimento reciproco nella ricerca della verità e del bene dell'umanità, io, insieme a tutta la Chiesa, sono profondamente grato".
Su di voi, sulle vostre famiglie e su tutti coloro che sono associati all'opera della Pontificia Accademia delle Scienze invoco di cuore le benedizioni divine di sapienza e di pace.
© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana
Benedetto XVI all'assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze venerdì 31 ottobre 2008

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benedettoxvi, evoluzionismo

lunedì, 27 ottobre 2008
La morte di Dio coincide con la morte dell’uomo
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 Vi è chi, avendo deciso che “Dio è morto”, dichiara “dio” se stesso, ritenendosi l’unico artefice del proprio destino, il proprietario assoluto del mondo. Sbarazzandosi di Dio e non attendendo da Lui la salvezza, l’uomo crede di poter fare ciò che gli piace e di potersi porre come sola misura di se stesso e del proprio agire. Ma quando l’uomo elimina Dio dal proprio orizzonte, dichiara Dio “morto”, è veramente più felice? Diventa veramente più libero? Quando gli uomini si proclamano proprietari assoluti di se stessi e unici padroni del creato, possono veramente costruire una società dove regnino la libertà, la giustizia e la pace? Non avviene piuttosto - come la cronaca quotidiana dimostra ampiamente – che si estendano l’arbitrio del potere, gli interessi egoistici, l’ingiustizia e lo sfruttamento, la violenza in ogni sua espressione? Il punto d’arrivo, alla fine, è che l’uomo si ritrova più solo e la società più divisa e confusa”.
Papa Benedetto XVI 5 ottobre 2008

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nichilismo, benedettoxvi

Fede,ragione e scienza
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Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un'esigenza emergente nell'attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (cfr Fides et ratio, 13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nelle capacità della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: "È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione" (n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere. Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno recato allo sviluppo dell’autoconsapevolezza dell’uomo e al progresso delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quanto è sostenuta dall'amore per la verità. Ha scritto Agostino: "Ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, ma nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente" (De diversis quaestionibus 35,2).
Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l'evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: "Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera" (XII, 2.4).
Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio all'uomo.
La lezione di sant’Agostino è sempre carica di significato anche nell'attuale contesto: "A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente" (De vera religione, 39,72). Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. L'intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. "Il ragionamento non crea queste verità - continua nella sua riflessione sant'Agostino - ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano" (Ibid., 39,73). La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha già raggiunto e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendole così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero stesso. La verità rivelata, nella "pienezza dei tempi" (Gal 4,4), ha assunto il volto di una persona, Gesù di Nazareth, che porta la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo. La verità di Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la ragione può trovare. E' intorno al mistero, pertanto, che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune.
In questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Come non vedere la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso. La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell'uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità.
Benedetto XVI Da: Discorso ai partecipanti ad un Congresso Internazionale nel decimo anniversario della pubblicazione della Fides et ratio, Roma, 16 ottobre 2008

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fede, ragione, benedettoxvi, scienza - articoli

venerdì, 19 settembre 2008
La novità dell’annuncio cristiano
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“Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.”   

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cristianesimo, benedettoxvi, avvenimento

sabato, 13 settembre 2008
Omelia del Papa
 nel Santuario di Nostra Signora di Bonaria
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CAGLIARI, 7settembre 2008
……………………….Cari amici di Cagliari e della Sardegna, anche il vostro popolo, grazie alla fede in Cristo e mediante la spirituale maternità di Maria e della Chiesa, è stato chiamato ad inserirsi nella spirituale "genealogia" del Vangelo. In Sardegna il cristianesimo è arrivato non con le spade dei conquistatori o per imposizione straniera, ma è germogliato dal sangue dei martiri che qui hanno donato la loro vita come atto di amore verso Dio e verso gli uomini. È nelle vostre miniere che risuonò per la prima volta la Buona Novella portata dal Papa Ponziano e dal presbitero Ippolito e da tanti fratelli condannati ad metalla per la loro fede in Cristo. Così anche Saturnino, Gavino, Proto e Gianuario, Simplicio, Lussorio, Efisio, Antioco sono stati testimoni della totale dedizione a Cristo come vero Dio e Signore. La testimonianza del martirio conquistò un animo fiero come quello dei Sardi, istintivamente refrattario a tutto ciò che veniva dal mare. Dall’esempio dei martiri prese vigore il vescovo Lucifero di Cagliari, che difese l’ortodossia contro l’arianesimo e si oppose, insieme ad Eusebio di Vercelli, anch’egli cagliaritano, alla condanna di Atanasio nel Concilio di Milano del 335, e per questo ambedue, Lucifero ed Eusebio, vennero condannati all’esilio, un esilio molto duro. La Sardegna non è mai stata terra di eresie; il suo popolo ha sempre manifestato filiale fedeltà a Cristo e alla Sede di Pietro. Sì, cari amici, nel susseguirsi delle invasioni e delle dominazioni, la fede in Cristo è rimasta nell’anima delle vostre popolazioni come elemento costitutivo della vostra stessa identità sarda.
Dopo i martiri, nel V secolo, arrivarono dall’Africa romana numerosi Vescovi che, non avendo aderito all’eresia ariana, dovettero subire l’esilio. Venendo nell’isola, essi portarono con sé la ricchezza della loro fede. Furono oltre cento Vescovi che, sotto la guida di Fulgenzio di Ruspe, fondarono monasteri e intensificarono l’evangelizzazione. Insieme alle reliquie gloriose di Agostino, portarono la ricchezza della loro tradizione liturgica e spirituale, di cui voi conservate ancora le tracce. Così la fede si è sempre più radicata nel cuore dei fedeli fino a diventare cultura e produrre frutti di santità. Ignazio da Láconi, Nicola da Gésturi sono i santi in cui la Sardegna si riconosce. La martire Antonia Mesina, la contemplativa Gabriella Sagheddu e la suora della carità Giuseppina Nicóli sono l’espressione di una gioventù capace di perseguire grandi ideali. Questa fede semplice e coraggiosa, continua a vivere nelle vostre comunità, nelle vostre famiglie, dove si respira il profumo evangelico delle virtù proprie della vostra terra: la fedeltà, la dignità, la riservatezza, la sobrietà, il senso del dovere.
E poi, ovviamente, l’amore per la Madonna. Siamo infatti qui, oggi, a commemorare un grande atto di fede, che i vostri padri compirono affidando la propria vita alla Madre di Cristo, quando la scelsero come Patrona massima dell’Isola. Non potevano sapere allora che il Novecento sarebbe stato un secolo molto difficile, ma certamente fu proprio in questa consacrazione a Maria che trovarono in seguito la forza per affrontare le difficoltà sopravvenute, specialmente con le due guerre mondiali. Non poteva essere che così. La vostra Isola, cari amici della Sardegna, non poteva avere altra protettrice che la Madonna. Lei è la Mamma, la Figlia e la Sposa per eccellenza: "Sa Mama, Fiza, Isposa de su Segnore", come amate cantare. La Mamma che ama, protegge, consiglia, consola, dà la vita, perché la vita nasca e perduri. La Figlia che onora la sua famiglia, sempre attenta alle necessità dei fratelli e delle sorelle, sollecita nel rendere la sua casa bella e accogliente. La Sposa capace di amore fedele e paziente, di sacrificio e di speranza. A Maria in Sardegna sono dedicate ben 350 chiese e santuari. Un popolo di madri si rispecchia nell’umile ragazza di Nazaret, che col suo "sì" ha permesso al Verbo di diventare carne.
So bene che Maria è nel vostro cuore. Dopo cent’anni vogliamo quest’oggi ringraziarLa per la sua protezione e rinnovarLe la nostra fiducia, riconoscendo in Lei la "Stella della nuova evangelizzazione", alla cui scuola imparare come recare Cristo Salvatore agli uomini e alle donne contemporanei. Maria vi aiuti a portare Cristo alle famiglie, piccole chiese domestiche e cellule della società, oggi più che mai bisognose di fiducia e di sostegno sia sul piano spirituale che su quello sociale. Vi aiuti a trovare le opportune strategie pastorali per far sì che Cristo sia incontrato dai giovani, portatori per loro natura di nuovo slancio, ma spesso vittime del nichilismo diffuso, assetati di verità e di ideali proprio quando sembrano negarli. Vi renda capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile. In tutti questi aspetti dell’impegno cristiano potete sempre contare sulla guida e sul sostegno della Vergine Santa. Affidiamoci pertanto alla sua materna intercessione.
Maria è porto, rifugio e protezione per il popolo sardo, che ha in sé la forza della quercia. Passano le tempeste e questa quercia resiste; infuriano gli incendi ed essa nuovamente germoglia; sopravviene la siccità ed essa vince ancora. Rinnoviamo dunque con gioia la nostra consacrazione ad una Madre tanto premurosa. Le generazioni dei Sardi, ne sono certo, continueranno a salire al Santuario di Bonaria per invocare la protezione della Vergine. Mai resterà deluso chi si affida a Nostra Signora di Bonaria, Madre misericordiosa e potente. Maria, Regina della Pace e Stella della speranza, intercedi per noi. Amen!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]

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benedettoxvi, sardegma

lunedì, 08 settembre 2008
Il Papa in Sardegna ***
Discorso del Papa ai giovani in piazza Yenne a Cagliaripapa 7.09.08 001
foto scattata dalla mia postazione
 ............non ignoro le difficoltà e i problemi che incontrate. Penso, ad esempio – e abbiamo sentito di questo - penso alla piaga della disoccupazione e della precarietà del lavoro, che mettono a rischio i vostri progetti; penso all’emigrazione, all’esodo delle forze più fresche ed intraprendenti, con il connesso sradicamento dall’ambiente, che talvolta comporta danni psicologici e morali, prima ancora che sociali. Cosa dire poi del fatto che nell’attuale società consumistica, il guadagno e il successo sono diventati i nuovi idoli di fronte ai quali tanti si prostrano? La conseguenza è che si è portati a dar valore solo a chi – come si suol dire – "ha fatto fortuna" ed ha una sua "notorietà", non certo a chi con la vita deve faticosamente combattere ogni giorno. Il possesso dei beni materiali e l’applauso della gente hanno sostituito quel lavorio su se stessi che serve a temprare lo spirito e a formare una personalità autentica. Si rischia di essere superficiali, di percorrere pericolose scorciatoie alla ricerca del successo, consegnando così la vita ad esperienze che suscitano soddisfazioni immediate, ma sono in se stesse precarie e fallaci. Cresce la tendenza all’individualismo, e quando ci si concentra solo su se stessi si diventa inevitabilmente fragili; viene meno la pazienza dell’ascolto, fase indispensabile per capire l’altro e lavorare insieme.
Il 20 ottobre del 1985, il caro Papa Giovanni Paolo II, incontrando qui a Cagliari i giovani provenienti dall’intera Sardegna, volle proporre tre valori importanti per costruire una società fraterna e solidale. Sono indicazioni quanto mai attuali anche oggi, che volentieri riprendo evidenziando in primo luogo il valore della famiglia, da custodire – disse il Papa - come "antica e sacra eredità". Tutti voi sperimentate l’importanza della famiglia, in quanto figli e fratelli; ma la capacità di formarne una nuova, non può essere data per scontata. Occorre prepararvisi. In passato la società tradizionale aiutava di più a formare e a custodire una famiglia. Oggi non è più così, oppure lo è "sulla carta", ma nei fatti domina una mentalità diversa. Sono ammesse altre forme di convivenza; a volte viene usato il termine "famiglia" per unioni che, in realtà, famiglia non sono. Soprattutto, nel contesto nostro, si è molto ridotta la capacità dei coniugi di difendere l’unità del nucleo familiare a costo anche di grandi sacrifici. Riappropriatevi, cari giovani, del valore della famiglia; amatela non solo per tradizione, ma per una scelta matura e consapevole: amate la vostra famiglia di origine e preparatevi ad amare anche quella che con l’aiuto di Dio voi stessi formerete. Dico: "preparatevi", perché l’amore vero non si improvvisa. L’amore è fatto, oltre che di sentimento, di responsabilità, di costanza, e anche di senso del dovere. Tutto questo lo si impara attraverso l’esercizio prolungato delle virtù cristiane della fiducia, della purezza, dell’abbandono alla Provvidenza, della preghiera. In questo impegno di crescita verso un amore maturo vi sosterrà sempre la Comunità cristiana, perché in essa la famiglia trova la sua più alta dignità. Il Concilio Vaticano II la chiama "piccola Chiesa", perché il matrimonio è un sacramento, cioè un segno santo ed efficace dell’amore che Dio ci dona in Cristo attraverso la Chiesa.
Strettamente connesso a questo primo valore del quale ho voluto parlare è l’altro valore che intendo sottolineare: la seria formazione intellettuale e morale, indispensabile per progettare e costruire il vostro futuro e quello della società. Chi su questo vi fa degli "sconti" non vuole il vostro bene. Come si potrebbe infatti progettare seriamente il domani, se si trascura il naturale desiderio che è in voi di sapere e di confrontarvi? La crisi di una società inizia quando essa non sa più tramandare il suo patrimonio culturale e i suoi valori fondamentali alle nuove generazioni. Non mi riferisco solo e semplicemente al sistema scolastico. La questione è più ampia. C’è, lo sappiamo, un’emergenza educativa, che per essere affrontata richiede genitori e formatori capaci di condividere quanto di buono e di vero essi hanno sperimentato e approfondito in prima persona. Richiede giovani interiormente aperti, curiosi di imparare e di riportare tutto alle originarie esigenze ed evidenze del cuore. Siate davvero liberi, ossia appassionati della verità. Il Signore Gesù ha detto: "La verità vi farà liberi" (Gv 8,32). Il nichilismo moderno invece predica l’opposto, che cioè è la libertà a rendervi veri. C’è anzi chi sostiene che non esiste nessuna verità, aprendo così la strada allo svuotamento dei concetti di bene e di male e rendendoli addirittura interscambiabili. Mi hanno detto che nella cultura sarda c’è questo proverbio: "Meglio che manchi il pane piuttosto che la giustizia". Un uomo in effetti può sopportare e superare i morsi della fame, ma non può vivere laddove giustizia e verità sono bandite. Il pane materiale non basta, non è sufficiente per vivere umanamente in modo pieno; occorre un altro cibo del quale essere sempre affamati, del quale nutrirsi per la propria crescita personale e per quella della famiglia e della società.
Questo cibo – ed è il terzo grande valore – è una fede sincera e profonda, che diventi sostanza della vostra vita. Quando si smarrisce il senso della presenza e della realtà di Dio, tutto si "appiattisce" e si riduce ad una sola dimensione. Tutto resta "schiacciato" sul piano materiale. Quando ogni cosa viene considerata soltanto per la sua utilità, non si coglie più l’essenza di ciò che ci circonda, e soprattutto delle persone che incontriamo. Smarrito il mistero di Dio, sparisce anche il mistero di tutto ciò che esiste: le cose e le persone mi interessano nella misura in cui soddisfano i miei bisogni, non per sé stesse. Tutto ciò costituisce un fatto culturale, che si respira fin dalla nascita e che produce effetti interiori permanenti. La fede, in questo senso, prima di essere una credenza religiosa, è un modo di vedere la realtà, un modo di pensare, una sensibilità interiore che arricchisce l’essere umano come tale. Ebbene, cari amici, Cristo è anche in questo il Maestro, perché ha condiviso in tutto la nostra umanità ed è contemporaneo all’uomo di ogni epoca. Questa realtà tipicamente cristiana è una grazia stupenda! Stando con Gesù, frequentandoLo come un amico nel Vangelo e nei Sacramenti, voi potete imparare, in modo nuovo, ciò che la società spesso non è più in grado di darvi, cioè il senso religioso. E proprio perché è una cosa nuova, scoprirla è meraviglioso.
Cari giovani, come il giovane Agostino con tutti i suoi problemi sulla sua strada difficile, ognuno di voi sente il richiamo simbolico di ogni creatura verso l’alto; ogni creatura bella rimanda alla bellezza del Creatore, che è come concentrata nel volto di Gesù Cristo. Quando la sperimenta, l’anima esclama: "Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato!" (Conf. X, 27.38). Possa ognuno di voi riscoprire Dio quale senso e fondamento di ogni creatura, luce di verità, fiamma di carità, vincolo di unità, come canta l’inno dell’Agorà dei giovani italiani. Siate docili alla forza dello Spirito! È stato Lui, lo Spirito Santo, il Protagonista della Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney; Egli vi renderà testimoni di Cristo. Non a parole, ma con i fatti, con un nuovo genere di vita. Non avrete più paura di perdere la vostra libertà, perché la vivrete in pienezza donandola per amore. Non sarete più attaccati ai beni materiali, perché sentirete dentro di voi la gioia di condividerli. Non sarete più tristi della tristezza del mondo, ma proverete dolore per il male e gioia per il bene, specialmente per la misericordia ed il perdono. E se è così, se avrete scoperto realmente Dio nel volto di Cristo, non penserete più alla Chiesa come ad una istituzione esterna a voi, ma come alla vostra famiglia spirituale, come la viviamo adesso, in questo momento. Questa è la fede che vi hanno trasmesso i vostri padri. Questa fede voi siete chiamati a vivere oggi, in tempi ben diversi.
Famiglia, formazione e fede. Ecco, cari giovani di Cagliari e dell’intera Sardegna, anch’io, come Papa Giovanni Paolo II, vi lascio queste tre parole, tre valori da fare vostri con la luce e la forza dello Spirito di Cristo. Nostra Signora di Bonaria, Patrona Massima e dolce Regina dei Sardi, vi guidi, vi protegga e vi accompagni sempre! Con affetto vi benedico, assicurandovi un quotidiano ricordo nella preghiera.
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Postato da: giacabi a 22:49 | link | commenti
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Il Papa:
Modernità e cristianesimo
di: Rocco Buttiglione***
Ho incontrato per la prima volta Joseph Ratzinger nel 1972. Prima non l’avevo incontrato di persona, ma attraverso i racconti di Eugenio Corecco, di Angelo Scola, di Sante Bagnoli e di Luigi Giussani. Era un tempo difficile per la Chiesa e per la società. Si cercava il senso dell’“aggiornamento conciliare”. La linea dominante, sostenuta dalle principali riviste teologiche del tempo, era quella che voleva riformulare il cristianesimo all’interno della precomprensione dell’uomo moderno.

L’idea era che l’uomo moderno fosse essenzialmente diverso dall’uomo di ieri e che il suo orizzonte di comprensione della realtà gli rendesse del tutto incomprensibili molti aspetti della presentazione tradizionale della fede. Per esempio il miracolo. Ma forse anche l’idea di un Dio creatore del cielo e della terra o, peggio ancora, di un Dio fatto uomo.
      Bisognava “demitizzare” per entrare all’interno delle categorie di rilevanza dell’uomo moderno, cioè per riuscire a dire qualcosa che l’uomo moderno, radicalmente areligioso e demitizzato, potesse trovare interessante o almeno comprendere. Bisognava, insomma, ripensare il cristianesimo all’interno della modernità.
     
Ratzinger, insieme ad Hans Urs von Balthasar e a Henri de Lubac, la pensava in modo assolutamente diverso. Per lui il cristianesimo era un avvenimento, un fatto straordinario, un miracolo che sorprendeva l’uomo con forza tale da rompere qualunque categoria precostituita in cui l’uomo tentasse di imprigionarlo. A partire da quell’avvenimento, una presenza straordinaria in mezzo a noi, era poi possibile per l’uomo riorganizzare il suo sistema di categorie e pensare il mondo in modo nuovo e più vero.
      Questa visione teologica si incontrava naturalmente con l’esperienza di don Giussani e del movimento di Comunione e liberazione.

      Per tanti il cristianesimo era un problema e la modernità era la risposta a quel problema. Per noi essere moderni non era un problema. Venivamo spesso da ambienti culturalmente laici e ci sentivamo moderni senza complessi, non pensavamo di doverci conquistare un attestato di modernità. Se mai, per noi, la modernità era un problema e Cristo era la risposta al nostro problema umano. La sintonia con Ratzinger e con i suoi amici fu immediata. Da lì nacque la rivista Communio, che un ruolo così importante ha poi avuto nella Chiesa. Da lì nacque anche l’amicizia fra don Giussani e il professor Ratzinger, quell’amicizia cristiana che doveva trovare una straordinaria consacrazione nella grande omelia del cardinale Ratzinger ai funerali di don Luigi Giussani.

http://www.30giorni.it/



Postato da: giacabi a 14:20 | link | commenti
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domenica, 07 settembre 2008
Il Papa in Sardegna ***

Postato da: giacabi a 18:42 | link | commenti
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