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sabato 4 febbraio 2012

benedettoXVI,


Laici, cioè cristiani
***
Mi sembra particolarmente importante aver voluto affrontare quest’anno, nell’Assemblea Plenaria, il tema di
Dio: «La questione di Dio oggi». Non dovremmo mai stancarci di riproporre tale domanda, di “ricominciare da
Dio”, per ridare all’uomo la totalità delle sue dimensioni, la sua piena dignità. Infatti, una mentalità che è andata
diffondendosi nel nostro tempo, rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l’umano
.

La diffusione di questa mentalità ha generato la crisi che viviamo oggi, che
è crisi di significato e di valori, prima che crisi economica e sociale. L’uomo che cerca di esistere soltanto positivisticamente,nel calcolabile e nel misurabile, alla fine rimane soffocato. In questo quadro, la questione di Dio è, in un certo senso, «la questione delle questioni». Essa ci riporta alle domande di fondo dell’uomo, alle aspirazioni
di verità, di felicità e di libertà insite nel suo cuore, che cercano una realizzazione. L’uomo che risveglia in sé la domanda su Dio si apre alla speranza, ad una speranza affidabile, per cui vale la pena di affrontare la fatica del cammino nel presente
(cfr. Spe salvi, 1).
Ma come risvegliare la domanda di Dio, perché sia la questione fondamentale? Cari amici, se è vero che «all’inizio
dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento,
con una Persona» (Deus caritas est, 1), la domanda su Dio è risvegliata dall’incontro con chi ha il dono della fede, con chi ha un rapporto vitale con il Signore. Dio viene conosciuto attraverso uomini e donne che lo conoscono: la strada verso di Lui passa, in modo concreto, attraverso chi l’ha incontrato. Qui il vostro ruolo di fedeli
laici è particolarmente importante. […] Siete chiamati a offrire una testimonianza trasparente della rilevanza della questione di Dio in ogni campo del pensare e dell’agire. Nella famiglia, nel lavoro, come nella politica e nell’economia,l’uomo contemporaneo ha bisogno di vedere con i propri occhi e di toccare con mano come con Dio o senza Dio tutto cambia.
Ma la sfida di una mentalità chiusa al trascendente obbliga anche gli stessi cristiani a tornare in modo più deciso
alla centralità di Dio. A volte ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell’economia
risultasse più incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede, quasi fosse
un dato acquisito una volta per tutte. In realtà i cristiani non abitano un pianeta lontano, immune dalle «malattie
» del mondo, ma condividono i turbamenti, il disorientamento e le difficoltà del loro tempo. Perciò non meno
urgente è riproporre la questione di Dio anche nello stesso tessuto ecclesiale. Quante volte, nonostante il definirsi cristiani, Dio di fatto non è il punto di riferimento centrale nel modo di pensare e di agire, nelle scelte fondamentali della vita.
La prima risposta alla grande sfida del nostro tempo sta allora nella profonda conversione
del nostro cuore, perché il Battesimo che ci ha resi luce del mondo e sale della terra possa veramente trasformarci.
LAICI, BENEDETTO XVI
CIOÈ CRISTIANI
BRANI DAL DISCORSO ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I LAICI
Città del Vaticano, 25 novembre 2011
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Postato da: giacabi a 18:13 | link | commenti
benedettoxvi

venerdì, 23 settembre 2011
  Discorso Benedetto XVI
al
Parlamento tedesco

È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento
della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente,
per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il
Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le
gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo
a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta
la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a
tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la
suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato
liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola
narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re
Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che
cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga
vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al
tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il
bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva,
deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro
come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve
essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente
un politico cercherà il successo che di per sé gli apre la possibilità dell’azione politica effettiva.
Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e
all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada
alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa
distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.1 Noi
tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi
abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo
calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto –
era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero
e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è
e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato
un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in
grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani
ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come
possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La
richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica
si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere
un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è
in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo
di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del


 
proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la
resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso
il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi
senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso
il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione,
formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”2
In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime
nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità.
Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era
ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora
corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è
altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa
giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come
si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non
è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle
nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi
sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che
tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai
imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una
rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha
rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone
l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si
sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a.C.
Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale
sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.3 In questo contatto è nata
la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la
cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via
che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla
Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro
popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come
fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi
cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e
si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la
ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando,
nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di
Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano
che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza,
in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio
dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani
dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la
questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è
avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata
oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori
dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine.
Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto
la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere
non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La
base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura e
ragione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati


 
oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può
derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.4 Una concezione
positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le
scienze naturali la spiegano, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare
nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una
visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che
non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per
questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori
dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della
ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti
classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione
drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare
urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme
una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo
assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia
sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come
la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa
riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti
ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento
comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori della
nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte
alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al
contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo
esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli
edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo
più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in
tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che
trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di
nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.
Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la
ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire
nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla
memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso
né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico
nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre,
tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né
accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che
nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un
materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo
seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito
politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa
che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla
questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora
un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo
ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza
ancora un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato: esiste anche un’ecologia
dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a
piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è
spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli ascolta la natura, la
rispetta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e
soltanto così si realizza la vera libertà umana.


 
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande
teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo
di essere e dover essere. Aveva detto che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di
conseguenza, la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo
in essa queste norme. Ciò, d’altra parte, presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è
inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli
nota a proposito.5 Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se
la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un
Creator Spiritus?
A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base
della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti
umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza
dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della
responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la
nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione
della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa
è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele,
la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma
l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio
e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato
dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.
Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua
richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una
richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo
desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così
un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Grazie per la vostra attenzione.

1 De civitate Dei IV, 4, 1.
2 Contra Celsum GCS Orig. 428 (Koetschau); cfr A. Fürst, Monotheismus und Monarchie. Zum Zusammenhang
von
Heil und Herrschaft in der Antike. In: Theol.Phil. 81 (2006) 321 – 338; citazione p. 336; cfr anche J.
Ratzinger, Die
Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenväter (Salzburg – München 1971) 60.
3 Cfr W. Waldstein, Ins Herz geschrieben. Das Naturrecht als Fundament einer menschlichen Gesellschaft
(Augsburg 2010) 11ss; 31 – 61.
4 Waldstein, op. cit. 15 – 21.
5 Citato secondo Waldstein, op. cit. 19.

Postato da: giacabi a 15:03 | link | commenti
benedettoxvi

domenica, 04 settembre 2011


Prefazione del Card. J. Ratzinger a:
M. Schooyans,
Nuovo disordine mondiale.
La grande trappola per ridurre il numero
dei commensali
alla tavola dell’umanità
,

Ed. San Paolo 2000.



Sin dagli inizi dell'Illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte l'escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente.
La promessa di felicità non è più legata all'aldilà, bensì a questo mondo.
Emblematico della tendenza dell'uomo moderno è l'atteggiamento di Albert Camus, il quale alle parole di Cristo "il mio regno non è di questo mondo" oppone con risolutezza l'affermazione "il mio regno è di questo mondo".

Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e l'approssimarsi, sempre più incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo, questa stessa fede ha assunto una connotazione politica.
Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all'uomo di raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo che è fallito in maniera clamorosa.
Dall'altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera più o meno profonda, alle fonti delle tradizioni liberali.

Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre più definita, che va sotto il nome di Nuovo Ordine Mondiale; trovano espressione sempre più evidente nell'ONU e nelle sue Conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che nelle loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e propria filosofia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo.
Una filosofia di questo tipo non ha più la carica utopica che caratterizzava il sogno marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere, ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro che non sono più produttivi o che non possono più sperare in una determinata qualità della vita.
Questa filosofia, inoltre, non si aspetta più che gli uomini, abituatisi oramai alla ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un benessere generale, bensì propone delle strategie per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell'umanità, affinchè non venga intaccata la pretesa felicità che taluni hanno raggiunto.

La peculiarità di questa nuova antropologia, che dovrebbe costituire la base del Nuovo Ordine Mondiale, diventa palese soprattutto nell'immagine della donna, nell'ideologia dell' "Women's empowerment", nata dalla conferenza di Pechino.
Scopo di questa ideologia è l'autorealizzazione della donna: principali ostacoli che si frappongono tra lei e la sua autorealizzazione sono però la famiglia e la maternità. Per questo, la donna deve essere liberata, in modo particolare, da ciò che la caratterizza, vale a dire dalla sua specificità femminile. Quest'ultima viene chiamata ad annullarsi di fronte ad una "Gender equity and equality", di fronte ad un essere umano indistinto ed uniforme, nella vita del quale la sessualità non ha altro senso se non quello di una droga voluttuosa, di cui sì può far uso senza alcun criterio.

Nella paura della maternità che si è impadronita di una gran parte dei nostri contemporanei entra sicuramente in gioco anche qualcosa di ancora più profondo: l'altro è sempre, in fin dei conti, un antagonista che ci priva di una parte di vita, una minaccia per il nostro io e per il nostro libero sviluppo.
Al giorno d'oggi, non esiste più una "filosofia dell'amore", bensì solamente una "filosofia dell'egoismo".
Il fatto che ognuno di noi possa arricchirsi semplicemente nel dono di se stesso, che possa ritrovarsi proprio a partire dall'altro e attraverso l'essere per l'altro, tutto ciò viene rifiutato come un'illusione idealista. E proprio in questo che l'uomo viene ingannato. In effetti, nel momento in cui gli viene sconsigliato di amare, gli viene sconsigliato, in ultima analisi, di essere uomo.

Per questo motivo, a questo punto dello sviluppo della nuova immagine di un mondo nuovo, il cristiano - non solo lui, ma comunque lui prima di altri - ha il dovere di protestare.
Bisogna ringraziare Michel Schooyans per aver energicamente dato voce, in questo libro, alla necessaria protesta.
Schooyans ci mostra come la concezione dei diritti dell'uomo che caratterizza l'epoca moderna, e che è così importante e così positiva sotto numerosi aspetti, risenta sin dalla sua nascita del fatto di essere fondata unicamente sull'uomo e di conseguenza sulla sua capacità e volontà di far si che questi diritti vengano universalmente riconosciuti.

All'inizio, il riflesso della luminosa immagine cristiana dell'uomo ha protetto l'universalità dei diritti; ora, man mano che questa immagine viene meno, nascono nuovi interrogativi.
Come possono essere rispettati e promossi i diritti dei più poveri quando il nostro concetto di uomo si fonda così spesso, come dice l'autore, "sulla gelosia, l'angoscia, la paura e persino l'odio"? "Come può un'ideologia lugubre, che raccomanda la sterilizzazione, l'aborto, la contraccezione sistematica e persino l'eutanasia come prezzo di un pansessualismo sfrenato, restituire agli uomini la gioia di vivere e la gioia di amare?" (capitolo VI).

È a questo punto che deve emergere chiaramente ciò che di positivo il cristiano può offrire nella lotta per la storia futura.
Non è infatti sufficiente che egli opponga l'escatologia all'ideologia che è alla base delle costruzioni "postmoderne" dell'avvenire.
È ovvio che deve fare anche questo, e deve farlo in maniera risoluta: a questo riguardo, infatti, la voce dei cristiani si è fatta negli ultimi decenni sicuramente troppo debole e troppo timida.
L'uomo, nella sua vita terrena, è "una canna al vento" che rimane priva di significato se distoglie lo sguardo dalla vita eterna.
Lo stesso vale per la storia nel complesso.
In questo senso, il richiamo alla vita eterna, se fatto in maniera corretta, non si presenta mai come una fuga. Esso da semplicemente all'esistenza terrena la sua responsabilità, la sua grandezza e la sua dignità. Tuttavia, queste ripercussioni sul "significato della vita terrena" devono essere articolate.

E' chiaro che la storia non deve mai essere semplicemente ridotta al silenzio: non è possibile, non è permesso ridurre al silenzio la libertà. E’ l'illusione delle utopie.
Non si può imporre al domani modelli di oggi, che domani saranno i modelli di ieri.
È tuttavia necessario gettare le basi di un cammino verso il futuro, di un superamento comune delle nuove sfide lanciate dalla storia.
Nella seconda e terza parte del suo libro, Michel Schooyans fa proprio questo: in contrasto con la nuova antropologia, propone innanzitutto i tratti fondamentali dell'immagine cristiana dell'uomo, per applicarli poi in maniera concreta ai grandi problemi del futuro ordine mondiale (in modo particolare nei capitoli X-XII).
Fornisce in questo modo un contenuto concreto, politicamente realistico e realizzabile, all'idea, così spesso espressa dal Papa, di una "civiltà dell'amore".

Per questo, il libro di Michel Schooyans entra nel vivo delle grandi sfide del presente momento storico con vivacità e grande competenza.
C'è da sperare che molte persone di diversi orientamenti lo leggano, che esso susciti una vivace discussione, contribuendo in questo modo a preparare il futuro sulla base di modelli degni della dignità dell'uomo e capaci di assicurare anche la dignità di coloro che non sono in grado di difendersi da soli.

Roma, 25 aprile 1997
+ Joseph Card. Ratzinger

Postato da: giacabi a 08:59 | link | commenti
laicismo, benedettoxvi

giovedì, 01 settembre 2011
La via della bellezza
***
«Oggi vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” – “via della bellezza” - di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo. Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto».
[Benedetto XVI, Udienza del 31 agosto 2011]

Postato da: giacabi a 20:19 | link | commenti (1)
bellezza, benedettoxvi

giovedì, 18 agosto 2011
***
La predica è utile perché spesso mette

a dura prova la fede di chi l'ascolta
(Julien Green)
“Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”
Card.Ratzinger

Postato da: giacabi a 18:24 | link | commenti
green, benedettoxvi

sabato, 13 agosto 2011
LA BELLEZZA
***
"In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come «un cembalo che tintinna» (1Cor 13,1)".

E’ proprio dall’unione, vorrei dire dalla sinfonia, dalla perfetta armonia di verità e carità, che emana l’autentica bellezza, capace di suscitare ammirazione, meraviglia e gioia vera nel cuore degli uomini. Il mondo in cui viviamo ha bisogno che la verità risplenda e non sia offuscata dalla menzogna o dalla banalità; ha bisogno che la carità infiammi e non sia sopraffatta dall’orgoglio e dall’egoismo.

Abbiamo bisogno che la bellezza della verità e della carità colpisca l’intimo del nostro cuore e lo renda più umano.

Cari amici, vorrei rinnovare a voi e a tutti gli artisti un amichevole e appassionato appello: non scindete mai la creatività artistica dalla verità e dalla carità, non cercate mai la bellezza lontano dalla verità e dalla carità, ma con la ricchezza della vostra genialità, del vostro slancio creativo, siate sempre, con coraggio, cercatori della verità e testimoni della carità; fate risplendere la verità nelle vostre opere e fate in modo che la loro bellezza susciti nello sguardo e nel cuore di chi le ammira il desiderio e il bisogno di rendere bella e vera l’esistenza, ogni esistenza, arricchendola di quel tesoro che non viene mai meno, che fa della vita un capolavoro e di ogni uomo uno straordinario artista: la carità, l’amore.

Lo Spirito Santo, artefice di ogni bellezza che è nel mondo, vi illumini sempre e vi guidi verso la Bellezza ultima e definitiva, quella che scalda la nostra mente e il nostro cuore e che attendiamo di poter contemplare un giorno in tutto il suo splendore.

Postato da: giacabi a 10:13 | link | commenti
bellezza, benedettoxvi

domenica, 31 luglio 2011
La fatica e la bellezza dell'educazione.
Di Francesco Agnoli - 07/05/2009 
***
 
Nella società dei media può nascere un’illusione: che i mezzi di comunicazione siano i più importanti per educare un popolo.
Certamente, questo è in parte vero: la rivoluzione francese, come tutte le altre, sino alla rivoluzione sessuale, sono state favorite da un mare di carte e giornali, prima, e dalla televisione, poi. Ma è anche vero che prima della rivoluzione francese, alba sanguinosa della contemporaneità, c’è un grande fatto, spesso dimenticato: la chiusura, in Francia e non solo, delle scuole dei gesuiti.
E’ contro di esse che si accaniscono anzitutto gli illuministi anticristiani, perché sanno che un ragazzo ben educato può anche essere temporaneamente traviato dalle illusioni politiche, ideologiche, mondane, ma possiede dentro di sé un seme che prima o poi darà i suoi frutti. Oggi occorrerebbe che almeno i cattolici si rendessero conto di questo: che vi è un’emergenza educativa, cui far fronte, in parrocchia, nelle scuole, in ogni ambito possibile. Invece sappiamo quanto, ad esempio il catechismo, che è la prima forma di istruzione per un fanciullo, sia trascurato e negletto. Eppure i cuori e le menti dei giovani sono ancora, come sempre, aperti alla Verità e al Bene: basta solo che incontrino persone credibili, pronte a rendere conto della Speranza che è in loro e a smascherare gli errori e gli inganni del mondo.
Oggi, dicevo, l’educazione è in crisi, per il semplice fatto che non si sa più cosa sia. Educare, per la mia esperienza, significa condurre da qualcosa, verso qualcos’altro. Condurre da una storia, da un passato, da una Tradizione, verso un futuro: e invece tutta la cultura dominante è basata sulla volgarizzazione del passato e sulla derisione della Tradizione. Si crede e si vuol far credere che non vi sia nulla di buono nella storia che ci precede, soprattutto in quella cristiana. Così l’origine della nostra cultura, quel Medioevo in cui sono nate le università, gli ospedali, la tecnica, le banche e le cattedrali, Giotto e Cimabue, viene liquidata con espressioni superbe e volgari: “secoli bui”, “tenebre del Medioevo”.
Non è solo una questione di falsificazioni storiche: in queste espressioni lapidarie è condensata la cultura anticristana e nichilista che desidera tagliare le nostre radici, isolarci dalla Tradizione, fare intorno ad ognuno di noi terra bruciata. Solo così si può far vivere un popolo nel mito sciocco e banale del Progresso, come se non avessimo nulla da imparare da chi ci ha preceduto, e fossimo per ciò completamente auto-sufficienti. Così, in verità, si coltiva solo l’individualismo. Lo sciocco pregiudizio verso il passato ci rende arroganti e presuntuosi: il contrario di ciò che una buona educazione dovrebbe fare. Questo tentativo, come dicevo, di tagliare le radici, è evidente nella scuola odierna: dal modo con cui viene liquidato il medioevo, in storia, alla volontà sempre maggiore di trascurare anche il nostro passato latino e greco, sino alla graduale eliminazione, persino dalle università di filosofia, degli autori cristiani, da Agostino a Tommaso.
Sempre più diventa dunque difficile sapere da dove veniamo. Ma ancor più, dove andiamo. Infatti, perché vi sia educazione, occorre avere una certa idea dell’uomo: occorre che l’insegnante faccia comprendere ai suoi ragazzi che la Verità e il Bene esistono! Che lo studio serve appunto per ricercarli: ricercare la verità storica, la verità matematica, la verità filosofica, e teologica. Andiamo verso ciò che la nostra mente e il nostro cuore desiderano, nonostante il nostro limite: la Verità. Invece il relativismo dominante uccide ogni germoglio di vita: se non c’è nulla di vero, di bello, di buono; se un comportamento vale l’altro; se tutte le filosofie si equivalgono; se la verità e la menzogna si confondono, allora anche la curiosità di sapere, di capire, di pervenire alla verità, viene soffocata sin dal principio nel giovane, che diventa precocemente cinico e indifferente.
Faccio un esempio per quanto riguarda una delle materie che ritengo più formative: la storia. Quando si analizza la storia del Novecento, i testi scolastici omettono di farci capire anzitutto da dove gli abomini del nazismo e del comunismo derivino, per evitare di sottolineare la radice atea delle guerre mondiali, dei lager e dei gulag; dall’altra omettono clamorosamente di indagare cosa ancor oggi rimanga di quelle ideologie (divorzio, aborto, eutanasia ecc), per rispettare il dogma progressista (se ciò è successo, è successo nel passato, ma oggi…); infine, trascurano di raccontarci tutte quelle storie eroiche di persone che hanno dato la vita per aiutare i loro simili, per lottare contro la menzogna, per mantenere viva la carità cristiana, insegnandoci così che la lotta per la Verità è sempre possibile. In questo modo i giovani studiano, senza comprendere nulla, e senza che la storia passata dica loro più alcunché, né sulla miseria degli uomini, nè sulla loro intramontabile passione per il Bene. L’educazione insomma è centrale, e va perseguita con immensa attenzione. In ogni tempo i genitori hanno educato i loro figli, a determinati valori e ad una loro Tradizione.
Si sa ad esempio che l’Iliade e l’Odissea venivano imparate a memoria dai ragazzi greci e costituivano una sorta di “enciclopedia tribale”: tramite quelle storie, si tramandavano valori, culti, ideale del bene, incarnato dall’eroe, e del male…Così ogni giovane greco si sentiva parte di una storia che condivideva con i suoi concittadini, e da quella storia traeva insegnamenti con cui confrontarsi. Se poi leggiamo la storia dei filosofi antichi, vediamo che solitamente cercavano di educare se stessi e i giovani al seguito: Socrate educava i suoi discepoli cercando di farli ragionare sulle verità più importanti. Lo stoico romano Seneca educava se stesso facendo l’esame di coscienza ogni sera. Dovunque vi erano uomini che cercavano maestri di vita e un senso che fondasse la loro esistenza: “Si tratta di sapere, scriveva Cicerone nel ‘De Natura deorum’, se esiste un Dio, se questo Dio si interessa agli uomini e se esiste un legame tra noi e lui. Si tratta di sapere cosa è l’anima umana, se essa ha rapporto con Dio, se viene da lui e ritorna a lui. In breve si tratta della nostra felicità, del nostro tutto”!
Il grande educatore della storia è stato senza dubbio Gesù Cristo. Scelti i suoi discepoli, solamente dodici, che avrebbero trasformato il mondo, li ha condotti passo passo, sgridandoli, talvolta, confortandoli, spesso, e vivendo con loro. Dal suo esempio, innegabilmente, si è generata la tradizione scolastica europea, unica e irripetibile, quella che ci ha dato la Schola Palatina di frate Alcuino e Carlo Magno, prima, e le università poi. Ma il periodo d’oro dell’educazione è stato forse quello del Concilio di Trento.
Messo all’angolo dal protestantesimo e dal suo pessimismo antropologico, secondo cui l’uomo è capace solo di male, e dal predestinazionismo calvinista, il mondo cattolico ha generato scuole su scuole, un ordine educativo dietro l’altro, dimostrando chiaramente che l’uomo non è solamente cattivo, ma anzi, che la sua natura, pur macchiata dal peccato originale, è capace di grandi opere di bene. Tutte le scuole di quest’epoca, da quelle del Calasanzio a quelle di Giovan Battista de la Salle, a quelle dei gesuiti, fondavano il proprio metodo educativo proprio sul realismo cristiano. Per i protestanti, come dicevo, l’uomo è naturalmente cattivo: facile capire che educare, partendo da questa idea di fondo, è piuttosto difficile, un’impresa disperata e poco affascinante. Per i cattolici, invece, l’innegabile tendenza al male, giustificata dal peccato originale, non elimina l’altrettanto evidente volontà di ogni uomo di cercare la Verità e la Giustizia.
Educare significa allora coltivare il desiderio di vero, che c’è in ognuno, cercando di rendere questa verità non solo evidente, ma anche amabile. Questo sarà compreso soprattutto dal più grande educatore dell’Ottocento, Giovanni Bosco. Il suo metodo preventivo si basa infatti su un grande realismo antropologico: ha dinnanzi a sé giovani sbandati, senza famiglia, spesso delinquenti. Potrebbe lasciarsi andare allo sconforto, o alla durezza, invece vede in ognuno di loro un’anima preziosa e potenzialmente capace di grandi cose. Decide di trattarli con la mansuetudine, in modo da metterli, preventivamente, “nell’impossibilità di commettere mancanze”.
Per don Bosco i luoghi dell'educazione sono la cappella, il cortile e la scuola: quest'ultima, appositamente, all'ultimo posto. Occorre anzitutto che i giovani siano amati: "questo avviene nella fusione fraterna del cortile, dove i giovani, sentendosi amati in quelle cose che loro piacciono, cioè nei divertimenti, imparano a vedere l'amore degli educatori in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco, quali la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparano a fare con amore".
All’opposto di don Bosco, oggi così dimenticato anche nelle scuole cattoliche, piene di sociologismi e di psicologismi lontani dalla fede, vi è l’idea illuminista che potremmo definire dell’ “ottimismo antropologico”, propagata da Rousseau, pedagogo tanto abile da aver abbandonato tutti e cinque i suoi figli, e dai sui seguaci. Per costoro l’uomo è naturalmente buono, senza peccato originale. Talmente buono da non aver bisogno non solo delle regole, della lotta interiore, e, talvolta, dei castighi, ma neppure dell’amore, delle attenzioni, della premura dell’educatore. I seguaci di Rousseau, propongono il primato della spontaneità più estrema, l’idea che l’uomo sia solo un animale, che quindi non sia chiamato a far crescere e maturare, passo passo, la propria umanità.
Quanto è più affascinante la visione educativa cristiana, così descritta da Benedetto XVI nella sua lettera sull’educazione alla diocesi di Roma del 2008: “Già in un piccolo bambino c'è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano…L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione. Il Timone, marzo 2009.

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domenica, 24 luglio 2011
La  massoneria
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"Il giudizio negativo della Chiesa per le associazioni massoniche resta invariato, perché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione".
card.Ratzinger

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DISCORSO DEL SANTO PADRE
AI GIOVANI di S. Marino

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Cari giovani!
Sono molto contento di essere oggi in mezzo a voi e con voi! Sento tutta la vostra gioia e l’entusiasmo che caratterizzano la vostra età. Saluto e ringrazio il vostro Vescovo, Mons. Luigi Negri, per le cordiali parole di accoglienza, e il vostro amico che si è fatto interprete dei pensieri e dei sentimenti di tutti, e ha formulato alcune questioni molto serie e importanti. Spero che nel corso di questa mia esposizione si trovino anche gli elementi per trovare le risposte a queste domande. Saluto con affetto i Sacerdoti, le Suore, gli animatori che condividono con voi il cammino della fede e dell’amicizia; e naturalmente anche i vostri genitori, che gioiscono nel vedervi crescere forti nel bene.
Il nostro incontro qui a Pennabilli, davanti a questa Cattedrale, cuore della Diocesi, e in questa Piazza, ci rimanda con il pensiero ai numerosi e diversi incontri di Gesù che ci sono raccontati dai Vangeli. Oggi vorrei richiamare il celebre episodio in cui il Signore era in cammino e un tale - un giovane - gli corse incontro e, inginocchiatosi, gli pose questa domanda: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Mc 10,17). Noi forse oggi non diremmo così, ma il senso della domanda è proprio: cosa devo fare, come devo vivere per vivere realmente, per trovare la vita. Quindi dentro questo interrogativo possiamo vedere racchiusa l’ampia e variegata esperienza umana che si apre alla ricerca del significato, del senso profondo della vita: come vivere, perché vivere. La "vita eterna", infatti, alla quale fa riferimento quel giovane del Vangelo non indica solamente la vita dopo la morte, non vuol sapere soltanto come arrivo al cielo. Vuol sapere: come devo vivere adesso per avere già la vita che può essere poi anche eterna. Quindi in questa domanda questo giovane manifesta l’esigenza che l’esistenza quotidiana trovi senso, trovi pienezza, trovi verità. L’uomo non può vivere senza questa ricerca della verità su se stesso - che cosa sono io, per che cosa devo vivere - verità che spinga ad aprire l’orizzonte e ad andare al di là di ciò che è materiale, non per fuggire dalla realtà, ma per viverla in modo ancora più vero, più ricco di senso e di speranza, e non solo nella superficialità. E penso che questa – e l’ho visto e sentito nelle parole del vostro amico – sia anche la vostra esperienza. I grandi interrogativi che portiamo dentro di noi rimangono sempre, rinascono sempre: chi siamo?, da dove veniamo?, per chi viviamo? E queste questioni sono il segno più alto della trascendenza dell’essere umano e della capacità che abbiamo di non fermarci alla superficie delle cose. Ed è proprio guardando in noi stessi con verità, con sincerità e con coraggio che intuiamo la bellezza, ma anche la precarietà della vita e sentiamo un’insoddisfazione, un’inquietudine che nessuna cosa concreta riesce a colmare. Alla fine tutte le promesse si dimostrano spesso insufficienti.
Cari amici, vi invito a prendere coscienza di questa sana e positiva inquietudine, a non aver paura di porvi le domande fondamentali sul senso e sul valore della vita. Non fermatevi alle risposte parziali, immediate, certamente più facili al momento e più comode, che possono dare qualche momento di felicità, di esaltazione, di ebbrezza, ma che non vi portano alla vera gioia di vivere, quella che nasce da chi costruisce – come dice Gesù – non sulla sabbia, ma sulla solida roccia. Imparate allora a riflettere, a leggere in modo non superficiale, ma in profondità la vostra esperienza umana: scoprirete, con meraviglia e con gioia, che il vostro cuore è una finestra aperta sull’infinito! Questa è la grandezza dell'uomo e anche la sua difficoltà. Una delle illusioni prodotte nel corso della storia è stata quella di pensare che il progresso tecnico-scientifico, in modo assoluto, avrebbe potuto dare risposte e soluzioni a tutti i problemi dell’umanità. E vediamo che non è così. In realtà, anche se ciò fosse stato possibile, nulla e nessuno avrebbe potuto cancellare le domande più profonde sul significato della vita e della morte, sul significato della sofferenza, di tutto, perché queste domande sono scritte nell’animo umano, nel nostro cuore, e oltrepassano la sfera dei bisogni. L’uomo, anche nell’era del progresso scientifico e tecnologico - che ci ha dato tanto - rimane un essere che desidera di più, più che la comodità e il benessere, rimane un essere aperto alla verità intera della sua esistenza, che non può fermarsi alle cose materiali, ma si apre ad un orizzonte molto più ampio. Tutto questo voi lo sperimentate continuamente ogni volta che vi domandate: ma perché? Quando contemplate un tramonto, o una musica muove in voi il cuore e la mente; quando provate che cosa vuol dire amare veramente; quando sentite forte il senso della giustizia e della verità, e quando sentite anche la mancanza di giustizia, di verità e di felicità.
Cari giovani, l’esperienza umana è una realtà che ci accomuna tutti, ma ad essa si possono dare diversi livelli di significato. Ed è qui che si decide in che modo orientare la propria vita e si sceglie a chi affidarla, a chi affidarsi. Il rischio è sempre quello di rimanere imprigionati nel mondo delle cose, dell'immediato, del relativo, dell’utile, perdendo la sensibilità per ciò che si riferisce alla nostra dimensione spirituale. Non si tratta affatto di disprezzare l’uso della ragione o di rigettare il progresso scientifico, tutt’altro; si tratta piuttosto di capire che ciascuno di noi non è fatto solo di una dimensione "orizzontale", ma comprende anche quella "verticale". I dati scientifici e gli strumenti tecnologici non possono sostituirsi al mondo della vita, agli orizzonti di significato e di libertà, alla ricchezza delle relazioni di amicizia e di amore.
Cari giovani, è proprio nell’apertura alla verità intera di noi, di noi stessi e del mondo che scorgiamo l’iniziativa di Dio nei nostri confronti. Egli viene incontro ad ogni uomo e gli fa conoscere il mistero del suo amore. Nel Signore Gesù, che è morto e risorto per noi e ci ha donato lo Spirito Santo, siamo addirittura resi partecipi della vita stessa di Dio, apparteniamo alla famiglia di Dio. In Lui, in Cristo, potete trovare le risposte alle domande che accompagnano il vostro cammino, non in modo superficiale, facile, ma camminando con Gesù, vivendo con Gesù. L’incontro con Cristo non si risolve nell’adesione ad una dottrina, ad una filosofia, ma ciò che Lui vi propone è di condividere la sua stessa vita e così imparare a vivere, imparare che cosa è l'uomo, che cosa sono io. A quel giovane, che Gli aveva chiesto che cosa fare per entrare nella vita eterna, cioè per vivere veramente, Gesù risponde, invitandolo a distaccarsi dai suoi beni e aggiunge: "Vieni! Seguimi!" (Mc 10,21). La parola di Cristo mostra che la vostra vita trova significato nel mistero di Dio, che è Amore: un Amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità! Che cosa sarebbe la vostra vita senza questo amore? Dio si prende cura dell’uomo dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza! Cristo stesso, che è andato nelle profondità della morte ed è risorto, è la speranza in persona, è la Parola definitiva pronunciata sulla nostra storia, è una parola positiva.
Non temete di affrontare le situazioni difficili, i momenti di crisi, le prove della vita, perché il Signore vi accompagna, è con voi! Vi incoraggio a crescere nell’amicizia con Lui attraverso la lettura frequente del Vangelo e di tutta la Sacra Scrittura, la partecipazione fedele all’Eucaristia come incontro personale con Cristo, l’impegno all’interno della comunità ecclesiale, il cammino con una valida guida spirituale. Trasformati dallo Spirito Santo potrete sperimentare l’autentica libertà, che è tale quando è orientata al bene. In questo modo la vostra vita, animata da una continua ricerca del volto del Signore e dalla volontà sincera di donare voi stessi, sarà per tanti vostri coetanei un segno, un richiamo eloquente a far sì che il desiderio di pienezza che sta in tutti noi si realizzi finalmente nell’incontro con il Signore Gesù. Lasciate che il mistero di Cristo illumini tutta la vostra persona! Allora potrete portare nei diversi ambienti quella novità che può cambiare le relazioni, le istituzioni, le strutture, per costruire un mondo più giusto e solidale, animato dalla ricerca del bene comune. Non cedete a logiche individualistiche ed egoistiche! Vi conforti la testimonianza di tanti giovani che hanno raggiunto la meta della santità: pensate a santa Teresa di Gesù Bambino, san Domenico Savio, santa Maria Goretti, il beato Pier Giorgio Frassati, il beato Alberto Marvelli – che è di questa terra! – e tanti altri, a noi sconosciuti, ma che hanno vissuto il loro tempo nella luce e nella forza del Vangelo, e hanno trovato la risposta: come vivere, che cosa devo fare per vivere.
A conclusione di questo incontro, voglio affidare ciascuno di voi alla Vergine Maria, Madre della Chiesa. Come Lei, possiate pronunciare e rinnovare il vostro "sì" e magnificare sempre il Signore con la vostra vita, perché Lui vi dona parole di vita eterna! Coraggio allora cari giovani e care giovani, nel vostro cammino di fede e di vita cristiana anche io vi sono sempre vicino e vi accompagno con la mia Benedizione. Grazie per la vostra attenzione!
[00962-01.01] [Testo originale: Italiano] a S.MARINO 2011

Postato da: giacabi a 09:20 | link | commenti
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Discepolo di Cristo
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La storia di Maria di Màgdala richiama a tutti una verità fondamentale:
discepolo di Cristo è chi, nell’esperienza dell’umana debolezza, ha avuto l’umiltà di chiedergli aiuto,
è stato da Lui guarito e si è messo a seguirLo da vicino,
diventando testimone della potenza del suo amore misericordioso, più forte del peccato e della morte

Benedetto XVI

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sabato, 09 luglio 2011


Il mondo in cui viviamo ha bisogno che
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"Il mondo in cui viviamo ha bisogno che
la verità risplenda e non sia offuscata dalla menzogna o dalla banalità;
ha bisogno che
la carità infiammi e non sia sopraffatta dall’orgoglio e dall’egoismo.
Abbiamo bisogno che
la bellezza della verità e della carità colpisca l’intimo del nostro cuore e lo renda più umano"

BENEDETTO XVI

Postato da: giacabi a 21:44 | link | commenti
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domenica, 05 giugno 2011

LA FAMIGLIA
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Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita e ad una crescente disgregazione della famiglia. Si assolutizza una libertà senza impegno per la verità, e si coltiva come ideale il benessere individuale attraverso il consumo di beni materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi; si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare tale mentalità! Accanto alla parola della Chiesa, è molto importante la testimonianza e l’impegno delle famiglie cristiane, la vostra testimonianza concreta, specie per affermare l’intangibilità della vita umana dal concepimento fino al suo termine naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi che sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli.

Drage obitelji, budite hrabre!

[Care famiglie, siate coraggiose!]

Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona! Care famiglie, gioite per la paternità e la maternità! L’apertura alla vita è segno di apertura al futuro, di fiducia nel futuro, così come il rispetto della morale naturale libera la persona, anziché mortificarla!
PAPA BENEDETTO XVI in Croazia giugno2011

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famiglia, benedettoxvi

domenica, 29 maggio 2011


Cultura “liquida" e
cultura della vita e della bellezza
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"L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla. E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta, ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli."
Benedetto XVI

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mercoledì, 11 maggio 2011
L’UDIENZA GENERALE, 11.05.2011



CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


Il senso religioso dell’uomo

Cari fratelli e sorelle!

oggi vorrei continuare a riflettere su come la preghiera e il senso religioso facciano parte dell’uomo lungo tutta la sua storia.
Noi viviamo in un’epoca in cui sono evidenti i segni del secolarismo. Dio sembra sparito dall’orizzonte di varie persone o diventato una realtà verso la quale si rimane indifferenti.

Vediamo, però, allo stesso tempo, molti segni che ci indicano un risveglio del senso religioso, una riscoperta dell’importanza di Dio per la vita dell’uomo, un’esigenza di spiritualità, di superare una visione puramente orizzontale, materiale della vita umana. Guardando alla storia recente, è fallita la previsione di chi, dall’epoca dell’Illuminismo, preannunciava la scomparsa delle religioni ed esaltava una ragione assoluta, staccata dalla fede, una ragione che avrebbe scacciato le tenebre dei dogmatismi religiosi e avrebbe dissolto il “mondo del sacro”, restituendo all’uomo la sua libertà, la sua dignità e la sua autonomia da Dio. L’esperienza del secolo scorso, con le due tragiche Guerre mondiali ha messo in crisi quel progresso che la ragione autonoma, l’uomo senza Dio sembrava poter garantire.

Il
Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Mediante la creazione Dio chiama ogni essere dal nulla all’esistenza. … Anche dopo aver perduto la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all’esistenza. Tutte le religioni testimoniano questa essenziale ricerca da parte degli uomini” (n. 2566). Potremmo dire - come ho mostrato nella scorsa catechesi - che non c’è stata alcuna grande civiltà, dai tempi più lontani fino ai nostri giorni, che non sia stata religiosa.

L’uomo è per sua natura religioso, è homo religiosus come è homo sapiens e homo faber: “il desiderio di Dio – afferma ancora il Catechismo – è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio” (n. 27).

L’immagine del Creatore è impressa nel suo essere ed egli sente il bisogno di trovare una luce per dare risposta alle domande che riguardano il senso profondo della realtà; risposta che egli non può trovare in se stesso, nel progresso, nella scienza empirica. L’homo religiosus non emerge solo dai mondi antichi, egli attraversa tutta la storia dell’umanità.
A questo proposito, il ricco terreno dell’esperienza umana ha visto sorgere svariate forme di religiosità, nel tentativo di rispondere al desiderio di pienezza e di felicità, al bisogno di salvezza, alla ricerca di senso.
L’uomo “digitale” come quello delle caverne, cerca nell’esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena.

Del resto, la vita senza un orizzonte trascendente non avrebbe un senso compiuto e la felicità, alla quale tutti tendiamo, è proiettata spontaneamente verso il futuro, in un domani ancora da compiersi. Il Concilio Vaticano II, nella
Dichiarazione Nostra aetate
, lo ha sottolineato sinteticamente. Dice: Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo” (n. 1).

L’uomo sa che non può rispondere da solo al proprio bisogno fondamentale di capire. Per quanto si sia illuso e si illuda tuttora di essere autosufficiente, egli fa l’esperienza di non bastare a se stesso. Ha bisogno di aprirsi ad altro, a qualcosa o a qualcuno, che possa donargli ciò che gli manca, deve uscire da se stesso verso Colui che sia in grado di colmare l’ampiezza e la profondità del suo desiderio.

L’uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto; l’uomo porta in sé il desiderio di Dio. E l’uomo sa, in qualche modo, di potersi rivolgere a Dio, sa di poterlo pregare.

San Tommaso d’Aquino, uno dei più grandi teologi della storia, definisce la preghiera “espressione del desiderio che l’uomo ha di Dio”. Questa attrazione verso Dio, che Dio stesso ha posto nell’uomo, è l’anima della preghiera, che si riveste poi di tante forme e modalità secondo la storia, il tempo, il momento, la grazia e persino il peccato di ciascun orante.

La storia dell’uomo ha conosciuto, in effetti, svariate forme di preghiera, perché egli ha sviluppato diverse modalità d’apertura verso l’Altro e verso l’Oltre, tanto che possiamo riconoscere la preghiera come un’esperienza presente in ogni religione e cultura.

Infatti, cari fratelli e sorelle, come abbiamo visto mercoledì scorso, la preghiera non è legata ad un particolare contesto, ma si trova inscritta nel cuore di ogni persona e di ogni civiltà.

Naturalmente, quando parliamo della preghiera come esperienza dell’uomo in quanto tale, dell’homo orans, è necessario tenere presente che essa è un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole. La preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona; perciò non è facilmente decifrabile e, per lo stesso motivo, può essere soggetta a fraintendimenti e a mistificazioni. Anche in questo senso possiamo intendere l’espressione: pregare è difficile. Infatti, la preghiera è il luogo per eccellenza della gratuità, della tensione verso l’Invisibile, l’Inatteso e l’Ineffabile. Perciò, l’esperienza della preghiera è per tutti una sfida, una “grazia” da invocare, un dono di Colui al quale ci rivolgiamo.

Nella preghiera, in ogni epoca della storia, l’uomo considera se stesso e la sua situazione di fronte a Dio, a partire da Dio e in ordine a Dio, e sperimenta di essere creatura bisognosa di aiuto, incapace di procurarsi da sé il compimento della propria esistenza e della propria speranza. Il filosofo Ludwig Wittgenstein ricordava che “pregare significa sentire che il senso del mondo è fuori del mondo”. Nella dinamica di questo rapporto con chi dà senso all’esistenza, con Dio, la preghiera ha una delle sue tipiche espressioni nel gesto di mettersi in ginocchio.

E’ un gesto che porta in sé una radicale ambivalenza: infatti, posso essere costretto a mettermi in ginocchio – condizione di indigenza e di schiavitù -, ma posso anche inginocchiarmi spontaneamente, dichiarando il mio limite e, dunque, il mio avere bisogno di un Altro. A lui dichiaro di essere debole, bisognoso, “peccatore”. Nell’esperienza della preghiera la creatura umana esprime tutta la consapevolezza di sé, tutto ciò che riesce a cogliere della propria esistenza e, contemporaneamente, rivolge tutta se stessa verso l’Essere di fronte al quale sta, orienta la propria anima a quel Mistero da cui si attende il compimento dei desideri più profondi e l’aiuto per superare l’indigenza della propria vita. In questo guardare ad un Altro, in questo dirigersi “oltre” sta l’essenza della preghiera, come esperienza di una realtà che supera il sensibile e il contingente.

Tuttavia solo nel Dio che si rivela trova pieno compimento il cercare dell’uomo. La preghiera che è apertura ed elevazione del cuore a Dio, diviene così rapporto personale con Lui. E anche se l’uomo dimentica il suo Creatore, il Dio vivo e vero non cessa di chiamare per primo l’uomo al misterioso incontro della preghiera. Come afferma il Catechismo: “Questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. A mano a mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso, la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore. Si svela lungo tutta la storia della salvezza” (n. 2567).

Cari fratelli e sorelle, impariamo a sostare maggiormente davanti a Dio, a Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, impariamo a riconoscere nel silenzio, nell’intimo di noi stessi, la sua voce che ci chiama e ci riconduce alla profondità della nostra esistenza, alla fonte della vita, alla sorgente della salvezza, per farci andare oltre il limite della nostra vita e aprirci alla misura di Dio, al rapporto con Lui, che è Infinito Amore.


Grazie!

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benedettoxvi, senso religioso

mercoledì, 04 maggio 2011
Giovanni Paolo II ha restituito la fisionomia autentica della speranza al Cristianesimo
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«Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: “Quando nel giorno 16 ottobre il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszynski mi disse: “Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. E aggiungeva: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo ho partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”. E qual è questa “causa”? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con al forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.
Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà.
Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.
Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo, (ogni uomo) è la via della Chiesa, e Cristo è la via di ogni uomo, dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere”, il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare “soglia della speranza”. Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace»
[Benedetto XVI, Omelia per la Beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011].

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benedettoxvi, giovanni paoloii

Fa’ che ti riconosciamo di nuovo!
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http://www.televisionando.it/img/Beato-giovanni-paolo-ii.jpg
"Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto.

È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del Cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: “Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!

Nonostante tutta la vergogna per i nostri errori, non dobbiamo, però, dimenticare che anche oggi esistono esempi luminosi di fede; che anche oggi vi sono persone che, mediante la loro fede e il loro amore, danno speranza al mondo. "

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benedettoxvi

martedì, 03 maggio 2011

L’unica speranza

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sabato 23 aprile 2011

 
Cormac McCarthy, nel romanzo Non è un paese per vecchi, narra con uno stile veloce e asciutto la storia di tre uomini che nel Texas di oggi, lungo il confine con il Messico, si inseguono spietatamente, spinti da una necessità ineluttabile, in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono, nel senso che possono scegliere «in quale ordine abbandonare la propria vita». Uno di loro, lo sceriffo, contempla, alla fine della storia, un abbeveratoio scavato nella  pietra. A chi era venuta un’idea del genere, in quel paese senza pace? Certo, quell’uomo “si era messo lì con una mazza e uno scalpello”, e l’abbeveratoio “sarebbe potuto durare diecimila anni”. Perché lo aveva fatto, in che cosa credeva? “Devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo l’intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte”.
È possibile fare una promessa all’uomo, cioè ai nostri amici e ai nostri figli, che non abbia come fondamento la resurrezione di Cristo?
Un “teologo laico” (secondo la definizione dello stesso interessato) scriveva su un noto quotidiano: “Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazareth, per i miei valori e per la mia visione del mondo non cambierebbe molto […]. Non è perché Gesù è risorto che è il mio maestro. Lo è per le cose che ha detto e per lo stile di vita con cui ha vissuto, per la sua umanità, il suo senso di giustizia E questo dimostra che non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Gli uomini si salvano […] perché sono giusti.(V. Mancuso, Il Foglio, 23 marzo 2008).
Il cristianesimo diviene così un traguardo etico, a cui tendere con le proprie forze. Nobilissimo traguardo. Ci sono ragionevoli speranze di raggiungerlo? Francamente, pare di no. Agli stessi successi, anche morali, manca sempre qualcosa. Ammoniva un testimone non meno “laico”, Italo Calvino, ne Le città invisibili: “Solo se conoscerai il residuo di infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio. Con sollecitudine non meno realistica, la Chiesa, nella liturgia della Settimana Santa, parla di un’umanità “sfinita per la sua debolezza mortale”.
La sfida della Pasqua non è un ideale morale. Ma un fatto accaduto realmente: l’inizio di una vita umana diversa nella quale sono rintracciabili i tratti del divino. Di quel diamante finale desiderato in maniera struggente dal cuore. Nella Pasqua, la Chiesa mostra al mondo l’unica “pietra angolare” sulla quale è possibile costruire la nostra speranza.
“La fede cristiana - ha scritto recentemente Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret - sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta”.
La resurrezione di Cristo, dunque, è l’unica speranza. Ma può essere veramente accaduta? Come facciamo noi uomini di oggi a crederci senza abdicare alle esigenze della nostra ragione? Le prove sono da cercarsi nella vita dei credenti. Sono loro a dare anche oggi testimonianza di Gesù risorto; ponendo nel mondo dei gesti che sarebbero impossibili e assurdi se Lui non fosse vivo e presente.
In questo senso la resurrezione di Gesù avviene ora.

Postato da: giacabi a 20:56 | link | commenti
calvino, benedettoxvi

lunedì, 25 aprile 2011
Auguro una Felice e Santa Pasqua a tutti voi
Volantone di Pasqua CL 2011
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"Ma se Cristo non è risorto vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede" (1 Cor 15,14s). La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull'uomo, sull'essere dell'uomo e sul dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l'ultima istanza. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell'uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poichè allora Dio si è veramente manifestato.
Benedetto XVI

"L'Avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, da contenuto al presente. Ciò che si sa o ciò che si sà diventa esperienza se quello che si sa o ciò che si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c'è una mano che lo porge ora, c'è un volto che viene avanti ora, c'è del sangue che scorre ora, c'è una resurrezione che avviene ora.  Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo."    
                                                                                      Mons. Luigi Giussani.

Postato da: graciete

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benedettoxvi, giussani

sabato, 23 aprile 2011
23/4/2011
Senza copione
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Chiunque preferisca gli umili agli infallibili sarà rimasto colpito dal dialogo televisivo fra il Papa e la bimba giapponese che gli chiedeva conto del terremoto. «Perché i bambini devono avere tanta tristezza?», domandava la piccola, dando fiato a un tarlo che non trova risposte nella ragione, ma solo in quella che le Chiese chiamano fede e gli psicanalisti junghiani intuizione. Il Papa avrebbe potuto rispondere come quel cattolico saputello e fanatico del Cnr, che a proposito dello tsunami aveva tirato in ballo il castigo di Dio. Invece se n’è uscito con un’ammissione di impotenza dotata di straordinaria potenza: «Non abbiamo le risposte.

Però un giorno potremo capire tutto». Per il niente che vale, la penso (anzi, la sento) come lui. Mi sono sempre immaginato la vita come un film di Woody Allen, dove gli attori recitano le scene senza che il regista mostri loro l’intero copione. Solo al termine delle riprese vengono ammessi in sala montaggio e finalmente comprendono il motivo per cui si erano baciati o presi a schiaffi.

Per tutta la vita ci sentiamo sballottare da eventi che non afferriamo e siamo pervasi da un senso di inadeguatezza, come se ogni cosa sfuggisse al nostro controllo e il cinismo rappresentasse l’unico antidoto allo smarrimento. Ma appena diamo tregua al cervello e inneschiamo il cuore, sentiamo che tutto ciò che d’incomprensibile ci succede contiene un significato. E il fatto di trovarci al buio non significa che la stanza sia vuota, ma solo che bisogna aspettare che si accenda la luce.
MASSIMO GRAMELLINI
STAMPA.IT

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benedettoxvi

mercoledì, 20 aprile 2011

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI

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discorso di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"
 
Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.

«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .
Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .
Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo» .

Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”). E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.
Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .

È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.
L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .
Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.

Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani.

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domenica, 27 marzo 2011
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
A S.E. L'ONOREVOLE GIORGIO NAPOLITANO,
 
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA,
 IN OCCASIONE DEI 150 ANNI DELL’UNITÀ POLITICA D’ITALIA
 
Illustrissimo Signore
On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geo­politica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a “fare gli italiani”, cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: “cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa”.
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di “Questione Romana”, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale “Conciliazione”, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il “non expedit”, rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della “Questione Romana” attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: “Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai”.
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema “Costituzione e Costituente”. Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella “grande preghiera per l’Italia” indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come “strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria”. Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo “la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune”. L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, “anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane” (Cost. Gaudium et spes, 76). L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella “promozione dell’uomo e del bene del Paese” che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II: “chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni” (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla “questione romana”, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011

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benedettoxvi, risorgimento

lunedì, 28 febbraio 2011
L'INFERNO ESISTE
L'INFERNO ESISTE
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"E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore. Anche in questo episodio, dunque, comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza. Gesù congeda la donna adultera con questa consegna: 'Va e d’ora in poi non peccare più'. Le concede il perdono affinché 'd’ora in poi' non pecchi più."
BenedettoXVI (parrochia «Santa Felicita e figli martiri» Roma)

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benedettoxvi

domenica, 13 febbraio 2011
«Nelle nostre mani i libri, nei nostri occhi i fatti»
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Julián Carrón
Beatissimo Padre, Venerabili Padri, Fratelli e sorelle:
L’Instrumentum laboris e la relazione generale hanno messo in evidenza che l’interpretazione della Bibbia è una delle preoccupazioni più sentite oggi nella Chiesa (Instrumentum laboris 19-31). Il nocciolo della sfida sollevata dalla vicenda della interpretazione moderna della Sacra Scrittura l’aveva identificato anni fa l’allora cardinale Ratzinger: «Come mi è possibile giungere ad una comprensione che non sia fondata sull’arbitrio dei miei presupposti, una comprensione che mi permetta veramente d’intendere il messaggio del testo, restituendomi qualcosa che non viene da me stesso?» (“L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea”, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Casale Monteferrato 1991, pp. 93-125).
In merito a questa difficoltà, il Magistero recente della Chiesa ci offre elementi per uscire da ogni possibile riduzione.
È stato pregio del Concilio Vaticano II aver recuperato un concetto di rivelazione come avvenimento di Dio nella storia. In effetti, la Dei Verbum permette di comprendere la rivelazione come l’avvenimento dell’autocomunicazione della Trinità nel Figlio «mediatore e pienezza di tutta intera la Rivelazione», nel quale risplende la «profonda verità […] su Dio e sulla salvezza degli uomini» (DV 2), mediante lo Spirito Santo nella storia umana
. È Cristo che «col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione» (DV4). A buon diritto l’enciclica Deus caritas est ribadisce che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1; cfr. FR 7).
Questo avvenimento non appartiene soltanto al passato, a un momento del tempo e dello spazio, ma rimane presente nella storia, comunicandosi attraverso la totalità della vita della Chiesa che lo accoglie. Infatti «la contemporaneità di Cristo rispetto all’uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa» (VS25; cfr. FR 11). Come gli Apostoli trasmisero «ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire» (cfr. DV 7), così «la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (DV 8). Precisamente per questo carattere di avvenimento proprio della rivelazione e della sua trasmissione, la Costituzione conciliare sottolinea che, sebbene «espressa in modo speciale nei libri ispirati» (cfr. DV 8), l’evento della rivelazione non coincide con la Sacra Scrittura. La parola della Bibbia attesta la Rivelazione; ma non la contiene in modo tale da poterla esaurire in se stessa. Per questo «la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» (DV 9).
Se la rivelazione ha il carattere di un avvenimento storico, quando entra in contatto con l’uomo non può che colpirlo, provocando la sua ragione e la sua libertà. È quanto mostrano, nella loro semplicità, le narrazioni evangeliche, testimoniando lo stupore che suscitava la persona di Gesù in chi lo incontrava (cfr.  Mc 1,27; 2,12; Lc 5,9). La presenza di Gesù dilata lo sguardo affinché possiamo vedere e riconoscere ciò che abbiamo davanti (cfr. Lc 24, Emmaus). È ciò su cui insiste l’enciclica Fides et ratio quando afferma che «questa verità [della rivelazione], donata all’uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo» (FR 13).
L’enciclica, dunque, caratterizza l’impatto che la verità rivelata provoca nell’uomo che la incontra secondo un duplice impulso: a) dilatare la ragione per adeguarla all’oggetto; b) facilitarne l’accoglimento del suo senso profondo. Invece di mortificare la ragione e la libertà dell’uomo, la rivelazione permette di sviluppare entrambe al massimo della loro condizione originale.
Il rapporto con la tradizione vivente nel corpo della Chiesa consente a ciascun uomo di partecipare all’esperienza di coloro che incontrarono Gesù. Questi, stupiti dalla Sua eccezionalità unica, iniziarono un cammino che permise loro di raggiungere la certezza sulla Sua pretesa assoluta, cioè divina. Chi fa questo percorso non accetta in modo ingenuo la tradizione incontrata; al contrario, la sottopone a verifica permettendo così alla propria ragione di coglierne la verità.
L’esperienza dell’incontro con Cristo presente nella tradizione viva della Chiesa è un avvenimento e diventa, perciò, il fattore determinante dell’interpretazione del testo biblico. È l’unico modo di entrare in sintonia con l’esperienza testimoniata dal testo della Scrittura. Infatti, «la giusta conoscenza del testo biblico è accessibile dunque solo a chi ha un’affinità vissuta con ciò di cui il testo parla»
(PCB 70). Ho potuto documentare questo criterio ermeneutico in un episodio semplice ma significativo, capitato anni fa a Madrid. Una giovane che non aveva avuto alcun contatto con il cristianesimo, nell’incontrare una comunità cristiana viva ha cominciato a frequentarla, e a partecipare alla S. Messa. Dopo le prime occasioni in cui ascoltava il Vangelo ha commentato: «A loro è successo come a noi!». Era il presente ecclesiale che apriva al senso del racconto evangelico.
In sintesi, «la capacità di credere [degli apostoli] era completamente sostenuta e operata dalla persona rivelatrice di Gesù», secondo la bella espressione di H.U. von Balthasar, e consentiva loro di cogliere il mistero della Sua persona e aderirvi. Analogamente oggi la nostra ragione ha bisogno dell’Avvenimento presente nella tradizione dei testimoni viventi per aprirsi al Mistero di Cristo, che ci viene incontro in loro. Ma soltanto potremo riconoscere in questi testimoni i tratti inconfondibili di Gesù Cristo, se abbiamo familiarità con la testimonianza unica, canonica, dei Suoi tratti assolutamente originali, offerta dalle Sacre Scritture. Icasticamente lo riassumeva sant’Agostino: «In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta».«Nelle nostre mani i libri, nei nostri occhi i fatti»

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sabato, 12 febbraio 2011
LA VERA RIVOLUZIONE DEL MONDO: CRISTO
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"Negli ultimi due, tre secoli sono venuti tanti
profeti, ideologi dittatori che hanno detto 'non e' lui, siamo noi che
abbiamo cambiato il mondo. E hanno fatto le loro dittature. Ma di tutte
queste loro promesse è rimasto solo un grande vuoto e distruzione. Oggi
sappiamo che 'non erano loro' ".
...
"Cristo non ho fatto rivoluzioni cruente. Non é la violenza la vera rivoluzione che cambia il mondo, ma la silenziosa luce
  della verità, è il segno della presenza di Cristo che ci dà certezza che siamo amati e non siamo il prodotto del caso ma di una volontà di amore". 
Benedetto XVI 11 febbraio 20111

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sabato, 22 gennaio 2011
la libertà religiosa
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"il Papa scrive che “la libertà religiosa è una vera arma per la pace” ed è alla base di tutti i diritti umani? Perchè il fondamento della pace è l’amore di Dio Padre per tutti gli uomini e il comandamento che il Figlio di Dio Gesù Cristo dà ai suoi discepoli: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Se dall’orizzonte di un popolo togliamo Dio e il riferimento a Dio (Dio è amore!), inevitabilmente prevalgono l’egoismo, l’odio, la vendetta, l’oppressione delle persone e dei popoli, la guerra.        La libertà religiosa non è quindi un problema che interessi solo i cristiani, ma deve appassionare tutti gli uomini di buona volontà, perché è alla base dei diritti umani e della convivenza sociale. La pace nel mondo, e nelle famiglie, è un dono di Dio. I nemici della libertà religiosa, scrive il Papa, sono anche i nemici della pace. In particolare Benedetto XVI ne ricorda due:
-          Primo, il fondamentalismo, che strumentalizza una religione “per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società”. Il Papa condanna ancora una volta ogni violenza fatta in nome di Dio, ricordando che la verità si impone con se stessa (n. 7). Evidentemente allude al radicalismo islamico, a quello indù, al terrorismo.
-         Secondo, il relativismo, che toglie ogni valore alla religione e la condanna a diventare un “hobby” privato, quindi a non influire sul cammino della società e sulla formazione dei giovani. Benedetto XVI si riferisce al mondo occidentale dove, con la scusa di non offendere le altre religioni, si cancellano i sacri segni cristiani dalla vita pubblica e si costringe al privato l’esperienza religiosa: “Le leggi e le istituzioni di una società – grida il Papa - non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto” (n. 8). Gli esempi sono tanti: le leggi contro la vita e la famiglia (aborto, divorzio, unione dei gay equiparata al matrimonio, eutanasia, ecc.).
      Il materialismo vuoto dell’Occidente, che emargina la religione, sta distruggendo lo sviluppo civile creato in due millenni di cristianesimo: a partire dalla famiglia, si stanno sfasciando anche la scuola, la politica, l’economia, la società civile. Il Papa chiede che la legislazione dei vari Paesi tenga conto della legislazione internazionale in fatto di diritti umani e religiosi e propone come simbolo per un futuro di pace l’incontro di Assisi del 1986, dove “i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace” (n.11).
      Nella Giornata per la Pace, che in questo gennaio è celebrata in molte diocesi e città, Benedetto XVI lancia un appello a tutti i cristiani, che “sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con una testimonianza della propria fede e carità, ad offrire un contributo prezioso al faticoso
ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane” (n. 7).

                                                                                        Piero Gheddo

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giovedì, 30 dicembre 2010

Le sette armi nella lotta contro il male,
contro il diavolo
"La santa,(Caterina de’ Vigri) spiega Benedetto XVI, «individua sette armi nella lotta contro il male, contro il diavolo:
***
 
 
1. avere cura e sollecitudine nell'operare sempre il bene;

2. credere che da soli non potremo mai fare qualcosa di veramente buono;

3. confidare in Dio e, per amore suo, non temere mai la battaglia  contro il male, sia nel mondo, sia in noi stessi;

4. meditare spesso gli eventi e le parole della vita di Gesù, soprattutto la sua passione e morte;

5. ricordarsi che dobbiamo morire;

6. avere fissa nella mente la memoria dei beni del Paradiso;

7. avere familiarità con la Santa Scrittura, portandola sempre nel cuore perché orienti tutti i pensieri e tutte le azioni.

Un bel programma di vita spirituale, anche oggi, per ognuno di noi!»."

da:

Postato da: giacabi a 09:01 | link | commenti
santi, benedettoxvi

giovedì, 16 dicembre 2010
“Vi sono poi – come ho già affermato – forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi”
messaggio di Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale della Pace (primo gennaio 2011)

Postato da: giacabi a 20:35 | link | commenti
benedettoxvi

mercoledì, 01 dicembre 2010
 Sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione
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«L’idea genericamente diffusa è che i cristiani debbano osservare un’immensità di comandamenti, divieti, principi e simili, e che quindi il cristianesimo sia qualcosa di faticoso e oppressivo da vivere, e che si è più liberi senza tutti questi fardelli. Io invece vorrei mettere in chiaro che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello, ma sono ali»
.Benedetto XVI

Postato da: giacabi a 20:34 | link | commenti (2)
cristianesimo, benedettoxvi

domenica, 28 novembre 2010
l'embrione
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embrione.jpg
"L''embrione nel grembo materno" non è "un cumulo di materiale biologico", ma un "nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana"; "così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre".

"Ci sono tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose. Riguardo all’embrione nel grembo materno, la scienza stessa ne mette in evidenza l’autonomia capace d’interazione con la madre, il coordinamento dei processi biologici, la continuità dello sviluppo, la crescente complessità dell’organismo. Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana. Così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre. Con l’antico autore cristiano Tertulliano possiamo affermare: “E’ già un uomo colui che lo sarà” (Apologetico, IX, 8); non c’è alcuna ragione per non considerarlo persona fin dal concepimento."
BenedettoXVI
VEGLIA PER LA VITA NASCENTE26-10-2010

Postato da: giacabi a 09:09 | link | commenti
aborto, benedettoxvi

giovedì, 25 novembre 2010

LA BELLEZZA

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Basilica della Sagrada Familia, Barcellona

"In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo".

Benedetto XVI, da Omelia per la dedicazione della Sagrada Familia

Postato da: giacabi a 21:40 | link | commenti

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