Il dovere della verità
***
Ma
la questione di Cristo appare oggi annebbiata dalla confusione che
avvolge un po’ tutti: confusione religiosa, confusione ecclesiale,
confusione ideologica.***
C’è chi identifica il dovere del dialogo, della tolleranza, anzi della cortesia verso tutti con la rinuncia a cercare, a conoscere, a difendere la verità. C’è chi scambia la benevolenza che dobbiamo avere per tutti gli uomini e il desiderio che tutti arrivino alla salvezza, con la disponibilità comoda e deplorevole a lasciare che tutti restino tranquillamente nelle tenebre e nell’ombra della morte" (cf Lc 1,79).
E c’è chi, non volendo assumersi la responsabilità e l’impegno di decidere, si rifugia nel relativismo (che ritiene che tutte le convinzioni siano interscambiabili, come i posti sull’autobus) e si persuade che si possa scegliere a piacimento tra una religione e l’altra, e addirittura tra la verità e l’errore, così come si sceglie tra l’andare in vacanza al mare e l’andare in montagna.
Gesù ha detto: "Chi non è con me, è contro di me": dunque o gli si dice di sì o gli si dice di no.
Card. Biffi
Postato da: giacabi a 14:47 |
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verità , biffi
***
L’osservazione non è marginale. Direi addirittura che l’appurare se l’uomo sia il risultato del fortuito confluire di forze senz’anima o se ci sia all’origine della sua esistenza una deliberazione consapevole, è problema previo a ogni altro. Non mi riesce proprio di capire come possa una creatura passabilmente ragionevole impegnarsi a risolvere le questioni scientifiche, economiche, psicologiche, prima di aver trovato una risposta a questa questione. Qui ci sarebbe davvero da parlare di alienazione.
Certo, molti si addentrano e si rinchiudono in quelle ricerche perché ritengono irresolubile, e perciò vano, il “problema previo”. In questo caso però l’alienazione non è minore, è soltanto più disperata.
Tanto più che la questione dell’origine diventa per forza la questione di come vivere oggi: se io fossi convinto che la mia storia di uomo è cominciata per caso, non ci sarebbe ragione al mondo di non abbandonare al caso anche il suo proseguimento. Non vedo perché io debba interferire con l’intelligenza e la volontà in una avventura che si è avviata senza l’intervento di nessuna intelligenza e nessuna volontà.
(G. Biffi, Contro maestro Ciliegia, Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, Milano, 1977
Postato da: giacabi a 16:54 |
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biffi
Il vero Risorgimento.…
Clelia
nasce l’anno prima del turbolento 1848, che è indicato nei libri di
storia patria come quello della prima guerra di indipendenza; e muore
nel 1870, qualche mese avanti l’ingresso dei bersaglieri in Roma per
la breccia di Porta Pia. Dei protagonisti dei radicali
sconvolgimenti che portarono all’Unità d’Italia – di Vittorio
Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di
Mazzini – la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma
non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo semplice abbia vissuto
quegli avvenimenti.
Clelia nasce l’anno prima del turbolento 1848, che è indicato nei libri di storia patria come quello della prima guerra di indipendenza; e muore nel 1870, qualche mese avanti l’ingresso dei bersaglieri in Roma per la breccia di Porta Pia. Dei protagonisti dei radicali sconvolgimenti che portarono all’Unità d’Italia – di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini – la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo semplice abbia vissuto quegli avvenimenti. Domandiamoci, allora, per una volta: dell’imponente mutazione di regime la gente persicetana (per esempio alle Budrie) che cosa ha percepito nell’umile concretezza della sua oscura esistenza? Ha assistito con animo più sbigottito che partecipe a tante imprevedute novità, che dovettero sembrare abbastanza inspiegabili. Nelle aule scolastiche l’immagine mite e familiare della Madonna di San Luca fu sostituita dal fiero e baffuto ritratto di un re forestiero. Proprio in quegli anni il giovane stato unitario decise di impadronirsi di molte proprietà che erano a originaria destinazione religiosa. E, come spesso capita in questo mondo, invece dei ladri, si mettevano in prigione i derubati.
Fu così che Clelia e i suoi comparrocchiani ebbero il sorprendente spettacolo dell’arresto e della partenza per il carcere di don Gaetano Guidi, il pastore da tutti benvoluto e stimato. In occasione della guerra del 1866 – Clelia aveva diciannove anni – la chiesa più importante del territorio, la collegiata di San Giovanni, venne requisita e per più di un mese fu adibita a magazzino da parte delle autorità militari che per le loro necessità non avevano proprio saputo immaginare altre soluzioni. Nello stesso torno di tempo, l’arcivescovo di Bologna fu dal nuovo governo impedito per ventidue anni (dal 1860 al 1882) di occupare la sua legittima sede e di esercitare liberamente il suo ministero. In conseguenza della coscrizione obbligatoria, furono sottratti ai lavori dei campi e chiamati alle armi quei poveri contadini, ai quali per altro non era consentito di votare. Per non parlare dell’inaudita ed esecrata tassa sul macinato, a proposito della quale il comando generale di Bologna ebbe il bel pensiero di togliere il batacchio alle campane di quei paesi; campagne colpevoli di avere talvolta accompagnato e incoraggiato gli assembramenti di protesta dei coltivatori esasperati. Si era nel 1869, l’anno prima della morte della nostra Santa.
Questo, o poco più di questo, è stato il Risorgimento nazionale visto dal basso, dalla paziente umanità che stentava la vita sotto l’argine del Samoggia. In questo clima depresso e rannuvolato Clelia è apparsa come un raggio di sole. Questa ragazza, germinata dalla loro anima e dalla loro cultura più vera, è apparsa alle genti di quella terra come il segno di una speranza nuova, come il presentimento che qualcosa potesse davvero cominciare a «risorgere». Ed era, per così dire, un «risorgimento al femminile». Si trattava di una giovane donna che non organizzava rivendicazioni, non pretendeva posti direttivi nella società, non pensava affatto di realizzarsi assumendo compiti e responsabilità tipicamente maschili. Proprio con la sua naturale e intatta femminilità è diventata nel breve spazio della sua esistenza il riferimento più indiscusso, la voce più ascoltata, la «madre» della piccola comunità rurale in cui era inserita. E dopo la morte la sua fede e la sua straordinaria capacità di amare – restando tipicamente e totalmente «femminili» – si sono imposte all’attenzione ammirata di tutta la Chiesa. È un insegnamento prezioso da non dimenticare. Il pieno riscatto della condizione femminile non starà nell’opporre all’egoismo dell’uomo l’egoismo della donna, ma nell’aprirsi senza riserve da parte degli uomini e delle donne all’unico disegno di Dio. Così come la salvezza dei nostri giovani – ed è un altro insegnamento di questa giovane santa – non verrà dalla moltiplicazione degli agi e delle occasioni di godimento (e tanto meno dall’accondiscendenza senza limiti e dal permissivismo), ma dalla seria riscoperta della verità e della bellezza della vita vissuta in obbedienza al progetto eterno del Creatore. Queste sono le più significative lezioni esistenziali che ci vengono da santa Clelia.
scritto dal card. Giacomo Biffi (Da L’Avvenire, Martedi 13 Luglio 2010, Inserto Cultura) fonte : diocesi di San Marino
http://www.vietatoparlare.it/2010/07/19/il-vero-risorgimento/
Postato da: giacabi a 06:37 |
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risorgimento, biffi
Il dossettismo
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Una
delle occasioni più stimolanti è stata una serata trascorsa con
Giuseppe Dossetti. Egli stava già staccandosi dalla politica attiva
(...) Quella sera ci ha intrattenuto su quello che, a suo avviso, era il
problema più rilevante, anzi lo scopo stesso del l’impegno politico:
come associare il più compiutamente possibile gli individui alla vita
dello Stato?
C’è una partecipazione elementare e previa – egli diceva – e si ha con le periodiche consultazioni elettorali. Ma non basta: non è
sufficiente che il cittadino esprima ogni cinque anni il suo parere,
intervenendo nella designazione del corpo legislativo e, indirettamente,
del governo della nazione. Il coinvolgimento del singolo deve essere
continuo, quasi quotidiano, in modo che tutti i problemi comuni, che via
via si presentano, siano affrontati e risolti con l’apporto
determinante di tutti.
Lo strumento attuativo di questo collegamento permanente tra la base e il vertice – così affermava – è
il partito; anzi, i partiti, dal momento che non siamo nello Stato
sovietico. Ne deriva, se si vuol costruire una società pienamente
democratica, la necessità per ognuno di noi di appartenere a un partito
di sua libera scelta, non solo iscrivendosi, ma anche intervenendo senza
pause nella sua attività, contribuendo ai suoi interni dibattiti in
vista della formazione di una linea di condotta concordata,
coinvolgendosi insomma nell’intera sua esistenza (...)
A un’analisi successiva più meditata il progetto schematico offertoci quella sera ci è apparso tipico più di un ideologo, che
non sente il bisogno di uscire dalla cerchia delle sue intuizioni, che
non di un politico che non perde mai di vista la realtà effettuale (...)
L’approdo di queste “attenzioni” dossettiane non era appagante. Il
risultato era una visione delle cose che nella pubblica convivenza
metteva in rilievo solo tre fattori determinanti: lo Stato, il partito,
il singolo. Ciò che appariva del tutto assente dall’analisi di Dossetti
era la “società”: la società con i suoi raggruppamenti spontanei e le
sue libere aggregazioni, che logicamente e spesso anche storicamente
precedono non solo i partiti ma lo Stato stesso, come è il caso per
esempio della famiglia. In una parola, non c’era traccia del «principio
di sussidiarietà».
C’è da dire che questa «dimenticanza» non era solo di Dossetti: era di
tutta quella giovane area cattolica, consapevole e lungimirante, che a
partire dal declino del fascismo fino alla Costituente ha cercato di
elaborare una cultura politica in grado di affrontare il mondo nuovo,
che stava sorgendo dalle macerie della dittatura e della guerra.
Di
fatto, anche per l’autorevolezza e il prestigio di Dossetti questo
approccio alla problematica civile e sociale, con questa deplorevole
negligenza, è stato condiviso da tutte le forze considerate «più aperte»
fino ai nostri giorni. Questa
assenza di un punto qualificante della dottrina sociale cattolica (o
almeno questa scarsa considerazione) è uno dei limiti più vistosi del
dossettismo politico e dei movimenti che poi vi si sono ispirati e vi si
ispirano.
Cardinal Biffi
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Postato da: giacabi a 17:10 |
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biffi
Postato da: giacabi a 09:08 |
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biffi
Sulla visione cristiana di Pinocchio
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“Il
problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella
"analogia" e di quella "concordanza" di cui si parlava. Il volume da me
pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l'esposizione analitica dell'intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.
1. La prima corrispondenza che si impone riguarda la concezione della storia del mondo e dell'uomo. Nell'Orlando Furioso - cui Pinocchio
è stato giustamente paragonato per la felice arbitrarietà degli
accadimenti e l'indole quasi marionettistica dei personaggi - la vicenda
non ha un inizio necessario né una fine obbligata: il poema potrebbe
cominciare e concludersi in qualsivoglia punto, senza che l'economia
generale dell'opera ne risulti alterata. È la visione del paganesimo
greco: la storia è una interminabile tela di Penelope. Qui
invece c'è un avvio (creazione e fuga dal creatore) che è la premessa
indispensabile e il senso di tutto ciò che poi avviene: c'è lo sviluppo
di un dramma in cui si determina la scelta tra due opposti destini
(quello di Pinocchio e quello di Lucignolo); c'è una "escatologia"
conclusiva (ritorno al Padre e trasnaturazione). Vale a dire, qui c'è esattamente la prospettiva cristiana.
2. Pinocchio all'origine non è "generato", è "costruito": c'è dunque una eterogeneità di natura col "costruttore". Ma il "costruttore" lo chiama subito "figlio". Il Creatore misteriosamente vuol essere anche "padre", in questo modo viene immessa nella creatura l'aspirazione a oltrepassare l'alterità e a elevarsi ontologicamente. È la verità della "vocazione soprannaturale": colui che è stato fatto dal niente è destinato a partecipare nella vita di grazia alla natura divina 3. La nostra libertà è una libertà ferita. Pinocchio in tutte le occasioni capisce sempre qual è la cosa giusta da fare e la vorrebbe, ma sceglie infallibilmente la cosa sbagliata. È l'incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia in virtù del solo libero arbitrio, come è denunciata da san Paolo: "Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rm 7, 29). 4. La drammaticità della nostra condizione è accresciuta per la presenza attiva di forze estranee che spingono al male. Esse sono raffigurate primariamente dal Gatto e la Volpe, ma raggiungono la migliore e più efficace rappresentazione nell'Omino, corruttore mellifluo che conduce i ragazzi al Paese dei Balocchi. Non c'è in tutta la letteratura della cristianità immagine del demonio più intelligentemente effigiata. Tenero in apparenza, perfido nella realtà, è il nostro insonne nemico: "Tutti la notte dormono, e io non dormo mai" (Pinocchio c. 1).
5. L'ideologia illuministica aveva diffuso l'orgogliosa affermazione di una possibile "autoredenzione" dell'uomo. Ebbene, tutta
la seconda parte di questo libro (dal capitolo 16 alla fine) parrebbe
costruita proprio per smentire questa che è l'illusione dominante della
nostra cultura. Pinocchio, interiormente svigorito, esteriormente insidiato da esseri maligni più astuti di lui, non
può assolutamente raggiungere la salvezza nonostante la sincerità dei
suoi sforzi, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a
compiere il prodigio di riconciliarlo al padre, di riportarlo a casa,
di dargli una nuova natura. Lo straordinario personaggio della Fata dai
capelli turchini manifesta appunto questa necessaria mediazione
salvifica, che secondo la fede è svolta dal Figlio di Dio fatto uomo, il
quale prolunga la sua azione nella storia per mezzo della Chiesa. "
Cardinale Giacomo Biffi, Conferenza tenuta a Collodi venerdì 16 aprile 1999 tratto dall'Osservatore Romano del 17 aprile 1999
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Postato da: giacabi a 08:32 |
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biffi
La “cultura del niente”
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Io credo che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana.
Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”,
della
libertà senza limiti e senza contenuti,dello scetticismo vantato come
conquista intellettuale,che sembra essere l'atteggiamento dominante nei
popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità.
card. Giacomo Biffi
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Postato da: giacabi a 19:46 |
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nichilismo, biffi
Cristo risorto Signore della Vita
***
Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia,
una potenza infinita dalla quale
-in questo mondo terreno,
nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere,
negli anni, pochi o tanti che siano –
noi mutuiamo, attingiamo letizia.
Perché un uomo,
con la coscienza di tutta la sua pochezza,
è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia:
Gesù è misericordia.
Egli è mandato dal Padre
per farci conoscere
che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo
a misericordia.
(Luigi Giussani)
“Gesù Cristo è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.
Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono
perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il
Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.”
Card.Giacomo Biffi
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Postato da: giacabi a 08:15 |
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cristianesimo, giussani, biffi
Vince chi perde,
la logica della Croce
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da: www.avvenire.it
DI GIACOMO BIFFI
L a rivincita del Crocifisso. L’espressione allude all’evoluzione dello stato d’animo degli apostoli e degli altri amici di Gesù nel corso degli accadimenti che ci hanno salvato. Essi nella morte del Signore hanno visto una catastrofe: una sconfitta totale e senza rimedio per l’insegnamento, l’azione, il prestigio del loro Maestro; e una sconfitta totale e senza rimedio anche per loro stessi. In lui avevano riposto ogni loro speranza; per lui avevano abbandonato la casa, il lavoro, le normali relazioni sociali; su di lui avevano puntato la loro unica vita: avevano lasciato tutto (cf. Mc 10,28). E avevano perso tutto. Ed ecco che arriva quell’inaspettato e incredibile terzo giorno, con il sepolcro scoperchiato e vuoto, con il succedersi incalzante delle manifestazioni del Redivivo, con la ricomparsa (in uno splendore nuovo) del loro antico affascinatore. Quel terzo giorno è stato naturalmente percepito come il «giorno della rivincita»: una rivincita davanti al «clan» e a quei conoscenti che avevano sempre guardato con scetticismo alla loro infatuazione e forse già avevano iniziato a deriderli dopo la fine ingloriosa dell’esperienza intrapresa; una rivincita davanti alle autorità del popolo d’Israele; una rivincita davanti all’umanità intera. La sera del terzo giorno in mezzo a quel gruppo ormai disilluso e sbandato comincia a serpeggiare il sollievo e la sensazione che la bella avventura, con i suoi attori di sempre, sta per ricominciare da capo: davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone! (Lc 24,34). Era una rivincita inaspettata. Tutto ciò è plausibile e possiede una sua verità. Se però l’attenzione si sposta dal dramma come era psicologicamente vissuto da chi era immerso nelle oscure vicissitudini terrene al disegno eterno del Padre, allora (a un livello di conoscenza più alto, più chiaro, più comprensivo) ci si rende conto che bisogna parlare, per tutto quel che è avvenuto, di totale e assoluta «vittoria ». Io ho vinto, aveva subito affermato Gesù poco prima di essere arrestato, al principio del suo percorso di umiliazione, di sofferenza, di morte, di risurrezione, di gloria (Gv 16,33: «Io ho vinto il mondo»). Del resto, egli ci aveva già informato che perfino la sua crocifissione sarebbe stata una vittoria, anzi una «vittoria cosmica» e una conquista dei cuori: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire (Gv 12,3233). La Chiesa, con l’intelligenza donatale dalla Pentecoste, ben presto capisce che tutto quanto si è svolto a Gerusalemme nelle ore più buie della storia è intrinsecamente parte del vittorioso progetto di Dio. (...) Qui si impongono alcune considerazioni generali sull’avvenimento pasquale come ciò che è fondante e costitutivo della nostra essenziale autenticità di credenti in Cristo. Quando all’indomani della Pentecoste gli apostoli partono per annunciare il Vangelo a tutte le genti, su comando del loro Signore e Maestro, non hanno altra religione che quella ebraica, non riconoscono altro Dio che il Dio di Abramo, di Mosè e di Davide, non possiedono altro libro sacro (almeno inizialmente) che la Bibbia degli israeliti: tutti elementi teologici e cultuali che non li distinguevano dal resto della popolazione di Gerusalemme e della Giudea. Che cosa allora era proprio, esclusivo, caratterizzante del Vangelo e della nuova realtà della Chiesa? Era il convincimento e l’annuncio pubblico che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, era risorto, era adesso vivo, era Signore. Questo è ciò che nel cristianesimo è ancora oggi proprio, esclusivo, caratterizzante. «Occorre a questo punto persuadersi che il cristianesimo fin dal suo contenuto primordiale è qualcosa di unico, di decisivo, di imparagonabile. Prima ancora che una religione, una morale, un culto, una filosofia, è un avvenimento: l’avvenimento della risurrezione di Gesù di Nazaret che si fa principio del rinnovamento degli uomini e delle cose. Perciò è intramontabile: le dottrine nascono, fanno fortuna, incantano per decenni e magari per secoli, poi decadono e muoiono. Il fatto cristiano resta, proprio perché è un fatto; e resta indipendentemente dall’accoglienza e dal numero delle adesioni che riceve. Tutte le religioni – oggi si sente dire sempre più spesso – hanno un loro valore che è giusto riconoscere. E si può anche ammetterlo, purché non ci si dimentichi che la realtà cristiana in questo discorso non c’entra. Il cristianesimo, primariamente e per sé, non può essere ridotto a un sistema di convincimenti, di precetti, di riti che interpreta e regola i rapporti tra le creature e il Creatore. Vale a dire, per quanto la frase possa apparire paradossale, primariamente e per sé, non può essere ridotto a 'una religione': collocarlo tra le religioni (anche soltanto per ragioni di sistemazione e di metodo, o per la buona intenzione di favorire il dialogo interreligioso), se non si chiarisce l’intrinseca ambiguità del collegamento o quanto meno il suo significato soltanto analogico, vuol dire travisarlo e precludersi ogni sua autentica comprensione. «La resurrezione del terzo giorno può essere letta come una rivincita dopo la sconfitta; in realtà il trionfo era già nel Venerdì santo» |
Postato da: giacabi a 14:13 |
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cristianesimo, biffi
Giacomo card. Biffi
Una singolare, emozionantee affascinante ricercasulla figura di Gesù CristoUna esplorazione emozionante
Il
mondo interiore dell’uomo è sempre un mistero, che non si riesce mai a
penetrare del tutto. Tanto più ci è difficile accostarci alla ricchezza
dell’animo di Cristo e addentrarci nella sua realtà psicologica.
È
una ricerca singolare, problematica, emozionante, ma anche fascinosa e
ineludibile. Va intrapresa con umiltà e consapevolezza sempre vigile di
quanto siano inadeguate le nostre possibilità conoscitive.
Siamo
però incoraggiati nel compito dall’aiuto decisivo offertoci dagli
evangeli, che del nostro Salvatore ci rivelano - generosamente - sia
pure attraverso testimonianze sparse, occasionali, spesso indirette - i
pensieri, la mentalità, gli affetti, i sentimenti, il temperamento, lo
stile espressivo e comportamentale.
Una grande chiarezza di idee
Ciò
che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria
chiarezza di idee. Tutto è lucida-mente enunciato senza ambiguità o
tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule
dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel
nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono
lontanissimi i vezzi, le civetterie, l’apparente arrendevolezza del
«pensiero debole».
Gesù
manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non
fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e
luminosità del suo insegnamento.
Pur
nella grande varietà degli argomenti toccanti, non c’è frammentazione o
incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato
attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del «Padre»
(un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del
«Regno», traguardo di ogni tensione delle creature e del loro
peregrinare nella storia.
L’attenzione alla concreta realtà umana
In
lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto nelle
sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose,
né del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti
senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un
osservatore attento - anzi interessato e compiaciuto - della realtà
«feriale» nella quale siamo tutti immersi.
Dai suoi detti e dalle sue parabole occhieggiano numerose le normali scenette della vita di allora e di sempre: il bimbo che fa i capricci per avere qualcosa da mangiare, i ragazzi che giocano nelle piazze avvalendosi delle filastrocche tradizionali (Lc 7, 32: «Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”»), il vicino scocciatore che ti disturba perfino di notte e non ti dà pace finché non l’accontenti, la donna che non si rassegna a non trovare la moneta rotolata sotto i mobili, la partoriente che soffre ma poi dimentica i dolori patiti nella gioia di contemplare il piccolo nato da lei, i servi che si danno alla bella vita nell’assenza del padrone, l’amministratore disonesto e furbo, il trambusto di una festa di nozze, i banchieri che offrono un interesse sul capitale, il ladro che scassina la casa senza mandare preavvisi, il viandante che incappa nei rapinatori, i braccianti disoccupati che in piazza aspettano la buona occasione, la casalinga che impasta la farina e poi la lascia lievitare. Eccetera.
Chi
parla così è evidentemente uno che non si è chiuso e arroccato in se
stesso, ma è capace di guardarsi attorno e partecipa con simpatia alla
quotidiana commedia umana.
Le
cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i
piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in
cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il
vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i
danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del
campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade
in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori
che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la
pecora che si allontana dal gregge e si perde. E anche questo è un
elenco che si potrebbe molto allungare.
Quanto
s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza
alcuna con l’ideologo che - tutto preso dalle sue grandiose teorie - non
riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini
spicciole della gente comune.
E
proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte
sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono
di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la
mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci
appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica.
Una volontà forte
Alla
solarità della sua intelligenza e all’efficacia del suo dire fa
riscontro una volontà senza fiacchezza, in grado di operare rapidamente
scelte operative e di attenersi ai propositi stabiliti senza alcuna
titubanza. Ha una missione che ha cordialmente sposato, e non se ne
lascia distogliere.
Talvolta
questa fermezza trapela perfino dall’atteggiamento esteriore. I
circostanti ne sono impressionati, e la narrazione evangelica si sente
in dovere di registrarlo: «Si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,
51). Il testo originale è anche più significativo: to prosopwn
’esterisen tou poreuesqai ’eiV ’Ierrousalem («irrigidì il suo volto per
andare alla volta di Gerusalemme»).
Egli
è un capo che, in certi momenti, andando davanti a tutti sul cammino
che si è prefissato, irradia tanta risolutezza da incutere in chi lo
segue meraviglia, soggezione, inquietudine: «Mentre erano in viaggio per
salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano
stupiti, e gli andavano dietro pieni di timore» (Mc 10, 32).
Libertà di fronte ai parenti e agli oppositori
Gesù si dimostra sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti.
È libero di fronte a quelli del suo «clan», i quali, dopo averlo preso per matto (cfr Mc 3, 21), poi si imma-ginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere i rapporti (cfr Mc 3, 31-34).
È
libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che
cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde
seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Gv 5,17).
Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr Mt 23, 32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Col tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr Lc 13, 32). Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc 12, 14). Libertà dagli amici
Si
mantiene libero - cosa che è senza dubbio più difficile - anche dalle
attenzioni affettuose degli amici quando contrastano con la sua
missione.
Il
caso più tipico e clamoroso è quello di Pietro. A Cesarea di Filippo
l’apostolo si vede elogiato per la sua ispirata professione di fede con
espressioni di ineguagliabile esaltazione. Subito dopo, però, quando si
permette di distogliere il suo Maestro dalla «via della croce», viene
investito da parole durissime: «Pietro lo trasse in disparte e cominciò a
protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà
mai!”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi
sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”» (Mt 16, 21-23).
In
un’ora di crisi, quando egli viene abbandonato da molti discepoli che
non sanno accettare il discorso sulla sua «carne» e sul suo «sangue»
proposti come cibo e bevanda, non cede di un punto, non attenua le sue
affermazioni spigolose per amore del dialogo e di una «comunione senza
verità»: «Gesù disse ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”» (cfr Gv 6, 67). Che è una delle frasi più drammatiche e meno obliabili pronunciate dal Salvatore.
Libertà dai giudizi altrui
Gesù
è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo
preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati, che
la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada,
anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «È venuto il
Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un
beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Mt 11, 19).
Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr Lc 6, 26). La sensibilità dell’ animo
Capita
spesso che uno spirito assolutamente autonomo ed emancipato risulti poi
anche arido, indifferente ai mali altrui, scarsamente sensibile.
Non è il caso di Gesù: in lui la sovrana libertà, che s’è vista, si disposa a una forte emotività e a una estesa gamma di sentimenti.
Per
esempio, di fronte alla strumentalizzazione «teologica» della sventura,
non sa frenare la collera, come si vede nell’episodio dell’uomo dalla
mano rattrappita che gli viene collocato davanti proprio perché egli lo
guarisca in sabato e così lo si possa accusare (cfr Mc
3, 1-6). Allora chiama il poveretto nel mezzo, al cospetto di tutti e,
dice il testo originale, gira sui presenti lo sguardo con rabbia (met'
’orgeV,) rattristato (sullupoumenoV), per la durezza del loro cuore.
La compassione
Con
molta più frequenza gli evangelisti annotano la sua compassione verso
tutte le miserie umane. Lo fanno adoperando costantemente un verbo che
nella sua etimologia evoca una commozione anche fisica splagkuixesqai («sentir compassione»), da splagkna («viscere»).
È uno stato d’animo che prende il Salvatore all’udire il lamento accorato dei due ciechi di Gerico (Mt 20, 34: «Gesù si commosse»); al vedere l’angoscia di una madre che segue il funerale del suo unico figlio giovinetto (Lc 7, 13: «Vedutala il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”»); nel rendersi conto che c’è una folla affamata (Mc
8, 1: «Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi
stanno dietro e non hanno da mangiare»); nel contemplare un’umanità
dispersa e smarrita (Mc 6, 34: «Vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore»).
L’ amicizia
Gesù ha molto vivo il senso dell’amicizia con tutte le sue diverse gradazioni di intensità.
Suoi «amici» egli chiama gli apostoli (cfr Gv 15, 5). Ed è un’amicizia attenta e premurosa, tanto che si preoccupa del loro eccessivo affaticamento: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6, 31). Tra i Dodici si sente più intimo di Pietro, Giacomo e Giovanni, e li vuole vicini sia nell’ora splendente della Trasfigurazione (cfr Mc 9, 28) sia in quella penosissima del Getsemani (cfr Mc 14, 32-42). Al solo Giovanni è stata attribuita la qualifica: «il discepolo che Gesù amava» (cfr Gv 13, 23; 19, 5; 20, 2; 21, 7.20).
Al
di fuori della cerchia apostolica è testimoniato il grande affetto da
lui nutrito per i componenti della famiglia di Betania: «Gesù voleva
molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro» (Gv 11,5).
I bambini e le donne
Era
nota l’amabilità di Gesù verso i bambini: «Gli presentavano i
bambini...perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al
vedere questo, s’indignò (letteralmente: “non lo poté sopportare”
«’hganakthsen») e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non
glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. E
prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li
benediceva» (Mc 10, 13-16).
Manifesta molta gentilezza d’animo verso le donne e più di una volta interviene a loro difesa.
Salva dalla lapidazione la sconosciuta sorpresa in adulterio (cfr Gv 8, 1-11), loda, contro i pensieri maligni del padrone di casa, la peccatrice che durante un banchetto offertogli da un fariseo aveva osato venire a profumarlo e a bagnarlo con le sue lacrime (cfr Lc 7, 36-50); ribatte seccamente a Giuda e agli altri commensali che criticavano Maria, la sorella di Lazzaro, per il suo gesto inatteso e la sua prodigalità: «Lasciatela stare! Perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona...» (cfr Mc 14, 6). Il pianto e la gioia
Sono
eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé. È
tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di
rovesciargli la barca (cfr Mc 4,
35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi
ipnotizza la folla inferocita di Nazareth che si propone di ucciderlo:
«Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono
fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la
loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli,
passando in mezzo a loro, se ne andò» (Lc 4, 28-30).
Non
è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa
un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie
emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto,
come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro:
«Quando la vide piangere... si commosse profondamente»; anzi «si turbò»,
precisa l’evangelista (cfr Gv
11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto»
anche lui, tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr Gv 11, 35-36).
Contemplando
dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa
frenare le lacrime: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su
di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la
via della pace”» (cfr Lc 10, 42-42).
Ma
sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei
discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di
evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia... In quello
stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo
lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr Lc 10, 17-21).
Gesù
era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che
sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che
sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro
dal piacere con cui i pubblicani - che erano di solito gaudenti e
bontemponi - l’accoglievano alla loro mensa.
Quando
aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva
fattivamente a sostenerla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di
rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni
troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo.
Attenendosi
appunto all’esempio del Signore, san Paolo enuncerà per i cristiani la
regola aurea di comportamento: «Rallegratevi con quelli che sono nella
gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 15).
La « ebraicità » di Gesù
Tanta
pienezza di umanità potrebbe indurre a ritenerlo un soggetto così
superiore e ideale da trascendere ogni catalogazione antropologica e
ogni specificazione etnica e culturale: quasi un apolide senza
appartenenza e senza nessi. Ma non saremmo nel giusto.
Egli
ragiona, parla, agisce da autentico figlio d’Israele. La sua
«ebraicità» è fuori discussione. Chi non la cogliesse, non potrebbe dire
di aver raggiunto la sua effettiva verità: ne risulterebbe un identikit
di Cristo alterato e improbabile.
La
mentalità, la concezione generale, il linguaggio del Nazareno sono
quelli tipici del suo popolo. Sulle sue labbra le citazioni bibliche
tornano spontanee e frequenti. I nomi più noti e più cari ai suoi
connazionali - Abramo, Mosè, Davide, Salomone, Isaia, Giona - infiorano
con naturalezza i suoi discorsi.
Egli padroneggia la dialettica peculiare dei rabbini e se ne avvale nelle sue dispute, come quando riduce al silenzio scribi e farisei partendo dalla loro stessa interpretazione del salmo 110 (cfr Mc 12, 35-37; Mt 22, 41-46). Lo stile semitico
Lo
stile dei suoi discorsi è quello dei testi letterari semitici. Perciò
le sue frasi sono spesso scandite sullo schema (usuale nella poesia
ebraica) del «parallelismo», nelle sue variazioni. Citiamo solo qualche
esempio.
Parallelismo semplice
«Il discepolo non è da più del maestro / né un servo da più del suo padrone» (Mt 10, 24). «Il calice che io bevo voi lo berrete, / e il battesimo che io ricevo voi lo riceverete» (Mc 10, 39).
Parallelismo antitetico.
«Ogni
albero buono produce frutti buoni / e ogni albero cattivo produce
frutti cattivi; / un albero buono non può produrre frutti cattivi / né
un albero cattivo produrre frutti buoni» (Mt 7, 17-18).
Parallelismo strofico.
«Chiunque
ascolta queste mie parole e le mette in pratica, / è simile a un uomo
saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. / Cadde la pioggia,
strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su quella
casa / ed essa non cadde / perché era fondata sulla roccia. / Chiunque
ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, / è simile a un
uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. / Cadde la
pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su
quella casa / ed essa cadde, / e la sua rovina fu grande» (Mt 7, 24-27).
Il « cuore »
Anche
il cuore di Gesù è un cuore di ebreo. Egli ama in modo particolarmente
intenso e privilegiato la sua terra e il suo popolo: alla sua terra e al
suo popolo egli si sente primariamente inviato: «Non sono stato inviato
che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt
15, 24). Alla sua terra e al suo popolo è destinata la prima
provvisoria missione degli apostoli, che ricevono a questo proposito
istruzioni limitative precise: «Non andate fra i pagani e non entrate
nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute
della casa d’Israele» (Mt 10, 5-6).
E abbiamo già visto come il pensiero della futura fine della città di Davide lo commuove fino alle lacrime (cfr Lc 10, 41-42).
Un « integrato »
Egli
è un israelita osservante, che onora tutte le tradizioni legittime
della nazione. Ogni sabato frequenta, come tutti, la sinagoga. Celebra
ogni anno la Pasqua
secondo il rito prescritto. Paga, come tutti, la tassa a favore del
tempio: «Si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio
e gli dissero: “Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?”.
Rispose: “Sì”» (cfr Mt 17, 24-25).
Ogni
tanto c’è qualcuno che si compiace di annoverare Gesù tra i
rivoluzionari politici o gli agitatori sociali; ma le testimonianze ci
persuadono piuttosto del contrario. A volerlo denominare con il
vocabolario della moderna ideologia eversiva, si dovrebbe piuttosto
qualificarlo un «integrato».
Rispetta
ogni ordinamento, persino la prescrizione che attribuiva ai sacerdoti
la funzione di autorità sanitaria nell’accertamento della guarigione dei
lebbrosi: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (cfr Lc
17, 14). E non intende affatto sostituirsi a chi è preposto
all’amministrazione della giustizia ordinaria: «Uno della folla gli
disse: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma
egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di
voi?”» (Lc 12. 13-14).
La
sua «integrazione» è così attesa e totale, che evita di lasciarsi
coinvolgere nella contestazione della presenza romana sul suolo
giudaico; e anzi riconosce, almeno praticamente, il diritto
dell’invasore di imporre la propria moneta e di riscuotere un tributo
(cfr Mc 12, 13-17).
Il problema finanziario
Diversamente
da ciò che talvolta è stato affermato, Gesù da buon ebreo non demonizza
il denaro. Lo rispetta e si preoccupa anzi di dare alla sua attività
una realistica base finanziaria.
La sua piccola comunità ha un cassiere regolarmente designato (cfr Gv 12, 6; 13. 29), e si appoggia a una specie di
«istituto per il sostentamento del clero»: «C’erano con lui i Dodici e
alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità:
Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna,
moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li
assistevano con i loro beni» (Lc 8, 1-3).
La « ricompensa nei cieli »
Gesù
dimostra la «ebraicità» della sua «forma mentis» persino trattando
della vita dello spirito e del rapporto con il Creatore vindice di ogni
giustizia.
Egli
non si dimentica mai di prospettare il «guadagno» (sia pure un guadagno
ultraterreno) come incitamento al bene agire: «Grande è la vostra
ricompensa nei cieli» (cfr Mt 5, 2; Lc
6, 23). Si preoccupa di informarci che il Dio vivo e vero non è un
seguace dell’etica kantiana; e dunque non ritiene che il disinteresse
sia la connotazione essenziale e necessaria della bontà morale di un
comportamento: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»
(cfr Mt 6, 4.6.17).
Tratto da: L'OSSERVATORE ROMANO 19 novembre 1999
|
Postato da: giacabi a 18:52 |
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gesù, biffi
Gesù Cristo
è un avvenimento del presente
Premessa: ho accettato l'invito a parlare di Gesù Cristo perché è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.
Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono
perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il
Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.
Io
ho puntato su di lui la mia vita, l'unica vita che ho; e quindi sento
il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare
l'identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ogni
tanto sul giornale c'è qualcuno che fa qualche scoop su di lui, ogni
tanto si inventano e si danno interpretazioni su chi sia Gesù Cristo, ma
gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di Lui.........Card.Giacomo Biffi
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