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sabato 4 febbraio 2012

Biffi


Il dovere della verità
***
Ma la questione di Cristo appare oggi annebbiata dalla confusione che avvolge un po’ tutti: confusione religiosa, confusione ecclesiale, confusione ideologica.
C’è chi identifica il dovere del dialogo, della tolleranza, anzi della cortesia verso tutti con la rinuncia a cercare, a conoscere, a difendere la verità. C’è chi scambia la benevolenza che dobbiamo avere per tutti gli uomini e il desiderio che tutti arrivino alla salvezza, con la disponibilità comoda e deplorevole a lasciare che tutti restino tranquillamente nelle tenebre e nell’ombra della morte" (cf Lc 1,79).
E c’è chi, non volendo assumersi la responsabilità e l’impegno di decidere, si rifugia nel relativismo (che ritiene che tutte le convinzioni siano interscambiabili, come i posti sull’autobus) e si persuade che si possa scegliere a piacimento tra una religione e l’altra, e addirittura tra la verità e l’errore, così come si sceglie tra l’andare in vacanza al mare e l’andare in montagna.

Gesù ha detto: "Chi non è con me, è contro di me": dunque o gli si dice di sì o gli si dice di no.
Card. Biffi

Postato da: giacabi a 14:47 | link | commenti
verità, biffi

domenica, 22 maggio 2011
***
 
[…] Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino. Pinocchio dunque non è frutto del caso. È stato vagheggiato e voluto prima ancora di esistere; anzi esisterà appunto in forza di questa meditata decisione.
L’osservazione non è marginale. Direi addirittura che l’appurare se l’uomo sia il risultato del fortuito confluire di forze senz’anima o se ci sia all’origine della sua esistenza una deliberazione consapevole, è problema previo a ogni altro. Non mi riesce proprio di capire come possa una creatura passabilmente ragionevole impegnarsi a risolvere le questioni scientifiche, economiche, psicologiche, prima di aver trovato una risposta a questa questione. Qui ci sarebbe davvero da parlare di alienazione.
Certo, molti si addentrano e si rinchiudono in quelle ricerche perché ritengono irresolubile, e perciò vano, il “problema previo”. In questo caso però l’alienazione non è minore, è soltanto più disperata.
Tanto più che la questione dell’origine diventa per forza la questione di come vivere oggi: se io fossi convinto che la mia storia di uomo è cominciata per caso, non ci sarebbe ragione al mondo di non abbandonare al caso anche il suo proseguimento. Non vedo perché io debba interferire con l’intelligenza e la volontà in una avventura che si è avviata senza l’intervento di nessuna intelligenza e nessuna volontà.

(G. Biffi, Contro maestro Ciliegia, Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, Milano, 1977

Postato da: giacabi a 16:54 | link | commenti
biffi

lunedì, 02 agosto 2010

Il vero Risorgimento.…

Cle­lia nasce l’anno prima del tur­bo­lento 1848, che è indi­cato nei libri di sto­ria patria come quello della prima guerra di indi­pen­denza; e muore nel 1870, qual­che mese avanti l’ingresso dei ber­sa­glieri in Roma per la brec­cia di Porta Pia. Dei pro­ta­go­ni­sti dei radi­cali scon­vol­gi­menti che por­ta­rono all’Unità d’Italia – di Vit­to­rio Ema­nuele II, di Cavour, di Gari­baldi, di Maz­zini – la sto­rio­gra­fia con­sueta ci rac­conta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo sem­plice abbia vis­suto que­gli avvenimenti.
Nel pome­rig­gio di dome­nica 9 aprile 1989 (il giorno indi­men­ti­ca­bile della cano­niz­za­zione di Cle­lia Bar­bieri) Gio­vanni Paolo II, rice­vendo i pel­le­grini bolo­gnesi nell’Aula Paolo VI, definì la pre­senza spi­ri­tual­mente inci­siva e feconda della nuova Santa in mezzo alla sua gente «un vero risor­gi­mento al fem­mi­nile». In quel con­te­sto la parola era inso­lita e giun­geva del tutto inat­tesa. Metto conto adesso di rac­co­glierla e di farne oggetto di un po’ di atten­zione, per­ché ci avvii a una miglior cono­scenza di que­sto «can­dido fiore, che la nostra terra ha rega­lato al cielo» (Pro­prio bolo­gnese della Litur­gia delle ore). Tanto più che c’è una curiosa coin­ci­denza: i giorni della breve esi­stenza di que­sta «figlia del brac­ciante», assurta agli onori degli altari, si col­lo­cano esat­ta­mente nello spa­zio della vicenda nazio­nale che noi chia­miamo appunto «Risorgimento».
Cle­lia nasce l’anno prima del tur­bo­lento 1848, che è indi­cato nei libri di sto­ria patria come quello della prima guerra di indi­pen­denza; e muore nel 1870, qual­che mese avanti l’ingresso dei ber­sa­glieri in Roma per la brec­cia di Porta Pia. Dei pro­ta­go­ni­sti dei radi­cali scon­vol­gi­menti che por­ta­rono all’Unità d’Italia – di Vit­to­rio Ema­nuele II, di Cavour, di Gari­baldi, di Maz­zini – la sto­rio­gra­fia con­sueta ci rac­conta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo sem­plice abbia vis­suto que­gli avve­ni­menti. Doman­dia­moci, allora, per una volta: dell’imponente muta­zione di regime la gente per­si­ce­tana (per esem­pio alle Budrie) che cosa ha per­ce­pito nell’umile con­cre­tezza della sua oscura esi­stenza? Ha assi­stito con animo più sbi­got­tito che par­te­cipe a tante impre­ve­dute novità, che dovet­tero sem­brare abba­stanza inspie­ga­bili. Nelle aule sco­la­sti­che l’immagine mite e fami­liare della Madonna di San Luca fu sosti­tuita dal fiero e baf­futo ritratto di un re fore­stiero. Pro­prio in que­gli anni il gio­vane stato uni­ta­rio decise di impa­dro­nirsi di molte pro­prietà che erano a ori­gi­na­ria desti­na­zione reli­giosa. E, come spesso capita in que­sto mondo, invece dei ladri, si met­te­vano in pri­gione i derubati.
Fu così che Cle­lia e i suoi com­par­roc­chiani ebbero il sor­pren­dente spet­ta­colo dell’arresto e della par­tenza per il car­cere di don Gae­tano Guidi, il pastore da tutti ben­vo­luto e sti­mato. In occa­sione della guerra del 1866 – Cle­lia aveva dician­nove anni – la chiesa più impor­tante del ter­ri­to­rio, la col­le­giata di San Gio­vanni, venne requi­sita e per più di un mese fu adi­bita a magaz­zino da parte delle auto­rità mili­tari che per le loro neces­sità non ave­vano pro­prio saputo imma­gi­nare altre solu­zioni. Nello stesso torno di tempo, l’arcivescovo di Bolo­gna fu dal nuovo governo impe­dito per ven­ti­due anni (dal 1860 al 1882) di occu­pare la sua legit­tima sede e di eser­ci­tare libe­ra­mente il suo mini­stero. In con­se­guenza della coscri­zione obbli­ga­to­ria, furono sot­tratti ai lavori dei campi e chia­mati alle armi quei poveri con­ta­dini, ai quali per altro non era con­sen­tito di votare. Per non par­lare dell’inaudita ed ese­crata tassa sul maci­nato, a pro­po­sito della quale il comando gene­rale di Bolo­gna ebbe il bel pen­siero di togliere il batac­chio alle cam­pane di quei paesi; cam­pa­gne col­pe­voli di avere tal­volta accom­pa­gnato e inco­rag­giato gli assem­bra­menti di pro­te­sta dei col­ti­va­tori esa­spe­rati. Si era nel 1869, l’anno prima della morte della nostra Santa.
Que­sto, o poco più di que­sto, è stato il Risor­gi­mento nazio­nale visto dal basso, dalla paziente uma­nità che sten­tava la vita sotto l’argine del Samog­gia. In que­sto clima depresso e ran­nu­vo­lato Cle­lia è apparsa come un rag­gio di sole. Que­sta ragazza, ger­mi­nata dalla loro anima e dalla loro cul­tura più vera, è apparsa alle genti di quella terra come il segno di una spe­ranza nuova, come il pre­sen­ti­mento che qual­cosa potesse dav­vero comin­ciare a «risor­gere». Ed era, per così dire, un «risor­gi­mento al fem­mi­nile». Si trat­tava di una gio­vane donna che non orga­niz­zava riven­di­ca­zioni, non pre­ten­deva posti diret­tivi nella società, non pen­sava affatto di rea­liz­zarsi assu­mendo com­piti e respon­sa­bi­lità tipi­ca­mente maschili. Pro­prio con la sua natu­rale e intatta fem­mi­ni­lità è diven­tata nel breve spa­zio della sua esi­stenza il rife­ri­mento più indi­scusso, la voce più ascol­tata, la «madre» della pic­cola comu­nità rurale in cui era inse­rita. E dopo la morte la sua fede e la sua straor­di­na­ria capa­cità di amare – restando tipi­ca­mente e total­mente «fem­mi­nili» – si sono impo­ste all’attenzione ammi­rata di tutta la Chiesa. È un inse­gna­mento pre­zioso da non dimen­ti­care. Il pieno riscatto della con­di­zione fem­mi­nile non starà nell’opporre all’egoismo dell’uomo l’egoismo della donna, ma nell’aprirsi senza riserve da parte degli uomini e delle donne all’unico dise­gno di Dio. Così come la sal­vezza dei nostri gio­vani – ed è un altro inse­gna­mento di que­sta gio­vane santa – non verrà dalla mol­ti­pli­ca­zione degli agi e delle occa­sioni di godi­mento (e tanto meno dall’accondiscendenza senza limiti e dal per­mis­si­vi­smo), ma dalla seria risco­perta della verità e della bel­lezza della vita vis­suta in obbe­dienza al pro­getto eterno del Crea­tore. Que­ste sono le più signi­fi­ca­tive lezioni esi­sten­ziali che ci ven­gono da santa Clelia.
scritto dal card. Gia­como Biffi  (Da L’Avvenire, Mar­tedi 13 Luglio 2010, Inserto Cul­tura) fonte : dio­cesi di San Marino
 http://www.vietatoparlare.it/2010/07/19/il-vero-risorgimento/

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risorgimento, biffi

venerdì, 17 ottobre 2008
Il dossettismo
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Una delle occasioni più stimolanti è stata una serata trascorsa con Giuseppe Dossetti. Egli stava già staccandosi dalla politica attiva (...) Quella sera ci ha intrattenuto su quello che, a suo avviso, era il problema più rilevante, anzi lo scopo stesso del l’impegno politico: come associare il più compiutamente possibile gli individui alla vita dello Stato?
C’è una partecipazione elementare e previa – egli diceva – e si ha con le periodiche consultazioni elettorali. Ma non basta: non è sufficiente che il cittadino esprima ogni cinque anni il suo parere, intervenendo nella designazione del corpo legislativo e, indirettamente, del governo della nazione. Il coinvolgimento del singolo deve essere continuo, quasi quotidiano, in modo che tutti i problemi comuni, che via via si presentano, siano affrontati e risolti con l’apporto determinante di tutti.
Lo strumento attuativo di questo collegamento permanente tra la base e il vertice – così affermava – è il partito; anzi, i partiti, dal momento che non siamo nello Stato sovietico. Ne deriva, se si vuol costruire una società pienamente democratica, la necessità per ognuno di noi di appartenere a un partito di sua libera scelta, non solo iscrivendosi, ma anche intervenendo senza pause nella sua attività, contribuendo ai suoi interni dibattiti in vista della formazione di una linea di condotta concordata, coinvolgendosi insomma nell’intera sua esistenza (...)
A un’analisi successiva più meditata il progetto schematico offertoci quella sera ci è apparso tipico più di un ideologo, che non sente il bisogno di uscire dalla cerchia delle sue intuizioni, che non di un politico che non perde mai di vista la realtà effettuale (...)
L’approdo di queste “attenzioni” dossettiane non era appagante. Il risultato era una visione delle cose che nella pubblica convivenza metteva in rilievo solo tre fattori determinanti: lo Stato, il partito, il singolo. Ciò che appariva del tutto assente dall’analisi di Dossetti era la “società”: la società con i suoi raggruppamenti spontanei e le sue libere aggregazioni, che logicamente e spesso anche storicamente precedono non solo i partiti ma lo Stato stesso, come è il caso per esempio della famiglia. In una parola, non c’era traccia del «principio di sussidiarietà». C’è da dire che questa «dimenticanza» non era solo di Dossetti: era di tutta quella giovane area cattolica, consapevole e lungimirante, che a partire dal declino del fascismo fino alla Costituente ha cercato di elaborare una cultura politica in grado di affrontare il mondo nuovo, che stava sorgendo dalle macerie della dittatura e della guerra.
Di fatto, anche per l’autorevolezza e il prestigio di Dossetti questo approccio alla problematica civile e sociale, con questa deplorevole negligenza, è stato condiviso da tutte le forze considerate «più aperte» fino ai nostri giorni. Questa assenza di un punto qualificante della dottrina sociale cattolica (o almeno questa scarsa considerazione) è uno dei limiti più vistosi del dossettismo politico e dei movimenti che poi vi si sono ispirati e vi si ispirano.
Cardinal Biffi



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biffi

domenica, 17 agosto 2008
Sulla visione cristiana di Pinocchio
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Contro maestro Ciliegia
Che cosa in realtà ha espresso il Collodi nel suo più celebre libro, di là dalle sue intenzioni consapevoli e dichiarate?
Non ha espresso nessuna delle ideologie correnti, che erano tutte ignote ai suoi destinatari e che d'altronde non erano più pacificamente accettate nella profondità della sua coscienza. E sarà sempre una prevaricazione dare di Pinocchio delle spiegazioni ideologiche di qualunque tendenza e di qualunque colore, come di fatto sono state date: conservatorismo moralistico, liberalismo illuministico, pauperismo, marxismo, psicanalismo ecc.
Non le ideologie ma la verità, di sua natura universale ed eterna, è contenuta in questo magico racconto e, servita com'era da un'alta fantasia e da una fresca ispirazione poetica, spiega la sua rapida affermazione e il suo duraturo trionfo.
Ma, per non lasciare nel vago le nostre affermazioni, quali sono specificamente le verità che senza possibilità di discussione, traspaiono nella storia del burattino?
Sono sette quelle che reggono e illuminano tutta la vicenda.

a)
Il mistero di un creatore che vuole essere padre

Pinocchio, creatura legnosa, origina dalle mani di chi è diverso da lui; è costruito come una cosa, ma dal suo creatore è chiamato subito figlio. C'è qui l'arcano di un'alterità di natura, superata da uno strano, gratuito, imprevedibile amore.
Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal padre.
E proprio la fuga dal padre è vista come la fonte di tutte le sventure; così come il ritorno al padre è l'ideale che sorregge Pinocchio in tutti i suoi guai, costituendo infine l'approdo del tormentato viaggio e la ragione della raggiunta felicità.

b)
Il mistero del male interiore

In questo libro è acutissimo il senso del male. E il male è in primo luogo scoperto dentro il nostro cuore. Non è un puro difetto di conoscenza, come nell'illuminismo socratico; non è risolto tutto nella iniquità o nella insipienza delle strutture, come nell'ideologia liberalborghese in polemica con l'Ancien Régime o nell'ideologia marxista in polemica con la società liberalborghese. «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21).
Pinocchio sa che cosa è il suo bene, ma sceglie sempre l'alternativa peggiore (Vedi, c. 9: a scuola o al teatro dei burattini?; cc. 12 e 18: a casa o al campo dei miracoli col gatto e la volpe; cc. 27: a scuola o alla spiaggia a vedere il pescecane?; c. 30: dalla Fata o al Paese dei balocchi? ). Soggiace chiaramente alla narrazione di queste sconfitte la persuasione della «natura decaduta», della «libertà ferita», della incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia, espresso nelle famose parole: «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19).

c)
Il mistero del male esteriore all'uomo

La nostra tragedia è aggravata dal fatto che sono all'opera, esteriormente a noi, le potenze del male. Esse non sono viste come forze impersonali, quasi oggettivazioni delle nostre inclinazioni malvagie o dei nostri squilibri, ma come esseri astuti e intelligenti che si accaniscono inspiegabilmente ed efficacemente contro la nostra salvezza.
Nella fiaba queste forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe e raggiungono il vertice della intensità artistica e della lucidità speculativa nell'Omino, corruttore mellifluo, tenero in apparenza, perfido nella realtà spaventosa e stupenda raffigurazione del nostro insonne Nemico:
«Tutti la notte dormono, e io non dormo mai» (c. 31).

d)
Il mistero della mediazione redentiva

L'ideologia illuministica aveva diffuso nel mondo l'orgogliosa affermazione dell'autoredenzione dell'uomo: l'uomo può e deve salvare se stesso, senza alcun aiuto dall'alto.
Tutta la seconda parte del libro (dal c. 16 in avanti, che si potrebbe considerare quasi il Nuovo Testamento di questa specie di Bibbia) è costruita per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente debole e ferito, esteriormente insidiato da intelligenze maligne più astute di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo col padre, di riportarlo a casa, di dargli un essere nuovo.
Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l'esistenza di questa salvezza che è donata dall'alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle
.

e) Il mistero del padre, unica sorgente di libertà

La scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione è anch'essa una cifra: è il simbolo dell'uomo, che è da ogni parte condizionato, che è schiavo degli oppressori prepotenti e dei persuasori occulti, che è legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà.
Il burattinaio di turno può anche essere soppresso dall'una o dall'altra rivoluzione, ma fino a che la creatura umana resta solitaria marionetta, ogni burattinaio estinto avrà fatalmente un successore.

Pinocchio non può restare prigioniero del teatrino di Mangiafuoco, perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. Il senso del padre è dunque la sola sorgente possibile della liberazione dalle molteplici, cangianti e sostanzialmente identiche tirannie che affliggono l'uomo.

f) Il mistero della trasnaturazione

Pinocchio riesce a raggiungere la sua perfetta libertà interiore e a realizzarsi perfettamente in tutte le sue virtualità soltanto quando si oltrepassa e arriva a possedere una natura più alta della sua, la stessa natura del padre. È la realizzazione sul piano dell'essere della vocazione filiale con la quale era cominciata tutta la storia.
Noi possiamo essere noi stessi soltanto se siamo più di noi stessi, per una arcana partecipazione a una vita più ricca; l'uomo che vuole essere solo uomo, si fa meno uomo.

g
) Il mistero del duplice destino

La storia dell'uomo, come è concepita e narrata in questo libro, non ha un lieto fine immancabile. Gli esiti possibili sono due:
se Pinocchio si sublima per la mediazione della Fata nella trasnaturazione che lo assimila al padre, Lucignolo — che non è raggiunto da nessuna potenza redentrice — s'imbestia irreversibilmente. La nostra vicenda può avere due opposti finali: o finisce in una salvezza che eccede le nostre capacità di comprensione e di attesa, o finisce nella perdizione.

Verità cristiane

Queste sette convinzioni, si è visto, sono affermate e concIamate dal libro, e non so come sia possibile con qualche ragionevolezza dubitarne.
Orbene, è anche fuori dubbio che esse siano sette fondamentali verità della visione cristiana, e cioè:
a.  La nostra origine da un Creatore e la nostra vocazione a diventare suoi figli
b.  Il peccato originale e la decadenza della nostra volontà che da sola non sa resistere al male
c.  Il demonio, creatura intelligente e malvagia, che lavora alla nostra rovina
d.  La mediazione salvifica di Cristo, come unica possibilità di salvezza
e.  Il senso di Dio, fondamento della dignità umana e della nostra libertà di fronte a qualsivoglia oppressione
f.  Il dono della vita di grazia, che ci fa partecipi della natura di Dio
  1. I due diversi destini eterni tra i quali siamo chiamati a decidere.
Il Collodi che sazio delle ideologie si rivolge ai ragazzi d'Italia, con felice intuito di artista riscopre nell'anima dei destinatari l'unica concezione della realtà che accomunava tutti gli abitanti della penisola, prima che l'unificazione politica li dividesse nel profondo ed erigesse tra loro le barriere avverse delle ideologie.
I ragazzi italiani del 1881 potevano certo avere padri e zii clericali o anticlericali, cattolici intransigenti o conciliatoristi, filo-sabaudi o repubblicani, liberali o socialisti; ma nessuna di queste contrapposizioni li toccava minimamente. I ragazzi italiani del 1881 avevano come sola chiave interpretativa della realtà la concezione che potevano desumere dalle preghiere delle loro mamme e delle loro nonne, dagli affreschi e dalle vetrate delle loro chiese, dalle spiegazioni del vangelo del loro parroco, dal catechismo studiato per la prima comunione, dalle espressioni popolari della sapienza cristiana. I ragazzi italiani del 1881 non conoscevano ideologie, conoscevano la verità.
E il Collodi, entrando in comunione di spirito con loro in virtù della capacità penetrativa della sua arte, riconquista senza volerlo e probabilmente senza saperlo la verità della sua primissima giovinezza, la verità che aveva dato a sua madre la forza di vivere, la verità che ogni cuore umano non prevenuto percepisce d'istinto come la loro luce che salva. Si è in modo singolare avverata per lui la parola profetica del Signore Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 4).

Conclusione

E' dunque una lezione di vita che possiamo imparare: le ideologie. possono servire per far politica, per arricchire, per far carriera, per organizzare meglio l'esteriorità della vita terrena, per assicurarsi onori e vantaggi, per avviare rivoluzioni che lasciano la sostanza delle cose come prima, per intraprendere liberazioni che di solito si risolvono in un cambio di schiavitù; ma per la salvezza dell'uomo come uomo non servono. Per la salvezza occorre la verità: la verità sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza e sulla sua insignificanza, sulla felicità e sul dolore, sulla possibilità di speranza e sulla disperazione, sulla nostra origine e sul nostro ultimo destino.
La salvezza comincia quando l'uomo si rende conto che la sua vera alienazione sta nel rifugiarsi nell'una o nell'altra ideologia per la paura di misurarsi con la verità, e comincia a capovolgere questo mortificante processo. E' l'insegnamento più elevato e più utile che si possa trarre dalla vicenda umana di Carlo Lorenzini detto Collodi e dal «caso» letterario de «Le avventure di Pinocchio».

 Cardinale Giacomo Biffi, Le verità fondamentali di «Pinocchio»
da Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio, Jaca Book, Milano, 1977

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biffi

Sulla visione cristiana di Pinocchio
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“Il problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella "analogia" e di quella "concordanza" di cui si parlava. Il volume da me pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l'esposizione analitica dell'intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.
1.    La prima corrispondenza che si impone riguarda la concezione della storia del mondo e dell'uomo. Nell'Orlando Furioso - cui Pinocchio è stato giustamente paragonato per la felice arbitrarietà degli accadimenti e l'indole quasi marionettistica dei personaggi - la vicenda non ha un inizio necessario né una fine obbligata: il poema potrebbe cominciare e concludersi in qualsivoglia punto, senza che l'economia generale dell'opera ne risulti alterata. È la visione del paganesimo greco: la storia è una interminabile tela di Penelope. Qui invece c'è un avvio (creazione e fuga dal creatore) che è la premessa indispensabile e il senso di tutto ciò che poi avviene: c'è lo sviluppo di un dramma in cui si determina la scelta tra due opposti destini (quello di Pinocchio e quello di Lucignolo); c'è una "escatologia" conclusiva (ritorno al Padre e trasnaturazione). Vale a dire, qui c'è esattamente la prospettiva cristiana.

2. Pinocchio all'origine non è "generato", è "costruito": c'è dunque una eterogeneità di natura col "costruttore". Ma il "costruttore" lo chiama subito "figlio". Il Creatore misteriosamente vuol essere anche "padre", in questo modo viene immessa nella creatura l'aspirazione a oltrepassare l'alterità e a elevarsi ontologicamente. È la verità della "vocazione soprannaturale": colui che è stato fatto dal niente è destinato a partecipare nella vita di grazia alla natura divina

3. La nostra libertà è una libertà ferita. Pinocchio in tutte le occasioni capisce sempre qual è la cosa giusta da fare e la vorrebbe, ma sceglie infallibilmente la cosa sbagliata. È l'incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia in virtù del solo libero arbitrio, come è denunciata da san Paolo: "Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rm 7, 29).

4. La drammaticità della nostra condizione è accresciuta per la presenza attiva di forze estranee che spingono al male. Esse sono raffigurate primariamente dal Gatto e la Volpe, ma raggiungono la migliore e più efficace rappresentazione nell'Omino, corruttore mellifluo che conduce i ragazzi al Paese dei Balocchi. Non c'è in tutta la letteratura della cristianità immagine del demonio più intelligentemente effigiata. Tenero in apparenza, perfido nella realtà, è il nostro insonne nemico: "Tutti la notte dormono, e io non dormo mai" (Pinocchio c. 1).
5. L'ideologia illuministica aveva diffuso l'orgogliosa affermazione di una possibile "autoredenzione" dell'uomo. Ebbene, tutta la seconda parte di questo libro (dal capitolo 16 alla fine) parrebbe costruita proprio per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente svigorito, esteriormente insidiato da esseri maligni più astuti di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza nonostante la sincerità dei suoi sforzi, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo al padre, di riportarlo a casa, di dargli una nuova natura. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini manifesta appunto questa necessaria mediazione salvifica, che secondo la fede è svolta dal Figlio di Dio fatto uomo, il quale prolunga la sua azione nella storia per mezzo della Chiesa. "

 Cardinale Giacomo Biffi, Conferenza tenuta a Collodi venerdì 16 aprile 1999 tratto dall'Osservatore Romano del 17 aprile 1999

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biffi

sabato, 14 giugno 2008
La “cultura del niente
***

 Io credo che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana.
Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”,
della libertà senza limiti e senza contenuti,dello scetticismo vantato come conquista intellettuale,che sembra essere l'atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità.

card. Giacomo Biffi

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nichilismo, biffi

domenica, 23 marzo 2008
Cristo risorto Signore della Vita
***
 
Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia,
una potenza infinita dalla quale
-in questo mondo terreno,
nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere,
negli anni, pochi o tanti che siano –
noi mutuiamo, attingiamo letizia.

Perché un uomo,
con la coscienza di tutta la sua pochezza,
è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia:
Gesù è misericordia.

Egli è mandato dal Padre
per farci conoscere
che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo
a misericordia.
(Luigi Giussani)
Gesù Cristo è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.”
Card.Giacomo Biffi

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cristianesimo, giussani, biffi

venerdì, 14 marzo 2008
Vince chi perde,
la logica della Croce
***
da: www.avvenire.it
DI GIACOMO BIFFI
 
L a rivincita del Crocifisso. L’e­spressione allude all’evoluzio­ne dello stato d’animo degli a­postoli e degli altri amici di Gesù nel corso degli accadimenti che ci han­no salvato. Essi nella morte del Si­gnore hanno visto una catastrofe: u­na sconfitta totale e senza rimedio per l’insegnamento, l’azione, il pre­stigio del loro Maestro; e una scon­fitta totale e senza rimedio anche per loro stessi. In lui avevano riposto ogni loro speranza; per lui avevano abbandonato la casa, il lavoro, le normali relazioni sociali; su di lui a­vevano puntato la loro unica vita: a­vevano lasciato tutto (cf. Mc 10,28).
  E avevano perso tutto. Ed ecco che arriva quell’inaspettato e incredibile terzo giorno, con il sepolcro scoper­chiato e vuoto, con il succedersi in­calzante delle manifestazioni del Re­divivo, con la ricomparsa (in uno splendore nuovo) del loro antico af­fascinatore. Quel terzo giorno è stato naturalmente percepito come il «
giorno della rivincita»: una rivincita davanti al «clan» e a quei conoscenti che avevano sempre guardato con scetticismo alla loro infatuazione e forse già avevano iniziato a deriderli dopo la fine ingloriosa dell’esperien­za intrapresa; una rivincita davanti alle autorità del popolo d’Israele; u­na rivincita davanti all’umanità inte­ra. La sera del terzo giorno in mezzo a quel gruppo ormai disilluso e sbandato comincia a serpeggiare il sollievo e la sensazione che la bella avventura, con i suoi attori di sem­pre, sta per ricominciare da capo: davvero il Signore è risorto ed è ap­parso a Simone! (Lc 24,34). Era una rivincita inaspettata. Tutto ciò è plausibile e possiede una sua verità.
  Se però l’attenzione si sposta dal dramma come era psicologicamen­te vissuto da chi era immerso nelle oscure vicissitudini terrene al dise­gno eterno del Padre, allora (a un livello di conoscenza più alto, più chiaro, più comprensivo) ci si rende conto che bisogna parlare, per tutto quel che è avvenu­to, di totale e assoluta «vitto­ria ». Io ho vinto, aveva subi­to affermato Gesù poco pri­ma di essere arrestato, al principio del suo percorso di umiliazione, di sofferenza, di morte, di risurrezione, di gloria (Gv 16,33: «Io ho vinto il mondo»). Del resto, egli ci aveva già informato che perfino la sua croci­fissione sarebbe stata una vittoria, anzi una «vittoria cosmica» e una conquista dei cuori: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire (Gv 12,32­33). La Chiesa, con l’intelligenza do­natale dalla Pentecoste, ben presto capisce che tutto quanto si è svolto a Gerusalemme nelle ore più buie del­la storia è intrinsecamente parte del vittorioso progetto di Dio. (...) Qui si impongono alcune considerazioni generali sull’avvenimento pasquale come ciò che è fondante e costituti­vo della nostra essenziale autenticità di credenti in Cristo. Quando all’in­domani della Pentecoste gli apostoli partono per annunciare il Vangelo a tutte le genti, su comando del loro Signore e Maestro, non hanno altra religione che quella ebraica, non ri­conoscono altro Dio che il Dio di A­bramo, di Mosè e di Davide, non possiedono altro libro sacro (alme­no inizialmente) che la Bibbia degli israeliti: tutti elementi teologici e cultuali che non li distinguevano dal resto della popolazione di Gerusa­lemme e della Giudea.
Che cosa al­lora era proprio, esclusivo, caratte­rizzante del Vangelo e della nuova realtà della Chiesa? Era il convinci­mento e l’annuncio pubblico che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, era risorto, era adesso vivo, era Signore. Questo è ciò che nel cri­stianesimo è ancora oggi proprio, e­sclusivo, caratterizzante. «Occorre a questo punto persuadersi che il cri­stianesimo fin dal suo contenuto primordiale è qualcosa di unico, di decisivo, di imparagonabile. Prima ancora che una religione, una mora­le, un culto, una filosofia, è un avve­nimento: l’avvenimento della risurrezione di Gesù di Nazaret che si fa principio del rinnovamento degli uomini e delle cose. Perciò è intra­montabile: le dottrine nascono, fan­no fortuna, incantano per decenni e magari per secoli, poi decadono e muoiono. Il fatto cristiano resta, pro­prio perché è un fatto; e resta indi­pendentemente dall’accoglienza e dal numero delle adesioni che rice­ve. Tutte le religioni – oggi si sente dire sempre più spesso – hanno un loro valore che è giusto riconoscere.
  E si può anche ammetterlo, purché non ci si dimentichi che la realtà cri­stiana in questo discorso non c’en­tra.
Il cristianesimo, primariamente e per sé, non può essere ridotto a un sistema di convincimenti, di precet­ti, di riti che interpreta e regola i rap­porti tra le creature e il Creatore. Vale a dire, per quanto la frase possa ap­parire paradossale, primariamente e per sé, non può essere ridotto a 'una religione': collocarlo tra le religioni (anche soltanto per ragioni di siste­mazione e di metodo, o per la buona intenzione di favorire il dialogo in­terreligioso), se non si chiarisce l’in­trinseca ambiguità del collegamento o quanto meno il suo significato sol­tanto analogico, vuol dire travisarlo e precludersi ogni sua autentica comprensione.
 «La resurrezione del terzo giorno può essere letta come una rivincita dopo la sconfitta; in realtà il trionfo era già nel Venerdì santo»


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cristianesimo, biffi

lunedì, 15 gennaio 2007
Giacomo card. Biffi 

Una singolare, emozionante

e affascinante ricerca

sulla figura di Gesù Cristo


Una  esplorazione  emozionante

Il mondo interiore dell’uomo è sempre un mistero, che non si riesce mai a penetrare del tutto. Tanto più ci è difficile accostarci alla ricchezza dell’animo di Cristo e addentrarci nella sua realtà psicologica.
È una ricerca singolare, problematica, emozionante, ma anche fascinosa e ineludibile. Va intrapresa con umiltà e consapevolezza sempre vigile di quanto siano inadeguate le nostre possibilità conoscitive.
Siamo però incoraggiati nel compito dall’aiuto decisivo offertoci dagli evangeli, che del nostro Salvatore ci rivelano - generosamente - sia pure attraverso testimonianze sparse, occasionali, spesso indirette - i pensieri, la mentalità, gli affetti, i sentimenti, il temperamento, lo stile espressivo e comportamentale.

 

Una  grande  chiarezza  di  idee

Ciò che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria chiarezza di idee. Tutto è lucida-mente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono lontanissimi i vezzi, le civetterie, l’apparente arrendevolezza del «pensiero debole».
Gesù manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e luminosità del suo insegnamento.
Pur nella grande varietà degli argomenti toccanti, non c’è frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del «Padre» (un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del «Regno», traguardo di ogni tensione delle creature e del loro peregrinare nella storia.

 

L’attenzione  alla  concreta  realtà  umana

In lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose, né del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un osservatore attento - anzi interessato e compiaciuto - della realtà «feriale» nella quale siamo tutti immersi.
Dai suoi detti e dalle sue parabole occhieggiano numerose le normali scenette della vita di allora e di sempre: il bimbo che fa i capricci per avere qualcosa da mangiare, i ragazzi che giocano nelle piazze avvalendosi delle filastrocche tradizionali (Lc 7, 32: «Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”»), il vicino scocciatore che ti disturba perfino di notte e non ti dà pace finché non l’accontenti, la donna che non si rassegna a non trovare la moneta rotolata sotto i mobili, la partoriente che soffre ma poi dimentica i dolori patiti nella gioia di contemplare il piccolo nato da lei, i servi che si danno alla bella vita nell’assenza del padrone, l’amministratore disonesto e furbo, il trambusto di una festa di nozze, i banchieri che offrono un interesse sul capitale, il ladro che scassina la casa senza mandare preavvisi, il viandante che incappa nei rapinatori, i braccianti disoccupati che in piazza aspettano la buona occasione, la casalinga che impasta la farina e poi la lascia lievitare. Eccetera.
Chi parla così è evidentemente uno che non si è chiuso e arroccato in se stesso, ma è capace di guardarsi attorno e partecipa con simpatia alla quotidiana commedia umana.
Le cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal gregge e si perde. E anche questo è un elenco che si potrebbe molto allungare.
Quanto s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza alcuna con l’ideologo che - tutto preso dalle sue grandiose teorie - non riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini spicciole della gente comune.
E proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica.

Una  volontà  forte

Alla solarità della sua intelligenza e all’efficacia del suo dire fa riscontro una volontà senza fiacchezza, in grado di operare rapidamente scelte operative e di attenersi ai propositi stabiliti senza alcuna titubanza. Ha una missione che ha cordialmente sposato, e non se ne lascia distogliere.
Talvolta questa fermezza trapela perfino dall’atteggiamento esteriore. I circostanti ne sono impressionati, e la narrazione evangelica si sente in dovere di registrarlo: «Si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9, 51). Il testo originale è anche più significativo: to prosopwn ’esterisen tou poreuesqai ’eiV ’Ierrousalem («irrigidì il suo volto per andare alla volta di Gerusalemme»).
Egli è un capo che, in certi momenti, andando davanti a tutti sul cammino che si è prefissato, irradia tanta risolutezza da incutere in chi lo segue meraviglia, soggezione, inquietudine: «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti, e gli andavano dietro pieni di timore» (Mc 10, 32).

 

Libertà  di  fronte  ai  parenti  e  agli  oppositori

Gesù si dimostra sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti.
È libero di fronte a quelli del suo «clan», i quali, dopo averlo preso per matto (cfr Mc 3, 21), poi si imma-ginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere  i rapporti (cfr Mc 3, 31-34).
È libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Gv 5,17).
Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr Mt 23, 32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Col tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr Lc 13, 32).
Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc 12, 14).

 

Libertà  dagli  amici

Si mantiene libero - cosa che è senza dubbio più difficile - anche dalle attenzioni affettuose degli amici quando contrastano con la sua missione.
Il caso più tipico e clamoroso è quello di Pietro. A Cesarea di Filippo l’apostolo si vede elogiato per la sua ispirata professione di fede con espressioni di ineguagliabile esaltazione. Subito dopo, però, quando si permette di distogliere il suo Maestro dalla «via della croce», viene investito da parole durissime: «Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai!”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”» (Mt 16, 21-23).
In un’ora di crisi, quando egli viene abbandonato da molti discepoli che non sanno accettare il discorso sulla sua «carne» e sul suo «sangue» proposti come cibo e bevanda, non cede di un punto, non attenua le sue affermazioni spigolose per amore del dialogo e di una «comunione senza verità»: «Gesù disse ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”» (cfr Gv 6, 67). Che è una delle frasi più drammatiche e meno obliabili pronunciate dal Salvatore.

 

Libertà  dai  giudizi  altrui

Gesù è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati, che la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Mt 11, 19).
Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr Lc 6, 26).

 

La  sensibilità  dell’ animo

Capita spesso che uno spirito assolutamente autonomo ed emancipato risulti poi anche arido, indifferente ai mali altrui, scarsamente sensibile.
Non è il caso di Gesù: in lui la sovrana libertà, che s’è vista, si disposa a una forte emotività e a una estesa gamma di sentimenti.
Per esempio, di fronte alla strumentalizzazione «teologica» della sventura, non sa frenare la collera, come si vede nell’episodio dell’uomo dalla mano rattrappita che gli viene collocato davanti proprio perché egli lo guarisca in sabato e così lo si possa accusare (cfr Mc 3, 1-6). Allora chiama il poveretto nel mezzo, al cospetto di tutti e, dice il testo originale, gira sui presenti lo sguardo con rabbia (met' ’orgeV,) rattristato (sullupoumenoV), per la durezza del loro cuore.

 

La  compassione

Con molta più frequenza gli evangelisti annotano la sua compassione verso tutte le miserie umane. Lo fanno adoperando costantemente un verbo che nella sua etimologia evoca una commozione anche fisica splagkuixesqai («sentir compassione»), da splagkna («viscere»).
È uno stato d’animo che prende il Salvatore all’udire il lamento accorato dei due ciechi di Gerico (Mt 20, 34: «Gesù si commosse»); al vedere l’angoscia di una madre che segue il funerale del suo unico figlio giovinetto (Lc 7, 13: «Vedutala il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”»); nel rendersi conto che c’è una folla affamata (Mc 8, 1: «Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare»); nel contemplare un’umanità dispersa e smarrita (Mc 6, 34: «Vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore»).

 

L’ amicizia

Gesù ha molto vivo il senso dell’amicizia con tutte le sue diverse gradazioni di intensità.
Suoi «amici» egli chiama gli apostoli (cfr Gv 15, 5). Ed è un’amicizia attenta e premurosa, tanto che si preoccupa del loro eccessivo affaticamento: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6, 31). Tra i Dodici si sente più intimo di Pietro, Giacomo e Giovanni, e li vuole vicini sia nell’ora splendente della Trasfigurazione (cfr Mc 9, 28) sia in quella penosissima del Getsemani (cfr Mc 14, 32-42). Al solo Giovanni è stata attribuita la qualifica: «il discepolo che Gesù amava» (cfr Gv 13, 23; 19, 5; 20, 2; 21, 7.20).
Al di fuori della cerchia apostolica è testimoniato il grande affetto da lui nutrito per i componenti della famiglia di Betania: «Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro» (Gv 11,5).

 

I bambini  e  le  donne

Era nota l’amabilità di Gesù verso i bambini: «Gli presentavano i bambini...perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò (letteralmente: “non lo poté sopportare” «’hganakthsen») e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva» (Mc 10, 13-16).
Manifesta molta gentilezza d’animo verso le donne e più di una volta interviene a loro difesa.
Salva dalla lapidazione la sconosciuta sorpresa in adulterio (cfr Gv 8, 1-11), loda, contro i pensieri maligni del padrone di casa, la peccatrice che durante un banchetto offertogli da un fariseo aveva osato venire a profumarlo e a bagnarlo con le sue lacrime (cfr Lc 7, 36-50); ribatte seccamente a Giuda e agli altri commensali che criticavano Maria, la sorella di Lazzaro, per il suo gesto inatteso e la sua prodigalità: «Lasciatela stare! Perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona...» (cfr Mc 14, 6).

 

Il  pianto  e  la  gioia

Sono eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé. È tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di rovesciargli la barca (cfr Mc 4, 35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla inferocita di Nazareth che si propone di ucciderlo: «Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Lc 4, 28-30).
Non è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro: «Quando la vide piangere... si commosse profondamente»; anzi «si turbò», precisa l’evangelista (cfr Gv 11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche lui, tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr Gv 11, 35-36).
Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (cfr Lc 10, 42-42).
Ma sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia... In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr Lc 10, 17-21).
Gesù era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro dal piacere con cui i pubblicani - che erano di solito gaudenti e bontemponi - l’accoglievano alla loro mensa.
Quando aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva fattivamente a sostenerla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo.
Attenendosi appunto all’esempio del Signore, san Paolo enuncerà per i cristiani la regola aurea di comportamento: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 15).

 

La « ebraicità » di  Gesù

Tanta pienezza di umanità potrebbe indurre a ritenerlo un soggetto così superiore e ideale da trascendere ogni catalogazione antropologica e ogni specificazione etnica e culturale: quasi un apolide senza appartenenza e senza nessi. Ma non saremmo nel giusto.
Egli ragiona, parla, agisce da autentico figlio d’Israele. La sua «ebraicità» è fuori discussione. Chi non la cogliesse, non potrebbe dire di aver raggiunto la sua effettiva verità: ne risulterebbe un identikit di Cristo alterato e improbabile.
La mentalità, la concezione generale, il linguaggio del Nazareno sono quelli tipici del suo popolo. Sulle sue labbra le citazioni bibliche tornano spontanee e frequenti. I nomi più noti e più cari ai suoi connazionali - Abramo, Mosè, Davide, Salomone, Isaia, Giona - infiorano con naturalezza i suoi discorsi.
Egli padroneggia la dialettica peculiare dei rabbini e se ne avvale nelle sue dispute, come quando riduce al silenzio scribi e farisei partendo dalla loro stessa interpretazione del salmo 110 (cfr Mc 12, 35-37; Mt 22, 41-46).

 

Lo  stile  semitico

Lo stile dei suoi discorsi è quello dei testi letterari semitici. Perciò le sue frasi sono spesso scandite sullo schema (usuale nella poesia ebraica) del «parallelismo», nelle sue variazioni. Citiamo solo qualche esempio.

 

Parallelismo semplice

«Il discepolo non è da più del maestro / né un servo da più del suo padrone» (Mt 10, 24). «Il calice che io bevo voi lo berrete, / e il battesimo che io ricevo voi lo riceverete» (Mc 10, 39).
Parallelismo antitetico.
«Ogni albero buono produce frutti buoni / e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; / un albero buono non può produrre frutti cattivi / né un albero cattivo produrre frutti buoni» (Mt 7, 17-18).
Parallelismo strofico.
«Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, / è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. / Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su quella casa / ed essa non cadde / perché era fondata sulla roccia. / Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, / è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. / Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su quella casa / ed essa cadde, / e la sua rovina fu grande» (Mt 7, 24-27).

 

Il « cuore »

Anche il cuore di Gesù è un cuore di ebreo. Egli ama in modo particolarmente intenso e privilegiato la sua terra e il suo popolo: alla sua terra e al suo popolo egli si sente primariamente inviato: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15, 24). Alla sua terra e al suo popolo è destinata la prima provvisoria missione degli apostoli, che ricevono a questo proposito istruzioni limitative precise: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10, 5-6).
E abbiamo già visto come il pensiero della futura fine della città di Davide lo commuove fino alle lacrime (cfr Lc 10, 41-42).

 

Un  « integrato »

Egli è un israelita osservante, che onora tutte le tradizioni legittime della nazione. Ogni sabato frequenta, come tutti, la sinagoga. Celebra ogni anno la Pasqua secondo il rito prescritto. Paga, come tutti, la tassa a favore del tempio: «Si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: “Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?”. Rispose: “Sì”» (cfr Mt 17, 24-25).
Ogni tanto c’è qualcuno che si compiace di annoverare Gesù tra i rivoluzionari politici o gli agitatori sociali; ma le testimonianze ci persuadono piuttosto del contrario. A volerlo denominare con il vocabolario della moderna ideologia eversiva, si dovrebbe piuttosto qualificarlo un «integrato».
Rispetta ogni ordinamento, persino la prescrizione che attribuiva ai sacerdoti la funzione di autorità sanitaria nell’accertamento della guarigione dei lebbrosi: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (cfr Lc 17, 14). E non intende affatto sostituirsi a chi è preposto all’amministrazione della giustizia ordinaria: «Uno della folla gli disse: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”» (Lc 12. 13-14).
La sua «integrazione» è così attesa e totale, che evita di lasciarsi coinvolgere nella contestazione della presenza romana sul suolo giudaico; e anzi riconosce, almeno praticamente, il diritto dell’invasore di imporre la propria moneta e di riscuotere un tributo (cfr Mc 12, 13-17).

 

Il  problema  finanziario

Diversamente da ciò che talvolta è stato affermato, Gesù da buon ebreo non demonizza il denaro. Lo rispetta e si preoccupa anzi di dare alla sua attività una realistica base finanziaria.
La sua piccola comunità ha un cassiere regolarmente designato (cfr Gv 12, 6; 13. 29), e si appoggia a una specie di «istituto per il sostentamento del clero»: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8, 1-3).

 

La  « ricompensa  nei  cieli »

Gesù dimostra la «ebraicità» della sua «forma mentis» persino trattando della vita dello spirito e del rapporto con il Creatore vindice di ogni giustizia.
Egli non si dimentica mai di prospettare il «guadagno» (sia pure un guadagno ultraterreno) come incitamento al bene agire: «Grande è la vostra ricompensa nei cieli» (cfr Mt 5, 2; Lc 6, 23). Si preoccupa di informarci che il Dio vivo e vero non è un seguace dell’etica kantiana; e dunque non ritiene che il disinteresse sia la connotazione essenziale e necessaria della bontà morale di un comportamento: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (cfr Mt 6, 4.6.17).

Tratto da:   L'OSSERVATORE ROMANO  19 novembre 1999

Postato da: giacabi a 18:52 | link | commenti
gesù, biffi

lunedì, 24 luglio 2006
 
Gesù Cristo
 è un avvenimento del presente
Premessa: ho accettato l'invito a parlare di Gesù Cristo perché è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.
Io ho puntato su di lui la mia vita, l'unica vita che ho; e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l'identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ogni tanto sul giornale c'è qualcuno che fa qualche scoop su di lui, ogni tanto si inventano e si danno interpretazioni su chi sia Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di Lui.........Card.Giacomo Biffi
octavioocampo--Gesù

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