‘'Dio’
***
‘Dio’, dissi, è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano,
nessun’altra è tanto insudiciata e lacerata, proprio per questo non
devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso
della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al
suolo. Ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni
di uomini hanno lacerato questo nome, con la loro divisione in
partiti religiosi hanno ucciso e sono morti per questa idea, e il nome
di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue.
Dove
potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare
l’Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido della
tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una
pallida immagine di pensiero, ma non la presenza di colui che intendo,
di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e
morti hanno onorato e denigrato. Intendo
parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed
esultante. Certamente essi disegnano smorfie e scrivono sotto “Dio”;
si uccidono a vicenda e dicono “in nome di Dio”. Ma quando scompare
ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte
nell’oscurità piena di solitudine e non dicono più “Egli, Egli”, ma
sospirano “Tu, Tu” e implorano “Tu”, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono “Dio”, non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature umane?
Non è forse lui che li ode? Che li esaudisce? La parola “Dio” non è
forse proprio per questo la parola dell’invocazione, la parola
divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le parlate umane? Possiamo
rispettare coloro che lo disprezzano, perché troppo spesso altri si
coprono con questo nome per giustificare ingiustizie e soprusi; ma questo nome non dobbiamo abbandonare e sacrificare.
Si può comprendere che vi sia chi desidera tacere per un periodo di
tempo delle “cose ultime”, perché vengano redente le parole di cui si è
fatto cattivo uso. Ma in tal modo non si possono redimere. Non
possiamo lavare da tutte le macchie la parola “Dio” e nemmeno
renderla inviolata; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e
lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande dolore»
M. Buber, L’eclissi di Dio
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Postato da: giacabi a 11:17 |
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dio, buber
Gesù è l'ebreo centrale
.***
"Gesù è l'ebreo centrale: con una mano stringe quelle dei suoi fratelli ebrei; con l'altra quelle dei suoi discepoli cristiani. “
Martin Buber
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Postato da: giacabi a 09:47 |
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gesù, buber
RITORNO A SE STESSI
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Rabbi
Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le
autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua
dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un
giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il
comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero
e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest'uomo
si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a
conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che
si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: 'Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». 'Credete voi - rispose il Rav - che la Scrittura
è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti
gli individui?'. 'Sì, lo credo', disse. 'Ebbene - riprese lo zaddik - in
ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei
giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel
frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’'.
All'udire
il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento,
posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: 'Bravo!'; ma il cuore gli
tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A
prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un
altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della
Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell'insegnamento
di Israele, e riceve una risposta che dimostra l'assenza di
contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l'aggiunta a
volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma
non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del
Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all'inizio
più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data
su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il
comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle
credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l'Essere
onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio
cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e
chiede dov'è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi
da lui: dunque Dio non è l'onnisciente.
Ma,
invece di spiegare il passo biblico e risolvere l'apparente
contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza,
utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un
rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua
mancanza di serietà, la sua superficialità e l'assenza di senso di
responsabilità nella sua anima. La
domanda oggettiva - che, in fondo, per quanto qui sia posta senza
secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma
di controversia - riceve una risposta personale; anzi, invece di una
risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste
repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l'ammonimento
che a volte le accompagnava.
Ciò
nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede
chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di
Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: 'Adamo
sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’'.
Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del
brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la
situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la
situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la
domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante
prenderà necessariamente coscienza della portata dell'interrogativo
posto da Dio: 'Dove sei?', sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro.
Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché
l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece
provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo
attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore
l'uomo e che l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo
si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla
responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché
ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla
responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene
trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e
persistendo sempre in questo nascondimento 'davanti al volto di Dio',
l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si
crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di
nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. E una
situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può
sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si
nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed
è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole
turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli
vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un
ardente desiderio di venirne fuori.
A
questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la
domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a
chiunque 'il cuore tremerà', proprio come al comandante del racconto. Ma
il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa
emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che
mette in pericolo la vita dell'uomo; è 'la voce di un silenzio simile a un soffio', ed è facile soffocarla. Finché
questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. Per quanto
ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia
il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un
cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce,
riconosce di essere in trappola e confessa: 'Mi sono nascosto'. Qui
inizia il cammino dell'uomo.
Il
ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del
cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo,
appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a
se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a
ulteriori trappole.
Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura,
alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – 'Quando ti incontrerà
Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è
il gregge che ti precede?’' - disse ai suoi discepoli: 'Osservate
come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi:
‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi
dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi
considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame:
che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre
domande su queste tre cose, sprofondando l'uomo nell'afflizione'.
Esiste
una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di
Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma
al 'Dove sei?' ma prosegue: 'Nessun cammino può farti uscire dal vicolo
cieco in cui ti sei smarrito'. Esiste un ritorno perverso a se stessi
che, invece di provocare l'uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino,
gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in
cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l'uomo riesce a
continuare a vivere solo in virtù dell'orgoglio demoniaco,
dell'orgoglio della perversione.
Martin Buber
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Postato da: giacabi a 22:12 |
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buber
Il compimento dell’esistenza
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C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova.
La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento dell’esistenza,
che la nostra vita non è partecipe dell’esistenza autentica, compiuta,
che è vissuta per così dire ai margini dell’esistenza autentica. Eppure non
cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o
nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro.
Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella
situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno
dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in
questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’ esistenza messo alla mia portata.
Sappiamo di un maestro del Talmud che per lui le vie del cielo erano
chiare come quelle di Nehardea, sua città natale; il chassidismo
rovescia questa massima: per uno è meglio che le vie della città natale siano chiare come le vie del cielo. È qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta.
Quand’anche la nostra potenza si estendesse fino alle estremità della terra, la nostra esistenza non raggiungerebbe il grado di compimento che può conferirle il rapporto di silenziosa dedizione a quanto ci vive accanto. Quand’anche penetrassimo nei segreti dei mondi superiori, la nostra partecipazione
reale all’esistenza autentica sarebbe minore di quando, nel corso della
nostra vita quotidiana, svolgiamo con santa intenzione l’opera che ci
spetta. È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro.
Secondo il Baal-Shem, nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto. Gli uomini con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’ essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento. Se non teniamo conto di questa essenza spirituale inviata sul nostro cammino, se – trascurando di stabilire un rapporto autentico con gli esseri e le cose alla cui vita siamo tenuti a partecipare come essi partecipano alla
nostra – pensiamo solo agli scopi che noi ci prefiggiamo, allora anche
noi ci lasciamo sfuggire l’esistenza autentica, compiuta. Sono convinto che questo insegnamento è profondamente vero. La più alta cultura dell’anima resta fondamentalmente arida e sterile, a meno che da
questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, non sgorghi,
giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima; allo stesso
modo la potenza più immane è, nel suo intimo profondo, solo impotenza
se non si trova in alleanza segreta con questi contatti – umili e pieni
di carità nel contempo – con un essere estraneo eppur vicino.
Parecchie religioni negano alla nostra esistenza sulla terra la qualità di vita autentica.
Per le une, tutto ciò che appare quaggiù è solo un’illusione che
dovremmo togliere, per le altre si tratta solo di un’anticamera del
mondo autentico, un’anticamera che dovremmo attraversare senza prestarvi troppa attenzione. Nell’ebraismo è completamente diverso: quello che un uomo fa nella santità qui e ora non è meno importante né meno autentico della vita del mondo futuro. Ma è nel chassidismo che questo insegnamento ha conosciuto lo sviluppo più accentuato.
Rabbi Hanoch di Alexander disse: «Anche le genti della terra credono all’esistenza di due mondi. ‘In quel mondo’, li si sente ripetere. La differenza sta in questo: loro pensano che i due mondi siano distinti e separati l’uno dall’altro, Israele invece professa che i due mondi sono in verità uno solo e devono diventare uno solo in tutta realtà».
N ella loro intima verità i due mondi sono uno solo: si sono semplicemente separati, per così dire. Ma
devono ridiventare l’unità che sono nella loro verità intima, e l’uomo è
stato creato proprio perché riunisca i due mondi. Egli opera a favore
di questa unità mediante una vita santa con il mondo in cui è stato
posto, nel luogo in cui si trova.
Una volta si parlava in presenza di Rabbi Pinchas di Korez della misera vita dei bisognosi; questi ascoltava, affranto dal dolore. Poi sollevò la testa ed esclamò: «Basta che portiamo Dio nel mondo, e tutto sarà appagato».
Come? È possibile attirare Dio nel mondo? Non è un modo di vedere arrogante e pretenzioso? Come potrebbe osare il vermiciattolo immischiarsi in ciò che si basa esclusivamente
sulla grazia di Dio: quanto di sé Dio concede alla sua creazione?
Ancora una volta un insegnamento ebraico si oppone qui agli insegnamenti
delle altre religioni e, di nuovo, è nel chassidismo che si esprime con
la massima intensità. Noi crediamo che la grazia di Dio consiste proprio in questo suo volersi lasciar conquistare dall’uomo, in questo
suo consegnarsi, per così dire, a lui. Dio vuole entrare nel mondo che è
suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo: ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovrumana del genere umano!
Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: «Dove abita Dio?».
Quelli risero di lui: «Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno
della sua gloria?». Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: «Dio abita dove lo si lascia entrare» .
Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare
solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e
dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con
il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con
la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a
compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio
M. Buber, Il cammino dell’uomo. Secondo l’insegnamento chassidico, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 1990, pp. 57-64.
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Postato da: giacabi a 14:17 |
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buber
Gesù
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Gesù è l'ebreo centrale: con una mano stringe quelle dei suoi fratelli ebrei; con l'altra quelle dei suoi discepoli cristiani.
Martin Buber
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Postato da: giacabi a 21:31 |
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gesù, buber
Ciascun uomo è irripetibile
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“Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. "Ciascuno in Israele ha l'obbligo di riconoscere e considerare che lui
è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito
nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo un
uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia". Ciascuno
è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e
irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro -
fosse pure la persona più grande - ha già realizzato. Quand'era già
vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: "Non vorrei
barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a
Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco
Bunam come Abramo?". La stessa idea è stata espressa con ancora maggior
acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: "Nel mondo futuro non mi si chiederà: 'Perché non sei stato Mosè?'; mi si chiederà invece: 'Perché non sei stato Sussja?"'.
Siamo qui in presenza di un insegnamento che si basa sul fatto che
gli uomini sono ineguali per natura e che pertanto non bisogna cercare
di renderli uguali. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha
un accesso diverso. E infatti la
diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle
loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L'universalità
di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a
lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo”
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Postato da: giacabi a 19:02 |
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persona, buber
COMINCIARE DA SE STESSI
***
"Il
comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che
riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a
dirgli: "Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’".
Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato
del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia
la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la
situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non
appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui
personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della
portata dell'interrogativo posto da Dio: "Dove sei?", sia esso rivolto
ad Adamo o a chiunque altro. Ogni
volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli
faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare
nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una
simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l'uomo e che
l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo
si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla
responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché
ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla
responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene
trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e
persistendo sempre in questo nascondimento "davanti al volto di Dio",
l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si
crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di
nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. E una
situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può
sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si
nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo
cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è
proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole
turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli
vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un
ardente desiderio di venirne fuori.
A
questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la
domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a
chiunque "il cuore tremerà", proprio come al comandante del racconto. Ma
il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa
emozione del cuore. La voce
infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita
dell'uomo; è "la voce di un silenzio simile a un soffio", ed è facile
soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. Per
quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto
vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta
priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la
voce, riconosce di essere in trappola e confessa: "Mi sono nascosto". Qui inizia il cammino dell'uomo.
Il
ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del
cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo,
appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole.
Quanto
alla differenza pratica, consiste nel fatto che l'uomo, invece di
essere trattato come oggetto dell'analisi, è sollecitato a "rimettersi
in sesto". Bisogna che l'uomo si renda conto innanzitutto lui stesso
che le situazioni conflittuali che l'oppongono agli altri sono solo
conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che
quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per
potersi cosi rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e
allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente,
per sua natura, l'uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che
ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora
ribatte all'autore di questa ingiunzione - o alla propria anima, se è
lei a intimargliela - che ogni conflitto implica due attori e che
perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore,
si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo
modo di vedere - in base al quale l'essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e
non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla
trasformazione del mondo - proprio qui risiede l'errore fondamentale
contro il quale si erge l'insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l'unica cosa che conta.
In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che
non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da
questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e
finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se
invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l'altro
là, nell'anima del mio simile in conflitto con me, quell'unico punto sul
quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente."
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Postato da: giacabi a 22:28 |
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buber
La relazione
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“Lo scopo della relazione è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un alito del Tu, cioè della vita eterna.”
“L'umanità e il genere umano divengono in incontri autentici.
Qui l'uomo si apprende non semplicemente limitato dagli uomini,
rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di integrazione,
ma viene esaudito il proprio rapporto alla verità attraverso
quello distinto, secondo l'individuazione, dell'altro, distinto per far
sorgere e sviluppare un rapporto determinato alla stessa verità.”
Martin Buber
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