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sabato 4 febbraio 2012

Buber

'Dio’
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Dio’, dissi, è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano, nessun’altra è tanto insudiciata e lacerata, proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo. Ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome, con la loro divisione in partiti religiosi hanno ucciso e sono morti per questa idea, e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue.
Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l’Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido della tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida immagine di pensiero, ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed esultante. Certamente essi disegnano smorfie e scrivono sotto “Dio”; si uccidono a vicenda e dicono “in nome di Dio”. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità piena di solitudine e non dicono più “Egli, Egli”, ma sospirano “Tu, Tu” e implorano “Tu”, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono “Dio”, non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature umane? Non è forse lui che li ode? Che li esaudisce? La parola “Dio” non è forse proprio per questo la parola dell’invocazione, la parola divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le parlate umane? Possiamo rispettare coloro che lo disprezzano, perché troppo spesso altri si coprono con questo nome per giustificare ingiustizie e soprusi; ma questo nome non dobbiamo abbandonare e sacrificare. Si può comprendere che vi sia chi desidera tacere per un periodo di tempo delle “cose ultime”, perché vengano redente le parole di cui si è fatto cattivo uso. Ma in tal modo non si possono redimere. Non possiamo lavare da tutte le macchie la parola “Dio” e nemmeno renderla inviolata; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande dolore»
 M. Buber, L’eclissi di Dio

Postato da: giacabi a 11:17 | link | commenti
dio, buber

martedì, 30 dicembre 2008
Gesù è l'ebreo centrale
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 "Gesù è l'ebreo centrale: con una mano stringe quelle dei suoi fratelli ebrei; con l'altra quelle dei suoi discepoli cristiani. “
Martin Buber

Postato da: giacabi a 09:47 | link | commenti
gesù, buber

domenica, 12 ottobre 2008
RITORNO A SE STESSI
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Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest'uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: 'Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». 'Credete voi - rispose il Rav - che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?'. 'Sì, lo credo', disse. 'Ebbene - riprese lo zaddik - in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’'.
All'udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: 'Bravo!'; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell'insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l'assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l'aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all'inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l'Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov'è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l'onnisciente.
Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l'apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l'assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva - che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia - riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l'ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: 'Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’'. Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell'interrogativo posto da Dio: 'Dove sei?', sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l'uomo e che l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento 'davanti al volto di Dio', l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. E una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a chiunque 'il cuore tremerà', proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell'uomo; è 'la voce di un silenzio simile a un soffio', ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: 'Mi sono nascosto'. Qui inizia il cammino dell'uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – 'Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’' - disse ai suoi discepoli: 'Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l'uomo nell'afflizione'.
Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al 'Dove sei?' ma prosegue: 'Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito'. Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l'uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l'uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell'orgoglio demoniaco, dell'orgoglio della perversione.
Martin Buber

Postato da: giacabi a 22:12 | link | commenti
buber

mercoledì, 08 ottobre 2008
Il compimento dell’esistenza
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 C’è una cosa che si può trovare in un uni­co luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova.
La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento del­l’esistenza, che la nostra vita non è partecipe dell’esistenza autentica, compiuta, che è vissuta per così dire ai margini dell’esistenza autentica. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche par­te, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il teso­ro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo ri­siede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’ esistenza messo alla mia portata. Sappiamo di un maestro del Talmud che per lui le vie del cielo erano chiare come quelle di Nehardea, sua città natale; il chassidismo rovescia questa massima: per uno è meglio che le vie della città natale sia­no chiare come le vie del cielo. È qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si trat­ta di far risplendere la luce della vita divina nascosta.
Quand’anche la nostra potenza si esten­desse fino alle estremità della terra, la no­stra esistenza non raggiungerebbe il grado di compimento che può conferirle il rappor­to di silenziosa dedizione a quanto ci vive accanto. Quand’anche penetrassimo nei se­greti dei mondi superiori, la nostra parteci­pazione reale all’esistenza autentica sarebbe minore di quando, nel corso della nostra vita quotidiana, svolgiamo con santa intenzione l’opera che ci spetta. È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro.
Secondo il Baal-Shem, nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un si­gnificato segreto. Gli uomini con i quali vi­viamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il ter­reno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci ser­viamo, tutto racchiude un’ essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiunge­re la sua forma perfetta, il suo compimento. Se non teniamo conto di questa essenza spi­rituale inviata sul nostro cammino, se – tra­scurando di stabilire un rapporto autentico con gli esseri e le cose alla cui vita siamo te­nuti a partecipare come essi partecipano al­la nostra – pensiamo solo agli scopi che noi ci prefiggiamo, allora anche noi ci lasciamo sfuggire l’esistenza autentica, compiuta. So­no convinto che questo insegnamento è pro­fondamente vero. La più alta cultura dell’a­nima resta fondamentalmente arida e steri­le, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima; allo stesso modo la potenza più immane è, nel suo intimo profondo, solo im­potenza se non si trova in alleanza segreta con questi contatti – umili e pieni di carità nel contempo – con un essere estraneo ep­pur vicino.
Parecchie religioni negano alla nostra esi­stenza sulla terra la qualità di vita autenti­ca. Per le une, tutto ciò che appare quaggiù è solo un’illusione che dovremmo togliere, per le altre si tratta solo di un’anticamera del mondo autentico, un’anticamera che do­vremmo attraversare senza prestarvi troppa attenzione. Nell’ebraismo è completamente diverso: quello che un uomo fa nella santità qui e ora non è meno importante né meno autentico della vita del mondo futuro. Ma è nel chassidismo che questo insegnamento ha conosciuto lo sviluppo più accentuato.
Rabbi Hanoch di Alexander disse: «An­che le genti della terra credono all’esistenza di due mondi. ‘In quel mondo’, li si sente ri­petere. La differenza sta in questo: loro pen­sano che i due mondi siano distinti e sepa­rati l’uno dall’altro, Israele invece professa che i due mondi sono in verità uno solo e devono diventare uno solo in tutta realtà».
N ella loro intima verità i due mondi so­no uno solo: si sono semplicemente separati, per così dire. Ma devono ridiventare l’unità che sono nella loro verità intima, e l’uomo è stato creato proprio perché riunisca i due mondi. Egli opera a favore di questa unità mediante una vita santa con il mondo in cui è stato posto, nel luogo in cui si trova.
Una volta si parlava in presenza di Rabbi Pinchas di Korez della misera vita dei biso­gnosi; questi ascoltava, affranto dal dolore. Poi sollevò la testa ed esclamò: «Basta che portiamo Dio nel mondo, e tutto sarà appagato».
Come? È possibile attirare Dio nel mondo? Non è un modo di vedere arrogante e pretenzioso? Come potrebbe osare il vermi­ciattolo immischiarsi in ciò che si basa esclu­sivamente sulla grazia di Dio: quanto di sé Dio concede alla sua creazione? Ancora una volta un insegnamento ebraico si oppone qui agli insegnamenti delle altre religioni e, di nuovo, è nel chassidismo che si esprime con la massima intensità. Noi crediamo che la grazia di Dio consiste proprio in questo suo volersi lasciar conquistare dall’uomo, in que­sto suo consegnarsi, per così dire, a lui. Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo: ecco il mistero del­la nostra esistenza, l’opportunità sovrumana del genere umano!
Un giorno in cui riceveva degli ospiti eru­diti, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chie­dendo loro a bruciapelo: «Dove abita Dio?». Quelli risero di lui: «Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?». Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta al­la domanda: «Dio abita dove lo si lascia en­trare» .
Ecco ciò che conta in ultima analisi la­sciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entra­re solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora pre­pariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio
M. Buber, Il cammino dell’uomo. Secondo l’insegnamento chassidico, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 1990, pp. 57-64.

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domenica, 17 agosto 2008
 Gesù
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Gesù è l'ebreo centrale: con una mano stringe quelle dei suoi fratelli ebrei; con l'altra quelle dei suoi discepoli cristiani.
Martin Buber 

Postato da: giacabi a 21:31 | link | commenti
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martedì, 31 luglio 2007
Ciascun uomo è irripetibile
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Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. "Ciascuno in Israele ha l'obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia". Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro - fosse pure la persona più grande - ha già realizzato. Quand'era già vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: "Non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam come Abramo?". La stessa idea è stata espressa con ancora maggior acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: "Nel mondo futuro non mi si chiederà: 'Perché non sei stato Mosè?'; mi si chiederà invece: 'Perché non sei stato Sussja?"'.
Siamo qui in presenza di un insegnamento che si basa sul fatto che gli uomini sono ineguali per natura e che pertanto non bisogna cercare di renderli uguali. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L'universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo”
Martin Buber  da: IL CAMMINO DELL’UOMO
Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose
 

Postato da: giacabi a 19:02 | link | commenti
persona, buber

venerdì, 27 luglio 2007
COMINCIARE DA SE STESSI
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"Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: "Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’". Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell'interrogativo posto da Dio: "Dove sei?", sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l'uomo e che l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento "davanti al volto di Dio", l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. E una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a chiunque "il cuore tremerà", proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell'uomo; è "la voce di un silenzio simile a un soffio", ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: "Mi sono nascosto". Qui inizia il cammino dell'uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole.

Quanto alla differenza pratica, consiste nel fatto che l'uomo, invece di essere trattato come oggetto dell'analisi, è sollecitato a "rimettersi in sesto". Bisogna che l'uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l'oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi cosi rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l'uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all'autore di questa ingiunzione - o alla propria anima, se è lei a intimargliela - che ogni conflitto implica due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo modo di vedere - in base al quale l'essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo - proprio qui risiede l'errore fondamentale contro il quale si erge l'insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l'unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l'altro là, nell'anima del mio simile in conflitto con me, quell'unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente."

Martin Buber IL CAMMINO DELL’UOMO
Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose
 

Postato da: giacabi a 22:28 | link | commenti
buber

mercoledì, 25 luglio 2007
La relazione
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Lo scopo della relazione è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un alito del Tu, cioè della vita eterna.”
L'umanità e il genere umano divengono in incontri autentici. Qui l'uomo si apprende non semplicemente limitato dagli uomini, rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di integrazione, ma viene esaudito il proprio rapporto alla verità attraverso quello distinto, secondo l'individuazione, dell'altro, distinto per far sorgere e sviluppare un rapporto determinato alla stessa verità.”
Martin Buber

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