CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


sabato 4 febbraio 2012

Buzzati

I giorni perduti
***
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all'estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone.
Kazirra scese dall'auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel baratro, che era ingombro di migliaia di altre casse uguali.
Si avvicinò all'uomo e gli chiese:
"
Ti ho visto portare fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c'era dentro? E cosa sono tutte quelle casse?"
Quello lo guardò e sorrise.
"Ne ho ancora su il camion da buttare. Non sai, sono i giorni."
"Che giorni?"
"I tuoi giorni".
"I miei giorni?"
"I tuoi giorni perduti, i giorni che hai perso. Li aspettavi vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi, e adesso?"
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.

C'era dentro una strada di autunno e in fondo Graziella, la sua fidanzata che se ne andava per sempre
. E lui neppure la chiamava. Ne aprì un secondo. C'era una camera di ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari. Ne aprì un terzo: c'era Dick, il suo fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto in pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa alla bocca dello stomaco. Boccheggiò. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
"
Signore!" gridò Kazirra, "Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco, le darò tutto quello che vuole".
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era possibile. Poi svanì nell'aria, e all'istante scomparve il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l'ombra della notte scendeva.


(Dino Buzzati, I 180 racconti, Mondadori)

 

Postato da: giacabi a 21:31 | link | commenti
buzzati

martedì, 15 dicembre 2009

Racconto di Natale
***
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.

"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale".

"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."

"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"

"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.

Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.

"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"

"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."

"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."

E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"

"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"

Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."

" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."

"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."

"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."

"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"

Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."

Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"
Dino Buzzati

Postato da: giacabi a 18:08 | link | commenti
natale, buzzati

lunedì, 24 novembre 2008
  IL  DISCO  SI  POSÒ
***
 
Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese.
All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.
Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri.
Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c’era appesa la doppietta.
Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch’erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e si accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più... Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!».
Zitto, il prete li lasciò armeggiare col disco. Parlottavano tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una moderatissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che è in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lasciò fare, sempre imbracciando la doppietta. Ma all’improvviso cambiò idea.
«Ehi!» gridò con la sua voce rimbombante. «Giù di là, giovanotti. Chi siete?»
I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emozionati. Però scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il più alto cominciò a parlare.
Don Pietro – ce lo ha lui stesso confessato – rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile?
«Calmo, calmo» lo straniero disse «tra poco ce n’andiamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco
. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne? (e faceva segno alla croce). Ne avete dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?»
«Ma sono croci!» fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttosto assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli, estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche?
«Croci» ripeté, compitando il forestiero. «E a che cosa servono?»
Don Pietro posò il calcio della doppietta a terra, che gli restasse però sempre a portata di mano. Si drizzò quindi in tutta la statura, cercò di essere solenne:
«Servono alle nostre anime» rispose. «Sono il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, che per noi è morto in croce.»
Sul capo dei marziani all’improvviso gli evanescenti ciuffi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione? O era quello il loro modo di ridere?
«E dove, dove questo sarebbe successo?» chiese sempre il più grandetto, con quel suo squittio che ricordava le trasmissioni Morse; e c’era dentro un vago accento di ironia.
«Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi?»
«Qui, sulla Terra, in Palestina

Il tono incredulo irritò don Pietro.
«Sarebbe una storia lunga» disse «una storia forse troppo lunga per dei sapienti come voi.»
In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillò due tre volte. Pareva che la muovesse il vento.
«Oh, dev’essere una storia magnifica» fece con condiscendenza. «Uomo, vorrei proprio sentirla.»
Balenò nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l’abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto storico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna.
«Se non vuoi altro» disse, rude. «Ma fatevi vicini, venite pure qui nella mia stanza.»
Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parroco, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampada, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati ad accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir di no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo più che mai irto e ondeggiante.
«Ascoltate, spazzolini!» disse il prete, brusco, aprendo il libro, e lesse: “...l’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino d’Eden... e diede questo comandamento: Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino, ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo sarà la tua morte. Poi l’Eterno Iddio...”
Levò gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. «C’è qualcosa che non va?».
Chiese il marziano: «E, dimmi, l’avete mangiato, invece? Non avete saputo resistere? È andata così, vero?».
«Già. Ne mangiarono» ammise il prete, e la voce gli si riempì di collera. «Avrei voluto veder voi! È forse cresciuto in casa vostra l’albero del bene e del male?»
«Certo. È cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso è ancora verde...»
«E voi?... I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?».
«Mai» disse lo straniero. «La legge lo proibisce.»

Don Pietro ansimò, umiliato. Allora quei due erano puri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guardò intorno come cercando aiuto, finché scorse nella penombra, sopra il letto, il crocefisso nero.
Si rianimò: «Sì, per quel frutto ci siamo rovinati... Ma il figlio di Dio» tuonò, e sentiva un groppo in gola «il figlio di Dio si è fatto uomo. Ed è sceso qui tra noi!»
L’altro stava impassibile. Solo il suo ciuffo dondolava da una parte e dall’altra, simile a una beffarda fiamma.
« È venuto qui in Terra, dici? E voi, che ne avete fatto? Lo avete proclamato vostro re?... Se non sbaglio, tu dicevi ch’era morto in croce... Lo avete ucciso, dunque?»
Don Pietro lottava fieramente: «Da allora sono passati quasi duemila anni! Purtroppo per noi è morto, per la nostra vita eterna!».
Tacque, non sapeva più che dire. E nell’angolo scuro le misteriose capigliature dei due ardevano, veramente ardevano di una straordinaria luce. Ci fu silenzio e allora di fuori si udì il canto dei grilli.
«E tutto questo» domandò allora il marziano con la pazienza di un maestro «tutto questo è poi servito?»
Don Pietro non parlò. Si limitò a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani.

Quanto tempo passò? Ore, minuti? Don Pietro fu riscosso dalla voce degli ospiti. Alzò gli occhi e li scorse già sul davanzale, in procinto, si sarebbe detto, di partire. Contro il cielo della notte i due ciuffi tremolavano con affascinante grazia.
«Uomo» domandò il solito dei due. «Che stai facendo?»
«Che sto facendo? Prego!... Voi no? Voi non pregate?»
«Pregare, noi? E perché pregare?»
«Neanche Dio non lo pregate mai?»

«Ma no!» disse la strana creatura e, chissà come, la sua corona vivida cessò all’improvviso di tremare, facendosi floscia e scolorita.
«Oh, poveretti» mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero come si fa con i malati gravi. Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. E adesso era felice. “Eh, eh” ridacchiava dentro di sé “voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio.” (I due intanto si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio. Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) «Oh» continuava a brontolare il prete «Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgon la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?»
Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. E dai remoti colli rispose l’ululio dei cani.


Dino Buzzati
 da:  “La boutique del mistero”     Ediz. Mondadori, 1968.  

Postato da: giacabi a 19:58 | link | commenti
gesù, buzzati

venerdì, 31 ottobre 2008
Riuscire a essere te stesso
 ***
Di chi hai paura, imbecille? Della gente che sta a guardare? Dei posteri, per strano caso? Basterebbe una cosa da niente: riuscire a essere te stesso, con tutte le stupidità attinenti, ma autentico, indiscutibile. La sincerità assoluta sarebbe di per se stessa un documento tale! Chi potrebbe muovere obiezioni? Questo è l'uomo, uno dei tanti se volete, ma uno. Per l'eternità gli altri sarebbero costretti a tenerne conto, stupefatti
 (Dino Buzzati).


Postato da: giacabi a 11:25 | link | commenti
buzzati

sabato, 06 ottobre 2007

Diario di Belluno

***

- Dio che non esisti ti prego
che almeno su questa grande nave
che mi porta via
le cabine siano ... siano ben areate

- Ma se non esiste perchè lo preghi?

- Non esiste fintantochè io non ci credo
finchè continuo a vivere
come viviamo tutti
desiderando, desiderando
ma se io lo chiamo ...

- Troppo tardi ...

- Per la forza terribile
dell'anima mia, forse vile, trascurabile in sè,
però anima nella piena portata del termine,
se lo chiamo verrà.

Dino Buzzati



Postato da: giacabi a 16:07 | link | commenti
dio, buzzati

sabato, 15 settembre 2007
L’amore di Dio
 ***

“Prudenza, vogliamo dire, anche con le toilette dei grandi alberghi: diffidate delle latrine, Dio, pazientissimo, giorno e notte ci insegue dove meno si pensa, ci attende all’agguato, non ha bisogno di croce o di altari, anche nei vestiboli di marmo sterilizzato (che non si possono nominare) egli viene a tentarci proponendoci la salvezza dell’anima”.
Dino Buzzati Acqua chiusa
 

Postato da: giacabi a 08:04 | link | commenti
dio, buzzati

sabato, 08 settembre 2007
Desiderio di Qualcuno
***
E' che tutti vivono come se da un'ora all'altra
dovesse arrivare qualcuno;
non l'assalto di un nemico, ma qualcuno,
sconosciuto; non si può dire chi
.
E intanto il tempo passa, pare ieri, eppure adagio,
adagio la macchia sul muro si è formata.
E' proprio così che passa il tempo.
C'è qualcosa di inesorabile, ineludibile.
Senza che nessuno vi faccia caso, il tempo continua a passare.

Dino Buzzati, Bernabò e le montagne

Nessun commento: