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sabato 4 febbraio 2012

Caffarra

Caffarra:
"L'aborto è un delitto abominevole"

L'omelia del Cardinale

Festa della Sacra Famiglia in via Irma Bandiera
Il cardinale Carlo Caffarra ha presieduto la Messa nonostante una lieve indisposizione
Il cardinale Carlo Caffarra ha presieduto la Messa nonostante una lieve indisposizione
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Bologna, 30 dicembre 2011 - Ecco l'omelia completa del cardinale Carlo Caffarra in occasione dellaFesta della Sacra Famiglia nella parrocchia della Sacra Famiglia di via Irma Bandiera a Bologna.

"Cari fratelli e sorelle, un solo grande insegnamento percorre le tre pagine della S. Scrittura che abbiamo appena ascoltato: la vita dell’uomo è dono di Dio. La Scrittura ci dona questa certezza attraverso la vicenda di Abramo e Sara, e l’offerta che Maria e Giuseppe fanno del bambino Gesù al tempio.
«Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia». E nella seconda lettura si ribadisce la stessa verità colle seguenti parole: «per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso».
Questa certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, appartiene alla rivelazione biblica ed è stata costantemente insegnata dalla Chiesa.
«Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» [Ger 1, 5], dice il Signore al suo profeta Geremia. È profondamente commovente la parola che una madre di sette figli dice a loro per confortarli nella fedeltà alla Legge di Dio: «Non so come siete apparsi nel mio grembo; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti … » [2 Mac 7, 22-23]. Non siamo dunque frutto del caso o il risultato fortuito di leggi biologiche. All’origine di ciascuno di noi, dell’esserci di ciascuno di noi sta un atto d’amore di Dio creatore; fin dal grembo materno ciascuno di noi è stato il termine personalissimo dell’amorosa e paterna Provvidenza divina.

Cari fratelli e sorelle, questa verità che oggi la parola di Dio ci dona, ci fa comprendere e la grande dignità di ogni persona umana e la sublime dignità dell’amore coniugale. Ogni persona umana è in un rapporto diretto ed immediato con Dio creatore. Essa non è proprietà di nessuno, e di essa nessuno può disporre.
È per questo che l’aborto, cioè l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, chirurgicamente o chimicamente, di una persona umana già concepita e non ancora nata, è, come lo definisce il Concilio Vaticano II, un «delitto abominevole»[Cost. past. Gaudium et spes 51]. La vita umana, in qualunque stadio, è sacra ed inviolabile; in essa si rispecchia la stessa inviolabilità del Creatore.
Ma il fatto che all’origine di ogni persona umana ci sia un atto creativo di Dio, getta anche una luce particolare sull’amore coniugale. Esso è il tempio in cui Dio celebra la liturgia del suo amore creativo. Come dunque esso deve essere splendente di santità! È per questo che il divino Redentore ha elevato il matrimonio alla dignità di Sacramento: perché gli sposi fossero santi nel corpo e nello spirito.
2. La grande verità che oggi la Parola di Dio ci insegna e la conseguenza etica derivante da essa – ogni vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno – possono essere accolte anche dalla ragione retta. Ed infatti esse hanno costituito uno dei pilastri portanti della nostra civiltà occidentale: il pilastro della dignità incommensurabile di ogni persona.
Ora la nostra civiltà si è ammalata e mortalmente. Perché si è verificato questo? Perché essa si è distaccata dalla piena verità sull’uomo; ha perso la vera misura del valore incondizionato di ogni persona umana.
Alcuni sintomi di questa grave malattia: la distinzione fra vita degna e vita indegna di essere vissuta; la negazione del carattere di persona all’embrione; la progressiva legittimazione del suicidio e quindi dell’assistenza ad esso; il cambiamento sostanziale della definizione della professione medica, non più univocamente orientata alla vita.
 

Cari amici, come credenti e come persone ragionevoli non possiamo rassegnarci a questa deriva. Non si fa luce in una stanza piombata nel buio discutendo sulla natura fisica della luce, ma riaccendendola.
La Chiesa oggi prega per ogni famiglia perché sia questa luce: luce che mostri la verità e la bellezza del vero amore".

Postato da: giacabi a 20:08 | link | commenti
aborto, caffarra

martedì, 06 settembre 2011

La responsabilità dell'educatore

***

a Bologna 02 settembre 2011


Non penso sia inutile, prima di addentraci nel tema, richiamare alcuni elementi costitutivi della responsabilità.
            La persona umana non è solo causa delle sue azioni; ne è anche e soprattutto l’autore. La causalità avviene anche nel mondo fisico: il calore causa la dilatazione del metallo. Non solo, ma la sorgente del calore è a sua volta causata, e così via. In nessun punto della catena causa-effetto c’è un punto che possa qualificarsi come inizio.
            L’inizio si dà solo quando la persona decide di agire, e dice: «io decido di…; io voglio ...». Certamente ci possono essere motivazioni per decidere di scegliere, ma esse non sono l’autore dell’azione.
            L’intima natura della responsabilità sta precisamente in questo: di questa azione io sono l’autore; il che equivale: di questa azione io sono responsabile.
            Anche l’educatore è responsabile di un’azione: quella di educare un’altra persona. Se esiste – ed esiste – una responsabilità dell’educatore, essa ha precisamente il seguente significato fondamentale: io educatore, in quanto pongo in essere un processo educativo, ne sono responsabile.
            Da queste semplici riflessioni siamo già introdotti pienamente nel nostro tema.

1.         L’agire educativo pone l’educatore in rapporto con un’altra persona umana: la persona che chiede, che deve essere educata. Dunque, l’educatore è responsabile, nel modo che vedremo, di una persona umana.
            Ma consentitemi ora una parentesi, nella quale vorrei svolgere brevemente una riflessione di carattere generale.
            Nessuno di noi vive dentro una casa senza porte e senza finestre: vive nel mondo; vive dentro una società di persone. Chiamiamo tutto questo in cui viviamo con il nome di realtà. Facciamoci una domanda: come devo pormi in rapporto con la realtà? La risposta più ragionevole è che il rapporto deve essere misurato sulla realtà, adeguato alla sua natura, al suo valore, al suo senso. Quando l’uomo invece dimentica questo e prevale in lui l’istinto del dominio e del consumo distrugge la realtà. La realtà quindi è affidata all’uomo: egli ne è il responsabile.
            Ritorniamo ora al nostro tema. La responsabilità che l’educatore ha di una persona esige che egli si ponga in modo giusto nei suoi confronti; in modo giusto, cioè adeguato alla sua natura di persona umana, commisurato alla sua dignità e valore.
            Abbiamo così già individuato due significati fondamentali della responsabilità dell’educatore. Egli è autore della sua azione educativa, e quindi ne risponde. Egli è collocato dalla sua azione in relazione con una persona umana, e quindi ne è responsabile.
            Arrivati a questo punto della nostra riflessione la domanda che sorge in noi è la seguente: di quale azione l’educatore è autore e responsabile? Cioè: con quale azione egli deve porsi in relazione con la persona da educare?

2.         La risposta a queste domande esige da noi che descriviamo l’azione educativa come tale.
            So bene che entro in un campo in cui esistono tante dottrine, anche fra loro contrarie. Ma non voglio addentrarmi in discussioni dottrinarie. Non è nemmeno la mia competenza. Procederò in maniera molto più semplice, cercando di essere il più aderente possibile all’esperienza.
            E partiamo da una domanda: di che cosa ha bisogno l’uomo per crescere nella sua umanità? È questa una domanda … trasversale: è secondario che si tratti del bambino nella scuola dell’infanzia o del giovane liceale.
            Il bisogno dell’uomo ha un contenuto molto vasto e variegato, conformemente alla multidimensionalità della persona umana.
            Ha bisogno che le venga insegnato a custodire, difendere, nutrire la sua vita biologica: esiste un ambito di bisogni che sono dell’uomo in quanto essere vivente.
            Ha bisogno che le venga insegnato non solo a vivere, ma a con-vivere poiché la persona umana è costituzionalmente sociale. Nell’ambito di questo bisogno, entriamo in un modo di essere che rivela l’originalità della persona: il concetto e l’esperienza di regola; il rapporto con l’altro [estraneo? nemico? prossimo?]. Insomma la società umana è essenzialmente diversa dal branco degli animali, poiché è formata da due grandi categorie spirituali [ignote agli animali]: la giustizia e la carità.
            Ha bisogno infine che le venga data risposta al suo bisogno di conoscere la realtà, al suo bisogno di felicità.
            In sintesi: la persona umana ha bisogno: a) di vivere: b) di convivere; c) di godere della verità conosciuta.
            L’educazione è la guida della persona; è l’aiuto dato alla persona perché cresca al punto da essere essa stessa capace di vivere, di convivere, di conoscere e godere della verità conosciuta. Volendo dire la stessa cosa in termini quasi banali: educare significa equipaggiare la persona di tutto ciò che è necessario per vivere; per convivere; per conoscere e godere della verità conosciuta. Questa è la responsabilità dell’educatore nei confronti della persona che ha da essere educata.
            Con ciò è detto tutto sulla responsabilità dell’educatore? Oppure se si ponesse termine ora al nostro discorso, non si tralascerebbe forse di parlare della vera, della più grande responsabilità dell’educatore? La cultura in cui viviamo – dirò dopo il perché – rende estremamente difficile la risposta.
            Parto da una costatazione storica e da un’esemplificazione … grammaticale. La costatazione storica. È esistito l’uomo greco e di conseguenza una paideia greca; è esistito l’uomo romano e di conseguenza la institutio romana; è esistito l’uomo rinascimentale e di conseguenza una coerente educazione.
L’esemplificazione grammaticale.
            Esiste un paradigma dei verbi in base al quale viene coniugato qualsiasi verbo. L’uomo greco, l’uomo romano, l’uomo rinascimentale avevano gli stessi bisogni di cui ho parlato prima: da questo punto di vista non erano fra loro diversi. Tuttavia questi stessi bisogni erano pensati e vissuti secondo un “paradigma antropologico” ben diverso in ciascuna delle tre esemplificazioni suddette. Se cambia il “paradigma antropologico”, cambia il modo di pensare e vivere i fondamentali bisogni umani.
            Per “paradigma antropologico” intendo un’immagine dell’uomo, una “forma viva” [R. Guardini] di uomo ritenuto il vero uomo. Non è semplicemente  una dottrina sull’uomo: questa viene di conseguenza, dopo. La dottrina è sempre astratta e non tocca il cuore.
            Sono finalmente arrivato al cuore della responsabilità dell’educatore. Egli è responsabile di fronte alla persona da educare, di condurla alla realizzazione di sé secondo la [immagine della] vera umanità. Detto in altri termini: o l’educatore plasma chi gli è affidato secondo quella forma viva di uomo che ritiene vera o non è un educatore responsabile. Egli non risponderebbe al bisogno più profondo di chi gli è affidato: il bisogno di essere vero uomo; il bisogno di vivere una vita buona; il bisogno di vivere felicemente.
            Il dramma attuale dell’educazione– lo chiamiamo “emergenza educativa” – è che non esiste più una tale immagine dell’uomo: l’educatore può trovarsi in un deserto antropologico, e quindi accontentarsi di rimanere dentro ai bisogni. O come si dice oggi: l’educazione è il know-how; è equipaggiare l’uomo degli strumenti per vivere, senza preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono.
            Anzi, durante questi ultimi decenni è stata delegittimata la concezione della responsabilità dell’educatore di mostrare la “forma viva” della vera umanità. La delegittimazione si è esibita come più adeguata e al sistema democratico, alla condizione di multiculturalismo in cui viviamo, e al dato di fatto che ci troviamo dentro un conflitto di antropologie.

3.         Prima di procedere oltre vorrei però riflettere sul costo che ha una riduzione della responsabilità dell’educatore al semplice know-how; quale prezzo ha esigito e sta esigendo. Lo dico servendomi di una espressione di R. Bodei: il prezzo pagato è la “rottamazione dell’io”. Quando dico “io” intendo il nucleo sostanziale spirituale che costituisce il proprium dell’essere personale, la vera scriminante fra l’humanum e il non humanum.
L’io si costituisce, come abbiamo visto all’inizio, nel momento in cui agisce liberamente. In un certo senso, l’io nasce nella scelta libera; è la scelta libera il suo grembo.
            Ma l’esercizio della libertà umana coincide concretamente colla scelta; potremmo dire colla libertà di scelta. Essa – ce ne accorgiamo subito se facciamo un po’ di attenzione a se stessi presuppone sempre un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità.
            Ma c’è qualcosa di più profondo. Ogni scelta in fondo è radicata in un desiderio naturale, che precede cioè ogni scelta perché ne è la condizione di possibilità: il desiderio di beatitudine, di una pienezza di essere nella quale la “ferita del cuore” è definitivamente sanata. Ultimamente, ogni scelta è fatta o non fatta a seconda che si ritenga essere o non essere risposta a quel desiderio. Di ciò siamo particolarmente consapevoli quando si tratta di fare la scelta del proprio stato di vita, per esempio.
            Se è però vero che siamo come fili d’erba assetati di felicità; se è vero che ciò a cui tende la nostra volontà come al suo fine ultimo è la felicità, la determinazione del bene che si ritiene essere in grado di spegnere la nostra sete, dipende dalla decisione di ciascuno, di ogni singolo. Ed è in questo che l’uomo diventa artefice del suo destino, diventa in senso totale un io. La libertà, nel senso più profondo, è la capacità che ha l’io di disporre di se stesso in ordine a quel bene o valore che ritiene essere il più importante. Ed è nell’esercizio di questa libertà, che la persona umana ha bisogno, cerca di essere illuminata, orientata.
            La vita si decide nella risposta che la libertà decide di dare alla verità ultima circa se stesso, circa la realtà nella sua interezza.
            Il rifiuto da parte dell’educatore nel proporre una visione, una immagine viva dell’uomo nella sua integralità, impedisce alla persona di attingere alla vera ricchezza della sua umanità: il suo io. Se limito la proposta educativa ad un know-how, ad un “equipaggiamento tecnico”, lasciando fuori la ragione e lo scopo per cui ho da mettere in atto la capacità acquisita, escludo dal rapporto educativo la persona in ciò che ha di più profondo. E, di conseguenza, nel momento in cui - al termine del rapporto educativo - lascio la persona che mi era stata affidata, l’abbandono in una sorte di «terra di nessuno [le leggi bronzee dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido] in cui l’io appare come fantasma dominato da forze primordiali» [M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca ed., Castel Bolognese 2006, 38].
            Ho spiegato, spero, in che senso parlo di “rottamazione dell’io”, come prezzo da pagare a chi sostiene e pratica un’azione educativa che nega la responsabilità dell’educatore a trasmettere una immagine, una forma viva di uomo autentico.
            Siamo così giunti all’affermazione più grande circa la responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile della nascita di un io, di una persona. Cioè di quanto esiste di più grande nell’universo. Del resto, da secoli la tradizione cristiana definisce l’educazione come una continuata generazione, a iniziare da S. Paolo.

            4.         Quanto detto però sembra contraddittorio: come si genera un io nella libertà proponendogli una visione della realtà che è propria di chi lo educa? Non è meglio che la responsabilità dell’educatore si limiti entro i confini della trasmissione del sapere; del sapere come vivere e come convivere? Concretamente: a trasmettere semplici regole di comportamento, regole quanto più formali, prive di contenuto.
            La difficoltà oggi non infrequente è una delle radici più importanti del malessere educativo che stiamo attraversando. Essa è una conseguenza di un grave errore antropologico: pensare che il rapporto fra libertà ed appartenenza sia di proporzione inversa. Più libertà se minore è l’appartenenza, fino a pensare che la persona libera è la persona che non appartiene a nessuno.
            Naturalmente non sono negati – e come potrebbero esserlo? – l’appartenenza familiare, nazionale, storica, culturale. Tuttavia sono considerate semplici passaggi psicologici ed emotivi verso la vera libertà intesa come pura auto-determinazione. Non posso ora fermarmi a riflettere lungamente su questa tematica, mi limito ad alcune osservazioni maggiormente attinenti al nostro tema.
            La scelta della libertà non nasce dal niente: dal niente non nasce niente. Nasce dal confronto fra la proposta di vita [che si fonda su una visione del mondo] fatta dall’educatore, e la soggettività della persona che si va sviluppando,  che si ha da educare. L’atto educativo non fa nascere un io libero perché non propone nulla, ma perché propone in modo che chi riceve abbia un terreno su cui porsi ed un referente con cui confrontarsi, un’ipotesi interpretativa della realtà da verificare. E qui tocchiamo il fondo della questione: la fiducia nella ragione.
            Se partiamo dal presupposto che non esista una verità circa il bene della persona; che non esiste nell’uomo un desiderio innato di “sapere come stanno le cose”, ma solo di cercare il proprio bene privato e individuale, essendo ogni proposta di vita un’opinione al servizio della felicità di chi la propone, che diritto ha l’educatore di proporre all’educando la propria visione del mondo?
            Lasciamo per un momento l’ambito della riflessione educativa per una considerazione più generale.
            Se partiamo dalla certezza che esiste una verità circa il bene della persona; che esiste di conseguenza un bene comune fra le persone, l’eventuale controversia sulle ragioni di convinzioni anche opposte, non diventa mai una controversia fra rivali. Diviene un incontro fra alleati nella ricerca comune della verità.
            Se, al contrario, sono convinto che abbia ragione D. Hume quando scrive che non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi, delle due l’una. O si impone colla forza il proprio punto di vista [non necessariamente la forza fisica]; o ciascuno vive in un’insuperabile estraneità all’altro.
            Il relativismo è l’ospite più inquietante ed ingombrante nella dimora dell’educatore, perché genera degli a-polidi non solo e non principalmente in senso politico.
            Ed allora? C’è un fatto originario che contesta la deriva relativista dell’educazione. Esso è narrato in un verso virgiliano stupendo. Rivolgendosi ad un neonato, il poeta gli dice: «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem». Il bambino entra in un territorio che non conosce, nell’universo dell’essere che ignora. Le domande fondamentali che ha dentro sono due: “che cosa è ciò che è?” [domanda di verità]; “ciò che è, mi è ostile o benevolente?” [domanda di bene]. Egli ha la risposta nel modo con cui la madre gli sorride, cioè lo accoglie. L’essere, il mondo è disponibile ad accogliermi: la verità dell’essere è il bene [Benedetto XVI continua a ripeterlo: la realtà è abitata dal Logos; il Logos è Agape]. Quando questo incontro originario con la realtà non accade, sappiamo bene quali conseguenze devastanti ha su tutta la vita della persona. E pensiamo ai bambini buttati nei cassonetti; pensiamo ai bambini rifiutati.
            Un volto indifferente, il volto della sfinge non fa nascere un io libero: «… risu cognoscere matrem».

            Siamo così giunti a scoprire una dimensione drammatica della responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile, è custode della verità dell’essere e della verità circa il bene della persona. È responsabile della nascita di un io, non semplicemente libero, ma veramente libero perché liberamente vero.

5.         Dobbiamo ora infine ma non dammeno chiederci quale è la modalità attraverso la quale l’educatore propone la sua visione del mondo, la sua proposta di vita.
            Tutti, penso, siamo convinti che non si può ridurre l’educazione all’istruzione. All’educatore vero interessa soprattutto non che l’educando apprenda qualcosa, ma diventi qualcuno. In che modo?
            Fondamentalmente se il “qualcuno” che gli è proposto di diventare, è incarnato, ha preso corpo nell’educatore, e in modo affascinante. La modalità propria del rapporto educativo è la testimonianza dell’educatore.
            La testimonianza non è mero insegnamento, il quale come tale si rivolge all’intelletto. La testimonianza tocca intimamente la persona: muove l’io verso la sorgente profonda da cui la testimonianza sgorga.
            Benché non si riduca ad esso, la testimonianza implica l’esempio. Quando l’educatore contraddice con il suo comportamento ciò che propone, normalmente la sua proposta non ha alcuna forza. Agostino non ha più voluto imparare la lingua greca per tutta la sua vita, per le bastonate che prese dal suo primo insegnante di quella materia.
            Ciò non significa che all’educatore non sia permesso sbagliare: è inumano pretendere questo. Ma quando accade, il riconoscere lo sbaglio è profondamente educativo. Il riconoscimento testimonia nei fatti che la verità della proposta fatta è tale da esigere che si prenda posizione a suo favore, anche contro se stesso. Questo può causare un fascino assai profondo sull’educando.
            Abbiamo così scoperto un’altra dimensione della responsabilità dell’educatore: è la responsabilità di testimoniare la verità circa il bene della persona. Socrate è stato il primo grande educatore in Occidente perché ha testimoniato contro il potere la verità circa il bene della persona, fino a subire la morte.

6.         Concludo. Siamo andati scoprendo via via le varie dimensioni della responsabilità educativa. L’educatore ha la responsabilità della nascita di un io veramente libero e liberamente vero; ha la responsabilità della custodia della verità circa il bene della persona; ha la responsabilità della testimonianza alla verità circa il bene dell’uomo.
            Mi chiedo, per concludere, c’è una sorgente nascosta da cui sgorga continuamente questa responsabilità dell’educatore? In ultima analisi c’è un’esperienza interiore che custodirà sicuramente questa responsabilità contro ogni potere che comunque tenta sempre di privarne l’educatore? Esiste. La descrivo colle parole di Romano Guardini: «A dispetto di tutte le regole tratte dall’esperienza, e degli scopi e degli ordinamenti, egli deve – con il suo intimo atteggiamento – sempre di nuovo ritornare a quella consapevolezza che non si esprime con affermazioni come: “questo bambino qui, in mezzo ad altri cinquanta”, bensì dice: “tu, bambino; unico nel tuo essere – di fronte a me” chi non è capace di agire così, è un allevatore di individui utilizzabili dallo Stato; è un addestratore di abili forze economiche – ma non un vero educatore di uomini» [Etica, Morcelliana, Brescia, 2001, 895]. Ed è solo l’amore che fa guardare l’altro come “unico nel suo essere”: «l’educazione è un affare del cuore» [S. Giovanni Bosco].

S. Em. Card. Carlo Caffarra
Arcivescovo Metropolita

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lunedì, 25 aprile 2011
LA RISURREZIONE E' UN FATTO,
di Carlo Caffarra* 23-04-2011
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resurrezione
«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato». La Chiesa è nata dalla costatazione di un fatto: Gesù crocifisso morto e sepolto, è risuscitato. E la comunità cristiana continua ad essere costruita sul fondamento di questo fatto. Essa non è raccolta primariamente attorno all’insegnamento religioso di un maestro; non è in primo luogo la comunità di coloro che accettano di vivere secondo un determinato codice morale. Più semplicemente, è la comunità di coloro che credono alla narrazione del seguente fatto: Gesù è risorto. È un fatto realmente accaduto nella storia - un fatto storico - di cui gli Apostoli sono testimoni e non certo gli inventori. È un fatto: non un mito o un simbolo creato per comunicarci significati religiosi, o per stimolarci ad impegni etici. Nello stesso tempo però la risurrezione di Gesù non è stato un semplice ritorno alla vita che viveva prima della morte, alla sua vita terrena. Ma nella sua risurrezione, Cristo anche col suo corpo è entrato nella gloria dell’esistenza del Padre e posto nella sua stessa condizione. Come di dice l’apostolo Paolo, Egli «si trova … assiso alla destra di Dio». L’umanità del Verbo incarnato, il suo corpo crocefisso e morto è divenuto partecipe della stessa vita di Dio. Riflettiamo bene su questo fatto. Nella sua umanità in tutto simile alla nostra, nella sua carne fragile e mortale come la nostra, Gesù è divenuto partecipe della vita eterna di Dio: questo è ciò che è accaduto nella risurrezione. È dunque la più grande “trasformazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova. Non per niente durante questi giorni pasquali sentirete spesso ripetere: “Cristo risorto non muore più; la morte non avrà più nessun dominio su di lui”. L’apostolo Paolo insegna che esiste una condivisione vera e propria da parte dell’uomo della condizione di Cristo risorto. Con Cristo ed in Cristo siamo resi capaci anche noi, così come tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo, e siamo chiamati ad entrare e a compiere quel “salto” decisivo dentro alla dimensione di vita nuova di cui Cristo risorto è sorgente e causa. Con la sua risurrezione Egli ha dato inizio ad una nuova umanità, ad un modo nuovo di essere e di vivere; una novità che penetra continuamente dentro tutto il mondo del peccato, lo purifica e lo trasforma, e lo attira a Sé. Questa purificazione e trasfigurazione avviene concretamente mediante la Chiesa: mediante la fede alla predicazione del Vangelo ed i sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucarestia. La presenza della Chiesa impregna la vita dell’uomo e l’universo intero della potenza trasformante del Signore risorto, comunicando a chi crede la stessa vita divina. Pertanto, «la Chiesa può, così, essere concepita come il “Corpo di Cristo” e l’organo congeniale attraverso cui il Risorto esercita la sua signoria e dispiega la sua forza vitale. Essa diventa, in questo senso, la comunità di Pasqua nel mondo» [L. Scheffczyk]. È questo che la Chiesa porta nel mondo: la forza di Cristo risorto, che trasforma la nostra povera umanità devastata dal peccato. Ed è questa la sorgente da cui scaturisce la capacità, il dovere ed il diritto della Chiesa di educare, e la sua legittimazione a farlo. Dal fatto della Risurrezione di Gesù, che dispiega la sua forza trasformante attraverso la Chiesa, nasce il bisogno per il credente di testimoniare dentro ogni ambito della vita la signoria del Risorto: «e ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio». Oggi più che mai, i discepoli del Signore sono chiamati a fuggire da un rinunciatario ripiegamento in se stessi e a collegare continuamente la proposta evangelica coi bisogni più profondi del cuore umano. E le nostre città oggi hanno particolare bisogno di testimoni del Signore risorto, perché hanno bisogno di ritrovare quel coraggio di esistere senza del quale non possono non avviarsi sul viale del tramonto, e non congedarsi dalla storia. La Risurrezione del Signore è la grande forza che Dio, ricco di misericordia, ha immesso nella storia di ogni uomo e di tutta l’umanità. È la risurrezione corporea di Gesù che dà all’uomo il diritto di sperare: sempre e comunque. * Arcivescovo di Bologna

Postato da: giacabi a 11:30 | link | commenti (1)
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lunedì, 30 agosto 2010
Matrimonio e unioni omossessuali
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- Una Nota dottrinale del Cardinale Carlo Caffarra Pubblicato sul Supplemento di Avvenire Domenica 14 Febbraio 15/02/2010 Di Carlo Caffarra - Arcivescovo di Bologna

La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori mass-mediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione.
(1) Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l'umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico. In Occidente l'istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall'interno il vincolo coniugale; non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti. La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. E davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica. Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa "disistima intellettuale" è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all'unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l'abilitazione all'adozione dei figli. A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento - fosse anche una sola! - una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune. La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa.

(2) L'equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune. Mentre l'unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene - non solo biologico! -della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l'unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l'inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita. Inoltre, è dimostrato che l'assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo. Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all'unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.

(3) Un'altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema. L'equiparazione avrebbe, dapprima nell'ordinamento giuridico e poi nell'ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l'unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l'uno faccia una scelta piuttosto che l'altra. Detto in altri termini, l'equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.

(4) Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione. La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi. Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d'Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: «L'uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo» [2,2, q.63, a. 1c]. Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone. Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un'altra visione etica. L'obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall'unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l'ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento. Ovviamente - la cosa non è in questione - i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza. Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per esempio l'accusa di omofobia a chi sostiene l'ingiustizia dell'equiparazione; l'obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l'elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.

(5) Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere. Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono. Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l'introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale. Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie. E impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell'altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso. Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell'amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche. (Bologna, 14 febbraio 2010 Festa dei Santi Cirillo e Metodio, Compatroni d'Europa)

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caffarra

lunedì, 18 gennaio 2010

IL VALORE DELLA VITA UMANA NEL MAGISTERO DI GIOVANNI PAOLO II
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Nel Magistero dei suoi Pontefici la Chiesa esprime la sua fede e la sua testimonianza alla Verità di Cristo. Per questa ragione, l’autore della lettera agli Ebrei raccomanda ai suoi destinatari di vedere nella varietà delle persone che lo rappresentano, il Cristo che rimane sempre lo stesso: ieri, oggi e sempre, non lasciandosi così sviare da insegnamenti vaghi e peregrini (cfr. Ebr 13,8).
Ma è precisamente la permanenza della Verità di Cristo nella Chiesa ad esigere dai suoi Pastori di richiamare la coscienza dell’uomo soprattutto sulle verità evangeliche che, a seconda delle situazioni, sono maggiormente contestate. Ed è fuori dubbio che oggi il valore della vita umana lo sia particolarmente. La testimonianza al Vangelo della vita è pertanto centrale nel Magistero di Giovanni Paolo II. Testimonianza che ha trovato il suo momento più alto e teologicamente più qualificato nella Lett. Enc. Evangelium Vitae del 25 marzo 1995. (da ora in poi EV).
1. La certezza di base
 Possiamo iniziare la nostra riflessione da un’affermazione di sconcertante semplicità, ma di decisiva importanza. Quale è la certezza di base, la radice più profonda della difesa della vita umana da parte del Magistero della Chiesa? La certezza che l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene. Di fronte a una persona umana nessuno ha il diritto di dire: “è un male che tu ci sia!”. Al contrario, di fronte a qualsiasi persona ciascuno deve dire: “è un bene che tu ci sia!”. E’ la certezza, assoluta ed incondizionata, che “la vita è sempre un bene” (EV. 34,1).
 
La certezza della Chiesa si radica sull’affermazione che al principio di ogni esistenza umana c’è un atto di intelligenza e di libertà divine: c’è un atto creativo di Dio: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato (Ger. 1,5): l’esistenza di ogni individuo, fin dalle origini, è nel disegno di Dio” (EV. 44,3: sott. nel testo). La Chiesa esclama di fronte ad ogni essere umano vivente: “è un bene che tu ci sia, poiché Dio ti ha pensato e voluto (cioè creato)”. La difesa del valore di ogni vita umana è sempre implicata nella confessione del primo articolo della fede cristiana: Dio Creatore  e la Sua glorificazione (cfr. EV. 34 e 36).

2. Il «test» decisivo: la vita umana concepita non ancora nata
 La certezza del valore di ogni vita umana accompagna il Magistero di Giovanni Paolo II così costantemente, che è impossibile riassumerlo in poco spazio. Vorrei allora attirare l’attenzione soprattutto su un capitolo del suddetto Magistero: quello riguardante la vita umana già concepita e non ancora nata. La ragione di questa scelta sarà spiegata più avanti.
 La prima domanda che il Magistero di Giovanni Paolo II si pone è la seguente: quale è l’atto eticamente degno di dare origine ad una persona umana o - il che equivale - quando la persona umana è concepita in modo adeguato alla sua dignità? La seconda domanda è coerentemente correlativa alla prima: quando il valore della vita umana è negato nel suo stesso concepimento? Il Magistero di Giovanni Paolo II ha dunque il momento della proposta positiva, quindi di conseguenza diventa denuncia delle ferite inferte, già a questo livello originario, alla dignità della persona umana.
 
L’atto eticamente degno di dare origine ad una persona umana è l’atto sessuale coniugale. Si tratta di un’affermazione centrale nel Magistero del S. Padre. Dignità etica significa che solo l’atto coniugale ha in sé la capacità di istituire un rapporto col possibile concepito, adeguato alla dignità di questi. Quali sono le ragioni profonde di quest’affermazione? Ne troviamo diverse nel Magistero di Giovanni Paolo II. Mi limito alle due fondamentali, fra loro strettamente connesse.
La prima. L’atto di porre le condizioni del concepito di una nuova persona umana è una cooperazione con l’attività creativa di Dio (cfr. EV. 43 ad anche Es. ap. post-sinodale Familiaris consortio 28 e Lett. alle famiglie Gratissimum sane 9). Una cooperazione che deve essere la più simile possibile all’amore creativo di Dio. La seconda ragione è che, all’infuori di questo modo di porre le condizioni del concepimento della nuova persona, non esiste che la possibilità di un’azione di carattere tecnico che istituisce un rapporto ingiusto col concepito: possiamo produrre le cose, non le persone (cfr. Congregazione per la Dottrina delle Fede Istr. Donum vitae  22/02/87, soprattutto n. 4).
Dall’affermazione dottrinale, secondo la quale l’unica culla degna del concepimento di una persona è l’atto coniugale, deriva la conseguenza che ogni procedimento tecnico che si sostituisca all’atto coniugale nel porre le condizioni del concepimento, è da ritenersi moralmente illecito, in quanto non rispettoso della persona umana. Quando Giovanni Paolo II emise un giudizio negativo sulla fecondazione in vitro, ed allora era solo omologa, non mancò chi, anche fra cattolici, parlò di un “nuovo caso Galileo” che si poteva aprire; né mancò chi avrebbe preferito che il S. Padre si limitasse a dare orientamenti solo generali. Ma il futuro della procreatica, quello che oggi viviamo, ha dato ragione al Magistero pontificio. Certo può sembrare strano, ed a molti è sembrato e sembra tale, questo giudizio negativo: proprio in rapporto al valore della vita umana. Sembra logico che la difesa, così intransigente nel Magistero di Giovanni Paolo II, della vita umana e l’esaltazione del suo valore comporti l’accoglienza di procedimenti, i quali precisamente rendono possibile il sorgere di una nuova vita umana altrimenti impossibile: almeno all’interno di una coppia legittimamente sposata. Il punto è importante, perché ci aiuta a capire la vera, intima natura della testimonianza del S. Padre al valore della vita umana. Non si tratta, infatti, di una generica valutazione della vita, di una indistinta affermazione. E’ la vita della persona che è un valore etico, non la vita come tale. La vita di una pianta, di un animale non ha in sé alcuna preziosità di carattere propriamente etico, ma solo di carattere utilitaristico al servizio dell’uomo (cfr. EV 34,3), E’ la persona vivente il valore etico, poiché essa è la Gloria di Dio. C’è un abisso a separare la Chiesa dai movimenti ecologici, da questo punto di vista. La condanna dei procedimenti procreativi artificiali non è altro che l’affermazione della dignità della persona. Non ogni modo di dare origine alla vita è eticamente accettabile, così come non ogni modo di prolungarla comunque: è la «persona vivente» al centro delle preoccupazioni del Magistero, non in quanto vivente, ma in quanto persona.
E’ nella sua difesa che Giovanni Paolo II ha raggiunto, dal punto di vista della qualificazione teologica, il vertice del suo Magistero (cfr. EV
. 57,3).
3. Il delitto abominevole dell’aborto
 Durante gli ultimi trent’anni la legislazione permissiva dell’aborto è stata massicciamente promulgata: anche nei paesi di più lunga tradizione umanistica e cristiana. E’ difficile esprimere brevemente tutto il Magistero di Giovanni Paolo II su questo fatto, di incalcolabile portata. Mi limiterò all’essenziale accenno di alcuni temi che mi sembrano i più importanti.
 In primo luogo l’abdicazione da parte dello Stato di difendere quella persona umana, la persona umana già concepita e non ancora nata, è in realtà l’abdicazione dello Stato alla sua ragione d’essere stessa, nel piano della Provvidenza divina. In una parola: è l’abdicazione alla sua propria dignità. Rifiutando intatti la difesa a chi può far appello per essere rispettato unicamente alla sua appartenenza all’umanità, al fatto di essere una persona umana, ritenendo che questo non sia sufficiente per meritare un rispetto assoluto ed incondizionato, lo Stato diventa il garante dell’interesse dei più forti. Ed è in questo che ha perduto ogni sua dignità. In una parola: o la legge difende e promuove la dignità di ogni persona umana semplicemente perché tale o essa diventa l’espressione della volontà del più forte. Che sia una sola persona a promulgare tali leggi o che sia una maggioranza parlamentare è indifferente (cfr. EV 72).
 La difesa della vita concepita si inserisce pertanto nel contesto di un richiamo forte all’uomo di non tradire la propria identità, tradendo la propria coscienza morale. Mi spiego. La negazione del valore della vita umana, quale si ha nella legittimazione dell’aborto, è la corruzione totale della sorgente stessa del sociale umano. La prima originaria forma del sociale umano, cioè la società coniugale, si “supera”, si apre, costituendo così tutto il sociale umano nel suo germinare, quando la donna, per prima, si rende conto di aver concepito un uomo. (cfr. EV 43,3). Dal sociale duale (un uomo-una donna) si esce per aprirsi in un sociale che non ha limite. Se si legittima il principio secondo il quale il concepito è uomo perché la donna lo riconosce come tale e non il contrario, la donna riconosce il concepito come uomo perché tale egli è, per ciò stesso si legittima il principio che l’accesso all’umanità, alla dignità umana è condizionato dal consenso di un altro. Si legittima il principio che il sociale umano è posto in essere dalla convergenza degli interessi e non dalla partecipazione di tutti e ciascuno alla e nella stessa umanità. Si cambia la definizione stessa di «prossimità umana»: non «mio prossimo perché partecipe della stessa umanità», ma «mio prossimo perché non contrasta la mia utilità». Cioè: la fondazione ultima del sociale umano non è costituito dal legame nella stessa umanità, ma dalla contrattazione sugli interessi degli individui (cfr. EV 20).
 Posta alla base del sociale umano questa «ontologia» , il principio utilitarista e non la norma personalista ne diviene la base etica colla conseguenza che l’esistenza di chi non può, non ha la forza di difendere il proprio utile, viene inesorabilmente distrutto.
Alla radice di questa corruzione totale del sociale umano sta l’oscurarsi della verità sul bene nella nostra coscienza morale. Questa viene impedita di vedere in ogni persona umana qualcuno di incondizionato valore: impedita di vedere il bene morale come tale. Il bene morale infatti si mostra concretamente nella persona umana.
 Nel magistero di Giovanni Paolo II anche la difesa della vita umana contro i sacerdoti dell’idolo scienza al quale vorrebbero sacrificarla, usando embrioni umani per la ricerca scientifica, è sempre fatta nella luce abbagliante della certezza di fondo: l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene inviolabile perché “nell’uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio” (EV 34,2),
4. Nel cuore del dramma
 “Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo”: scrive il S. Padre (EV 21,1). Esso consiste nella «eclissi del senso di Dio e dell’uomo» (ivi).
 Spezzando il rapporto con Dio come ragione del proprio essere, l’uomo ha voluto fondarsi su se stesso: essere ragione lui stesso del proprio essere. Si deve notare che non stiamo parlando di quell’atto di libertà che è il peccato e che implica sempre una “aversio a Deo”. Stiamo parlando di un evento spirituale diverso, e più radicale e sconvolgente: voler essere se stesso, fondando se stesso su se stesso, e non più sulla Potenza che ci fonda. Sotto questo peso l’uomo è crollato ed è giunto ormai alla rassegnata noia di un esistere che non sa più donde viene e dove va: si accontenta solo di esserci. Il magistero di Giovanni Paolo II fa notare quasi ad ogni pagina che questa vicenda spirituale non poteva che generare una cultura di morte. Una cultura in cui si è giunti perfino ad “attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri” (EV 20,4). Le coordinate essenziali di questa cultura della morte sono due forme di disperazione. Una disperazione per ostinazione (Kierkegaard): non voler essere ciò che si è, cioè indegni della morte;  una disperazione per debolezza: non poter essere ciò che si è, e quindi chiamare la morte una conquista di civiltà (come si è fatto per l’aborto e si sta facendo per l’eutanasia).
Conclusione: il bacio della misericordia
 Non sono così grande!” sembra dire l’uomo di oggi alla Chiesa che gli annuncia il Vangelo della vita. L’uomo, si dice, non è assolutamente indegno della morte, e quindi non si può esigere che non sia violata la vita di nessuno in nessuna circostanza. E’ la disperazione per debolezza, appunto. Che cosa fa allora la Chiesa a questo uomo disperato più per debolezza che per ostinazione? Ciò che Cristo fece al grande Inquisitore, che pure rinfacciava a Cristo di nutrire troppa stima per l’uomo. Lo bacia col bacio che è la Misericordia di Dio, e per questo gli annuncia il Vangelo della vita.
Card. Caffarra
 

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nichilismo, laicismo, caffarra, giovanni paoloii

domenica, 30 agosto 2009
MEETING/
Il Cardinal Caffarra:
la conoscenza cristiana antidoto al dogma relativista
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martedì 25 agosto 2009 da: www.ilsussidiario.net


La conoscenza è sempre un avvenimento” è il titolo del Meeting di Rimini di quest’anno. Ne parliamo con Sua Eminenza Cardinal Caffarra, che oltre a essere arcivescovo di Bologna e fine esperto di questioni bioetiche, è profondo conoscitore di don Luigi Giussani e della sua opera.

Eminenza, qual è la sua opinione in merito al titolo scelto quest’anno dal Meeting di Rimini?

In primo luogo vorrei prendere in esame i due termini principali riuniti in questo enunciato, la conoscenza e l’avvenimento. Parto da questi due temi proprio per sottolinearne la grande attualità e importanza in questi contenuta; vi è difatti l’urgenza al giorno d’oggi di tornare a comprenderli nella loro pienezza. Comincio con il secondo di questi, l’avvenimento.
Sappiamo che l’avvenimento è una categoria centrale nel pensiero teologico di don Giussani, nella sua proposta educativa. Lo è perché, mediante tale parola, egli intendeva sottolineare come la proposta cristiana non fosse prima di tutto l’insegnamento di una dottrina o la proposizione di un codice morale, bensì la possibilità per l’uomo di incontrare la persona viva di Gesù Cristo, possibilità che viene offerta nella Chiesa. E qui si aggancia il secondo termine, quasi come ovvia conseguenza, ossia la conoscenza. Questa sta in rapporto all’avvenimento perché quando l’uomo vive davvero una profonda esperienza di ricerca del significato della realtà e delle ragioni per cui vale la pena vivere non può non rendersi conto che tutte le sue domande possono ricevere una risposta solo da un incontro che ci educa a conoscere.
A me sembra dunque che il Meeting affronti un nodo centrale dell’epistemologia della fede e anche relativo alla condizione dell’uomo occidentale di oggi.

Nell’attuale contesto culturale quali sono gli ostacoli più grandi a una conoscenza efficace della realtà?

Io credo che fondamentalmente siano due: da una parte il dogma dello scientismo sotto il quale tutti viviamo e secondo il quale è vera conoscenza solo ciò che può essere quantificato, misurato e verificato, appunto, scientificamente. Di conseguenza è un tipo di conoscenza imbrigliata in una griglia dottrinaria, rigida e schematica.
L’altra grande insidia è invece quella del nichilismo, vale a dire una posizione che, portata alle estreme conseguenze, nega che la ragione umana sia impastata di un desiderio infinito.
Queste due gravissime insidie, che per me sono oggi le due malattie mortali della ragione umana, o per lo meno occidentale, impediscono all’uomo, come si può facilmente intuire, di muoversi in una direzione del conoscere che stia alle condizioni sopra descritte.

Quali elementi l’esperienza cristiana può contrapporre a queste due visioni del mondo?

La missione più importante e grande che i cristiani possono compiere in questo senso, il metodo migliore per salvare da queste due insidie la ragione umana, e quindi la libertà, risiede in una forte proposta educativa. A partire da questa convinzione possiamo meglio comprendere quanto Sua Santità Benedetto XVI va affermando da molto tempo a questa parte: la centralità dell’educazione nella missione dei cristiani. Perché anch’io oggi mi trovo ad affermare questo? Perché mi rendo conto che in sostanza l’educazione, come amava spesso ripetere don Luigi Giussani, non è altro che l’introduzione dell’uomo nella realtà intera.
D’altra parte anche la storia della Chiesa lo insegna. Pensiamo a quanto fece San Benedetto con la capillare diffusione dei suoi monasteri. Di fronte al crollo dell’Impero Romano, ossia dell’istituzione civile che aveva resistito per secoli, San Benedetto aprì una scuola, la scuola servitii divini, dove gli uomini ricominciarono a stare di fronte alla realtà come avvenimento e quindi a conoscerla. 

A proposito di storia della Chiesa. Spesso quanto viene comunicato oggi del cristianesimo viene, più o meno in malafede, frainteso. In che modo è possibile una conoscenza autentica dell’esperienza cristiana?

Questa è una domanda che prende spunto da una considerazione negativa, per quanto reale. Voglio però rispondere positivamente, con una proposta che peraltro è la stessa lanciata instancabilmente dal Papa. Con il suo magistero Benedetto XVI ci ha indicato il metodo attraverso il quale la proposta cristiana va fatta.
In primo luogo occorre una grande limpidezza nella proposta, che non scenda cioè a compromessi apparentemente convenienti. Il secondo aspetto da tenere presente è che vi sia un’attenzione ad essere sempre rivolti verso l’essenziale dell’esperienza cristiana, ossia della sua incidenza nella vita dell’uomo. In terzo luogo è necessario compiere la fatica di dare le ragioni del cristianesimo, riuscire ad affermare apertamente l’intima ragionevolezza della proposta cristiana.
Laddove manchi anche uno solo di questi elementi, che sono i fattori principali del messaggio cristiano stesso, qualsiasi cosa venga affermata, anche con le migliori intenzioni, sarà inevitabilmente destinata a passare sopra la testa della gente.
Voglio comunque rispondere anche al rilievo “culturale” della domanda. È vero, uno dei modi attraverso cui si cerca di evacuare l’avvenimento cristiano, e anche di liquidare la storia della Chiesa, è quello di ridurlo a un minimo comune denominatore, normalmente etico. A quel punto il messaggio cristiano è andato perso. Per questo occorre quella testimonianza viva affermata dal Papa.

Sua Santità Benedetto XVI ha spesso condannato il relativismo indicando in questo una delle maggiori minacce della modernità. Pensa che considerare la conoscenza come avvenimento sia una risposta efficace al nichilismo dilagante?

Assolutamente, anzi io direi che non solo è una risposta, ma è la risposta. Occorre rieducarsi a comprendere che la verità della vita non può essere semplicemente fatta coincidere con una dottrina o con un programma morale, che in fondo sono l’unica soluzione offertaci dalle visioni relativista e nichilista.
Non si può preconfezionare una regola, sia scientifica sia morale e poi applicarla alla vita. L’uomo deve tornare a scoprire che la verità di sé, delle cose, della realtà ha sempre a che fare con un accadimento dentro il quale c’è la presenza del mistero.

(Raffaele Castagna)

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lunedì, 10 novembre 2008
La libertà
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« Non è libero né chi fa ciò che vuole ma non facendo ciò che deve, né chi fa ciò che deve ma non facendo ciò che vuole. Libertà è fare ciò che vogliamo facendo ciò che dobbiamo, o fare ciò che dobbiamo facendo ciò che vogliamo».
Carlo Caffarra

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sabato, 19 gennaio 2008
All'origine della pretesa cristiana
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il discorso integrale del card. Caffarra a cui sono più affezionato

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Alcune settimane orsono uno dei miei parroci mi chiese: "che cosa oggi è più importante, quale è la prima esigenza cui attendere?". Ho risposto: "Rimettere Gesù Cristo al suo posto". Leggendo, o meglio rileggendo il libro di L.Giussani, All’origine della pretesa cristiana, ho trovato la conferma della mia risposta. Il problema delle comunità cristiane, e quindi delle società civili occidentali è e rimane Gesù Cristo.
Se non vado errato il libro indica la strada adeguata, il metodo [parola molto cara al genio educativo di don Giussani] che la persona umana deve seguire se vuole incontrare Gesù Cristo, e le ragioni per cui l’uomo può e deve intraprendere questa via. In sintesi: "le modalità secondo le quali si può aderire coscientemente e ragionevolmente al cristianesimo" [pag. VI].
Esiste tuttavia una questione preliminare, una questione che vedo oggi sempre più incombente e spiritualmente devastante. Espressa in termini brutali: e perché dovrei intraprendere questa strada? Chi me lo fa fare? Non la ragionevolezza del credere, ma la ragionevolezza di compiere l’atto dello stesso interrogarsi sulla ragionevolezza del credere. L’insidia, già descritta da Leopardi, di rifiutarsi alla propria umanità, di abdicare a se stesso: "O greggia mia che posi, oh te beata / Che la miseria tua, credo, non sai! / Quanta invidia ti porto!" [Canto notturno di un pastore errante dell’Asia]. Il libro non ignora questa sfida o provocazione; anzi in qualche modo inizia da essa. Anch’io vorrei dunque presentare le mie riflessioni iniziando da questa condizione spirituale, per passare poi ad alcune considerazioni su quello che ho sinteticamente chiamato il metodo, la via per incontrare Gesù Cristo e concludere con alcune riflessioni sulla situazione contemporanea vista alla luce di queste pagine.
1. [La questione preliminare]. Pascal scrive profondamente che gli uomini si possono dividere in tre classi: uomini che cercano e trovano, uomini che cercano e non trovano, uomini che né cercano né trovano. I primi sono ragionevoli e felici, i secondi sono ragionevoli ma infelici, i terzi non sono né ragionevoli né felici. A quali di queste tre categorie appartiene l’uomo occidentale di oggi? Mi sembra alla terza: né cerca né trova; irragionevole ed infelice. Un uomo che si accontenta di navigare a vista, di ridursi dentro la misura del provvisorio. Nega alla propria ragione ogni audacia nell’andare oltre il "frammento" per cogliere il senso dell’intero; nega alla propria libertà ogni audacia nella scelta di un definitivo che dia pienezza di gusto ad ogni provvisorio. La debolezza del pensare genera sempre una debolezza nella libertà, capace ormai solo o di omologazione o di ribellione. Ma sia chi si omologa sia chi si ribella è uno schiavo; l’uomo libero né si omologa né si ribella. Irragionevole ed infelice.
Che cosa è veramente accaduto dentro a questa nostra cultura occidentale? L’uomo ha perduto se stesso: questo non era mai accaduto, e mai come oggi le parole di Gesù risuonano nella loro bruciante verità: "che cosa vale per l’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?". Ma in che cosa consiste questa perdita di se stesso da parte dell’uomo?
Siamo costitutivamente orientati alla Verità, alla Bontà, alla Bellezza: siamo costruiti per il Vero, il Bene, il Bello. E’ questa la nostra dignità incomparabile! E’ questo che significa essere persona! In forza di questo orientamento, infatti, ciascuno di noi emerge, sporge per così dire su ogni realtà che incontra. E’ capace di prendere le distanze, di giudicarla. Pone cioè se stesso come soggetto libero, capace non solo di re-agire alle varie situazione in cui viene a trovarsi (anche gli animali e perfino le piante re-agiscono!), ma è capace di agire. E’ questa la libertà: questa capacità di compiere azioni di cui ciascuno di noi è causa e quindi responsabile; questa capacità che dà il diritto di dire "io" con tutta la forza possibile. La persona è passata all’atto: è persona in atto.
Ma se noi, per così dire, accorciamo la misura del nostro desiderio di Verità, di Bontà, di Bellezza costringendolo dentro all’orizzonte delle varie realtà che incontriamo, noi restiamo come rinchiusi dentro alla loro finitezza. E’ come se uno prendesse una barca, scendesse in mare e cominciasse a navigare senza avere nessuna meta prevista e voluta: appena si stancherà di remare, non gli resterà che lasciarsi trascinare dalle onde, dal momento che "siamo imbarcati" (B. Pascal, Pensieri 451; Rusconi libri, Milano 1993, pag. 248). La nostra persona, occupata dalla dittatura degli stimoli, perderà la sua libertà: e con la libertà perderà se stessa. Quando una persona ha rinunciato al suo legame con Vero, col Bene, col Bello, ha rinunciato all’unica difesa valida contro la sostituzione della Verità coll’opinione della maggioranza, contro la riduzione della Bontà all’utilità dei potenti, contro la confusione della Bellezza col piacere.
Un grande credente, che visse quando questa tragica perdita di se stesso da parte dell’uomo era ancora agli inizi, descrive così la condizione umana: "Noi vaghiamo in uno spazio ampio, sempre incerti e sballottati, sospinti da un’estremità all’altra. Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci, oscilla e ci lascia andare; e se lo seguiamo, sfugge alla nostra presa e fugge in una eterna fuga. Nulla si ferma per noi. E’ la nostra condizione naturale, e tuttavia la cosa più contraria alla nostra inclinazione; noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile … ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi" (B. Pascal, op. cit. pag. 69 [trad. A. Bausola]).
Certamente, il possesso di tante cose può dare l’illusione di esistere ancora: in realtà la persona è morta! Gesù non ci ha forse detto che dobbiamo temere non tanto la morte del corpo, ma quella dell’anima? (cfr. Mt 10,28).
E’ questa la tragedia che oggi è capitata a tante persone: la perdita di se stessi. E’ avvenuto nel cuore di tanti come una sorta di "collasso spirituale": la tensione della ragione e della volontà è caduta a picco.
La ragione ha subito un collasso di tensione, perché ha rinunciato a cercare una risposta ultima e definitiva alle domande sul significato della vita. La volontà ha subito un collasso di tensione, perché si è tolta ogni capacità di tendere ad un Bene che valga in sé e per sé.
Lo scacco che il giovane Agostino ha subito nel suo desiderio di vivere la bontà e la bellezza di una vera amicizia, a causa della morte dell’amico, non lo ha chiuso in se stesso (Cfr. Confessioni IV, 9). Egli ha capito quale era la vera domanda circa l’uomo (magna quaestio!): da chi/da che cosa dipendo? a chi/a che cosa appartengo? il mio esserci è dovuto al fortuito incrociarsi di un gioco di probabilità, di cui non so chi ha stabilito le regole?
Il desiderio illimitato di Verità, di Bontà, di Bellezza, in una parola di Vita, che abita nel cuore di ciascuno di noi, è il "segnale stradale" che ci indica la direzione della ricerca del Mistero da cui dipendiamo ed a cui apparteniamo. È come il monte Nebo dal quale Mosè ha potuto vedere la terra promessa (cfr. Eb 11,13-16).
La riflessione di don Giussani inizia precisamente da questa domanda: "Nell’affrontare il tema dell’ipotesi di una rivelazione e della rivelazione cristiana, nulla è più importante della domanda sulla reale situazione dell’uomo. Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo:… Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome" [pag. 3]. Chi abdica a cercare Gesù Cristo, ha già abdicato in buona parte a se stesso. In una pagina teoreticamente tra le più ardite del pensiero cristiano, Tommaso radica la necessità per l’uomo di vedere Dio nella ragionevolezza dell’uomo stesso, e reciprocamente è il desiderio stesso che definisce la ragione umana ad avere la tensione verso la visione di Dio [cfr. 1,2.q.3,a.8]. Il rifiuto di porre semplicemente la domanda su Cristo può nascere solo dal precedente rifiuto di "andare fino in fondo" alla realtà: dal rifiuto di fare un uso spregiudicato della propria ragione. Semplicemente dal rifiuto di essere ragionevoli.
L’insistenza sull’"evidenza della ragionevolezza con cui ci si attacca a Gesù Cristo" [pag. VI], che caratterizza il carisma di don Giussani, è la risposta adeguata alla più grande malattia dell’uomo occidentale: il rifiuto di ragionare.
2. [Il metodo e l’incontro]. Ho letto il libro in questa prospettiva, ponendomi da questo punto di vista. Sono sempre più convinto che esso dia l’unica risposta adeguata perché vera. Il libro mi ha fatto continuamente ricordare una pagina del Vangelo di Luca [24, 13-35]: l’incontro di Cristo coi discepoli di Emmaus.
I due uomini sanno ciò che Gesù Nazareno ha detto e ha fatto: ne conoscono perfettamente vita, opere e discorsi. Anzi si meravigliano che ci possa essere qualcuno che non abbia questa conoscenza. Tuttavia questi uomini hanno "il volto triste" e sono senza speranza: esiste una conoscenza dell’opera e della dottrina di Cristo che lascia l’uomo prigioniero della sua tristezza e privo di speranza. La tristezza, dice colla sua solita profonda semplicità, S. Tommaso, è l’attesa di un bene assente. La speranza è la tensione verso un bene futuro ritenuto raggiungibile. La scomparsa della speranza genera sempre la tristezza: ed essi sapevano che cosa Gesù aveva fatto e detto.
Non passa neppure per la loro mente l’idea che comunque Cristo aveva lanciato un messaggio che valeva la pena di proseguire; aveva dato un esempio che dovevano loro, i suoi amici, imitare e tenerne così viva la memoria. Essi non avevano bisogno del suo "messaggio", non avevano bisogno del suo "esempio": avevano bisogno di Lui, della sua presenza non del suo ricordo. Cristo apparteneva al passato e quindi non li riguardava più. La più grande mascalzonata fatta all’uomo è stata quella di fargli credere che la dottrina e la morale insegnata da Cristo valevano più della sua Persona e quindi Lui non era più necessario. Mi sono ricordato di quanto don Giussani aveva detto al Sinodo dei Vescovi dell’87: "Ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale dell’annuncio quanto l’esperienza di un incontro". Esattamente l’esperienza dei due discepoli di Emmaus.
Scrive don Giussani: "E’ la grande inversione di metodo che segna il passaggio dal senso religioso alla fede: …la sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini… Questa è la condizione senza la quale non si può neppure parlare di Gesù Cristo" [pag. VI]. L’affermazione è teologicamente e pedagogicamente assai forte.
Teologicamente. E’ la stessa intuizione teologica espressa da U. von Balthasar: "Ogni promulgazione ecclesiale trae la sua forza di persuasione dal comando emanato non dalla Chiesa ma dal solo Cristo e che consiste nel portare in tutti i tempi e in tutti i luoghi la sua parola, la sua opera, la sua realtà" [Gloria, vol.I, pag.520].
È importante sottolineare che le proprietà fondamentali di questa esperienza, qui chiamata "sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini", quali emergono dalle pagine di questo libro, sono le seguenti: l’oggettività, il movimento, la partecipazione, la globalità. [desumo questa terminologia da G. Meiattini, Sentire cum Christo. La teologia dell’esperienza cristiana nell’opera di H. U. von Balthasar, ed. PUG Roma 1998, pag. 392].
L’oggettività: l’uomo non scopre semplicemente ciò che inconsapevolmente già era e già aveva in occasione dell’incontro con Cristo; egli si imbatte in una realtà ("sorpresa di un fatto") che è totalmente donata. Tutto Zaccheo poteva aspettarsi meno che avere Cristo suo ospite.
Il movimento: il carattere oggettivo conferisce una struttura dinamica all’incontro, liberandolo da una asfittica chiusura nella propria autocoscienza. Nel libro don Giussani insiste molto su questo "cammino dentro all’oggetto".
La partecipazione: non si sta semplicemente di fronte all’oggetto: alla persona di Cristo. Si entra in un rapporto di amicizia sempre più profonda: di comunione e di affezione nell’amore.
La globalità: è tutta la persona (ragione, libertà, affettività, corporeità) che è coinvolta.
Pedagogicamente. Essa indica ciò a cui mira tutto l’impegno della Chiesa: far vivere all’uomo l’esperienza di un incontro. L’esperienza vissuta da Andrea, Simone, Filippo, Maddalena… narrata nei vangeli è un esperienza archetipa. La vera cura, l’interesse supremo che la Chiesa ha per l’uomo è di essere il luogo in cui quell’esperienza può accadere oggi, perché essa è l’unica salvezza dell’uomo. La categoria teologica e pedagogica centrale è quella dell’incontro, poiché questa è l’unica modalità per rapportarsi ad una persona vivente. Tommaso scrive: Actus credentis terminatur ad rem, non ad enuntiabile.
Ma vorrei soffermarmi brevemente su questo tema centrale del libro in quanto corretta risposta, mi sembra, al problema oggi più che mai centrale del rapporto ragione-fede.
Ciò che apprezzo in questa posizione è che la "inevitabile esigenza" per l’uomo "di cercare quale sia il senso ultimo, definitivo, assoluto del suo punto contingente", è pensata e tematizzata in sede di riflessione filosofica e gnoseologica e non immediatamente in sede teologica e rivelata. E’ necessario dimostrare infatti in sede razionale, attraverso una ragione che non si impedisca nessuna domanda, sia l’esistenza del Mistero assoluto e trascendente, sia l’immortalità personale dell’uomo teso a "vedere Dio". Se così non si procede "si rischia di compiere un corto circuito teoretico e di saltare o di omettere, in modo teoreticamente imperdonabile, dei passi e dei nodi essenziali nel discorso del rapporto filosofia-teologia, cadendo in ingenui e frettolosi fideismi, che non convincono nessuno e che perciò non vanno proposti a nessuno" [A.Marchesi, Filosofia e Teologia. Quale rapporto?, Franco Angeli ed., Milano 1999, pag. 201-202].
In quest’opera si ha un concetto preciso di ragione e quindi di ragionevolezza di un atto, l’atto descritto come incontro con Cristo. L’intrinseca ragionevolezza consiste nella corrispondenza fra le esigenze strutturali della persona umana e la persona di Cristo: Cristo può essere creduto perché corrisponde adeguatamente alle esigenze della persona. L’intrinseca bontà della scelta di seguirlo quindi consiste nella percezione del compimento della persona [plenitudo essendi: Tommaso]: Cristo deve essere creduto perché è l’unico vero compimento della mia persona. E’ il grande magistero di Giovanni Paolo II: al contempo Cristo e l’uomo sono la via fondamentale della Chiesa.
3. [Nel contesto attuale]. In questa terza ed ultima parte della mia riflessione vorrei, per così dire, contestualizzare questa proposta: considerarla cioè nell’attuale momento che sta vivendo la comunità cristiana e la comunità civile. Mi limito a due ordini di riflessione.
Per quanto attiene alle comunità cristiane, mi viene spesso da pensare che in esse molti cristiani si trovino nella condizione dei discepoli di Emmaus. Hanno sentito parlare di Cristo; soprattutto ne conoscono la dottrina morale. Ma ciò di cui oggi hanno bisogno è di vivere la stessa esperienza dei discepoli di Emmaus: l’incontro con Cristo vivente. Incontro "in cui non innanzi tutto la verità su Gesù Cristo ma la sua realtà corporalmente presente è riconosciuta come reale risposta all’attesa più o meno consapevole del cuore" [in Ciò che conta è lo stupore, San Paolo ed., Milano 2001, pag.28].
A questa fondamentale esigenza, si è cercato di ovviare con alcuni surrogati. I più frequenti sono liturgie sempre più chiassose, un indebita e sproporzionata sottolineatura del comandamento a spese della grazia, uno spesso inconsapevole tentativo di "andare oltre" Gesù in una sorta di religione trascendente tutte le religioni.
Per quanto attiene alla società civile, di cui il vero cristiano non può non sentirsi pienamente partecipe e responsabile, sono sempre più convinto che essa ha oggi soprattutto bisogno di persone veramente libere e liberamente vere. L’affermazione di una libertà senza la consapevolezza di una verità dell’uomo [uno "zoccolo duro di umanità"] diventa la più liberticida delle affermazioni. L’affermazione di una verità che non sia continuamente proposta e provocazione di libertà diventa ideologia al servizio di un potere illimitato. La storia della Chiesa dimostra che il sorgere di persone libere e vere ha impedito che la società civile si corrompesse: persone che hanno incontrato Cristo.
Conclusione
Voglio concludere con una poesia di K. Woitila: è la sintesi di tutto ciò che ho detto.
"Questa luce scavava lentamente gli eventi d’ogni giorno,
a cui fin dall’infanzia si abituano occhi e mani di donna –
Lentamente, in questi eventi, si scoprì così sconfinato chiarore
che le mani da sole si congiunsero quando la parola perse la sua dimensione.
Figlio mio – nel villaggio dove tutti ci conoscevano entrambi
mi dicevi "Mamma" - e nessuno scrutò fino in fondo
gli eventi incredibili che tutti ogni giorno sfioravano –
e la Tua vita si confuse con la vita dei poveri
a cui volesti appartenere nella fatica quotidiana delle braccia.
Ma io sapevo: la luce che si snoda in questi eventi
come fibra di una scintilla nascosta sotto la scorza dei giorni
sei Tu.
Non io l’irradiavo –
pure fosti più mio in quel bagliore, in quel silenzio
che come frutto della mia carne e del mio sangue
.
[Stupore davanti all’Unigenito, in Tutte le opere letterarie, ed. Bompiani, Milano 2001, pag. 139-140].
"In questi eventi, si scoprì così, sconfinato chiarore": nell’evento di una compagnia, di una vita umana fatta di "eventi di ogni giorno", Andrea, Giovanni… scoprirono "sconfinato chiarore".
Ciò che costituisce il vero miracolo anche oggi è che ci siano uomini e donne che negli eventi di ogni giorno, nella compagnia con Cristo che è la Chiesa, scoprano "sconfinato chiarore".
card.Carlo Caffarra 
Auditorium di Milano
4 dicembre 2001

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