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sabato 4 febbraio 2012

Camisasca

«Autogol averlo attaccato. Arginava il dissenso al Pdl»
***
intervista a Massimo Camisasca
a cura di Aldo Cazzullo
in  www.corrieredellasera.it  del 9 settembre 2009

«Il caso Boffo è un singolare esempio di eterogenesi dei fini. Boffo non è stato per niente un
moralizzatore. All’opposto, ha mostrato gli aspetti positivi del governo Berlusconi. E ha fatto argine
a un’onda di preoccupazione e di dissenso verso il centrodestra, presente in alcune diocesi e in
settori della Chiesa italiana. Ma ora chi potrà fermare questo dissenso? Si finisce per ottenere
l’opposto di quello che si era voluto. La scaltrezza, quando è disgiunta dalla verità, finisce per
ritorcersi contro la propria origine». Don Massimo Camisasca, «ambasciatore» di Cl in Vaticano,
biografo di don Giussani, fondatore della fraternità San Carlo — presente in venti Paesi — ed ex cappellano del Milan di Sacchi, riflette sul caso Boffo. «Le sue dimissioni da direttore del
quotidiano dei cattolici italiani, che ha guidato con grande intelligenza e professionalità per anni,
hanno destato in me una serissima preoccupazione e un desiderio di reazione. E sono sicuro che lo
stesso vale per moltissimi cattolici e uomini pensosi del nostro Paese. Dove siamo arrivati con l’uso
della carta stampata? È possibile che la battaglia politica e i rapporti fra le persone, che dovrebbero svolgersi attraverso dibattiti anche aspri con la forza del ragionamento, debbano ridursi a battaglie in cui l’arma è l’ascolto delle telefonate, lo spionaggio fotografico quando non addirittura la pura invenzione, la calunnia per la calunnia?».
Oltretutto, sostiene Camisasca, «nel caso di Boffo si è andati ben aldilà di tutto questo. Si è voluto
colpire un esponente di punta del mondo cattolico perché da immorale avrebbe fatto il moralista.
Ma così non era. Dino Boffo ha avuto su di sé un carico enorme di responsabilità: direttore di
Avvenire, della televisione Sat 2000, della rete di duecento radio private Inblu. Si trattava di dare
spazio adeguato al magistero del Papa e a quello variegato dei vescovi italiani. Boffo ha creato un
giornale che, come ha scritto Ferrara, 'bisognava' leggere». Un giornale non certo nemico di
Berlusconi, anzi, attento a coglierne «la sintonia su alcuni temi cari alla Chiesa», e in grado di
fronteggiare il malumore dei vescovi e dei settori del mondo cattolico ostili al centrodestra. «Feltri
non si è reso conto che la sua uscita avrebbe creato problemi alla maggioranza, e in particolare a
Berlusconi».
Nessuno, dice Camisasca, «immagina un mondo politico e giornalistico fatto di angeli. Sarebbe ora
però di capire che gli eccessi, da qualunque parte vengano, finiscono per erodere il consenso e la
credibilità. C’è un valore sociale e umano delle virtù che sarebbe buona cosa tornare a considerare, al di là di ogni clericalismo. Lo richiamava il Papa nell’udienza di mercoledì scorso». E la Chiesa, è davvero divisa? «I vescovi stanno certo riflettendo e non mancheranno i momenti in cui faranno ascoltare la loro voce. Non si tratta assolutamente di privilegiare un campo piuttosto che un altro, di cambiare alleanze come potrebbe pensare qualcuno abituato a leggere le posizioni della Chiesa in chiave di destra o di sinistra. Occorre riconoscere gli uomini che sono in grado di operare politicamente,
garantendo una traduzione legislativa di ciò che la Chiesa segnala essere il bene non della
propria parte ma dell’uomo concreto. Politici che sappiano guardare avanti, che non si fermino a
combattere su quanti stranieri dobbiamo o non dobbiamo accogliere, ma sappiano chiarire agli
italiani quali sono le linee essenziali della nostra identità che uno straniero è chiamato a rispettare.
Allo stesso modo occorrono legislatori capaci di esprimere — su bioetica, fine vita, uso degli
embrioni, attuazione della 194, scuola — ciò che, al di là delle dichiarazioni propagandistiche, è
necessario se si vuole avere una generazione di giovani meno insicura, meno infelice, meno
violenta. Si tratta di inventare qualcosa di nuovo in continuità e discontinuità con l’antico. L’Italia è
un cantiere alla ricerca di statisti. Uomini come De Gasperi non possono appartenere solo al passato.
Anche la nostra generazione se li merita » .
Quanto alla Chiesa, «ha bisogno di una riforma della vita sacerdotale e della vita episcopale. Meno documenti, manifestazioni e convegni. Abbiamo necessità di sacerdoti e di vescovi più legati alle necessità profonde del loro popolo. Tanto più aumenterà la santità dei sacerdoti e dei vescovi, tanto più aumenterà la loro capacità di governo, il loro fiuto nelle cose del mondo, l’edificazione di tutto il popolo».
 E Cl che ruolo ha avuto in questa storia? «Per quanto ne sappia io, nessuno. Se non
esprimere affetto e solidarietà a Boffo, e sconcerto per l’operato del Giornale».
Aldo Cazzullo

Postato da: giacabi a 14:39 | link | commenti
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domenica, 02 agosto 2009
L'amicizia è una grazia
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« Amico è la parola più importante che un uomo possa dire a un altro uomo, l'appellativo più profondo, più ricco, più segreto.»
mons. Massimo Camisasca

Postato da: giacabi a 21:36 | link | commenti
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L'amicizia è una grazia
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« L'amicizia è una grazia. Non nasce da un calcolo, accade d'improvviso, come gli amori più veri. Ma mentre gli amori necessitano dell'attrattiva corporea, l'amicizia ne prescinde, non perché essa sia angelicata, ma perché ha un altro scopo stabilito da Dio, quello di essere una grazia che sostiene ogni realtà istituzionale della vita, accompagna la vocazione alla famiglia come ogni altro tipo di vocazione. »
mons. Massimo Camisasca

Postato da: giacabi a 21:30 | link | commenti
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domenica, 14 giugno 2009
La menzogna
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«Il male della vita non è il dolore, ma la menzogna: l’aspettarsi all’inizio quel che è alla fine, il non amare la strada».
Don Camisasca da: Don Giussani ed. San Paolo

Postato da: giacabi a 09:05 | link | commenti
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mercoledì, 06 maggio 2009

     Meditazioni sulla Salve Regina

                          ***

di Massimo Camisasca 06/05/2009

Salve Regina
Salve Regina
La preghiera inizia con un indirizzo di saluto, come l’Ave Maria. Mentre l’angelo non aveva bisogno di catturare la benevolenza di Maria, noi sì. Perciò lui dice: “Ave Maria”, noi: “Ave Regina”. È una comprensibilissima ricerca di benevolenza. E poi Maria è contenta di sentirsi chiamare Regina, perché tutto ciò le ricorda la regalità di suo Figlio.
Quando ascolto le litanie lauretane musicate da Mozart, mi par di sentire in quel “Regina”, che è un’esplosione ferma e dolcissima assieme, supplicante, le voci degli uomini e delle donne che ricorrono a Lei, perché lei può tutto. La sua regalità le deriva dalla regalità del Figlio, che ora siede alla destra di Dio.
La regalità di Maria è celebrata nel bellissimo mosaico di Santa Maria in Trastevere. Gesù incorona e abbraccia Maria. Siedono l’uno accanto all’altra sullo stesso trono. Maria partecipa della regalità di Gesù. Nello stesso tempo è una madre, ha il cuore segnato dalla compassione per i suoi figli, che è la stessa compassione che ha avuto per suo Figlio. Vuole che i suoi figli partecipino della stessa gloria che avvolge suo Figlio
.
 
madre di misericordia
Poi la invochiamo come madre. È il nome più importante da collocare accanto a Maria, più importante ancora di quello di Vergine, di Immacolata, di Regina, di Assunta. Tutto ciò è in vista o in ragione della sua divina maternità.
Madre di Dio, per questo è madre di misericordia. Dio è misericordia e ha mandato suo Figlio per rivelarlo a tutto il mondo, a tutti gli uomini. Ella dunque è la madre di Colui che è misericordia (“Il nome della misericordia è Gesù”, ha scritto Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia), è Lei che ci ottiene il perdono dei peccati e le grazie necessarie
.
 
vita, dolcezza, speranza nostra
Dobbiamo pensare a Maria come madre di Gesù, come colei che ci ha donato e ci dona continuamente Gesù.
Ella è dunque la vita perché ha portato in grembo Colui che è la vita e lo ha donato a tutti noi. È la dolcezza perché Gesù è la dolcezza: “Iesu dulcis memoria… sed super mel et omnia… nihil cogitatur dulcius”.
E poi è la speranza perché porta a noi Colui che è la speranza. Giussani ha commentato stupendamente: tu sei la certezza della nostra speranza. “Il tuo amore per noi e per tuo Figlio ci rende certi che ci donerai sempre tuo Figlio e sempre ci strapperai al male.”

 
A te ricorriamo, esuli, figli di Eva
A te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime

La sguardo della preghiera da Maria si rivolge ora agli uomini, a noi. E ci considera sotto due aspetti: figli di Eva ed esuli. Figli di Eva, cioè segnati dal peccato originale e quindi dai peccati. Siamo segnati da mille ferite, deboli, fiaccati, disorientati, come “pecore senza pastore”, lontani dal vero e dal bene, lontani dalla patria e perciò esuli. Il nostro male diventa grido, sospiro, invocazione. I nostri sospiri si mescolano alle lacrime e ai gemiti. Quanto è realistico questo passaggio della preghiera!
Valle di lacrime, così è chiamato questo mondo, questa vita, quasi un nome geografico e assieme spirituale. Bisogne-rebbe tradurre: valle delle lacrime, valle segnata dalle lacri-me. Le lacrime sono la caratteristica più emergente di questa vita: lacrime di angoscia, di paura, lacrime di chi è lasciato, maltrattato, deriso, colpito, violentato, lacrime di chi non ha più nessuno, di chi ha fame, di chi ha freddo, di chi ha subito ingiustizia. Le lacrime diventano invocazione di liberazione, di riscatto.
Si entra così nella realtà delle beatitudini: “Beati voi che piangete”.

 
Su dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi i tuoi occhi pieni di misericordia
La preghiera si rivolge poi a Maria chiamandola: avvocata. Anche lo Spirito Santo è chiamato avvocato nel vangelo di Giovanni. Avvocato di Gesù presso il Padre, nostro avvocato presso il Padre. Così Maria. Ella interviene in nostro favore per stornare, per allontanare da noi la giusta ira del Padre. Come in ogni buona famiglia, la mamma supplica il padre di non essere troppo duro con i figli. Tira fuori dal padre quel lato misericordioso che egli ha già dentro di sé, ma che l’affetto della madre per i figli fa risaltare.
Da queste parole si vede quanto Dante avesse meditato la Salve Regina.
Gli occhi di Maria, rivolti prima verso il Padre a supplicarlo, si rivolgono ora verso di noi, per darci la certezza dell’assistenza, del perdono, dell’affetto.
Come in Dante, è un triangolo di affetti al cui centro stanno gli occhi e il cuore di Maria
.
 
Mostraci, dopo questo esilio, Gesù, frutto benedetto del tuo ventre,
O clemente, o pia, o dolce vergine Maria
.
C’è un punto a cui tende tutta la preghiera, come una freccia scoccata verso il suo obiettivo: mostrarci Gesù. La Salve Regina è come una invocazione a Maria affinché ci mostri Gesù. Maria da sempre è vista dal popolo come colei che porta a Gesù, che indica Gesù, che rivela Gesù.
Come lo ha generato un tempo, frutto benedetto del suo ventre, così ora lo genera in chi lo domanda, per farci uscire dal nostro esilio.
 nell'immagine: Marko Rupnik, La Madre di Dio, Chiesa della Nostra Signora e Martiri Canadesi, Roma

Postato da: giacabi a 21:00 | link | commenti
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domenica, 12 aprile 2009
PASQUA
La “follia” della Resurrezione
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Mons. Massimo Camisasca venerdì 10 aprile 2009
Ho ritrovato gli appunti che avevo scritto durante le meditazioni che don Giussani tenne a Varigotti nella settimana santa del 1964. Li ho riletti in questi giorni, li ho rivissuti, e ho pensato di offrirli a voi come traccia per introdurci negli eventi di questa settimana santa. La morte e la resurrezione di Gesù non ci allontanano da ciò che accade nel mondo e nella nostra casa, nella nostra vita personale. Tutto è intimamente collegato. Ciò che accade a Gesù è la radice, l’origine e la fine, la chiave segreta per entrare in ciò che accade a noi. Allora, la cosa più importante è uscire dalla distrazione e dalla paura che ci chiudono in noi stessi o ci alienano nelle cose da fare.
Per questo sono andato a rileggermi quegli appunti. Per questo, molti tra noi hanno partecipato alle via crucis in tante città nel mondo. Hanno cercato attraverso le parole del vangelo, attraverso la musica, attraverso i segni scritti o parlati di testimoni, di essere portati dentro questi avvenimenti che non sono avvenimenti del passato.

A lungo preparati dalla storia bimillenaria del popolo di Israele, e prima ancora dalla volontà stessa di Dio che per questo ha creato l’uomo e il mondo, la passione, morte, e resurrezione di Gesù sono accadute in un preciso momento della storia, ben documentato da scritti e testimonianze. Ma nello stesso tempo, a differenza degli altri avvenimenti storici, irrimediabilmente chiusi nel tempo in cui sono accaduti, al di là della risonanza che possono avere per secoli nel cuore degli uomini, i giorni della Pasqua di Gesù sono a noi contemporanei. E’ questa la “folle” pretesa di quell’uomo. Essere risorto vuol dire essere contemporaneo ad ogni momento della storia futura, ad ogni attimo di ogni uomo. Non semplicemente come un qualunque altro contemporaneo, ma come uno che è alla radice di ogni nostra azione e che attrae il nostro sguardo e il nostro cuore per rivelarci il senso e il peso di tutto ciò che avviene.

In quelle lontanissime meditazioni del 1964, Giussani, a noi ragazzi di quattordici - quindici anni, parlò della Trinità. All’origine di tutto c’è la comunione. Questa comunione, che è Dio, ha voluto uscire da sé, ha voluto noi, e poi non ci ha lasciato soli. Ha voluto comunicarsi a noi, si è reso commensale con noi.
Le parole di don Giussani erano illuminate da una grande riproduzione della Trinità di Andrei Rublev. Era la prima volta che la vedevo. Tre angeli, prefigurazione della stessa Trinità, vanno a visitare Abramo nella sua tenda. Sono da lui accolti, e finiscono per mangiare assieme ciò che Abramo prepara per quei ospiti inattesi e straordinari.

E’ una immagine stupenda di ciò che è la risurrezione: l’inizio della comunione definitiva fra gli uomini e Dio, fra gli uomini, il creato, e il creatore. Anche i sassi sulla riva del mare (eravamo a Varigotti, sulla riviera ligure), anche le foglie che spuntavano in quell’inizio di primavera sui cespugli delle colline erano tirati dentro da don Giussani in quella comunione cosmica. Così imparavamo che tutto ha una sorgente, un’origine: il Padre. Da lui tutto dipende, da lui discende il mondo. Egli è colui che ci genera anche adesso, in questo istante, come ha generato per sempre il Figlio durante l’alba della resurrezione, e noi siamo partecipi di quella rinascita che non finirà più. “Noi siamo un eco gratuito e libero di quella generazione, di quel Figlio”.

Don Giussani ci parlava, e continuerà a parlarci dopo, di quel dialogo infinito e continuo fra Dio e l’uomo che è la vita. Dialogo non facile, addirittura talvolta terribile, perché porta dentro la nostra vita una misura nuova che può sconvolgere ogni nostro piano, ogni nostra sicurezza, e che rimane infine irriducibile a noi. Giussani allora ricordò Giacobbe, che dovette combattere con Dio, apparso anche a lui sotto forma di un angelo.
In questi giorni di lutto per tutto il nostro paese, segnato dal terremoto, siamo costretti a tenere aperta questa strada, la strada della croce, della sofferenza, della conversione. La strada di Maria, che più di ogni altro ha vissuto dentro di sé lo strappo terribile del Figlio innocente condannato e ucciso, torturato, svillaneggiato. Proprio per questa sua obbedienza ha potuto vedere l’alba della risurrezione.

Avvenga di me quello che tu vuoi, sono disponibile a quello che tu vuoi”. Noi sappiamo che Dio vuole il nostro bene, anche se le strade della sua realizzazione sono talvolta molto ardue, e addirittura dolorose.

Postato da: giacabi a 08:59 | link | commenti
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domenica, 01 giugno 2008
Maria e l'uomo protagonista del tempo
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Partecipando durante molti anni alla liturgia della settimana santa guidata da don Giussani, mi sono accorto che la sua preoccupazione centrale, che è il centro della sua pedagogia, era aiutarci ad entrare nello sguardo di Maria, nel cuore di Maria, nella posizione che ella aveva davanti a suo figlio. La Madonna è stata sempre vista da don Giussani come colei che, più di ogni altra creatura, ha incarnato la posizione giusta di fronte al Mistero fatto carne, davanti a Gesù.
Durante questo tempo pasquale, questa primavera, siamo chiamati a risorgere, a rinascere.
Ogni mattina siamo invitati a uscire dal nulla, rappresentato dalla notte, dal buio, e ad entrare nella vita. Ogni giorno siamo chiamati a uscire dalla debolezza, dalla cattiveria, dalla confusione, e a entrare nella carità. Per quanto smarriti, la nostra dimenticanza non è mai totale. C’è sempre in noi la possibilità di essere riagganciati dalla grazia. Possiamo trovare un amico che ci richiami alla vita, che ci afferri nel profondo. Innanzitutto, possiamo trovare Maria.
La figura della Madonna è stata ricordata da don Giussani come colei che si oppone al nulla, al demonio. Se noi cominciamo la giornata pensando a lei, invocandola, entriamo in una strada che ci fa vivere con sicurezza, e ci restituisce la passione dell’umano, ci rende «ogni giorno capaci di incantevole carità».
Maria è colei che ci apre alla positività dell’essere perché ella è la positività dell’essere, perché il suo “sì” ha permesso l’incarnazione, la sconfitta del nulla, di tutto ciò che è negazione, menzogna, esclusione. E ha invece portato nel mondo la vita, l’affermazione, la bellezza, la gioia. Riandando continuamente a lei, possiamo entrare in questa positività, possiamo farci guidare da lei verso uno sguardo sulle cose, sugli altri, su noi stessi, che sia veramente costruttivo, in definitiva nella carità.

La tradizione orientale vede Maria come colei che tiene in mano il bambino e insegna la strada. Anche
don Giussani ha visto Maria come colei che ci conduce, che ci insegna la via. In una meditazione, durante un pellegrinaggio organizzato dalle Suore della Neve, ha detto: «La Madonna è il tipo dell’uomo camminatore verso il suo destino, di questo protagonista del tempo».
La vediamo camminare verso la casa di Elisabetta e Zaccaria, la vediamo andare in mezzo alla folla per ascoltare suo figlio, in fondo, dove nessuno la vede. La vediamo camminare dietro la croce.
Ci insegna la povertà dello spirito, la disponibilità al disegno di Dio.
In ogni momento della vita siamo chiamati ad uscire dal nostro disegno per entrare in quello di Dio. Dio in realtà non vuole destabilizzarci: non ci priva delle nostre certezze per lasciarci nell’insicurezza. Al contrario, sa che le nostre misure, le nostre sicurezze, sono insufficienti, che solo lui è la roccia. Possiamo entrare veramente in una posizione giusta se entriamo nel suo disegno. Come per Maria anche per noi questo è l’avvenimento della fede, che ci fa riconoscere quello che Dio compie come la realtà più amica per il nostro pellegrinaggio sulla terra.
don Massimo Camisasca (da Fraternità e Missione, maggio 2008. )

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mercoledì, 09 aprile 2008
Testimonianza cristiana
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 Un missionario italiano ha ricostruito la diocesi di Siberia cancellata da Stalin. Ecco la rivoluzione un po’ russa e un po’ emiliana di don Ubaldo Orlandelli
di Piero Vietti

Tratto da Il Fogliodel 22 dicembre 2007

Lì la fa da padrone il vento. Non c’è niente che lo ferma, fino agli Urali. Solo qualche collina bassa qua e là”. Sedici anni di russo non hanno cancellato l’accento emiliano dalla voce di don Ubaldo Orlandelli. Ma quando parla della steppa siberiana sembra di vederla, di sentire il gelo di quel vento.

Sedici anni di Siberia non hanno fiaccato la sua risata, profonda, bellissima. Quando un giorno di trentaquattro anni fa mise due magliette in una busta e uscì di casa di nascosto non immaginava di arrivare fino a Novosibirsk, a migliaia di chilometri dall’albergo di Tabiano Terme per cui suo padre e sua madre avevano lavorato una vita. Un cameriere lo aveva però visto uscire, avvertì la nonna e a poche centinaia di metri da casa Ubaldo venne fermato e riportato indietro. Ma ormai era partito. “Perché te ne sei andato? Non ti vogliamo bene?” gli chiese la mamma. Ubaldo voleva farsi prete e i suoi gli avevano detto di torglierselo dalla testa: c’era l’albergo da mandare avanti. “Perché?” gli domandavano. “Voglio aiutare gli altri” era la sua risposta. “Puoi farlo benissimo sposandoti e facendo soldi. E comunque fino a che non sei maggiorenne non ti muovi da qui”. Chissà se Ubaldo pensava alla busta con le due magliette quando vent’anni dopo scendeva carico di valigie nella stazione di Palavinnoje, a trecentocinquanta chilometri da Novosibirsk, e ad attenderlo non c’era nessuno, solo neve e steppa.

Nel mondo soltanto il Vaticano e Gerusalemme sono chiamate “sante”: la Santa Sede, la Terra Santa. Poi c’è la Russia. La Santa Russia. Mille anni di cristianesimo profondo, doloroso e misterioso le sono valsi questa medaglia. Mille anni che sono stati seppelliti nella terra gelata della taiga da settant’anni di comunismo. Preti, monaci e suore venivano fucilati. I cristiani presi e caricati su enormi barconi che risalivano il Volga, stipati sui treni merci della transiberiana, la ferrovia più lunga del mondo, e portati nella steppa. Ogni tanto i vagoni fermavano, i soldati aprivano le porte e scaricavano i morti. Poi ripartivano. I pochi sopravvissuti venivano abbandonati nella foresta in pieno inverno. Lì scavavano delle buche sotto la neve, le coprivano con rami di cedro e contro ogni speranza provavano a sperare. Una donna era riuscita a sopravvivere alla deportazione in treno, con lei c’erano il marito e i tre figli. Si erano rifugiati in una di queste buche e lì erano rimasti per mesi. Un giorno lui uscì per cercare da mangiare
. Lo ritrovarono in primavera, morto congelato a poche decine di metri dalla tana. In poco tempo la donna guardò morire tra le sue braccia i figli e fu salvata dagli abitanti di una buca vicina. Cominciò ad attendere qualcuno. Non lo sapeva, ma attendeva quel bambino che a undici anni era uscito di casa con due magliette e una busta. Attendeva questo qualcuno per rivedere finalmente un prete, e per spiegargli che per cinquant’anni aveva ringraziato Dio ogni giorno: “Mi ha dato l’uomo che amo più nella mia vita – gli avrebbe detto – e me l’ha donato per il tempo che ha voluto Lui. Mi ha dato il frutto di questo amore, i miei figli, e me li ha donati per il tempo che ha voluto Lui. Non mi lamento perché mi sono stati tolti, ringrazio perché mi sono stati donati”.

Dopo la scuola media Ubaldo era diventato cuoco e istruttore di atletica nel suo paese, aveva avuto diverse ragazze e tutti i giorni era in comune a chiedere che il sindaco concedesse un terreno per farci un campo sportivo. Voleva fondare una scuola di calcio: tanto insistette che dopo due anni anche Tabiano aveva la sua squadra. Intanto aveva conosciuto delle persone di Comunione e Liberazione, e iniziato a stare con loro. Un incontro decisivo: uno dei primi allievi di don Giussani, don Massimo Camisasca, sarà il rettore del suo seminario a Roma, quello della Fraternità San Carlo Borromeo, fondata dallo stesso don Massimo
. Quando Ubaldo disse ai suoi che sarebbe entrato in seminario sua mamma pianse tre giorni (e lui la sentiva, la notte, dalla sua stanza). “Eh, comodo – gli aveva detto invece suo padre – mi sputi in faccia tutti i sacrifici della mia vita”. Smise di parlargli per molto tempo. Il giorno della sua ordinazione don Massimo, che aveva deciso di mandarlo assieme ad altri due preti della Fraternità a Novosibirsk, disse che per i sacrifici che fanno, anche i genitori dei missionari vanno in missione. Tornato a Tabiano per la prima messa, Ubaldo fu accolto da tutto il paese: un corteo di auto e moto lo accompagnava alla chiesa. In testa c’erano i ragazzi della squadra di calcio da lui fondata pochi anni prima. Era il 1992, Ubaldo era già stato a Novosibirsk per un anno come diacono, aiutando il vescovo. Ora sarebbe tornato là per raggiungere il villaggio di Palavinnoje come prete. Sua madre il giorno della festa in paese gli confidò: “Come il giorno più triste della mia vita è stato quando sei entrato in seminario, oggi è il più bello perché ti vedo contento”. Gli amici gli regalarono il tabellone del Risiko, quello col mondo, con le loro firme. Per ricordare le serate passate a giocare e discutere insieme. E perché avesse i loro nomi sempre con sè, come san Francesco Saverio cinque secoli prima.

La Santa Russia era un paese addormentato. Come se sotto a quelle buche nel terreno si fosse nascosto, insieme ai pochi cristiani sopravvissuti, anche lo stesso Gesù. Occorreva andare a dissotterrarlo. Chiese non ce n’erano quasi più: Stalin le aveva fatte abbattere, e al posto degli altari aveva fatto costruire latrine pubbliche. A Novosibirsk c’era l’unica parrocchia di tutta la diocesi. Una diocesi grande trentatré volte l’Italia, abbracciata da sette fusi orari e percossa dal vento. Una sola parrocchia e sei preti in tutto. Più fusi orari che preti. La missione dei sacerdoti della Fraternità San Carlo, portare il carisma di don Giussani nel mondo attraverso la loro vocazione, trovò così la prima casa estera della sua storia in Siberia, là dove il cristianesimo aveva subito la più terribile persecuzione, in quel grande Colosseo del mondo che è la steppa. Il giorno in cui Ubaldo dovette partire per il villaggio di Palavinnoje non sapeva chi e cosa avrebbe trovato. Giovanni Paolo II aveva detto di cercare i dissidenti sopravvissuti. Lui era lì per quello. Si presentò alla stazione con due valigie stracolme di abiti, paramenti sacri, ostie e vino per la messa. Una valigia era piena di vangeli. Sul treno non volevano farlo salire, a meno che non pagasse una multa per il bagaglio in più che aveva con sè. Ubaldo si rifiutò: “La parola di Dio ha già pagato troppo in questo paese”, disse al capotreno. Dopo una lunga trattativa lo misero nell’ultimo vagone, quello che fermava fuori dalla piattaforma della stazione, così quando arrivò e aprì la porta si trovò di fronte a un muro di neve. Nel frattempo i pochi cattolici che sapevano del suo arrivo lo attendevano sulla banchina. I loro vaghi ricordi li convinsero ad aspettarsi un vecchio con la barba bianca e quando, scesi i passeggeri dal treno videro solo più arrivare dall’ultimo vagone un giovane trentenne, alto e con due valigie, se ne tornarono a casa pensando che il prete non fosse venuto. Da solo e senza un indirizzo Ubaldo chiese alla gente se “c’è qualcuno che prega” in paese. “Ma è matto?” gli rispose un uomo, “Qua non prega nessuno. Siamo tutti atei”. Una vecchia signora lo sentì e, chiamatolo a sè, gli spiegò che sì, qualcuno che pregava c’era. Doveva camminare in quella direzione per un po’. Quel giorno imparò che in Siberia non ci sono vie e strade, soltanto direzioni. Dopo un’ora e mezza nella neve Ubaldo raggiunse una casa. Erano luterani. Stanco e quasi scoraggiato chiese se ci fossero dei cattolici. Sì, dall’altra parte del villaggio, a un’ora e mezza di cammino. Giunto all’altra casa gli aprì la porta una vecchina che, per vedere se fosse davvero un prete e non una spia, gli domandò notizie sulla salute della moglie, come si faceva per smascherare i membri del Kgb. Ubaldo sbottò: “Ma quale moglie? Io sono un prete cattolico, noi non ci sposiamo!”. Gli occhi della vecchina che lo aveva accolto si illuminarono; toccando col gomito la donna accanto a lei, sussurrò: “Questo è dei nostri”. E’ l’inizio del dissotterramento. Il paese si rianima, molti cattolici fanno ritorno, alla messa di Pasqua sono in duecento, quaranta dei quali chiedono il battesimo. La messa è celebrata in una piccola stanza, non ci stanno tutti. Molti entrano ed escono, si danno il cambio. Altri seguono il tutto dalla finestra, stando fuori a quindici gradi sotto zero. Ci sono persone che hanno fatto più di cento chilometri per potersi confessare dopo anni senza sacramenti.

In “Vita e destino” Vassilij Grossman scrisse che nella steppa “la terra e il cielo si sono guardati così a lungo reciprocamente, fino a rassomigliarsi come si somigliano marito e moglie che abbiano vissuto assieme una vita”. A Palavinnoje Ubaldo incontra un uomo e una donna così: la steppa e il cielo.
Prima di lui, l’ultimo prete che avevano visto era stato cinquant’anni prima, a un matrimonio. Il loro. Il sacerdote li aveva confessati ma non aveva fatto in tempo a sposarli: gli uomini del Kgb lo avevano arrestato durante la messa e ucciso tre giorni dopo. Qualche anno prima anche don Ubaldo stava per sposarsi, ma quel desiderio che aveva spinto i suoi passi fuori di casa a undici anni, era tornato a farsi vivo proprio allora. La sua fidanzata aveva capito e tra le lacrime gli aveva detto: “Io ti amo, voglio la tua felicità. Se Dio vuole questo ti aiuterò”. Ora don Ubaldo era di fronte a quei due vecchi che chiedevano di essere finalmente uniti col sacramento dopo cinquant’anni. Sarà don Francesco (uno dei preti della Fraternità San Carlo in casa con lui) a sposarli. Dopo la cerimonia si offrirà di accompagnarli a casa col suo furgone. “No grazie – sorrideranno loro – torniamo a piedi, così il viaggio di nozze è più lungo”.

Dopo settant’anni di persecuzione in Russia non ci sono più strutture. Don Ubaldo comincia allora, poco per volta, a ritessere una trama millenaria. Fonda la parrocchia nel suo villaggio, poi fonda quella della città universitaria e lì comincia a insegnare Canto gregoriano e Storia della musica: le sue lezioni sono affollatissime e seguite anche da altri professori. Va ad insegnare all’Accademia per diplomatici, è nominato console onorario italiano. Diventa prima responsabile Costruzioni della diocesi poi responsabile dei rapporti tra chiesa e stato e infine direttore della Caritas. E’ a quel punto che comincia a girare la diocesi per cercare altri cristiani. Passa anni a spostarsi da un luogo all’altro della sconfinata Siberia in aereo e nave, atterrando in aereoporti con piste sterrate e risalendo fiumi ghiacciati. Comincia con cinque dipendenti e cinque volontari. In ogni posto in cui va cerca i cattolici. Li incontra, dice messa e nomina un responsabile. Dissotterra Gesù. In poco tempo sono duecento dipendenti e seicento volontari. Nel 1995 organizza la prima processione pubblica per le vie della città. E’ la festa del Corpus Domini. Partecipano una decina di persone in tutto, forse meno. Ma erano decenni che non succedeva una cosa del genere in Russia. “Abbiamo dato corpo a una fede che la gente aveva nel cuore da tempo ma non poteva esprimere” dirà poi. A Novosibirsk costruisce una casa d’accoglienza per bambini orfani di cui si occupa assieme a una suora, Barbara. I bambini lo chiamano papà, e quando sette anni dopo i suoi genitori vengono a trovarlo, lui li accompagna lì. “Quelli sono i tuoi genitori?” gli chiedono i bambini. “Sì”. “Allora sono i nostri nonni!” gridano abbracciandoli. Poi la festa al paese con le vecchine e quella con i suoi alunni al conservatorio. Partendo, sua madre gli dirà: “E’ proprio come nel vangelo: hai perso una mamma e ne hai trovate cento”. Dopo qualche tempo un prete ortodosso lo accusa di picchiare i bambini per convertirli al cattolicesimo. E’ un colpo durissimo, ma don Ubaldo non vuole rispondere alle sempre più pressanti provocazioni. Perdona in silenzio. Alcuni bambini vengono portati via dalla casa, l’accusa, dimostratasi poi infondata, si ingrandisce. Lui tace. Il suo silenzio incuriosisce il vescovo ortodosso che si interessa della faccenda e lo vuole conoscere. Poco tempo dopo gli consegna solennemente una lettera davanti agli amministratori comunali con cui lo ringrazia pubblicamente per l’opera da lui svolta. Comincia un’amicizia. Cinque anni dopo bussa alla sua porta un ragazzo appena maggiorenne. Con lui c’è una ragazza. E’ uno dei bambini che erano stati portati via dall’orfanotrofio al tempo delle accuse. Prima viveva in strada e si drogava con la colla. Era stato nella casa solo tre settimane. Ubaldo e suor Barbara sono sorpresi dalla visita, lo fanno entrare e lui, rivolto alla sua ragazza dice:
Vedi, volevo che tu conoscessi loro, perché se io non li avessi incontrati non avrei conosciuto l’amore e non ti avrei chiesto di sposarti per stare con te tutta la vita. Volevo che tu vedessi chi mi ha insegnato ad amare te in questo modo”. Don Ubaldo ha capito chenoi non siamo in grado di amare. Possiamo farlo solo se abbiamo incontrato Dio attraverso degli amici, che poi sono la chiesa”. Bisogna essere semplici. “E’ l’unico modo per intravedere Gesù che nasce”, dice sicuro, “perché lui c’è, e aspetta”. Per farlo capire Ubaldo racconta che quando ha cominciato a girare la Siberia per la Caritas non riusciva più a tornare nei posti dove era stato all’inizio. Don Francesco, che continuava ad andare nei villaggi e a dire messa nelle case della gente anche con trenta gradi sotto zero, viene a sapere che una delle prime donne che Ubaldo aveva conosciuto a Palavinnoje era in fin di vita per un tumore. I medici le avevano dato un mese e poco più di vita. Lei aveva chiesto di rivedere un’ultima volta il primo prete che aveva incontrato dopo anni, Ubaldo. Ma lui era in viaggio, non poteva. Due mesi dopo don Francesco glielo ridice. Nonostante quanto detto dai medici è ancora viva. E lo aspetta. Ubaldo riesce ad andare da lei sette mesi dopo. Quando entra in casa la donna, inferma da tempo, balza dal letto e, abbracciandolo, gli dice commossa: “Quanto mi hai fatto aspettare”. Recitano il rosario e lui le dà la comunione e l’estrema unzione. La notte stessa la donna muore.

In tutti questi anni don Ubaldo con gli altri preti della Fraternità ricostruisce la chiesa in Russia. Poi, in modo inaspettato, don Paolo Pezzi, già capo della casa di Novosibirsk, diventa vescovo di Mosca. Don Camisasca richiama Ubaldo in Italia. Da ottobre del 2006 va in giro per raccontare la sua storia, e l’anno prossimo andrà a Mosca dal vescovo metropolita, il suo amico Paolo.
Ai tempi delle deportazioni di Stalin il Kgb una volta arrestò insieme quasi cento monaci ortodossi. Arrivati in un bosco, nel silenzio malinconico che solo la steppa siberiana sa raccontare, i soldati li misero in fila indiana. Chiesero al primo: “Credi in Dio?”. “Sì”. A quel punto gli spararono in bocca in modo che il proiettile attraversasse il cranio e il sangue schizzasse sul volto di quello dietro, a cui fecero la stessa domanda. La stessa risposta. Lo stesso sparo. Così con tutti e cento. Cento sì. “Ogni martirio dissotterra Cristo”, dice don Ubaldo. Lo sa bene, lui: ha visto che per anni, sotto la terra gelata imbevuta di quel sangue, un popolo aveva atteso e attende con pazienza, quasi nascosto, di essere dissotterrato.


grazie a: Graciete

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testimonianza, camisasca

domenica, 02 settembre 2007
UN ABBRACCIO OLTRE IL MURO
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STORIE DI UN'AMICIZIA «SULLE FRONTIERE DELL'UMANO» -
Massimo Camisasca
Molte volte, parlando della [Fraternità San Carlo], mi è venuto alla mente il titolo del famoso libro di Gilbert Cesbron sui preti operai, I santi vanno all'inferno. Non certo perché i preti della Fraternità San Carlo desiderino riferirsi a quell'esperienza, ma perché noi vogliamo vivere sulle frontiere dell'umano. Tutto ciò che è umano ci interessa e ci sentiamo mandati a ogni uomo. E' questo ciò che ho visto in don Giussani, ciò che ho imparato da lui, che lui mi ha trasmesso. Per me don Giussani è un uomo che cercava se stesso in ogni uomo, curioso dell'umanità di tutti e, assieme, un uomo che mendicava Cristo in ogni cosa. Così ne è diventato testimone. Allora più che raccontare una teoria, voglio rivelare la nostra Fraternità attraverso un piccolo-grande avvenimento. Mi è arrivata in questi giorni una lettera di Giampiero Caruso, un nostro prete che vive a Novosibirsk, la capitale dell'immensa Siberia. Tra gli altri compiti, Giampiero visita regolarmente tre diverse carceri. Uno, a novanta chilometri dalla capitale, in una piccola cittadina di nome Tagucin. Lascio a lui la parola.
«Entrato nel carcere, cammino per diversi metri, in silenzio, scortato da un poliziotto. Supero un lungo cortile, recintato con un'altissima rete in filo spinato e metallo. Incontro alcuni detenuti che passeggiano, altri che spalano la neve, altri ancora che giocano a calcio in un piccolo campetto. Cose che finora ho visto solo nei film. Il poliziotto, lungo il percorso, mi sussurra all'orecchio che quel carcere accoglie 2.200 persone. In un locale ne trovo 15. Sono lì ad attendermi. All'inizio ho paura perché non so bene come i detenuti potrebbero reagire alla mia presenza. Ma poi penso che non sono solo; penso ai sacerdoti della Fraternità che vivono con me; penso alla frase del Vangelo in cui Gesù dice: "Andate fino ai confini del mondo... Io sarò con voi". Non ho più paura. Comincio a guardarli, uno a uno. E' come se vedessi la mia stessa umanità: ferita, bisognosa, mendicante. Poi comincio con qualche domanda: "Come vi chiamate? Da quanti anni siete qui? Quanti ve ne restano ancora da scontare?". Mi dicono che le pene sono molto alte perché quello di Tagucin è un carcere ad alto regime di sicurezza. Il primo a rispondere è un uomo che parla a fatica e stenta a tenere sollevata la testa; fra tutti è quello che più mi colpisce per la profonda tristezza che rivelano i suoi occhi blu e quel capo quasi sempre ripiegato su se stesso. Sono di fronte a probabili assassini, stupratori, ladri, ma il mio sguardo è teso a riconoscere l'origine di quella tristezza, di quel dolore, di quella profonda malinconia che quei volti rivelano. Come me, quegli uomini desiderano la libertà, la felicità. Loro, come me, non possono darsela da soli. L'attendono. Abbiamo parlato per tre ore, di libertà, di fede, di speranza, di Cristo... Mi sentivo nudo di fronte a loro. Nudo perché non potevo dire delle frasi, ma dovevo parlare di me e del mio rapporto personale con Cristo come fonte della libertà che io vivo, della fede che io vivo, della speranza che io vivo. Ho detto loro che l'uomo non coincide con i propri limiti, con i propri peccati, che essi non sono l'ultima parola sulla nostra vita. Noi siamo oggetto di perdono e di misericordia. E' questa l'origine della nostra libertà, della nostra speranza. Mi rendo conto che ho potuto balbettare queste cose solo perché Dio si è umiliato abbassandosi fino a me. Intuisco che, se non arrivo ogni giorno a sperimentare questo amore personale e totalmente gratuito, resto bloccato dai miei limiti. Lo stesso uomo che faceva fatica a tenere alzato il capo, sobbalza quando mi ha sentito dire che la fede è il culmine della ragione. E inizia a ribattere, a farmi domande. Alcune in tono polemico, scettico. L'argomento è interessante, il tempo è poco: giunge presto l'ora di andar via. Prima che il poliziotto venisse a riprendermi li saluto uno a uno. Mi avvicino anche a lui. Poggiandogli una mano sulla spalla gli indico di alzare la testa verso l'alto. Si solleva, io gli do la mano e lui, tirandomi verso di sé, mi abbraccia. Poi mi dice: "Torni presto, l'aspetto"». In queste parole - «torni presto, l'aspetto» - sta tutto il senso della Fraternità San Carlo [Tracce]

 

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cristianesimo, camisasca

martedì, 28 agosto 2007
Verità nell'arte
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 Meeting dell'amicizia 2007
di Massimo Camisasca 27/08/2007 

Questo mio intervento potrà sembrare a qualcuno una provocazione. E in effetti lo è. Parlando d’arte non parlerò né di quadri, né di brani musicali, né di libri. Parlerò di uomini e donne. E per di più, volendo rivelare la loro bellezza, mi attesterò spesso sul loro dolore, le loro fatiche, le loro contraddizioni. Perché nella notte più scura brillano ancor più le stelle, come sta scritto all’ingresso dell’abbazia di Subiaco. E’ una frase molo usata, lo so, ma mi è sembrata, nella sua semplicità, una buona introduzione a ciò che desidero comunicarvi: l’arte può mostrare la verità dell’uomo e del mondo senza cancellare nulla del suo dramma, ma illuminando la speranza che può vivere in ogni condizione umana.

Cosa è l’arte? Essa è per me una modalità privilegiata di guardare la realtà. La definirei così: uno sguardo sulla realtà che sa vedere ciò che normalmente gli uomini non riescono a scorgere. Non importa se essa sia un romanzo, una poesia, una scultura, una musica o altro. Detto con altre parole: l’arte è un occhio che sa vedere dove i nostri occhi non vedono. «L’arte», ha scritto un mio amico, «è il tentativo di eternare le cose. Rivela la profondità delle cose, che non ha fine». Simenon, il padre del Commissario Maigret, ha scritto che la letteratura ha lo scopo di «rivelare il peso delle cose».

Ma non è sufficiente dire questo. Ogni conoscenza dell’uomo che vada al di là della pura descrizione del dato sensibile è in fondo un atto che rivela ciò che a prima vista non abbiamo saputo riconoscere.
L’arte fa vedere sì la realtà secondo una profondità mai vista, ma soprattutto rivelando in essa qualcosa che attrae, che colpisce, che lega a sé. E’ una conoscenza che si realizza attraverso l’attrattiva. Non con la stringenza del ragionamento, con l’inevitabilità di una legge scientifica o altro, ma generando una corrispondenza profonda tra ciò che sei, ciò che senti, ciò che attendi e ciò che hai davanti nell’atto artistico. In questo senso l’arte è una forza che trascina dentro la realtà, per rivelarla. Non importa quale realtà (sia essa bella o brutta, piacevole o spiacevole, lontana o vicina, passata o presente…) e non importa neppure come si generi questo rapporto (se attraverso l’emozione, il sentimento, la fantasia…).

Appare chiaro a questo punto
il luogo in cui tale rapporto si realizza: esso è l’uomo. Senza l’uomo non c’è arte e non c’è disvelamento della realtà. Senza l’uomo la realtà è muta e incapace di relazione. Non solo non vi è arte senza l’uomo, ma anche non vi è arte che in un modo o in un altro non abbia l’uomo come suo contenuto. Certo non tutta l’arte è «figurativa», ma possiamo dire che l’arte è incomprensibile se non parla di noi e a noi. È sempre in rapporto all’uomo che essa diventa un’epifania della realtà. Dio, il mistero sommo il cui nome non può essere pronunciato e il cui volto non può essere visto prima della morte, diventato uomo ha accettato di essere raffigurato. Ma già all’inizio del mondo, l’uomo era stato definito immagine e somiglianza del mistero. Dunque: al centro dell’arte sta l’uomo. Questa è la chiave per leggere la storia dell’arte occidentale, non solo dopo Cristo; essa ha sempre avuto questo presentimento. Nell’arte greca, etrusca, andando indietro fino alle incisioni rupestri o ai dipinti nelle grotte della Spagna e della Francia. Non è assolutamente senza ragione ricordare che il cristianesimo è la glorificazione dei sensi. Esso ha rappresentato un’apertura positiva alle parole, alle immagini, ai colori, alle cose. Gesù arriva a dire: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono» (Lc 10, 23-24).

Questo può spiegare la scelta che ho voluto compiere in questo mio intervento: parlare dell’arte come strada verso la verità, non attraverso l’esposizione di un’estetica, ma attraverso una serie di flash, di illuminazioni reali che mi sono venute incontrando, direttamente o attraverso il racconto di amici, alcune persone sparse nel mondo e a noi contemporanee.
Nella loro vita, particolarmente in alcuni momenti di essa, ho visto, anche dentro la drammaticità, il male, il dolore, una luce che indicava la strada verso una verità più grande. Quando Gesù ha parlato di sé, della sua identità personale, identificandosi alla Verità (Gv 14,6) stava vivendo i momenti più drammatici della sua esistenza, quelli a cui potrebbero essere applicate le parole del profeta Isaia: «Non v’è in lui bellezza alcuna…» (Is 53,2). Eppure, l’arte di duemila anni ha saputo rivelare la luminosità di quelle ore e qualcosa della sua infinita, sconfinata verità.

“La bellezza della verità comprende offesa, dolore e anche l’oscuro mistero della morte,” ha scritto Ratzinger al Meeting 2002. (p. 14 “La Bellezza”)

Quando Dostoievski
ha scritto: «La bellezza salverà il mondo» (L’idiota) non voleva darci una definizione, neppure aprire in noi una voragine di sentimenti. Come ha fatto Dante nella Commedia, Dostoievski è passato attraverso gli abissi infernali per arrivare alle anime più pure e più trasparenti dei suoi romanzi che non vivono lontane da questo mondo di male, ma immerse in esso.

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