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mercoledì 22 febbraio 2012

card.scola


Il tempo che passa
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Il tempo che passa è come un rumore sordo che in certi momenti uno seppellisce nelle cose che fa. Ma sotto sotto resta. Perché il tempo che passa è il più grande interrogativo. Perché il rumore del tempo che passa è il rumore della morte. Che non riesci a eliminare. E allora lì, lì è come se uno potesse misurare quanto è ancora astratto il suo amore a Dio.
da:
www.tempi.it

Postato da: giacabi a 09:12 | link | commenti
morte, scola

sabato, 01 ottobre 2011

A Milano si trova la fede... di Giacomino Poretti
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Venerdì, 30 settembre 2011 - 16:00:55
Aldo Giovanni e Giacomo

Giacomino Poretti, detto Giacomo (Villa Cortese, 26 aprile 1956), è un attore, comico e regista italiano componente del noto trio comico Aldo, Giovanni & Giacomo. Durante l'incontro di Scola con il mondo della "cultura e della comunicazione sociale " Giacomo Poretti ha letto un discorso molto toccante, che Affaritaliani.it può pubblicare integralmente
La sinistra ha scoperto la fede. All'incontro con il Cardinale Scola tanta gente di chiesa, qualche esponente della sinistra ma nessun rappresentante di quella Milano della cultura che affolla le inaugurazioni mondane. Sul palco Gianni Riotta (in continua manovra per il Corriere), che si è tolto qualche sassolino dalla scarpa con allusioni a quelli che baciano la pantofola ai potenti di turno. Sempre sul palco, tra gli altri, il rettore della Statale Decleva e Giacomo del famoso trio comico. Giacomino Poretti, infatti, scrive per la rivista Popoli del Centro San Fedele, e la sua presenza giovedì ha rivelato un legame poco conosciuto con la Chiesa. Per quanto riguarda Scola, per due ore lo si è visto lucido, filosofico. Nel suo discorso niente più tirate un po' populiste alla Tettamanzi ma un grande spirito cartesiano, con citazioni di Emmanuel Lèvinas, famoso studioso francese della problematica dell'Altro. Scola ha anche raccontato del suo viaggio da seminarista a Parigi per il '68 francese. In sala, in prima fila, Gad Lerner, una scollatissima Marina Terragni, una moscetta Lella Costa, l'immancabile prezzemolo Moni Ovadia con la sua celebre kippah all'uncinetto (che tutti hanno potuto ammirare, visto che se ne è andato prima sfilando in mezzo agli astanti), Miriam Giovenzana con la sua direttora di Terre di Mezzo (Elena Parasiliti), il direttore editoriale di Vita Riccardo Bonacina. L'assessore Stefano Boeri è entrato e uscito un paio di volte.
Discorso al Sindaco delle anime
A Milano si trova la fede

di Giacomo Poretti
Eminenza,
nel rivolgerle il mio più caloroso saluto le devo anche porgere le mie scuse perchè il mio non sarà un racconto fedele né tanto meno realistico sulla città, quanto piuttosto la confessione di un innamorato, spero quindi che Lei vorrà perdonare i sentimentalismi e gli eccessi di fantasia, ma forse l’amore e la fantasia, anzichè aggiungere e deformare la realtà, la denudano nella sua  semplice bellezza.


vescovo museo diocesano 2Ecco l'I-Perr Reportage
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Due cose sono state fondamentali per la mia vita: Milano e i preti.
Tra me e Milano è stato un amore a prima vista. Con i preti invece...ci ho messo un pò di più.
La prima volta che sono venuto a Milano avevo 5 anni ed ero alto 90 cm,    ero in compagnia del mio papà, che benchè ne avesse 30 di anni, superava di poco il metro; siamo entrati nello stadio di San Siro per vedere una partita di calcio e siccome all’epoca si stava in piedi ( era il 1960 !), né io né il mio papà riuscivamo a vedere niente, allora il papà mi ha messo sulle sue spalle ed io dovevo raccontargli che cosa succedeva, solo che non conoscevo le regole del gioco e nemmeno i  nome dei giocatori, allora il papà mi ha preso in braccio e mi ha detto” va bene ci tornerai quando sarai più grande, ma almeno ti è piaciuto qualche cosa?  “si, ho risposto, mi è piaciuta quella squadra con le maglie nere e azzurre”!

 

Quando siamo arrivati a casa il papà ha detto alla mamma “ oggi a Milano questo bambino ha scoperto la fede!”
Poi sentivo a tavola che i miei genitori dicevano che la fede andava coltivata, e per far questo mia madre mi mandava in chiesa e all’oratorio del paese, il mio papà invece mi portava a vedere l’Inter a San Siro.
All’oratorio ci andavo tutti i giorni, allo stadio una domenica sì e una no.
C’è stato un periodo che la mia squadra vinceva molti scudetti e allora il mio papà mi portava in piazza Duomo a festeggiare. Quando tornavamo a casa alla sera  la mamma ci chiedeva dove eravamo stati, il papà diceva... siamo stati in Duomo  perchè il bimbo voleva dire una preghiera di ringraziamento alla Madonnina...
la mamma commossa aggiungeva: vista la sua devozione questo bambino bisognerà mandarlo in seminario!
Non saprei dire se malauguratamente o per fortuna, la mia squadra a un certo punto ha smesso di vincere, io ci rimanevo male, ed anche la mamma non si dava pace di come io avevo smesso di pregare e ringraziare la Madonnina.

 
 
Nel frattempo continuavo a frequentare l’oratorio del paese; un giorno il prete, don Giancarlo, che amava Pirandello e Shakespeare, almeno quanto i santi Pietro e Paolo, decise di allestire uno spettacolo teatrale e siccome il cast prevedeva oltre agli adulti tre bambini, uno grassissimo, uno altissimo e uno bassissimo, io saltai direttamente il provino ed esordii a teatro come l’attore più basso che avesse mai calcato le scene.
All’epoca ero affetto da un complesso di inferiorità per cui era una tragedia quando entravo in scena, mi collocavo di fianco al bimbo altissimo, e la gente rideva. Il prete mi disse che dovevo sfruttare i talenti che mi aveva regalato il Signore. A me sembrava crudele sia il Signore sia don Giancarlo. Ma il don insisteva: la tua bassezza ti regalerà un sacco di soddisfazioni. Che cosa!? quel corpicino che non si decideva a crescere? io intanto non mi fidavo del don e continuavo a chiedere nelle mie preghiere al Signore di portarmi un pallone di cuoio e di farmi diventare alto 1metro e 85. Lei lo confermerà Eminenza, il Signore ti ascolta sempre ed esaudisce tutte le cose che chiedi, solo che devi essere abile nel distinguere la differenza tra alto e grande..... finalmente un giorno ho capito, aveva ragione don Giancarlo, il teatro era  il gioco più bello del mondo.
Mi ricordo di essermi detto: io voglio fare l’attore. Solo che per fare certi mestieri ti tocca venire a Milano: per fare l’attore e l’Arcivescovo bisogna venire a Milano.
Milano è molto diversa da quella degli anni 60 ma è pur sempre bellissima e stranissima. Per esempio è una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più ritrovi per happy hours che librerie, i telefonini invece sono pari con le automobili: 2 per ogni milanese; se per caso le capiterà di andare a fare un giro di sera per la città nei mesi invernali non le sarà difficile incontrare dei cani con il piumino  e degli uomini in canottiera. Milano è strana.
 

A Milano i parchi sono merce rara e perciò affollattissimi: nonni che accompagnano i nipotini, badanti che accompagnano i nonni, tate che accompagnano i nipotini, amiche delle tate che fanno compagnia alle badanti, insomma, senza contare i genitori che sono da qualche parte della città ad alzare il pil della nazione, ogni nucleo famigliare è composto da almeno 10 o12 elementi, questo spiega , forse, l’enorme impulso dell’edilizia  che ha avuto la nostra città recentemente.
Milano è una città tutto sommato ordinata, non vedrà mai code, tranne che per i saldi in Via Montenapoleone o fuori dalla Caritas per il pane quotidiano, si rassicuri Eminenza c’è più gente in coda per il pane che non per il pret a portè, anche se a Milano, si tappi le orecchie,... si vendono più maglioni di cachemire che non copie della Bibbia......A Milano poi c’è un’aria particolare: invece dell’ossigeno noi a Milano abbiamo il pm10, i tecnici assicurano che a Milano l’aria è sempre stata così, probabilmente fin dai tempi del pleistocele...A parole tutti dicono che Milano è brutta e invivibile , che l’aria è irrespirabile, ma alla fine vengono tutti qua: han cominciato i barbari, gli spagnoli, i francesi, gli austriaci, i meridionali, adesso addirittura vengono da paesi lontanissimi con lingue e dialetti difficilissimi, ma alla fine mi creda se riamo riusciti a capire i pugliesi e quelli della basilicata riusciremo a comprendere anche quelli che vengono dalla Tunisia  o dalle Filippine, dopotutto non credo che il cous cous sia più difficile da digerire della caponata con le melanzane fritte. L’unica pericolo è che stando a Milano si diventa un pò bauscia, ci si sente superiori rispetto agli altri. Mio papà quando mia sorella ha detto che aveva un fidanzato, lui le ha chiesto
“Sarà minga un terun?”, dopo una settimana di broncio  gli è passata; ora ho saputo che mio cognato, il terun,  quando sua figlia di 16 anni si è messa a frequentare un ragazzo, lui preoccupato le ha chiesto” sarà mica un extra comunitario?”, c’è sempre qualcuno più a sud di noi da farci sentire superiori; capita anche a quelli di Helsinki che considerano terroni quelli di Copenaghen, la stessa cosa capita tra quelli di Chiavenna e quelli di Malgrate. ( vero Eminenza?)


A Milano chiude un cinema all’anno e ogni anno sorgono 10 sushi bar, anche i teatri non se la passano tanto bene: li abbattono per costruirci dei parcheggi o dei supermercati, poi prendono l’insegna e la mettono sopra un tendone di plastica, un teatro dentro un involucro di plastica si sente provvisorio, i teatri a Milano sono a rischio un po come la michetta, la nebbia e la caseula.......ma Lei  lo sa Eminenza che nella sua enorme parrocchia, nei suoi oratori, ci sono circa 120 sale per proiettare film e fare spettacoli teatrali? Io le prometto di non perdere di vista Dio, ma Lei cerchi di non perdere di vista gli oratori, raccomandi ai suoi preti di avere a cuore sant’Ambrogio, san Carlo, ma anche Shakespeare,  Pirandello, Dostoevskij, Clint Eastwood e Diego Milito, Lei non immagina che regalo che può fare ai ragazzi : uscire dall’oratorio con la consapevolezza di aver imparato i giochi più belli del mondo: il calcio, il cinema e il teatro!
E poi le do un consiglio: Milano è di una struggente bellezza o al mattino presto o la sera molto tardi, quando quasi tutti dormono; prenda, se può, una bicicletta,...( non ci scriva sopra proprietà dell’Arcivescovado, se no gliela fregano subito) una bici normale.... e vada in piazza dei Mercanti, si spinga fino nelle stradine del Carrobbio, passi davanto al palazzo degli Omenoni, continui fino davanti alla casa del Manzoni, faccia altre 2 pedalate fino piazza san Fedele, in quella Chiesa abbiamo battezzato nostro figlio, continui, continui a pedalare...e poi capirà perchè Milano ha affascinato Visconti, Olmi e perchè due tipi straordinari come Zavattini e De Sica hanno raccontato di un Miracolo a Milano, pedali e poi si fermi dietro al Duomo dove c’è quell’albero bellissimo, di fronte alla libreria san Paolo, si sieda per terra e legga pure un libro, le assicuro che in quel silenzio e in quella magica pace tante cose diventano comprensibili, persino i passaggi più oscuri di Heiddegger...e capirà che Milano le sarà entrata nel cuore.
Prima di rientrare a casa si ricordi di chiudere la bicicletta con il lucchetto.
E va bene noi cercheremo di non perdere di vista Dio, ma lei, che, se posso dirlo,  è un po come il Sindaco delle anime, ci aiuti a non perder la strada per la Madonnina.
E che Dio non perd
a di vista il suo Vescovo e Milano!


da:

Postato da: giacabi a 09:59 | link | commenti
testimonianza, scola

mercoledì, 25 agosto 2010

MEETING DI RIMINI/ “Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità”, l’intervento del Patriarca

MEETING DI RIMINI – Viene pubblicato qui di seguito il testo integrale dell’intervento pronunciato dal Patriarca mercoledì 25 agosto al XXXI Meeting di Rimini:
Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia 
DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITA’”
1. Desiderio di Dio e realtà
Molti di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi Wachowski. Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di tanti libri.
Ad ogni modo, in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.
Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto!
Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io.
E Dio che c’entra?
Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» . Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.
Il termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore.
 
E cosa c’è di più grande di Dio? Quella realtà di cui non si può pensare niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).
Come ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano, teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria di Dio è immortale? Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé: senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!
Infatti, ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un male.
2. Come riconoscere Dio che ci parla?
Fino a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, giungendo anche ad affermare che la sfera religiosa sarebbe del tutto sparita dalla società. Oggi, se si eccettuano taluni tentativi di elaborare un “nuovo ateismo , giudicati dai critici come più stravaganti che oggettivamente pertinenti, siamo di fronte ad una grossa sorpresa: Dio è tornato. Anzi, osserva il sociologo Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc .
Quella che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità, un’altra, forse più adeguata, formulazione (utilizziamo la parola post-modernità nel suo significato più semplice, per indicare il nuovo mondo che si sta spalancando davanti a noi dopo la caduta dei muri (1989), un mondo che presenta una forte discontinuità con il precedente, cioè con la modernità). Oggi la domanda cruciale non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?” E quindi: “Come Dio si comunica a noi così che si possa narrare Dio, e comunicarlo in quanto Dio vivo all’uomo reale che vive nel mondo reale? Come nominare questo Dio perché l’uomo post-moderno -cioè ciascuno di noi – lo percepisca significativo e quindi conveniente?” .
Nell’ottica occidentale, influenzata radicalmente dal giudaismo e dal cristianesimo, Dio è Colui che viene nel mondo. Se viene nel mondo è distinto da esso, ma questo non esclude la possibilità che gli uomini lo colgano come familiare. Allora per parlare di Dio all’uomo post-moderno, «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso che viene nel mondo ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare» . È necessario domandarsi prima se c’è una familiarità tra Dio e l’uomo ed interrogarsi su di essa perché Dio possa essere veramente conosciuto. Un problema di sempre, è divenuto particolarmente acuto nella post-modernità che non è interessata ai discorsi sui massimi sistemi, sulle mondovisioni, ma è sempre più presa dai problemi del vivere quotidiano. Per l’uomo di oggi la questione non è tanto se esiste Dio, ma se esiste cosa ha a che fare con me ogni giorno. Mi è familiare?
Ebbene la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel DNA della mentalità occidentale .
Se le cose stanno così – e al di là di tutte le apparenze che sembrano contraddire questa affermazione, stanno veramente così – allora cerchiamo di scoprire come la presenza di Dio ci diventa quotidianamente familiare, giungendo a colmare, in modo del tutto gratuito, il desiderio in senso pieno, sciogliendo l’inquietudine di cui parlava Agostino, rinnovando per me, per te e per tutti gli uomini, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, l’invitante saluto: “Benvenuto nel mondo reale”. In questo modo la parola desiderio acquista tutto il suo spessore, che non si lascia ridurre, come quasi sempre noi rischiamo di fare, ad una pura aspirazione soggettiva, ma vive nella sua pienezza bipolare, come il tendere con tutte le nostre forze al reale, il cui orizzonte ultimo è l’infinito e propriamente parlando Dio stesso.
3. La familiarità di Dio all’uomo
La possibilità di aver notizia di Dio e di narrare di Lui sta nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E conviene dire subito che la comunicazione gratuita e piena del Dio Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni lo dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «Dio ha reso breve la sua Parola (Verbo, Figlio, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rom 9,28). Il Figlio stesso che è «il Logos eterno si è fatto piccolo… Si è fatto bambino, affinché diventi per noi afferrabile» . In caso contrario sarebbe stato impossibile andare al di là della conoscenza, anche questa confusa e non senza errori, della Sua esistenza.
Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la lingua (in senso forte) della creatura che il Verbo incarnato ha voluto liberamente assumere. È necessario comprenderne, per così dire, la grammatica. Quella grammatica che è capace di narrarci il Divino.
Così, non solo il cristiano sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ma ogni uomo, anche colui che si dice non credente, lo potrà riconoscere. Almeno nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani , quando, parlando di Abramo, dice: «Come sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Con questa stupenda espressione Dio è descritto, nello stesso tempo, come creatore ed operatore di salvezza. E l’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Infatti, nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani, l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20). Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti.
La notitia Dei, cioè accogliere ed ascoltare Dio che è tra noi e comunicarLo, continua ad essere possibile ed è del tutto pertinente anche alla condizione dell’uomo post-moderno . Si tratta per questo di imparare la grammatica della lingua con cui Dio ci parla, cioè di considerare quali siano i luoghi essenziali dell’umano in cui continuamente si attua il Suo rapporto con noi. Quei luoghi che Egli ha assunto per dirsi all’uomo. Sono quelli attraverso i quali ogni uomo, se ne renda conto o meno, cerca di soddisfare la natura profonda del proprio cuore, di colmare il suo autentico desiderio. Ci limitiamo ad indicarne tre che ci sembrano fondamentali.
Riflettiamo sul desiderio non in astratto riducendolo alle nostre aspirazioni soggettive, ma lo esaminiamo nel suo concreto attuarsi nella nostra realtà quotidiana.
a) L’esperienza umana nella sua semplicità
Memento è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. In esso Leonard Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane gravemente ferito alla testa. Tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi. Tutti i contenuti recenti ed immediati della sua memoria svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli accumulati. Si ricorda solo quel che gli è successo prima dell’incidente. Sa da dove viene e come affrontare la vita di ogni giorno: come mangiare, come guidare, come scrivere, ma non appena si mette al volante non sa più perché è salito in auto, quando entra in un ristorante non si ricorda perché ci è andato, se incontra una persona conosciuta da poco non riesce più a ricordare di averla già incontrata. Siccome dal momento dell’incidente, che resta anche l’ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l’unico scopo nella sua vita è trovare e punire l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, determinato e consapevole del suo problema, Leonard prende ossessivamente appunti, fino a farsene tatuaggi, e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile perché ormai sa che lo dimenticherà dopo pochi minuti.
Questo film mi sembra descrivere efficacemente un tratto rilevante dello stile di vita di noi uomini post-moderni. Uno stile di vita spesso confuso nel suo desiderio di soddisfare la conoscenza del mondo reale che ha il suo vertice nel desiderio di Dio. Come il Leonard di Memento noi viviamo frammentati nella miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra vita è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Facciamo riferimento a logiche (esperienze) autonome fra loro praticamente non comunicanti, perché non integrate in un sistema di valori onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente il reale. Siamo ossessivamente attaccati ad ogni particolare, fino a tatuarcelo sul cuore. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria quantitativa nei nuovi media, ma a ben vedere questa non è la vera memoria, quella dell’uomo che li usa. Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere collocata nel piano di una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo. Ma ciò che è tipico della variante “post-moderna” mi pare il fatto che sia venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, nel quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Vale di fatto il contraddittorio principio: “tutto differente, tutto uguale”. Forse è soprattutto in questo senso che la “fine delle grandi narrazioni” produce un effetto diretto e immediato nei modi di vita delle persone.
Eppure anche questa pratica di vita, che diventa poi teoria, deve fare i conti con il riaffiorare nel reale dell’inaffondabile grammatica dell’umano, attraverso la quale il Dio che si è coinvolto con la storia continua instancabile a darci notizia della sua presenza tra noi.
Non a caso alla fine del film Leonard Shelby giunge ad affermare: “Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci… Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso…”.
Sì, anche tenendo conto di tutte le obiezioni possibili, derivanti dalla complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere con Karol Wojtyła: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune dell’uomo» , di ciascun uomo. Essa ne attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità, cioè la sua indistruttibile semplicità. Infatti, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità» .
Troviamo qui una significativa convergenza con la dottrina cattolica sull’uomo secondo la quale l’umana natura, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali, né mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo, né gli uomini. Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noè (cfr. Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò ad uno sguardo limpido e leale sarà sempre possibile riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima comunicazione di Dio ed apre la possibilità di narrare Dio al “fratello uomo”, perché tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La permanenza di questa condizione creaturale è, di per se stessa, “testimonianza” che Dio rende a Sé stesso e, quindi, via sicura per riconoscere che Egli è nel mondo reale. Egli è il Dio con noi.
Qual è il contenuto sostanziale di questa esperienza? In cosa consiste questo primo elemento della grammatica propria della lingua con cui Dio e l’uomo si parlano?
Innanzitutto nella stessa ragione (uso qui il termine in senso generale), con la sua capacità (trascendentale) di ospitare il reale che pertanto si rivela come intelligibile : L’uomo, con la sua ragione, è capace di attingere il vero che sempre fa tutt’uno con il bene ed il bello. Ma va subito aggiunto che la ragione comprende il reale restando in connessione inscindibile con la volontà. È questa, a ben vedere, la natura del cuore. In esso si uniscono conoscenza e affettività. Mediante questa struttura comune a tutti uomini il mondo reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e rinvia oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica) aprendo la strada al riconoscimento che Dio ci parla. Si intravvede in tal modo quanto sia letteralmente vero che Dio costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità che permette ad ogni uomo di ricominciare ogni mattina, affrontando circostanze e rapporti in modo costruttivo. Il memento, cioè la memoria, non è l’ossessivo prodotto della nuova forma di scrittura, che consiste nella pretesa di trattenere tutto attraverso l’ingigantirsi dell’archivio dei files dei computers, vivendo nel contempo, come Leonard, frantumati e dimentichi, di volta in volta, dell’uno o dell’altro aspetto essenziale della nostra esistenza. La memoria è quel legame tra passato e futuro reso possibile da un io che, spalancandosi completamente. sempre può incontrare il mondo reale se ascolta fino in fondo il suo cuore.
Questa esperienza comune ad ogni uomo – questo primo e fondamentale luogo della comunicazione e della narrazione di Dio – possiede due implicazioni di radicale importanza.
In primo luogo la coscienza che Dio non è “altrove” rispetto alla realtà, ma è “dentro” la realtà. E questo nel senso preciso che la costituisce qui ed ora, la crea facendola partecipare del Suo stesso essere: «Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui» (Gv 1,10). Un Dio fuori dalla realtà sarebbe un puro prodotto della nostra immaginazione. Sarebbe un nome vuoto, come spesso affermano gli uomini di oggi quando, interrogati, non negano l’esistenza di Dio. Sarebbe un Quid incomunicabile, non suscettibile di essere conosciuto da tutti gli uomini.
In secondo luogo, se Dio è “dentro” la realtà, se Egli costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana, allora nessun uomo è lontano da Dio, né, lo voglia o meno, può minimamente allontanarsi da Lui. Ovviamente non perché la bestemmia non resti sempre una tragica opzione, bensì perché la negazione di Dio implicherà sempre la censura o il rifiuto della propria esperienza umana integrale ed elementare.
Su questa base di esperienza umana comune, nel descrivere l’intervento gratuito della rivelazione in Cristo, San Giovanni può dire con verità «venne fra i suoi» (Gv 1, 11).
b) Io-in-relazione
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Farò ora brevemente riferimento ad un dato che con facilità ognuno di noi si trova in qualche modo addosso, perché fa parte dell’esperienza comune ad ogni uomo. Se ben riflette egli scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come la tensione tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la libertà del singolo in ogni suo atto. Ebbene anche attraverso questo dato antropologico essenziale Dio narra Se stesso.
Ed è per questo che nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’auto-comunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo si illumina il percorso di ogni uomo.
Per ovvii motivi di tempo ho scelto di soffermarmi solo sull’ultima delle tre polarità costitutive, quella di persona-comunità, proprio perché la nostra epoca è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione del significato della vita tra le generazioni. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità.
Nel post-moderno l’individualismo prende forme inedite e più radicali. È inteso anzitutto in senso neutro, non sarebbe né buono né cattivo, è meccanica ed ossessiva attenzione al valore singolare della persona. Anche in questo caso si tratta di un processo iniziato nell’età moderna, che però ha avuto il suo culmine nell’età contemporanea grazie all’estesa possibilità di controllo delle nascite che ha prodotto quello che un celebre sociologo francese ha chiamato l’arretramento della morte . Il fatto che in Occidente l’età della morte si sia elevata di molto in breve tempo ha prodotto come effetto clamoroso, tra gli altri, il dato che il figlio sia diventato, nei fatti e nell’immaginario collettivo, fondamentalmente un individuo prodotto di una riduttiva aspirazione soggettiva (desiderio in senso restrittivo). La grave conseguenza di questo fatto è la seguente: ha gradualmente riformulato la percezione che le persone hanno di se stesse: non si sentono più anzitutto chiamate a far parte della catena delle generazioni, ma anzitutto a realizzare la propria autonomia; non si considerano più anzitutto responsabilmente inserite in un tessuto di compiti e doveri, ma piuttosto in una trama di voglie e aspirazioni (desideri puramente soggettivi), che considerano indiscutibili quanto si pretende indiscutibile il desiderio riduttivo che ha portato alla loro esistenza .
Le conseguenze combinate di tutto ciò sono particolarmente rilevanti soprattutto sul piano educativo. Da una parte, un insieme di logiche sconnesse rende impossibile la trasmissione di punti di riferimento coerenti (da accettare, discutere, migliorare, eventualmente respingere). Dall’altra, la frammentazione dei legami generazionali e tradizionali finisce per svuotare, riducendola a caricatura, la conquista moderna del concetto di “diritti dell’uomo”, mette in questione la stessa liceità delle dinamiche educative, almeno nella misura inevitabile in cui esse sono di natura limitativa e costrittiva. Come efficacemente sintetizza Yonnet, ogni atto educativo viene sempre ipotecato dal sottinteso rimprovero: «Se io sono solo un prodotto dei vostri desideri (desiderio in senso riduttivo), perché io non dovrei fare ciò che a mia volta desidero, ciò di cui ho voglia?» .
Se nel post-moderno il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene attraverso pratiche virtuose. Per educare non è sufficiente proclamare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori .
E questo – ecco che emerge di nuovo la testimonianza che Dio rende di Se stesso nell’esperienza dell’uomo – è possibile anche nel mondo frammentato ed esasperatamente individualista di oggi. Ancora una volta possiamo far ricorso ad un bel film per averne un’idea. Mi riferisco al divertente capolavoro Fratello, dove sei? Nei titoli viene spiegato che l’ispirazione è l’Odissea. Tre galeotti evadono alla ricerca di un grosso bottino nascosto e danno così vita ad una grande avventura on the road. Ulisse-Everett, Delmar e Pete incontrano un vecchio cieco che prevede che la loro ricerca, che non avrà come esito il milione di dollari sperato, finirà quando vedranno una mucca su un tetto. Sulla strada, simbolo del cammino della vita, scoprono i diversi tratti dell’umano, incarnati, di volta in volta, da un gruppo di fedeli che vengono battezzati in un fiume; da un nero che ha venduto l’anima al diavolo per suonare la chitarra; poi incidono una canzone su un disco rudimentale. Partecipano a una rapina con un pazzo gangster Faccia d’angelo, si fanno derubare da un venditore di bibbie. Sconvolgono una manifestazione del Ku Klux Klan. Cedono alla seduzione di tre sirene canterine. Sono coinvolti nella campagna elettorale del solito politicante disonesto in una variegata rassegna di volti e di situazioni.
Alla fine, però Ulisse ritrova l’ex moglie, Penelope (con le sei figlie), sul punto di sposarsi con un altro… Vengono ripresi dalle guardie che li hanno sempre inseguiti, stanno per essere impiccati, ma si salvano perché la valle viene sommersa dal fiume, per via di una centrale elettrica che tutto trasformerà. Ed ecco apparire la famosa mucca sul tetto. Nel frattempo erano all’oscuro dell’enorme successo del loro disco: I’m A Man of Constant Sorrow. Sì, in qualche modo va tutto a posto. E così il chiacchierone Ulisse-Clooney ha efficacemente spiegato all’America della depressione, la stupidità, il desiderio, la speranza. Si concretizzano nell’esperienza comune: una bella famiglia con qualche amico sincero, con la libertà carica di dignità e di rispetto, al di là della fragilità. Lo sbilenco Ulisse dei fratelli Coen cerca risposte. E le risposte le dà solo qualcuno, un volto presente che interloquisce con te. Qui, al di là delle mille contraddizioni, si vede bene che l’unità duale tra anima-corpo, uomo-donna e persona-società è un elemento insopprimibile della grammatica dell’umano. E che il vero nome del nostro io è io-in-relazione.
Voglio osservare che almeno un frammento di questa semplice esperienza umana resiste in ogni situazione. E a partire da esso si può sempre ritrovarla nella sua integralità e semplicità. Questo suggerisce il film Fratello dove sei? Non si potrà mai abbandonare questo linguaggio perché è quello che Dio, venuto nel mondo per essere la via alla verità e alla vita, continua ad indicarci come la lingua attraverso la quale il Creatore ci parla. Ma ogni desiderio che tesse la trama quotidiana dell’umana esperienza – il desiderio di avere la vita salva, di amare e di essere amato, di edificare la città – rinvia “più in là”, oltre il suo contenuto particolare, perché ogni circostanza ed ogni rapporto costituiscono per l’uomo che vive il reale un richiamo, sono un passo che riaccende il cor inquietum, lo tende a Dio. Del resto Omero non dice nell’Odissea: “Tutti gli uomini hanno bisogno degli dei”? Questa è la ragione per cui la Chiesa considera i desideri autentici dell’uomo validi alleati per l’annuncio di Gesù Cristo che non a caso ha promesso felicità e piena libertà (cfr. Mt 19,21; Gv 8,36b). Genialmente Gómez Dávila, forse il più grande autore di aforismi, ha scritto: «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione» .
c) Domanda di salvezza e di redenzione
In terzo luogo è opportuno affrontare la questione da sempre collegata alla domanda su Dio e la Sua presenza nel mondo. Si tratta, della domanda circa la fragilità umana e soprattutto circa il male, in particolare circa il peccato, il male compiuto da me. Esso, con il suo seguito di sofferenza, di dolore e di morte ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno infittito il buio dell’eclissi di Dio fino al suo grado più tenebroso .
Ma il dato da cui troppo spesso si prescinde è che l’esperienza umana della fragilità, della sofferenza e del male è sempre attraversata – e non può non esserlo – dalla domanda di salvezza e di redenzione. Non importa la modalità con cui questa redenzione venga immaginata o descritta. Taluni, con erronea ingenuità, continuano a concepirla come frutto delle proprie forze, come autosoteria in senso prometeico. Altri, ascoltando le sirene di certe vulgate dell’estremo Oriente, la identificano con la “fuga dalla realtà”. Né mancano coloro che tentano di convincerci che “si vive e basta”, che in verità il problema della salvezza e della redenzione non esiste. Eppure, il loro desiderio si ripropone sempre.
Forse la domanda di salvezza e di redenzione è il luogo dove si identifica in modo più evidente il suo essere frutto di un dono, la sua gratuità. Per questo, risulta decisivo riconoscere la possibilità del perdono e della misericordia, unica sorgente dell’unità della persona e dell’unità tra le persone.
Il luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma l’Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento è la documentazione e l’annuncio, parlano. Precisi sono i segni che li rendono presenti: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti, in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà. Guardare Cristo, guardare il Crocifisso glorioso è l’invito conveniente da riproporre a noi stessi e ad ogni nostro fratello uomo.
Anche chi non vive la fede in Cristo si porta dentro questo desiderio indistruttibile di salvezza e di redenzione. Anch’esso è parte della grammatica della lingua in cui Dio e l’uomo comunicano. L’esperienza della misericordia piena, il Crocifisso glorioso, costituisce, per così dire, il vertice dell’esperienza che ogni uomo può fare. Infatti, proprio in forza dell’essere perdonato l’uomo non si vede costretto all’autogiustificazione attraverso la negazione del male compiuto: il male è tale e nulla può giustificarlo. Eppure, il peccato, la cui potenza distruttiva non sfugge a nessuno, non è più l’ultima parola sull’uomo se lo si riconosce e se ne domanda il perdono. L’uomo non è ultimamente definito dall’evidenzadisperante del suo male, ma dal suo desiderio di salvezza,
Questo implica la sconfitta di ogni tentazione utopica e totalitaria. Innanzitutto perché ci aiuta a comprendere che non si dà il male assoluto: ogni giudizio definitivo viene lasciato all’unico Giudice della storia, il Crocifisso Risorto. E poi perché permette di cogliere che la redenzione è sempre un dono, mai l’esito della presunzione da parte dell’uomo di costruire sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono .
4. La via della testimonianza
Il percorso compiuto ha voluto delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa post-moderna e Dio, che alla fine è il Dio di Gesù Cristo. Di tali condizioni sono decisivi tanto i contenuti, quanto il metodo.
Di contenuti, purtroppo sinteticamente presentati, ne abbiamo individuati tre:
1. l’uomo (ragione-libertà) è capace di conoscere e accogliere la verità perché il reale è intelligibile e noi possiamo ospitarlo. In ogni atto umano possiamo costatare e toccare con mano il desiderio del bene, del vero, dell’uno e del bello, desiderio che muove la libertà. Questa nella sua semplicità è l’esperienza umana integrale ed elementare comune a tutti gli uomini;
2. la natura del soggetto è relazionale: l’io-in-relazione è il soggetto umano in senso pieno; perché l’io nella sua insopprimibile unità è sempre unito di due: anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità.
3. l’unità dell’io, fragile per natura e minata alla radice dall’esperienza del male, grida il bisogno di salvezza e di redenzione, a cui risponde pienamente il perdono che, per misericordia, ricostituisce l’unità dell’io con Dio, con se stesso e con gli altri.
Queste tre condizioni dell’umana esistenza ci aiutano a guardare la Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica e redentrice. Egli ci conduce al Padre, Padre Suo e Padre nostro, affinché il nostro cuore di creature passi progressivamente dall’inquietudine al riposo compiuto del cielo che già si anticipa quaggiù. Questa è la ragione della venuta di Dio nel mondo. Perciò essa giustifica l’interesse per la persona storica di Gesù Cristo agli occhi dell’uomo contemporaneo. Seguendolo si impara quella ginnastica del desiderio (Agostino) che conduce a Dio. Perché? Perché in Gesù Cristo il desiderio integrale dell’uomo, cioè il suo cuore, incontra piena soddisfazione. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo – senza il quale l’interesse per Cristo resta nominale – e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo, senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Nel nostro percorso abbiamo però anche seguito un metodo su cui ora intendo dire un’ultima parola. Domandiamoci qual è il metodo inaugurato dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? Si chiama Gesù Cristo, testimone degno di fede (cfr. Ap 1, 5), Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare» . Continua a tener desto per il nostro bene l’Inquietum cor.
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la presenza reale di Dio nella famiglia umana e nella sua storia. Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile desiderio di Dio che si manifesta, magari in modo confuso e contraddittorio, nel linguaggio antropologico di cui abbiamo portato tre esempi e che ogni creatura non può, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, non continuare a parlare. Il desiderio di Dio, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri.
Lo rivelano le parole finali con cui la protagonista del film Il Concerto (di Radu Mihailenau, 2009) confessa la propria sofferta, ma indomabile ricerca del volto dei suoi genitori naturali che le era sempre stato tenuto nascosto. Il racconto coinvolge profondamente, come solo la passione per il destino umano sa fare, in una prospettiva di rinascita e redenzione che soltanto l’apertura all’infinito (qui potentemente evocata dalla bellezza della musica) riesce ad esaltare. Anne Marie Jacquet, divenuta ormai una violinista di fama mondiale, afferma: “Cerco lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada, ovunque. Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un istante, solo un istante”. Perché ho fatto ricorso a questa citazione? Per dire che il desiderio di Dio, che non è pura aspirazione soggettiva a un Dio astrattamente inteso, ma si esprime sempre in concreto nei suoi due poli – incontro tra tutto l’io con tutto il reale a cui tende -, attraverso il linguaggio dell’esperienza comune, dell’io-in-relazione e del bisogno di salvezza e redenzione, è sempre riscontrabile, almeno in suo frammento, in ogni persona. Nessuno può parlare altra lingua che questa. E questa è l’elementare forma del desiderio Dio nel quotidiano. Abita da sempre e per sempre il cuore dell’uomo. Nel caso della protagonista del Concerto si esprime nell’insopprimibile, dolorosa ricerca della figliolanza-paternità. Il dono della fede in Gesù Cristo conferma il desiderio naturale di Dio, nel momento stesso in cui, per pura grazia, trova la via maestra al suo compimento.
Questa fede ci viene donata nella Chiesa. Volutamente il nostro titolo parla di Chiesa e post-modernità, e non di “cristianesimo”. Vuole richiamare ad una dimensione più concreta e storica.
La Chiesa viva è sempre santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale, come lo chiamava Maritain. La Chiesa come soggetto cristiano personale e comunitario. Quella che, per dirla con Guardini, avviene nelle anime (persone). Ed è santa perché nasce permanentemente dal dono della redenzione: santa perché redenta. Questo soggetto può proporre – senza pretese egemoniche, lo ripeto -, anche in una società plurale e complessa come la nostra, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche. Cristo è dentro, è il Dio incarnato nel nostro quotidiano. E, a partire da queste implicazioni – ne abbiamo descritte tre di natura antropologica – ogni uomo può, in grazia e libertà, giungere fino al riconoscimento esplicito di Gesù Cristo, via alla verità e alla vita (Agostino).
Questo però domanda testimoni. La grammatica del narrare Dio può essere solo testimoniale. Chiede qui ed ora un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita, secondo la geniale intuizione di Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose» . Amare Dio, ma in ogni cosa e sopra ogni cosa: questo è il punto. Perché tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3, 22).
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla, invece, in tutta la sua integrità, come metodo, cioè pratica di conoscenza e di comunicazione della verità. Così intesa essa rappresenta il terreno base da cui fiorisce ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc .
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli Apostoli e, soprattutto, come fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia per poi salutarLo risorto.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. Si diventa testimoni – ha ricordato efficacemente Benedetto XVI – quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» .
La Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio, perché Essa è il luogo umano, il popolo che rende possibile la testimonianza come esperienza quotidiana. «Vieni e vedi». Che cosa? L’uomo nuovo: l’io-in-relazione, non un io ridotto al puro esperimento di se stesso. Come lo imparo? Anzitutto attraverso l’Eucaristia e la liturgia, luogo primario dell’amore familiare di Dio, esperienza di un sàpere, gusto, che diventa sapere. Luogo in cui è permanentemente generato il popolo nuovo, il popolo del Signore in cui ognuno è chiamato a dire non son più io che vivo (gratuità), perché ormai ho gli stessi sentimenti di Cristo (il pensiero di Cristo).
La Chiesa che ogni mattina, con il semplice segno di croce, mi ripete il saluto carico di speranza: “Benvenuto nel mondo reale!”. Questa Chiesa che ci permette la più esaltante delle esperienze umane: desiderare Dio. Questa esperienza non si può fare in solitaria come un’avventura estrema sull’impervia parete rocciosa della vita o solcando l’oceano periglioso dell’esistenza. Né si può farla in pienezza vivendo comunità che restano di fatto riferite solo a se stesse. Questa esperienza si fa solo e sempre in solidale compagnia con il “nostro fratello uomo” (Karl Barth) che, nei mille modi dell’esistenza, viene al nostro incontro. Qui si vede chi è il testimone. Colui che, condividendo di persona anche l’ultimo frammento del desiderio che permane sempre in ogni uomo, ridesta nel suo cuore la nostalgia del desiderio di Dio, cioè del compimento della propria felicità. Questa nostalgia ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.

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martedì, 23 febbraio 2010
GIUSSANI/ 1. Scola:
 la convenienza umana del cristianesimo
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lunedì 22 febbraio 2010
«Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova».
L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.
 Mi sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all’inizio degli anni Cinquanta: «Una situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».
 Quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.

Da dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un passato: «Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».
Ma questa dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.
In Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.
In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano.
Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre attenzione al frangente storico e culturale per comunicare un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà che è sempre drammaticamente situata.
Realtà (quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla. La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è comunicata.
 Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.
Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo: «Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».
Dell’autore Angelo Scola sta per uscire la nuova edizione del libro Un pensiero sorgivo. Luigi Giussani, Edizioni Marietti 1820.

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scola, giussani, cl

martedì, 21 ottobre 2008
Da vagabondo a pellegrino
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Eravamo precipitati nella figura del vagabondo comodo, ma la gente si ribella, vuole diventare un consapevole pellegrino, vuol sapere  da dove viene e dove va, vuol conoscere il bello ed il buono, il giusto ed il vero della vita, il senso del nascere e del morire.
Per questo si cammina, perchè
il pellegrinaggio è la più straordinaria metafora, il segno più concreto della vita dell'Uomo.
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Angelo Scola, Patriarca di Venezia 

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venerdì, 30 novembre 2007
Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo
***
         28-11-2007
 da :  http://edicola.avvenire.it/ee/avvenire/default.php?pSetup=avvenire


DA PADOVA FRANCESCO DAL MAS
 È proprio vero che la tecnoscien­za libera e rende felice l’uomo? Il patriarca di Venezia, Angelo Sco­la, ha qualche dubbio. E ieri sera han­no dimostrato di averlo anche quanti hanno affollato l’aula magna della più storica università italiana, quella di Pa­dova, per ascoltare il cardinale sul te­ma 'Il cuore e la grazia', che riassu­meva dieci anni di convegni sull’at­tualità di sant’Agostino organizzati dal­l’associazione Rosmini, dalla Pastora­le universitaria diocesana di Padova e da una decina di collegi ed istituti. Nel­l’occasione, don Giacomo Tantardini ha presentato il volume Il cuore e la grazia in sant’Agostino, e specifici con­tributi sono stati portati dal rettore Vin­cenzo Milanesi e dal procuratore Pie­tro Calogero.
  Dopo essersi soffermato sull’umiltà co­me la via maestra, passaggio obbliga­to del magistero di Sant’Agostino, e dopo aver ricordato la lectio agosti­niana – specie in De libero arbitrio – sulla volontà e la grazia, il patriarca ha sottolineato che proprio questo testo mette in campo due questioni fonda­mentali per il cosiddetto uomo post­moderno. La felicità e la libertà.
  «Così come le domande di verità e di giustizia sono state le più dibattute dal­l’uomo moderno (fino alla caduta dei muri, per intenderci), oggi le doman­de di felicità e di libertà sono diventa­te l’emblema principe del postmoder­no », ha sottolineato Scola. Le risolve la tecnoscienza? Evidentemente no, se­condo il patriarca. Anzi. «Non possia­mo negare che il dominio della tecno­scienza sulla nostra esistenza perso­nale e sociale è divenuto assai rilevan­te nelle democrazie avanzate, soprat­tutto dell’Occidente. La tecnoscienza – ha ribadito Scola – sembra sostituire nella mentalità corrente le religioni o le filosofie nel dirci che cosa è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere, il fe­nomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipen­dente dal fatto che l’Occidente sta im­ponendo a tutto il mondo una conce­zione della felicità come puro prodot­to progressivo della tecnoscienza». Tec­noscienza che sem­bra dare all’uomo il potere di esser feli­ce. «Non solo di vo­lere la felicità ma di poterla realizzare da se stesso, diretta­mente, senza in alcun modo riceverla come un dono». Si esprime così la pre­tesa di una libertà incondizionata. U­na libertà che ha in suo potere tutto: «Posso, perciò devo», questo è l’impe­rativo categorico della tecnoscienza. Il potere del sapere scientifico – come spiega Scola – si do­cumenta, da una parte, nel suo uni­versalismo teorico e pratico (in antitesi alla molteplicità e conflittualità delle religioni), dall’altra nell’enorme incre­mento di possibilità che la scienza, at­traverso la tecnica, mette a disposizio­ne del mondo. «Co­sì la tecnoscienza - non ha dubbi in proposito il patriarca - incentiva di fat­to la rinuncia della ragione a porre le domande sui fondamenti ('Ed io chi sono? Chi alla fine mi assicura, oltre la morte, col suo amore?'). E sospinge la libertà a impegnarsi quasi esclusiva­mente nelle realizzazioni affidate ad una tecnicità sempre più potente e perciò alla fine sempre più autogiusti­ficantesi. Si intravede qui una forma post-moderna di utopia non priva di pesanti conseguenze a livello sociale. Infatti tutto ciò che non rientra nel­l’ottica di questa sorta di 'universali­smo scientifico' viene tutt’al più rele­gato in una specie di riserva indiana, che non può aspirare ad assumere ri­levanza pubblica universale».
  È una mentalità crescente, alla quale non basta, tuttavia, contrapporre il la­mento e la ricerca del colpevole. Ma la fede intesa come risposta umana­mente compiuta, cioè laddove «gli uo­mini e le donne del nostro tempo si in­contrino concretamente – dove si tro­vano ad amare e a lavorare, cioè nella loro vita reale – con comunità cristia­ne in cui sia praticabile l’esperienza del dono».
 Il patriarca di Venezia, al convegno sull’attualità di Sant’Agostino, ha
parlato della nuova utopia odierna che sostituisce religioni e filosofie: «Dà la sensazione di aver raggiunto una libertà totale: posso, perciò devo»

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scola, scienza - articoli

martedì, 21 agosto 2007
Qualcuno, alla fine, mi ama?"
                     ***
Questa è la domanda che, volenti o nolenti, ognuno di noi si porta dentro. Rispunta, per quanto rimossa sia, con insopprimibile pressione ogni mattina, dopo la strana parentesi del sonno. Il destino del mio io è strutturalmente legato alla possibilità di trovare una risposta esauriente a questa domanda. Del resto chi di noi non è in ogni atto determinato dal bisogno-desiderio di essere definitivamente amato e di amare definitivamente? Nella definitività di quest'amore sta dunque il mio destino di uomo.
Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia
 

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amicizia, scola

sabato, 22 luglio 2006
LIBERTÀ  DI EDUCAZIONE
Stralcio dell'omelia:
…….Educare: relazione consapevole della persona con la realtà
Sarebbe illusorio parlare di educazione senza chiamare espressamente in causa tre categorie fondamentali: persona, realtà, libertà. Poiché è manifestazione sublime di cura, forma piena di “governo”, l’educazione nasce e vive di rapporti interpersonali. Non vi è cura senza farsi carico di tutta la persona. E la persona, a differenza del semplice individuo, mette in campo la relazione. Relazione con gli altri secondo una gerarchia di prossimità che, iniziando dai genitori, si dilata alla famiglia, ai vicini, alla scuola, all’università, al variegato mondo del lavoro. Relazione poi con le “cose ed il cosmo, con le “circostanze” e la storia.
L’educazione è, in sintesi, la capacità di mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà. Tutta la persona e tutta la realtà sono in gioco nel rapporto costitutivo - interpersonale, ma sempre immerso in comunità - tra educatore ed educando. L’educazione è nello stesso tempo questione personalissima ed affare di popolo. Si può ben capire che non vi possa essere educazione senza libertà. Se educare è “prendersi cura” dell’altro, allora questo significa pro-vocare la sua libertà ad ospitare la realtà, in un confronto appassionato, a 360 gradi. In questo senso l’educazione esige da tutti gli attori in campo auto-esposizione e testimonianza.
Come afferma suggestivamente la sociologa Margaret Archer «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura» nasce da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore». Il processo educativo del “prendersi cura” evidenzia cioè, le «nostre premure fondamentali» (ultimate concerns) le quali sono «ciò che ci rende esseri morali»

6. Libertà di educazione, misura della democrazia
La solenne azione liturgica che stiamo celebrando è evento paradigmatico di educazione. L’Eucaristia, infatti, si attua nella traditio che Cristo ha voluto fosse permanente frutto della Sua auto-esposizione, cioè del sacrificio redentivo della croce che vince la morte a nostro favore. In quella cena pasquale, presi il pane ed il vino, li trasformò nel Corpo e Sangue del Suo anticipato sacrificio e diede ai Suoi l’ordine di fare la stessa cosa in Sua perenne memoria. Gli Apostoli ed i ministri loro successori ancora oggi continuano a compiere questo gesto sublime di traditio. Paolo lo descrive in modo incomparabile: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11, 23): una definizione perfetta, e non solo per i cristiani, della dinamica educativa. Prendersi reciprocamente cura dell’altro e del legame con lui, dando vita ad un corpo generativo, in grado a sua volta di prendersi cura dei figli propri e più in generale delle nuove generazioni consente la realizzazione di una caring society.
Una traditio aperta all’ad-ventura (al futuro), poggiata sulla testimonianza, tesa a che la libertà dell’educando vada incontro al reale con umile curiositas, ne assapori la pienezza, non si blocchi di fronte alla contraddizione e al male suo e degli altri: a questo deve tendere con il contributo della intera comunità di appartenenza ogni comunicazione di sapere. Da quella più elementare e decisiva, che inizia in seno alla vita della famiglia, fino a quella scolastica ed universitaria, via via per tutto il corso della vita.
Se l’aver cura richiesto ad ogni educazione domanda la capacità di coniugare libertà - personale e comunitaria - e realtà, allora si capisce come la libertà di educazione sia un irrinunciabile carattere distintivo di una società veramente libera. Il grado di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo.   
La libertà di educazione misura la natura autenticamente democratica e popolare di una società. Di conseguenza giudica anche la capacità dello Stato di svolgere la sua funzione di promotore e garante di una società civile in cui le persone e tutti i corpi intermedi – anzitutto i genitori e le famiglie – in piena libertà possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di istruzione e di insegnamento. Ma quest’ultimo resterebbe velleitario se non fosse accompagnato dal diritto di costituire delle associazioni e di intraprendere delle attività sociali, culturali ed economiche.
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Postato da: giacabi a 14:14 | link | commenti (1)
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