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sabato 4 febbraio 2012

carron 3

IL POVERO
***

Per questo è povero colui che ha il cuore riempito dal desiderio della Sua presenza. Tutto il resto non è povertà. Tanto è vero che uno che ha questo desiderio non può pretendere, non riesce a pretendere.
…..Allora la dote del povero è questo desiderio. Il contrario di questa povertà è la presunzione.

Esercizi della Fraternità – Rimini 04-06 Maggio 2007



 

Postato da: giacabi a 18:56 | link | commenti
povero, giussani, carron

venerdì, 27 aprile 2007
La Bellezza del cristianesimo
***
 Sabato 24 marzo 2007. Roma, Piazza San Pietro
Saluto al Santo Padre Benedetto XVI di don Julián Carrón

presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
“…… Noi siamo affascinati dalla bellezza di Cristo, resa persuasiva dall’intensità contagiosa di don Giussani, fino al punto che ciascuno di noi può ripetere con Jacopone da Todi: «Cristo me trae tutto, tanto è bello». Questa bellezza del cristianesimo noi l’abbiamo scoperta senza tralasciare niente di quello che è autenticamente umano. Anzi, per noi vivere la fede in Cristo coincide con l’esaltazione dell’umano. Tutto il tentativo educativo di don Giussani è stato mostrare la corrispondenza di Cristo con tutte le autentiche esigenze umane. Egli era convinto che solo una proposta rivolta alla ragione e alla libertà, e verificata nell’esperienza, fosse in grado di interessare l’uomo, perché l’unica in grado di fare percepire la sua verità, cioè la sua convenienza umana. Così ci ha mostrato come è possibile vivere la fede da uomini, nel pieno uso della ragione, della libertà e dell’affezione. Noi vogliamo seguire le sue orme.
Don Carron

Postato da: giacabi a 07:43 | link | commenti (5)
bellezza, cristianesimo, giussani, carron, senso religioso

domenica, 04 febbraio 2007
La ragionevolezza della fede
***
Questa è stata la provocazione di don Giussani: la ragionevolezza della fede. Il nostro metodo – diceva – ha lo scopo: « mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita», perché «mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell' esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l'opposto. [...] Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita [...] vuoI dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo [...] esigenze fondamentali con cui un uomo -volente o nolente, lo sappia o non lo sappia giudica tutto, ultimamente giudica tutto».
Il carisma che abbiamo incontrato -vi dicevo nella lettera che ho scritto alla Fraternità -ci affascinerà sempre di più, soltanto se diventa esperienza nella nostra vita quotidiana questo di più di umanità, questa evidenza della corrispondenza di Cristo alle esigenze del cuore: perché così è stato l'inizio della nostra fede, come ci ha ricordato il Papa nella enciclica Deus caritas est: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
L'incontro, cioè l'io di ognuno di noi colpito dalla presenza di Cristo: colpito perché corrisponde alle esigenze del cuore, cioè realizza queste i esigenze compiendole. Per questo, dall'inizio, il test del cristianesimo è  stato questo incremento dell'io, questo di più del nostro io.
Nell'incontro, amici, si svela il metodo di ogni passo del cammino. Che cosa vuol dire l'incremento dell'io, l'avvenimento dell'io? Il ridestarsi del cuore, l'apertura della ragione, la sfida della libertà e il suo compimento, una più grande capacità d'affezione, una maggiore capacità di stare nel reale con tutto noi stessi.
L'incontro con Cristo non elimina il senso religioso, anzi, lo ridesta. Diceva don Giussani: è la percezione di questo avvenimento di Cristo che resuscita e potenzia le evidenze originarie che costituiscono il senso religioso, cioè dà una maggiore capacità all'io di stare nel reale, di vivere intensamente tutto. Per questo è allarmante quando scopriamo che «non ci siamo» nel reale.
Don Carron

Postato da: giacabi a 14:38 | link | commenti
cristianesimo, carron

venerdì, 29 dicembre 2006
Fede e nichilismo.
Non chiudiamo gli occhi
di: Julián Carrón

Corriere della Sera
, 28 dicembre 2006
Caro Direttore, il contesto umano e culturale in cui viviamo può essere identificato con una parola: confusione. Ce ne rendiamo conto per l’urgenza in noi di una certezza. Tutta la confusione in cui siamo immersi, infatti, non può evitare l’emergere del desiderio di verità, giustizia, felicità che ci costituisce. «Ho cercato me stesso. Si cerca solo questo» (Pavese). Insoddisfazione, inquietudine e tristezza ci dicono che il desiderio del cuore è inestirpabile - come un dato che nessun nichilismo può vincere -. Neanche la nostra menzogna, i nostri tentativi di far finta che non esiste, è in grado di sradicarlo. Tanto è vero che non vediamo altra via d’uscita che odiarlo: «Quando si annebbia, il cuore grava come peso insopportabile. Ed è difficile reggere questo peso senza avere in odio se stessi, senza rimpiangere di essere nati» (Maria Zambrano).
Si capisce questo odio perché, non trovando la presenza che lo compia, il desiderio di felicità è come un impeto impazzito, che non sa più dove andare. Ma neanche può auto-distruggersi perché è costitutivo e chi ci ha costituiti è un altro, è il Destino. Per questo
anche nell’abisso della dimenticanza si può riaccendere il desiderio di tornare a casa. Fu così per il figliol prodigo. E lo è per chiunque abbia ancora una briciola di tenerezza verso di sé, «perché alla vita basta lo spazio di una crepa per rinascere» (Ernesto Sábato
).
Il cuore resta come baluardo contro il nichilismo. Dare credito al cuore, al desiderio di tornare a casa, è l’inizio della ripresa. Sembra un niente, ma è ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la verità, se per caso ci viene incontro. Nel cuore, infatti, abbiamo il criterio per giudicare: «L’inferno - scrive Italo Calvino - è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Dare spazio a che cosa, se ogni cosa, ogni volto, anche i rapporti più cari, sembrano non avere forza e consistenza per vincere l’inferno? Ci vorrebbe qualcosa di eccezionale per respirare e vivere. Il Natale di Cristo è l’annuncio di questa eccezionalità che irrompe nei confini chiusi dell’umana esperienza: il Verbo si è fatto carne, Dio diviene uno di noi.
Eppure oggi siamo abituati a parlare del Natale come sentimento, folklore, rito già saputo, piuttosto che come fatto eccezionale, fino al punto che la fede non interessa quasi più a nessuno, nemmeno a tanti che frequentano la Chiesa. Gli interessi della vita sono altrove. «Ma com’è possibile - si domanda Benedetto XVI - che un uomo dica “no” a ciò che vi è di più grande; che non abbia tempo per ciò che è più importante; che chiuda in se stesso la propria esistenza?». E risponde: «In realtà, non hanno mai fatto l’esperienza di Dio; non hanno mai sperimentato quanto sia delizioso essere “toccati” da Dio!». Come possiamo essere “toccati” da Dio? Solo attraverso l’umanità cambiata di testimoni, non perché più buoni, ma perché presi, afferrati da un Fatto che muove tutta la loro vita, come è accaduto, d’improvviso, ai pastori: «Venite a vedere! Per voi un bambino è nato!».
Così il Natale è una speranza per tutti. Basta guardare e lasciarsi “ferire” dalla sua bellezza, così come descrive la liturgia della notte di Natale: «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore». Questo stupore riecheggia nelle parole di Pasolini: «L’occhio guarda… è l’unico che può accorgersi della bellezza… la bellezza si vede perché è viva, e quindi reale. Diciamo, meglio, che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio». Oggi, come duemila anni fa. È questo infinito desiderio che da allora fa gridare alla Chiesa: «Vieni, Signore Gesù!».

Julián Carrón

Postato da: giacabi a 09:02 | link | commenti
natale, carron

sabato, 23 dicembre 2006
Buon Natale 2006
fonte:
http://www.corriere.it/  24/12/2005
Il cristianesimo (bello e felice) di Ratzinger
Julián Carrón

«Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si queti l’animo, e disira:/ per che di giunger lui ciascun contende». La genialità di Dante ha saputo esprimere meglio di nessuno altro l’attesa che costituisce il cuore di ognuno di noi. Tutti segretamente attendiamo, a volte quasi con vergogna di confessarlo a noi stessi, questo bene in cui il nostro animo trovi quiete. È come se dovessimo farlo furtivamente, di nascosto da noi stessi e dagli altri, per difenderci. Tanto è impopolare, “politicamente scorretto”, confessare a se stessi il proprio bisogno umano. Perché?
Perché «tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace/ un onta, forse, un po’ come si tace una speranza/ ineffabile» (Rilke). Il tentativo di qualsiasi potere è espropriare l’uomo della propria esperienza, quella più nostra, quella che coincide con le nostre viscere. È così potente la sua pretesa che non si accontenta di meno di tutto: vuole l’anima. Peccato che trovi in noi, tante volte, un alleato occulto. Tanto è vero che, anche a noi, a volte sembra un sogno la realtà del nostro essere. Per guardare in faccia il proprio cuore, occorre un “io” come quello del poeta spagnolo Antonio Machado: «Il mio cuore, dorme?/ No. Il mio cuore non dorme./ È sveglio, sveglio./ Non dorme né sogna, guarda,/ gli occhi chiari aperti,/ segni lontani e ascolta/ alla riva del grande silenzio».
Altroché sogno! Il mio cuore è sveglio, sveglio, se dico “io” con tutta la lealtà di cui sono capace, con tutta la mia capacità di sincerità, con quella tenerezza con cui ero abbracciato da piccolo da mia mamma. È soltanto questa tenerezza verso noi stessi che ci consente di abbracciare tutta quanta la nostra umanità. E allora ci si rende conto che il cuore «non dorme né sogna,/ guarda gli occhi chiari aperti,/ segni lontani e ascolta/ alla riva del grande silenzio». Questo è l’acme della ragione: arrivare al grande silenzio, cioè al Mistero. Davanti ad esso possiamo soltanto guardare con gli occhi spalancati e attendere un segno dall’altra riva.
Il Natale è il segno che tutti, più o meno confusamente, aspettavamo dal grande silenzio del Mistero. È il compimento imprevisto di questo desiderio. «Il Verbo si è fatto carne». Il Mistero è diventato uno di noi. È arrivato alla nostra riva. È stata, ed è, una sorpresa. Come fu per Maria, Giuseppe, i pastori e i Magi.
Col Natale è entrata per sempre nella storia una Presenza portatrice di una novità che nessun potere può far fuori. «Uno ci è accaduto», diceva Mounier. È così corrispondente all’attesa del cuore che non potrà mai essere sconfitta. Il suo fascino è così accattivante che soltanto chi si accanisce nel non riconoscerla può rimanere indenne alla sua attrattiva.
Davanti a questo fatto risultano patetici tutti i tentativi di confinare il Natale tra i fenomeni misterici o virtuali dell’immaginazione religiosa dell’uomo, che non c’entrano niente col reale della vita di tutti i giorni. È il tentativo di spedirlo nel mondo dei sogni.
Perché non è un sogno, come non lo fu duemila anni fa? Perché la sua Presenza è all’opera in mezzo a noi. «La fede cristiana è la modalità sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose», diceva don Giussani. Noi verifichiamo che Cristo è reale, presente, perché cambia proprio le cose più resistenti a qualsiasi cambiamento: le cose solite. È l’intensità del vivere, è la vibrazione ineffabile e totale davanti alle cose e alle persone, è la densità dell’istante, in tempi in cui tutto è piatto, che ci convince che ha ragione Péguy quando scrive: «Lui è qui./ Lui è qui come il primo giorno./ Lui è qui in mezzo a noi come il giorno della sua morte/ Eternamente ogni giorno./ È qui fra noi per tutti i giorni della sua eternità».
Il cristianesimo è facile, a portata di mano di chiunque. Basta cedere alla sua attrattiva vincente. Come i pastori, che rimarranno per sempre nella storia come cifra che il cristianesimo è facile. Basta la semplicità di riconoscerlo.
Lui è qui. Lo documenta in modo solare il Papa Benedetto XVI, che continua a sfidare tutti testimoniando la bellezza dell’essere cristiani e la gioia di viverlo, che non c’è bisogno del male per essere felici, che la noia si vince soltanto se lasciamo entrare Lui nella nostra vita. Che responsabilità abbiamo - noi cristiani - di sostenere la sua sfida, testimoniando nella vita la verità delle sue parole!
Grazie.
BUON NATALE!!!

Postato da: giacabi a 12:24 | link | commenti
natale, gesù, carron

sabato, 14 ottobre 2006

La certezza che noi desideriamo
viene dalla verifica di una proposta

la certezza che noi desideriamo viene dalla verifica di una proposta. Noi non viviamo soltanto di un discorso corretto e con l’ansia come sottofondo, noi viviamo se possiamo verificare nel presente, nel quotidiano, la novità che introduce Cristo nella vita. Per questo è la verifica della proposta che è stata fatta agli Esercizi della Fraternità quello che convincerà ognuno di noi della ragionevolezza del seguire la strada, dell’essere cristiani, del dare tutta la vita a Cristo.
Se non sperimentiamo nella nostra vita questo, se non vediamo il guadagno umano, la convenienza umana di quello che ci diciamo, se non vediamo nell’esperienza fino a che punto rifiorisce la vita, dalla mattina alla sera, noi - volenti o nolenti - continueremo a fare dei tentativi per cercare <> per vivere, come tante volte capita anche tra di noi, dopo l’incontro fatto, dopo avere incontrato Cristo. Tante volte mi trovo a osservare, davanti a certe cose che sento:<quello che stai dicendo è come quell’immagine che descrive don  Giussani della pianura, in "All’origine della pretesa cristiana": è come un tentativo tuo di stabilire un rapporto con il Mistero, di stabilire il ponte: il tuo tentativo è nobile, ma triste>>.  E questo non vale soltanto per quelli che ancora non hanno sentito parlare di Cristo, tante volte lo possiamo dire di noi. Perché? Perché non Lo abbiamo incontrato? No! Ma non basta incontrare! Se poi non facciamo una verifica che ci convince ogni volta di pià di quello che abbiamo incontrato, noi continuiamo a immaginare tentativi nostri. Possiamo dire: <>, e continuare nei nostri tentativi. Allora aiutarci in questi giorni in una verifica di quello che ci siamo detti agli Esercizi della Fraternità è la possibilità di non dovere ricorrere di nuovo a tentativi che sono già falliti ancora prima di cominciare.

Don Carron ( Tracce  Quaderni settembre 2006)
luigi giussani e carron

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cristianesimo, carron

sabato, 19 agosto 2006

LA LIBERTÀ parte  5a

Cerchiamo di capire il perché di questa riduzione:




proseguo della riflessione  di don Carron
fatta al Meeting di Rimini dell’anno scorso: http://www.meetingrimini.org/ita/index.php


5. Il compagno che rende storicamente possibile la libertà
È solo quando il Mistero, come la persona amata, svela il suo volto che l’uomo può avere la chiarezza e l’energia affettiva adeguata per aderire, cioè per impegnare tutta la sua libertà. Con Gesù il Mistero è diventato «una presenza affettivamente attraente», al punto da accendere il desiderio dell’uomo e sfidare come nessun altro la sua libertà, cioè la sua capacità d’adesione. All’uomo basta cedere all’attrattiva vincente della Sua persona. Come accade all’uomo innamorato, è la presenza affascinante della persona amata che desta in lui tutta la sua energia affettiva: basta cedere al fascino di colei che ha davanti.   

«Ciò che occorre è un uomo,
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose,
ciò che occorre è un uomo,
un passo sicuro, e tanto salda
la mano che porge che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi, e salvarsi»[34].    C.Betocchi

E come la persona amata, il Mistero presente lo scopro in un incontro. Imprevisto. Proprio una sorpresa! Come è capitato a Giovanni e Andrea, i primi che hanno incontrato Gesù, e gli sono rimasti attaccati per il resto della loro vita. La loro libertà è stata così sfidata dalla Sua eccezionalità unica, che non hanno potuto andare avanti nella vita senza fare i conti con quella persona. Con Lui è accaduta una corrispondenza così impossibile altrove, che non l’hanno abbandonato più. «La loro libertà autentica pertanto - ci ha detto il Papa nel messaggio rivolto a questo Meeting - è frutto dell’incontro personale con Gesù». La libertà di quelli che l’avevano incontrato ha trovato un compimento senza paragone. Il centuplo quaggiù, dirà poi Gesù. Cioè una soddisfazione cento volte più grande, come anticipo di quella piena[35]. E loro non erano dei visionari. Altrimenti, prima o poi, Lo avrebbero abbandonato. Si sarebbero sentiti smarriti anche loro.
È in questo rapporto che si chiarisce l’altrimenti confuso desiderio dell’uomo. Tanto è vero, come dice Guglielmo di Saint Thierry, che Cristo è «l’unico in grado di insegnarmi a vedere ciò che desidero»[36]. È proprio Lui, Cristo, a svelare pienamente l’uomo all’uomo[37]. «Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo», disse il famoso retore romano Gaio Mario Vittorino.
Il Mistero, per richiamare l’uomo senza che s’irrigidisca, come diceva Péguy, ha usato il metodo della preferenza. Come ci introduce all’amore, non attraverso un discorso, ma facendoci innamorare, così, per svelarci che cos’è la libertà, suscita tutto il nostro desiderio di totalità mettendoci davanti un’attrattiva così potente che possiamo fare, nello stesso momento, “in contemporanea”, l’esperienza del compimento di questo desiderio
.
Caro cardo salutis. La carne, il Verbo fatto carne, è il cardine della salvezza. Una presenza carnale affettivamente attraente è l’unica in grado di vincere le nostre resistenze. Un’attrattiva vincente è l’unica speranza per noi, così sempre tentati dal fascino dell’autonomia, di quella affermazione quasi omicida di noi stessi che ci porta nel nulla. Solo l’attrattiva dell’Essere che brilla nel volto di Cristo, presente qui e ora nella carne della Chiesa, può sconfiggere il fascino del nulla.
Perché questo uomo ha questa attrattiva? Chi è costui? È Cristo, l’uomo pieno di Dio o Dio fatto uomo. Un uomo che accetta di appartenere totalmente al Mistero, al Padre. Accetta che sia un altro che gli riempie il cuore. In Lui si realizza la vocazione dell’uomo. E per questo è l’unico a introdurci nel mistero del Padre, nel quale si compie la nostra libertà. Figli nel Figlio (cfr. Gal 4,4-7).
Ma perché Lui si sveli a me come il compimento della mia libertà occorre la mia libertà di lasciarlo entrare nella profondità del mio io. In realtà scopriamo di avere trovato Colui che compie il nostro desiderio di libertà nel momento stesso in cui diventiamo liberi, cioè suoi. Non si svela prima che io abbia deciso liberamente per Lui.
Cristo non è venuto infatti a risparmiarci l’esercizio della libertà, come a volte ci piacerebbe. Che cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera? È il dramma di Dio espresso nella genialità di Péguy:   

«
Ho voglia, sono tentato di metter loro la mano sotto la pancia
per sostenerli nella mia larga mano,
come un padre che insegna a nuotare a suo figlio,
nella corrente del fiume,
e che è diviso tra due sentimenti.
Perché, da una parte, se lo sostiene sempre e se lo sostiene troppo,
il bambino ci confiderà e non imparerà mai a nuotare.
Ma anche se non lo si sostiene bene e al momento buono,
quel bambino si troverà a bere

Tale è il mistero della libertà dell’uomo, dice Dio.
E del mio governo verso di lui e della sua libertà.
Se lo sostengo troppo, non è più libero
E se non lo sostengo abbastanza, cade.
Se lo sostengo troppo, espongo la sua libertà
E se non lo sostengo abbastanza, espongo la sua salvezza:
due beni in un certo senso quasi ugualmente preziosi.
Perché quella salvezza ha un valore infinito.
Ma cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera
?»[38]

Non possiamo evitare di decadere, di venire meno. Ma allora, come ci si ridesta in continuazione? L’unica possibilità è che il cristianesimo continui ad accadere come avvenimento. Senza il continuo riaccadere dell’avvenimento cristiano non c’è possibilità di libertà reale. E il suo permanere è segno anche della sua verità: come il vero, esso dura. In questo modo, la libertà può verificare di essere ridestata in continuazione e messa in moto in modo da poter realizzare se stessa.   
Dove permane l’avvenimento cristiano? Nella Chiesa. «La libertà di Dio realizza la sua presenza attraverso degli uomini che la sua presenza ha cambiato, degli uomini cambiati dalla sua presenza. … La sua presenza, la presenza del Dio fatto uomo si rivela attraverso questi uomini cambiati. Il segno adeguato di questo cambiamento è questa capacità di unità, agli uomini impossibile, che si chiama, con un nome intero, Chiesa»[39]. Attraverso questi uomini il Mistero continua a rendere possibile la libertà reale dell’uomo, il cui primo cambiamento è la comunione tra di loro[40].
La comunione è la vittoria sull’assenza di legami, frutto del peccato.
La Chiesa diventa così il luogo della libertà, possibile per chiunque s’avvicina ad essa
. Solo se è una comunità che rende possibile nella storia la libertà reale, potrà rispondere all’obiezione che la libertà non è possibile nell’appartenenza. Invece di assenza di legame, appartenenza vissuta.
Ma è possibile questa libertà reale nella comunità della Chiesa solo se essa mi educa al riconoscimento del Mistero, l’unica realtà che può rendermi libero nelle circostanze. Questo è il senso profondo della frase di sant’Ambrogio: «Ubi fides ibi libertas»[41]. Solo una comunità così può realizzare l’aspirazione a una dimora dove abiti la libertà: «L’aspirazione a liberarsi e a costruire una dimora nuova dove la libertà possa abitare - scrive Hannah Arendt - è senza precedenti e senza eguali in tutta la storia del passato»[42]. Il legame con Cristo nella Chiesa ricostruisce il legame con tutto e tutti.
Il cristianesimo viene incontro oggi a questo desiderio di libertà dell’uomo del nostro tempo. Tuttavia, se vuole avere qualche chance, il cristianesimo non può proporsi all’uomo in nessuna delle versioni riduttive (moralismo, spiritualismo, discorso), ma attraverso la testimonianza d’una esperienza: il cristianesimo deve mettere sul palcoscenico del mondo “uomini liberi”. Lo spettacolo di un uomo libero nelle circostanze, nel reale: lavoro, vicende, circostanze… È questo che rende testimonianza a Cristo.
Perciò don Giussani affermava alcuni anni fa, in una intervista, che quello di cui l’uomo oggi ha bisogno non è neanche un discorso religioso, ma «l’esperienza di un incontro (…) Si incontra il Fatto cristiano imbattendosi in persone che questo incontro hanno già compiuto e la cui vita da esso, in qualche modo, è stata già cambiata. (…) Non è un incontro sentir citare il Vangelo o ascoltare anche per ore i pensieri che il Vangelo fa venire in mente a una data persona. Questo è assistere a uno spettacolo, quando lo è, di reazioni sentimentali o suggerimenti dialettici che prendono le mosse da uno spunto religioso. Invece l’incontro è con un avvenimento, che può essere anche una persona che parla, ma ciò che colpisce non è tanto la parola in sé quanto il cambiamento comunque avvenuto in colui che parla»[43]. È ciò che documenta questa lettera:

«Carissimo don Carrón,
raccontavo ad un’amica dei Memores una mia recente esperienza e lei mi ha suggerito di scriverle. Ecco quanto il Signore mi ha dato di capire.
Sono stata ricoverata in ospedale per una settimana per svolgere degli esami a seguito della malattia che ho da 13 anni: il morbo di Parkinson (insorto quando avevo 38 anni). Mi hanno messo in una camera dove già era ricoverata una signora anziana, che presentava dei gravi problemi connessi alla mia stessa malattia: non riusciva a stare ferma per i movimenti involontari né di giorno né di notte e aveva delle contratture anche a livello della gola e della lingua, per cui non riuscivano neppure ad alimentarla. Sfinita dalle distonie e dalle discinesie alla fine, isterica, gridava: non trovava altro mezzo per farsi sentire che urlare. Per me voleva dire non dormire e non riposare né di giorno, né di notte.
Mi sono subito resa contro che dovevo portare pazienza perché quando uno viene ricoverato in ospedale sa che può incappare in situazioni così. Cercavo di calmarla come potevo, chiamandola per nome, rincuorandola, facendole sentire la mia presenza, anche perché lei non aveva la possibilità di essere assistita quotidianamente dai parenti.
Dopo due giorni di questa situazione mi sono ritrovata veramente stanca; sono perciò andata a cercare la caposala, le ho detto che non ce la facevo più perché non potevo riposare mai e le ho chiesto se poteva fare qualcosa; poi me ne sono tornata in camera in lacrime.
Appena entrata, però, mi sono ricordata di quello che don Giussani ci ha insegnato: “Vivi la circostanza come il Mistero che ti si fa incontro”. E allora, guardando quella donnetta che si contorceva tutta e che urlava, che gridava un bisogno, una drammatica richiesta di aiuto, ricordando le parole del Gius è cambiata la posizione del mio cuore e della mia mente. Sicuramente mi avrà fatto bene piangere, però non è stato quello che mi ha rilassato: ciò che mi ha dato la forza di continuare con lei è stata proprio questa coscienza che il Mistero mi si faceva Presenza dentro quella situazione lì, in quella camera lì. E allora mi sono detta: “O la circostanza la subisco, oppure la vivo, l’abbraccio”.
Così ho cominciato, oltre che a rincuorarla, ad essere anche più attenta alle sue reazione ai dosaggi dei farmaci che le venivano somministrati. Dopo un paio d’ore è entrato il primario con altri medici e si chiedevano cosa fare per aiutare questa signora, perché non riuscivano a mettere a punto la terapia. Allora ho trovato il coraggio di riferire quello che avevo osservato riguardo alle reazioni ai dosaggi dei medicinali e ho aggiunto che quando si sentiva rincuorata e in compagnia di qualcuno (anche se venivano a trovare me), si calmava: segno che aveva certamente bisogno di una terapia, ma anche un bisogno di compagnia.
Da quel momento ogni due o tre ore, quando entravano a visitarla, chiedevano a me come aveva passato quel periodo dopo il nuovo dosaggio della terapia, al punto che verso sera una dottoressa chiese al primario se io ero diventata la referente di questa paziente. Il primario, scherzando, rispose: “Eh sì! Non possiamo dimetterla: la signora sta diventando utile per capire bene come gestire questa terapia!”. A quel punto ho però fatto presente che dovevano chiedere anche a me come stavo, perché la situazione era veramente insostenibile per tanto tempo. Il primario, allora, mi ha garantito che avrebbero sveltito gli esami per dimettermi. E così è stato.
Alla sera è entrato in camera un infermiere per comunicarmi che, anche se solo per quella notte, avrei potuto dormire in una camera singola in modo da riposare. Io allora mi sono scusata per la reazione avuta al mattino, dovuta alla terribile stanchezza, ma lui mi ha risposto: “Signora, lei non deve scusarsi per nulla e sappia, comunque, che è l’unica che ha resistito”.
Quando sono stata dimessa un’infermiera mi ha ringraziato per l’aiuto che avevo dato anche a loro, non continuando a suonare il campanello, ma cercando di accudire la paziente per quello che potevo fare io e mi ha detto: “Faccia il possibile: non cambi mai il carattere che ha, resti sempre così!”.
Ho voluto raccontare questa esperienza proprio perché secondo me un fatto è stato lampante: non che sono brava io - che sono riuscita a vivere questa circostanza in un modo diverso dalle altre persone che prima di me erano capitate in quella camera -, ma che è per la presenza di un Altro che la sofferenza può essere sostenuta e diventare vivibile. È il riconoscimento che il Mistero si vive dentro la circostanza che la cambia, che cambia te innanzitutto: vivi meglio tu la circostanza e fai vivere meglio quelli che con te sono chiamati a viverla».
Ecco la libertà in atto: non un io incastrato nell’ingranaggio delle circostanze, ma un io che trova nel riconoscimento del Mistero nella circostanza la possibilità della libertà reale. «Se l’uomo vuole essere libero da tutto ciò che lo circonda - diceva don Giussani al Meeting 1983 -, se vuole essere libero da tutto ciò che esiste attorno a lui, deve essere dipendente da Dio. È la dipendenza da Dio la libertà dell’uomo».
Noi, come questa signora, possiamo fare esperienza della libertà in ogni circostanza perché abbiamo conosciuto un uomo libero che ci ha insegnato a vivere tutte le    circostanze nell’unico modo in cui non ci schiacciano: come riconoscimento del Mistero, cioè come figli[44]. Lui, noi ne siamo stati testimoni, ha vissuto la sua vita e la sua malattia così e ci ha insegnato a guardare la positività del reale in qualsiasi circostanza. È a lui che noi saremo sempre grati. L’omaggio più bello che gli possiamo offrire in questo primo Meeting senza di lui è quello di essere testimoni per tutti quelli che ci incontrano che l’unica possibilità di libertà reale è il riconoscimento del Mistero presente. Grazie, ancora una volta, don Giussani.
Fine

Postato da: giacabi a 07:48 | link | commenti
libertà, carron

venerdì, 18 agosto 2006

 
LA LIBERTÀ parte  4a

Cerchiamo di capire il perché di questa riduzione:



proseguo della riflessione  di don Carron
fatta al Meeting di Rimini dell’anno scorso: http://www.meetingrimini.org/ita/index.php




….4. Il rapporto col Mistero, fondamento della libertà dell’uomo
Come spiegare questo mio, tuo, desiderio di totalità, o “d’infinità, come diceva Pavese? L’unica ipotesi ragionevole è l’Infinito. Questa apertura alla totalità è il segno più palese che l’uomo è rapporto diretto col Mistero che lo fa. Io mi trovo addosso questo desiderio, ma chi me lo da? Un altro che mi fa così. È questa apertura alla totalità che mi fa essere libero, capace di scegliere tra diverse cose, di non essere ridotto a parte dell’ingranaggio delle circostanze, o del potere. Péguy l’ha espresso con la sua genialità unica:

«
Questa libertà
è il più bel riflesso che ci sia al mondo perché essa mi ricorda, essa mi rimanda,
perché essa è un riflesso della mia propria libertà,
che è il segreto stesso e il mistero
e il centro e il cuore e il germe della mia creazione
»[23].

La libertà finita, cioè creata, rimanda alla libertà infinita. La libertà infinita è all’origine della mia libertà.
Senza quella, la mia non ci sarebbe.
L’uomo è rapporto diretto col Mistero. «L’io è rapporto con l’infinito. Tutto il dinamismo dell’io si svolge e tende a una perfezione, cioè a un compimento di sé che in tutto quello che raggiunge non c’è mai. Ciò a cui l’uomo tende è qualcosa che è al di là, sempre al di là: è trascendente. Così la coscienza di sé percepisce l’esistenza di qualcosa d’altro, cioè di Dio, del Mistero, Dio come Mistero. Dio è l’estremo limite a cui il desiderio dell’uomo tende»[24].
Questo è quello che dice il catechismo, che l’anima è data direttamente da Dio. Questa è la verità più grande della dottrina cristiana della creazione. Il fatto che noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che siamo chiamati a un rapporto unico e diretto con Lui. La vocazione della vita è questo rapporto. Chiamati, non a qualsiasi cosa, ma a Dio, alla felicità piena. L’uomo è capax Dei.
È questo che impedisce che l’uomo sia ridotto ai suoi antecedenti biologici, psicologici, sociologici, ecc. Il tentativo dei “maestri del dubbio” di ridurre l’io all’uno o all’altro di questi fattori fallirà sempre. Certo, possono incidere su di me, ma non mi determinano fino al punto di ridurmi in balia di essi. L’uomo non può essere mai ridotto a un pezzo d’un ingranaggio delle circostanze interne o esterne. L’io può sempre emergere al di sopra delle circostanze, dei propri sentimenti o stati d’animo.

«[…] Solo perché non mi sono fatto da me posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e, così, avrei perso la libertà»[25].
Siamo diretto, irriducibile rapporto con l’Infinito. Questa è la ragione ultima della grandezza dell’uomo. È tale, questa grandezza, che a volte ci fa paura. Perché occorre un bel coraggio per essere all’altezza dei nostri desideri infiniti. Non è facile trovare delle persone che vivano tutta l’ampiezza dei loro desideri, capaci di «desiderare l’impossibile», come il Caligola di Camus[26].
Per questo la libertà è a rischio oggi, perché pochi prendono sul serio il proprio desiderio, accettano di stare alla sua altezza. «La peggiore minaccia per la libertà non sta nel lasciarsela togliere - perché chi se l’è lasciata togliere può sempre riconquistarla -, ma nel disimparare ad amarla»[27]. Perché, come dice il poeta spagnolo Rafael Alberti,    «La libertà non l’hanno coloro che non hanno la sua sete».
Scrive Maria Zambrano: «L’uomo si trova di nuovo incatenato alla necessità, ma ora per decisione propria e in nome della libertà: ha rinunciato all’amore a vantaggio di una funzione organica, ha scambiato le sue passioni con dei complessi, perché non vuole accettare l’eredità divina credendo con ciò di liberarsi della sofferenza, della passione che tutto il divino soffre in mezzo a noi e dentro di noi»[28].
Invece è nell’accettare questa “eredità divina” ciò in cui consiste la libertà. In primo luogo, perché solo il Mistero divino può destare in me quel desiderio di totalità, quell’ultima irriducibilità a tutti i condizionamenti, senza cui non c’è libertà. E, in secondo luogo, perché solo il Mistero infinito può essere l’oggetto adeguato della mia libertà. La libertà finita, proprio in quanto capacità di soddisfazione totale, definita dal suo desiderio d’infinito, può compiersi solo nella libertà infinita.
Perciò la libertà è adesione all’Essere, al Mistero che ci fa, al Tu reale e misterioso da cui sono fatto in questo preciso istante. È nell’accettare il Padre, come il figliol prodigo, che divengo libero[29]. Forse noi, come lui, abbiamo avuto bisogno di andare via di casa per sentirne poi la nostalgia quando abbiamo perso tutto. E così abbiamo scoperto il bene d’avere un Padre, e che riconoscerLo non mette a rischio la nostra libertà, ma la rende possibile.
Il Mistero che ci ha fatto sa della nostra resistenza a questo abbandono nelle sue braccia di Padre.

«Conosco bene l’uomo. Sono io che l’ho fatto. È uno strano essere.
Perché in lui gioca quella libertà che è il mistero dei misteri.
Dopo tutto gli si può chiedere molto. Non è troppo cattivo.

Ma quello che non gli si può chiedere, santo dio, è un po’ di speranza,
un po’ di fiducia, insomma, un po’ di distensione,
un po’ di rinuncia, un po’ di abbandono nelle mie mani,
un po’ di remissione. Si irrigidisce sempre»[30].

Il rifiuto dell’Infinito non avviene senza conseguenze per la libertà. Questo rifiuto lascia la libertà senza oggetto adeguato. E senza l’adesione al Mistero infinito l’uomo resta in balia di tutte le forze di potere in campo in qualsiasi circostanza. Senza il riconoscimento del Mistero come radice e compimento di ogni desiderio e attrattiva parziale, la libertà non è che un’illusione. Se la libertà è l’esperienza di una soddisfazione, possiamo verificare lo stato della nostra libertà in cammino dal grado di soddisfazione vera che viviamo nel rapporto con persone e cose. Possiamo fare quello che ci pare e piace, ma tutti noi possiamo vedere quante volte in una giornata abbiamo un’esperienza reale di libertà, cioè di pienezza, di soddisfazione nel nostro buco, nella contingenza delle scelte quotidiane, nella adesione ai beni e alle attrattive parziali. Quello che di solito prevale è l’asfissia, il sentirci stretti ovunque, aspettando di scappare. Tanto è vero che tanti fuggono nell’immaginazione, per sopportare il «mancamento e vòto». «Senza riconoscimento del Mistero la notte avanza, la confusione avanza e - come tale, a livello di libertà - la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura che è come se non si attendesse più niente o si vive senza desiderare più niente, eccetto che la soddisfazione furtiva o la risposta furtiva a una breve richiesta»[31].
Invece è aderendo a questo Mistero in ogni cosa che l’uomo diventa libero. È lì dove può trovare la soddisfazione del desiderio di totalità. La nostra grandezza, come ci ricordava Leopardi, è sentire vibrare dentro di noi questo desiderio d’infinito, ma essere consapevoli della natura del nostro desiderio ci fa capire che non siamo in grado di rispondere ad esso. Come l’uomo riceve il desiderio di totalità, deve ricevere anche il compimento del desiderio.
Il compimento c’è, è Colui che glielo desta, ma l’uomo non deve irrigidirsi, deve abbandonarsi. Senza questo abbandono all’Unico in grado di compierla, la libertà rimane smarrita, senza oggetto ultimo.
È soltanto questo che ci libera dai capricci, dalla dittatura dei desideri, che altro non è se non una riduzione del desiderio a qualcosa a portata di mano. Perciò, scrive don Giussani, «la religiosità cristiana sorge come unica condizione dell’umano. La scelta dell’uomo è: o concepirsi libero da tutto l’universo e dipendente solo da Dio, oppure libero dal Dio, e allora diventa schiavo di ogni circostanza»[32].
Ma come può l’uomo avere la coscienza chiara e l’energia affettiva per aderire al Mistero fintanto che questo resta mistero? Come può l’oggetto ancora oscuro e misterioso destare l’energia della libertà per compierla? Fino a quando l’oggetto è oscuro, uno può immaginarsi quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto come gli pare e piace.
È quanto succede nell’esperienza amorosa. Fin quando la persona da amare resta misteriosa, finché non è apparsa nell’orizzonte della mia vita la persona che prenda tutto il mio io, continuo a fare quello che mi pare e piace.
Il fatto di sapere che esista non mi libera dall’essere in balia di tutto quanto appare davanti a me.   
So che desidero l’Infinito, che questo Infinito c’è perché ho sempre la nostalgia di lui, come diceva Lagerkvist, ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualsiasi oggetto, che poi mi lascia insoddisfatto. Questo è il destino dell’uomo, a meno che - come dice L. Wittgestein, nei Diari 1936-37 - “Dio” si degni di visitarlo: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (…) Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire (…) Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti»[33].
fine 4a parte




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libertà, carron

giovedì, 17 agosto 2006
LA LIBERTÀ parte  3a

Cerchiamo di capire il perché di questa riduzione:


proseguo della riflessione  di don Carron
fatta al Meeting di Rimini dell’anno scorso: http://www.meetingrimini.org/ita/index.php



2. Che cos’è la libertà?
2.1 Sentirsi liberi: un fenomeno di soddisfazione
«Come facciamo a sapere che cosa è la libertà? Le parole sono dei segni con cui l’uomo identifica una determinata esperienza: la parola amore individua una determinata esperienza, la parola libertà individua una determinata esperienza»[11].
Siccome si tratta d’una esperienza, il punto di partenza di una presa di coscienza è guardare l’esperienza, come ci ha insegnato sempre don Giussani.
Se noi osserviamo con lealtà,
quando ci sentiamo liberi?   
Immaginiamo il già classico esempio tra noi di una ragazza che viene a sapere che i suoi amici fanno una festa e le viene voglia di andare. Va da suo papà e questi, sorprendentemente e in contrasto con le sue abitudini, dice alla ragazza di no. Lo sconforto e la rabbia della ragazza sono segno inequivocabile che non si sente libera. Solo quando, dopo un dialogo piuttosto acceso, finalmente suo papà acconsente a lasciarla andare, lei si sente libera.     
Noi ci sentiamo liberi quando vediamo soddisfatto un desiderio. Perciò la libertà è la soddisfazione d’un desiderio. È la verità che si nasconde nell’impressione immediata, istintiva che tutti noi abbiamo della libertà e che si esprime palesemente nella semplice frase: «Essere liberi è fare ciò che pare e piace».

2.2. La totalità come dimensione del desiderio
Ma è pur vero che noi non ci accontentiamo della soddisfazione dei nostri desideri più immediati. Quanto più si compiono questi desideri tanto più viene a galla che desideriamo qualcosa di più. Quando eravamo bambini ci accontentavamo delle caramelle. Oggi non più. La nostra esperienza, se uno fa attenzione a quello che essa ci dice ed è leale con quello che emerge da essa, ci fa scoprire la vera natura del nostro desiderio, che non si esaurisce mai.
Noi tutti abbiamo fatto l’esperienza che non sempre la vita ci castiga, impedendoci di soddisfare il nostro desiderio. In tante occasioni noi riusciamo a compiere quello che desideriamo, ma questo non ci soddisfa definitivamente. Dopo poco siamo daccapo. Per questo io ho pensato spesso che si incomincia a rendersi conto del dramma del vivere, non quando la vita risponde di «no» al desiderio, ma quando risponde di «sì». Quando risponde di «no» uno può ancora aspettare l’occasione in cui risponda affermativamente, ma il dramma incomincia quando la vita risponde di «sì», e questo non basta. Quando un uomo fa questa esperienza con il lavoro, la moglie, le cose, … finisce per domandarsi: allora, che cosa basta? «Quid animo satis?».
Ho raccontato tante volte quello che mi è capitato andando a trovare degli amici a Barcellona. C’era una amica che dipingeva. Il suo sogno era fare una grande mostra. Finalmente è riuscita nel suo intento. Il successo è stato, come lei stessa mi raccontava dopo, aldilà di tutte le previsioni. Così non le potevo credere quando mi diceva che il giorno del grande successo aveva trascorso tutto il pomeriggio piangendo. Perché uno può piangere dopo un successo? La mia amica non era normale, aveva forse qualche problema? No, aveva fatto la stessa esperienza di Pavese il giorno in cui gli è stato consegnato il Premio Strega: «A Roma, apoteosi. E con questo?»[12]. Perché non basta, perché dopo il successo non si è pienamente soddisfatti? Che cosa ci soddisfa, allora?
L’insoddisfazione dopo il successo cosa mi insegna riguardo alla natura del mio desiderio, della mia natura d’uomo? Pavese l’aveva intuito benissimo: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità»[13].

2.3. Libertà come capacità di soddisfazione totale
La libertà, allora, proprio a partire dalla esperienza di soddisfazione di desideri immediati e parziali, si svela come la “capacità” della soddisfazione totale, completa, cioè come capacità della perfezione, della realizzazione di sé, vale a dire del proprio desiderio d’uomo[14].
Nessuno come Leopardi ha descritto la natura del desiderio umano:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana»[15].
Questa è la grandezza unica dell’uomo: il suo desiderio è «ancora più grande che sì fatto universo». È proprio per questa ampiezza del nostro desiderio che noi possiamo «accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia». Quello che per tanti è la disgrazia della vita - sentire l’insufficienza di tutto, patire mancamento e vòto -, è per Leopardi il maggior segno di grandezza della natura umana. Possiamo accusare quella insufficienza proprio perché, per natura, strutturalmente, abbiamo dentro di noi la capacità di giudicare: è ciò che la Bibbia chiama cuore. Senza la possibilità di giudicare da se stesso quello che gli corrisponde o meno, l’affermazione della dignità dell’uomo non è che una parola vuota, e l’uomo, in fondo, dipende dal potere. Come si desta il desiderio? Questa è una questione decisiva oggi, in cui il desiderio non si può dare per scontato perché, come dice A. del Noce, «il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, cioè, senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano)»[16].
 3. Il cammino della libertà
Qualsiasi sia la situazione in cui ognuno di noi si trova, il reale continua a venirci incontro, destando in noi stupore, cioè la curiosità e il desiderio di quello che abbiamo davanti. È sempre l’impatto col reale che desta la nostra umanità, in tutte le sue dimensioni e capacità.
«Le capacità che sono in noi non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono in atto da sole. Sono come una macchina che, oltre ad essere stata costruita da altri, ha bisogno anche di un altro che la metta in marcia. Ogni capacità umana, in una parola, deve essere provocata, sollecitata per mettersi in azione»[17]. Ciò che la mette in moto è l’impatto con la realtà.
È quindi il reale che desta il desiderio, in quanto si mostra carico di attrattiva. Lungi dal restare indifferente, noi siamo originalmente attratti dalla bellezza - dal bene -del reale. Nell’incontro con la realtà che attrae, la libertà è messa in moto. In questo impatto col reale, che accade in continuazione - perché non possiamo pensarci al di fuori della realtà - e che ci attira, la libertà è già dall’inizio chiamata in causa. Come? Deve rispondere alla chiamata dell’attrattiva del reale. La libertà è chiamata qui a compiere il primo passo del suo cammino: a decidere se cedere o meno all’attrattiva del reale che ha davanti. Questa non neutralità della libertà di fronte al reale fa sì che le diverse opzioni di fronte al significato del reale non siano ugualmente ragionevoli. Chi respinge l’attrattiva del reale sta già censurando un dato e per questo è meno ragionevole che chi ne prende atto[18].
Questo mette in evidenza un primo aspetto di autopossesso che caratterizza la libertà[19]. Qualsiasi sia l’attrattiva del reale, questa non elimina infatti la capacità di scelta della libertà. Anzi, la mette in moto. Tutta l’imponente attrattiva dell’Essere non risparmia all’uomo la sua capacità di decidere, ne costituisce al contrario la vera e originaria provocazione.
In base a che cosa decidiamo di aderire o meno a questa provocazione? In base alla corrispondenza che il reale realizza con le esigenze del cuore. Il contraccolpo che l’Essere provoca in me costituisce il giudizio in base al quale mi muovo[20]. Quando davanti a delle belle montagne mi stupisco e dico: «Che bello!», do un giudizio su quelle montagne, come quando grido di dolore davanti a una insofferenza ingiustamente inflitta a me o ad altri. Questo giudizio velocissimo, per cui sorprendo se una cosa mi corrisponde o no, è ciò che prepara e orienta la mossa, il passo, a cui la libertà è chiamata[21].
Ma questo, come dicevamo, è solo il primo passo del cammino della libertà. Domandiamo: che cosa si gioca nella scelta, in ogni scelta? L’adesione a ciò che appare e riconosciamo come un bene. La scelta è cioè in vista del compimento, del fine. Perché voglio avere capacità di scelta? Per aderire a ciò da cui sono colpito e attratto. «La mia libertà - scrive J. R. Jiménez - consiste nel prendere della vita ciò che mi sembra meglio per me e per tutti”». La ragazza vuole avere capacità di scelta per poter decidere di andare alla festa, cioè per aderire a un bene intravisto. È proprio in questa adesione che trova soddisfazione il suo desiderio e, quindi, essa si sente libera.
La capacità di scelta è propria di una libertà ancora in cammino verso la sua piena realizzazione, che consiste nella adesione a quello che corrisponde, cioè al Bene, al destino. Fermarsi soltanto al primo aspetto - la possibilità di scelta - è, di fatto, rinunciare al compimento della libertà, perché io non esercito la capacità di scelta che ho, se non nell’aderire a quello che desidero. La capacità di scelta ha, quindi, come scopo l’adesione. «Io non posso concepire né tollerare alcuna utopia che non mi lasci la libertà che è più cara: la libertà di vincolare me stesso»[22]; di vincolarmi a ciò che mi compie, all’infinito che cerco nei piaceri, al Tu che mi chiama attraverso l’attrattiva delle cose, al Tu che mi fa essere, a Colui cui posso dire: «La mia verità sei tu, il mio io sei tu, io sono Tu che mi fai».
È in questa adesione a quello che mi corrisponde che il desiderio trova soddisfazione.  .
fine 3a parte

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libertà, carron

mercoledì, 16 agosto 2006
LA LIBERTÀ parte  2a

Cerchiamo di capire il perché di questa riduzione:

proseguo della riflessione  di don Carron
fatta al Meeting di Rimini dell’anno scorso: http://www.meetingrimini.org/ita/index.php

1. La riduzione moderna: la libertà come assenza di legami
La genialità di Gesù ci ha lasciato nella nota parabola evangelica del Figliol Prodigo
una pagina memorabile che può aiutarci a capire qual è stato il percorso moderno quanto alla libertà che l’ha portata a questo formalismo[4].
Tutti l’abbiamo ben presente.
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano».
La parabola descrive una casa normale della Palestina del tempo di Gesù: un padre con due figli. Non si segnala nessun conflitto nei rapporti della famiglia. Il fatto di avere sostanze da spartire vuol dire che si tratta di una famiglia con un certo patrimonio. Il testo lo conferma ulteriormente con altri particolari: hanno dei servi, il padre porta l’anello, hanno a disposizione bei vestiti e sandali e un vitello grasso. Tutti segni del tipo di famiglia a cui apparteneva il figliol prodigo. Quella era casa sua, il luogo dove era figlio e, quindi, voluto bene. La casa: il luogo dove uno è veramente se stesso, perché non deve dimostrare niente a nessuno: è voluto bene per il fatto di essere figlio. La casa era il luogo dove tutto era suo e la realtà gli era amica, dove poteva sentirsi dire da suo padre: «Tutto ciò che è mio è tuo». Tutto era ordinato alla soddisfazione dei suoi bisogni nella familiarità col padre.
Malgrado tutto questo, il figlio più giovane non sembra soddisfatto e chiede al padre la parte del patrimonio che gli spetta per andarsene via da casa. Il fascino dell’autonomia ha vinto nel suo
cuore
. Il suo desiderio di libertà lo spinge a tagliare i legami più significativi. Non sembra importargli molto di doversi allontanare dal padre e dalla sua casa, dal suo luogo d’appartenenza. Forse tutto ciò gli appariva un ostacolo alla sua ansia di libertà; la casa gli stava stretta. Occorreva rompere i vincoli che lo tenevano legato a una casa, cioè a una tradizione, e andar lontano da essa[5]. Niente si sarebbe potuto, allora, frapporre al compimento dei suoi desideri. La strada sarebbe stata così tutta spianata. Pensava in questo modo di poter raggiungere una vetta di libertà mai sperimentata fino ad allora.
Cosa ha potuto spingere il figlio a una scelta così radicale? Forse era stato attratto dalla fama di città come Alessandria, Antiochia, Efeso o Corinto, che gli apparivano piene di promesse di libertà per un giovane con sostanze come lui. Ma, in realtà, questa attrattiva ha preso il sopravvento in lui già prima, quando aveva ceduto al fascino dell’autonomia che s’era insinuato nel suo cuore. Non ha saputo resistere alla seduzione di potersela cavare da solo, senza padre, né casa, né vera appartenenza.
La realtà lo desta presto dal sogno. Il ragazzo «sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto». Non trova niente all’altezza dei suoi desideri, tanto è vero che niente lo soddisfa abbastanza da farlo rimanere legato. Tutto passa senza lasciare traccia. Nessun legame, nessuna storia con nessuno. L’assenza di vincoli inizia a mostrare il suo vero volto: la solitudine. «Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno» (v.14). Comincia a rendersi conto che l’autonomia era soltanto un’illusione.
Ma il peggio stava ancora per venire. «Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (v.15-16). Ecco la fine dell’avventura dell’autonomia[6]. Senza padre e con un padrone. Come casa, quella dei porci. Dov’era finita la promessa di libertà? Il desiderio di pienezza non riesce a saziarsi nemmeno con le carrube che mangiavano i porci, perché nessuno gliene dava. La noia diventa la sua compagna[7]. Il suo destino non importa a nessuno[8]. È il compiuto realizzarsi della rottura di tutti legami, fino a quello con la realtà, che adesso gli risulta inospitale e estranea[9].

La libertà, però, non è per niente automatica, come dimostra il figlio maggiore.
Questi resta a casa, con il padre, lì tutto è suo. Lui però non se ne rende conto, come dimostra la sua reazione davanti alla misericordia del padre al ritorno di suo fratello. S’arrabbia, non vuole partecipare alla festa, rinfaccia a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (vv. 29-30). Si può vivere in casa come servi, senza la consapevolezza gioiosa d’essere figlio. «Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). Il formalismo del figlio maggiore non mantiene della libertà più che il nome.
Sotto le macerie, nel figlio giovane qualcosa resta: il suo cuore
. Neanche tutti i disastri fatti possono togliere dal suo cuore la nostalgia della libertà: «Allora rientrò in se stesso [cioè, nel suo cuore] e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!» (v. 16). Neanche morto di fame può fare a meno di desiderarla. E con la libertà, colui che la rendeva possibile: suo padre. E in fretta decide: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre» (vv. 18-20). È la memoria del padre che tiene desta la nostalgia della libertà. Con questa decisione, riconosce che l’unica vera libertà è quella filiale: non vivere come orfano, essendo figlio, ma vivere abbracciando coscientemente la condizione di figlio[10].
Questo è sempre possibile anche per noi ora, perché c’è sempre un padre che ci aspetta: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v. 17).
Qualsiasi sia la condizione in cui ci troviamo, ognuno di noi è chiamato alla libertà, a riconoscerla come «il più prezioso dono che i cieli abbiano mai donato agli uomini». Il percorso può essere travagliato, ma è sempre possibile. Come?
Fine 2a puntatalogo[2]

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libertà, carron

martedì, 15 agosto 2006
LA LIBERTÀ
Propongo questa canzone di G. Gaber sulla  falsa libertà

Si può

di Gaber - Luporini
La mia generazione ha perso (2001)

Si può
si può siamo liberi come l'aria, si può.
si può siamo noi che facciam la storia, si può.

Si può io mi vesto come mi pare
si può sono libero di creare
si può son padrone del mio destino
si può ho già il nuovo telefonino, si può.

Si può occuparsi di agriturismo
si può fare il tifo per il buddismo
si può con un gioco televisivo
si può inventare ogni giorno un divo, si può.

Basta uno spunto qualunque
e la nostra fantasia non ha confini.
Basta un talk-show un po' scadente
e noi perpetuiamo allegramente
la creatività dei popoli latini.

Si può far miliardi con l'Enalotto
si può esser vittima di un complotto
si può far la guerra per scopi giusti
si può siamo autentici pacifisti, si può.

Si può trasgredire qualsiasi mito
si può invaghirsi di un travestito
si può fare i giovani a sessant'anni
si può far riesplodere il sesso ai nonni, si può.

Con alle spalle una storia esaltante
di invenzioni e di coraggio
è naturale che poi siamo noi
che possiamo cambiar tutto
a patto che ogni cosa vada sempre peggio.

Si può siamo liberi come l’aria, si può
si può siamo noi che facciam la storia, si può.
Libertà, libertà, libertà
liberta obbligatoria.

Sono assai cambiato sono così spregiudicato
sono infedele sono matto posso far tutto.
Viene la paura di una vertigine totale
viene la voglia un po' anormale
di inventare una morale.

Utopia… Utopia… Utopia…pia…pia…

Si può ricoprirsi di gran tatuaggi
si può far politica coi sondaggi
si può liberarsi e cambiare ruolo
si può rinnovarsi le tette e il culo, si può.

Per ogni assillo o rovello sociale
sembra che la gente goda.
Tutti che dicon la loro facciamo un bel coro
di opinioni fino a quando
il fatto non è più di moda.

Si può far ginnastica un'ora al giorno
si può collegarsi coi siti porno
si può a ridosso delle elezioni
si può insultarsi come coglioni, si può.

Si può far discorsi convenzionali
si può con il tono da intellettuali
si può dare al mondo un messaggio giusto
si può a livello di Gesù Cristo si può.

Contro il gran numero di ideologie
che noi abbiamo rifiutato
l'unica grande invenzione davvero efficace
e che ci piace è
questa dittatura imposta dal mercato.

Si può siamo liberi come l'aria, si può
si può siamo noi che facciam la storia, si può.

…ma come, con tutte le libertà che avete
volete anche la libertà di pensare?..

Utopia… Utopia… Utopia…pia…pia…

Libertà, libertà, libertà, libertà,
libertà, libertà, libertà, libertà,
libertà, libertà, libertà, libertà libertà


Per comprendere meglio cos’è la libertà
è utile questo riflessione  di don Carron
fatta al Meeting di Rimini dell’anno scorso:

LA LIBERTA’ E’ IL BENE PIU’ GRANDE CHE I CIELI ABBIANO DONATO AGLI UOMINI
Juliàn Carròn:
 «La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini; né i tesori che racchiude la terra né che copre il mare sono da paragonare a essa; per la libertà, come per l’onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita»[1]. Che non sia cambiato molto il valore della libertà per gli uomini da quando Cervantes scrisse questa frase lo dimostra questa affermazione dell’allora cardinal Ratzinger con cui inizia un suo intervento sulla libertà: «Nella coscienza dell’umanità di oggi la libertà appare di gran lunga come il bene più alto, al quale tutti gli altri beni sono subordinati»[2]. La somiglianza delle due affermazioni non deve però farci sfuggire la differenza del modo con cui era concepita la libertà allora e come lo è adesso. Per Cervantes essa era un bene così prezioso che per la libertà «si può e si deve mettere a repentaglio la vita». Invece oggi siamo in una situazione in cui è difficile trovare uomini che si avventurino nel cammino della libertà. Possiamo dire che la libertà oggi è un bene tanto prezioso quanto scarso. Basta domandarsi quanti uomini veramente liberi conosciamo. Ci troviamo di fronte a un desiderio enorme di libertà, ma allo stesso tempo all’incapacità d’essere veramente liberi, cioè noi stessi, nella realtà. È come se, di fatto, ognuno si piegasse a quanto ci si aspetta da noi in ogni circostanza: così si ha una faccia nel lavoro, un’altra con gli amici, un’altra ancora in casa… Dove siamo veramente noi stessi? Per non dire quante volte uno si sente soffocare nelle circostanze della vita quotidiana, senza la minima idea di come liberarsi, se non aspettando di cambiare le circostanze o che queste cambino per il loro gioco stesso. Alla fine uno si trova bloccato, sognando una libertà che non arriva mai. In un momento storico in cui si parla tanto di libertà assistiamo al paradosso della sua assenza. E quel che è ancora peggio, ci accontentiamo di vivere senza di essa, come denunciava Kafka: «Si temono la libertà e la responsabilità e ciascuno preferisce soffocare dietro le sbarre che si è costruito per se stessa».
 «La storia degli ultimi secoli potrebbe riassumersi come una riduzione progressiva della persona all’individuo spersonalizzato o alla libertà formale, mettendo tra parentesi la libertà reale»……

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