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sabato 4 febbraio 2012

carron

La compagnia
***
Ciascuno di noi deve riconoscere qual è la compagnia
che gli consente di entrare nel reale,
di entrare in qualsiasi buio; perché se è una compagnia superficiale,alla fine non è in grado di accompagnarci
fino in fondo.
Per questo ciascuno deve giudicare e trovare quel luogo,
quella presenza che veramente lo può accompagnare.
Perché solo chi è già entrato in quel buio non ne ha paura.


(don Carròn  scuola di Comunità 14-12-2011)

Postato da: giacabi a 20:53 | link | commenti
amicizia, carron

sabato, 24 dicembre 2011

La tentazione del Natale

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santo-natale-2 di JULIÁN CARRÓN
Per descrivere la nostra umanità e per guardare in modo adeguato noi stessi in questo momento della storia del mondo, difficilmente potremmo trovare una parola più opportuna di quella contenuta in questo brano del profeta Sofonia: "Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele". Perché? Che ragione c'è di rallegrarsi, con tutto quello che sta accadendo nel mondo? Perché "il Signore ha revocato la tua condanna".
Il primo contraccolpo provocato in me da queste parole è per la sorpresa di come il Signore ci guarda: con occhi che riescono a vedere cose che noi non saremmo in grado di riconoscere se non partecipassimo di quello stesso sguardo sulla realtà: "Il Signore revoca la tua condanna", cioè il tuo male non è più l'ultima parola sulla tua vita; lo sguardo solito che hai su di te non è quello giusto; lo sguardo con cui ti rimproveri in continuazione non è vero. L'unico sguardo vero è quello del Signore. E proprio da questo potrai riconoscere che Egli è con te: se ha revocato la tua condanna, di che cosa puoi avere paura? "Tu non temerai più alcuna sventura". Una positività inesorabile domina la vita. Per questo, continua il brano biblico, "non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia". Perché? Perché "il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente". Non c'è un'altra sorgente di gioia che questa: "Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia" (3, 14-17).
Che queste non sono rimaste solo parole, ma si sono compiute, è ciò che ci testimonia il Vangelo; nel bambino che
Maria porta in grembo, quelle parole sono diventate carne e sangue, come ci ricorda in modo commovente Benedetto XVI: "La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti - un realismo inaudito" (Deus caritas est, 12). Ed è un fatto talmente reale nella vita del mondo che non appena Elisabetta riceve il saluto da Maria, il bimbo che porta nel grembo, Giovanni, sussulta di gioia (cfr. Luca, 1, 39-45). Quelle del profeta non sono più soltanto parole, ma si sono fatte carne e sangue, fino al punto che questa gioia è diventata esperienza presente, reale.
Domandiamoci: il cristianesimo è un devoto ricordo o è un avvenimento che accade oggi esattamente come è accaduto duemila anni fa? Guardiamo i tanti fatti che i nostri occhi vedono in continuazione, che ci sorprendono e ci stupiscono, a cominciare da quel fatto imponente che si chiama Benedetto XVI e che ogni volta fa sussultare le viscere del nostro io. C'è uno in mezzo a noi che fa sussultare il "bambino" che ciascuno di noi porta in grembo, nel nostro intimo, nella profondità del nostro essere. Questa esperienza presente ci testimonia che l'episodio della Visitazione non è soltanto un fatto del passato, ma è stato l'inizio di una storia che ci ha raggiunto e che continua a raggiungerci nello stesso modo, attraverso incontri, nella carne e nel sangue di tanti che incontriamo per la strada, che ci muovono nell'intimo.
È con questi fatti negli occhi che possiamo entrare nel mistero di questo Natale, evitando il rischio del "devoto ricordo", di ridurre la festa a un puro atto di pietà, a devozione sentimentale. In fondo, tante volte la tentazione è di non aspettarsi granché dal Natale. Ma a chi è data la grazia più grande che si possa immaginare - vederlo all'opera in segni e fatti che lo documentano presente - è impossibile cadere nel rischio di celebrare la nascita di Gesù come un "devoto ricordo". Non ci è consentito! E non perché siamo più bravi degli altri fratelli uomini, non perché non siamo fragili come tutti, ma perché siamo riscattati di continuo da questo nostro venir meno per la forza di Uno che accade ora e che revoca la nostra condanna. È solo con questi fatti negli occhi che potremo guardare il Natale che viene: non con una nostalgia devota, non col sentimento naturale che sempre provoca in noi un bambino che nasce e neppure con un vago sentimento religioso, ma in forza di una esperienza (perché tutto il resto non produce altro che una riduzione di "quella" nascita). Dove si rivela veramente chi è quel Bambino è in questa esperienza reale: il figlio di Elisabetta ha sussultato di gioia nel suo grembo. È il rinnovarsi continuo di questo avvenimento che ci impedisce di ridurre il Natale e che ce lo può fare gustare come la prima volta.

(©L'Osservatore Romano 24 dicembre 2011)

Postato da: giacabi a 09:54 | link | commenti
natale, carron

giovedì, 10 novembre 2011
A meno che Dio non mi visiti
***

Fino a quando l’oggetto è oscuro ciascuno può immaginare quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto come gli pare e piace. Pensate all’esperienza amorosa: uno sta desiderando di amare ed essere amato, ma fin quando il volto è sconosciuto che cosa facciamo? Quello che ci pare e piace. È soltanto quando il volto compare che introduce realmente una possibilità di calamitare l’io. Perché io so che desidero l’infinito, che questo infinito c’è perchè ho sempre nostalgia di lui – come diceva Lagerkvist –, ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualunque oggetto che poi mi lascia insoddisfatto. E questo è il destino dell’uomo, a meno che capiti quel che ipotizza Wittgenstein: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi [...]. Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire. [...] Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti».

Julián Carrón, Rimini 2011

grazie a pepeannamaria
Utente: pepeannamaria61

Postato da: giacabi a 20:41 | link | commenti
wittgenstein, carron

venerdì, 19 agosto 2011
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In Spagna una volta era capitato che un ragazzo di GS, quando facevo il professore a scuola, aveva avuto un incidente e sono arrivati tutti i giessini un po' inquieti: «Ma come Dio può consentire questo?». Io ho detto loro: «Dipende da come arriviamo noi a quello che ci capita» e ho fatto questo esempio, che poi ho raccontato migliaia di volte. Se tu, ritornando a casa, trovi uno sconosciuto che ti dà uno schiaffo, cosa fai? Uno, che era un po' energico, ha detto: «Io gli risponderei con due schiaffi». Dico: «E se quando arrivi a casa è tua mamma che te lo dà?». È rimasto bloccato e ha detto: «Le domanderei perché». Che cosa ha consentito questa apertura al ragazzo? L'affezione alla mamma. L'affezione alla mamma gli ha impedito di chiudersi nella sua misura.
(Julián Carrón - 29 apr 2007- Rimini Fraternità p.41)

Postato da: giacabi a 20:44 | link | commenti
carron

giovedì, 28 luglio 2011

Incontrare qualcosa che
corrisponda alla nostra attesa
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Quando penso a un giovane di oggi che si sta aprendo alla vita, sono invaso da una tenerezza infinita: come si orienterà in questa babele piena di opportunità e di sfide in cui gli tocca vivere? Basta vedere la televisione, o accostarsi a un’edicola o a una libreria per vedere la varietà di opzioni che si trova davanti. Scegliere quella giusta è un’impresa ardua.
Ma se da una parte è commovente pensare a un ragazzo che si trova davanti a una simile sfida, mi meraviglia ancor di più il fatto che colui il quale ci ha posto nella realtà non abbia avuto alcun ritegno nel correre un simile rischio. Fino al punto di scandalizzare coloro che vorrebbero risparmiarlo a se stessi e agli altri, figli, amici o alunni che fossero.
Il Mistero, tuttavia, non ci ha lanciato nell’avventura della vita senza fornirci di una bussola con cui potessimo orientarci. Questa bussola è il cuore. Nella nostra epoca il cuore è stato ridotto a un sentimento, a uno stato d’animo. Ma tutti noi possiamo riconoscere nella nostra esperienza che il cuore non si lascia ridurre, non si conforma a nessuna cosa. “L’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente”, dice il Papa nel suo Messaggio. E noi lo sappiamo bene.
Perciò, chi prende sul serio il suo cuore, fatto per ciò che è grande, comincia ad avere un criterio per comprendere se stesso e la vita, per giudicare la verità o la falsità di qualunque proposta che spunti all’orizzonte della sua vita. “Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia.”

C’è qualcosa che sia all’altezza delle nostre esigenze più profonde, che possa rispondere al nostro anelito, grande come l’infinito? Molti risponderanno che una cosa simile non esiste, vista la delusione che in tante occasioni hanno sperimentato riponendo la loro speranza in qualcosa che era destinato a deluderli. Ma nessuno di noi può fare a meno di sperare. È irrazionale questa aspettativa? E allora, perché speriamo? Perché è la cosa più razionale: nessuno di noi può affermare con certezza che non esiste.
Ma scopriremo che esiste solo se avremo l’opportunità di incontrare qualcosa che corrisponda veramente alla nostra attesa. Come i primi che incontrarono Gesù: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.
Da quando questo fatto è entrato nella storia, nessuno che ne abbia avuto notizia ha più potuto o potrà stare tranquillo. Tutto lo scetticismo del mondo non potrà eliminarlo dalla faccia della terra.
Resterà là, sull’orizzonte della sua vita, come una promessa che rappresenta la più grande sfida che abbia dovuto affrontare. “Chi mi seguirà riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. Solo chi ha il coraggio di verificare nella vita la promessa contenuta nell’annuncio cristiano potrà scoprire che esso è capace di rispondere alla sua attesa. Senza questa verifica non potrà esistere una fede all’altezza della natura razionale dell’uomo, vale a dire, capace di continuare a essere interessante per lui.

Julián Carrón*
Alfa y Omega, 28 luglio 2011

presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

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carron

domenica, 10 luglio 2011
Il bisogno degli altri
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"Io mi rendo conto di chi è Cristo non perché faccio riflessioni in astratto o perché leggo dei libri, ma perché faccio esperienza di Lui nella vita e tutto diventa diverso.
Allo stesso modo, gli altri non hanno bisogno dei nostri discorsi, non hanno bisogno dei nostri progetti, ma hanno bisogno di sentire su di loro lo stesso sguardo che ha afferrato noi, hanno lo stesso bisogno che abbiamo noi."

JULIAN CARRON, Centro nazionale degli universitari di Comunione e Liberazione. Milano, 18 giugno 2011)

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carron

sabato, 11 giugno 2011
La nostalgia del Tu
La nostalgia del Tu
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Questo è il culmine della ricerca, questo è il culmine che sorprendiamo in noi, dove l’io esprime ciò che è, se non viene ridotto. Come documenta meravigliosamente la poesia di Lagerkvist: «Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco [non so cosa cerco, non lo conosco]. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?». Con questa parola – nostalgia – Lagerkvist descrive in un modo semplice quel che Giussani scrive alla fine del capitolo quinto: «L’affermazione della esistenza della risposta, come implicata nel fatto stesso della domanda». La nostalgia è un’esperienza umanissima attraverso cui tutti possiamo capire che il fatto stesso di averla implica che esista l’altro di cui ho nostalgia, altrimenti non ci sarebbe la nostalgia come esperienza, non sentiremmo la mancanza di nessuno. Pensate se avete provato nostalgia di qualcosa, di qualcuno, se non è perché già c’era e c’è. Allora un io che non è ridotto è un io che ha questa nostalgia dentro, questa nostalgia di un Tu reale e misterioso, una nostalgia che è dentro lo stesso identico slancio con cui entra in rapporto con il reale.
Don Carron Esercizi di Fraternità 2011

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giussani, carron

domenica, 22 maggio 2011
IL POTERE DEL MONDO
IL POTERE DEL MONDO
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C’è una pressione fortissima da parte del mondo che ci circonda (attraverso i mass-media, o anche la scuola, la politica) che influenza e finisce
per ingombrare – come un pregiudizio – qualsiasi tentativo di presa di
coscienza del proprio io».20
Questo influsso esterno, questo “mondo”, che cos’è? È il potere –
come ci ha detto in tante occasioni don Giussani –, che non resta fuori di
noi (come dice Bernanos, parlando della opinione dominante: «Di fronte
a essa le energie si logorano, i caratteri si impoveriscono, le sincerità perdono
la loro chiarezza»),ma al contrario ci penetra così profondamente
che diventiamo estranei a noi stessi. Magari fosse soltanto una persecu-
zione esteriore e rimanesse intatta la nostra autocoscienza, magari! «Ciò
che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura invadente, il potere,
realizza un’estraneità da noi stessi [ci strappa l’anima!]: è come se non
ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché la moda è un
progetto del potere».
Ascoltiamo ancora don Giussani: «La mentalità comune, creata dai
mass-media e da tutta la trama di strumenti che ha il potere – che vanno
sempre più ispessendosi, tanto da fare dire a Giovanni Paolo II che
il pericolo dell’epoca che stiamo attraversando è l’abolizione dell’uomo
da parte del potere –, altera il senso di se stessi, il sentimento di sé, più
precisamente, atrofizza il senso religioso, atrofizza il cuore, meglio ancora,
lo anestetizza totalmente (un’anestesia che può diventare coma, ma è
un’anestesia)».23
Segno di questa alterazione del senso di sé, di questa estraneità, è la
conseguente lettura che noi facciamo dei nostri bisogni. Per questo don
Giussani ci avverte: «Bisogna stare molto attenti perché troppo facilmente
non partiamo dalla nostra esperienza vera, cioè dalla esperienza nella
sua completezza e genuinità. Infatti spesso identifichiamo l’esperienza con
delle impressioni parziali, riducendola così a un moncone, come frequentemente
avviene nel campo affettivo, negli innamoramenti, o nei sogni
sull’avvenire. E più spesso ancora noi confondiamo l’esperienza [anche se
l’abbiamo sempre sulle labbra] con dei pregiudizi o degli schemi magari inconsapevolmente
assimilati dall’ambiente [“coincidono” così tanto con noi
stessi che pensiamo siano nostri: fino a questo punto arriva l’incidenza del
potere!]. Per cui, invece di aprirci in quell’atteggiamento di attesa, di attenzione
sincera, di dipendenza, che profondamente l’esperienza suggerisce ed
esige, noi imponiamo all’esperienza categorie e spiegazioni che la bloccano
e la angustiano, presumendo di risolverla [noi imponiamo gli schemi all’esperienza:
si raccontano dei fatti, che non portano alcuna chiarezza su di sé,
ma solo commenti, il che vuol dire che non c’è esperienza]. Il mito del “progresso
scientifico che risolverà un giorno tutti i nostri bisogni” è la formula
moderna di questa presunzione, una presunzione selvaggia e ripugnante:
non li considera neanche i nostri bisogni veri, non sa neanche cosa siano; si
rifiuta di osservare l’esperienza con occhio chiaro, e di accettare l’umano in
tutto quello che esige. Per cui la civiltà di oggi ci fa muovere ciecamente fra
questa esasperata presunzione e la più oscura disperazione».24
Dice lo studioso francese Rey: «Siamo così abituati a questa miseria
che il più delle volte non la sentiamo neanche più»:25 ci accontentiamo.
Ma Giussani ci avverte che questo influsso del potere è in proporzione
diretta con la nostra impotenza. Perché dice questo? Perché «nessun
esito umano può essere imputato esaustivamente a mere circostanze
esteriori, poiché la libertà dell’uomo, pure infragilita, resta contrassegno
indelebile della creatura di Dio».Il peccato originale ha debilitato il
mio io, ma io resto creatura di Dio, non mi identifico con un pezzo
del meccanismo delle circostanze del potere. Questo vuol dire che una
incidenza così forte del potere su di noi si realizza anche per una nostra
connivenza. Quella che potrebbe sembrare un’ulteriore accusa di
Giussani in realtà diventa per lui la risorsa per la riscossa. L’uomo non
è definitivamente sconfitto. E per questo dice: «Non parliamo del potere
perché abbiamo paura, parliamo del potere perché abbiamo a svegliarci
dal sonno. La forza del potere è la nostra impotenza. [...] Comunque sia,
noi non abbiamo paura del potere, abbiamo paura della gente che dorme
e, perciò, permette al potere di fare di loro quel che vuole. Dico che il
potere fa addormentare tutti, il più possibile. Il suo grande sistema, il
suo grande metodo è quello di addormentare, di anestetizzare, oppure,
meglio ancora, di atrofizzare. Atrofizzare che cosa? Atrofizzare il cuore
dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri, imporre un’immagine di
desiderio o di esigenza diversa da quell’impeto senza confine che ha il
cuore. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo
cadavere, cioè impotente».
È quella «sonnolenza dei discepoli [che] rimane lungo i secoli l’occasione
favorevole per il potere del male»28 di cui parla il Papa nel suo
recentissimo libro.

DON CARRON ESERCIZI DI RIMINI 2011

Postato da: giacabi a 13:04 | link | commenti
giussani, carron

domenica, 13 febbraio 2011
«Nelle nostre mani i libri, nei nostri occhi i fatti»
***

Julián Carrón
Beatissimo Padre, Venerabili Padri, Fratelli e sorelle:
L’Instrumentum laboris e la relazione generale hanno messo in evidenza che l’interpretazione della Bibbia è una delle preoccupazioni più sentite oggi nella Chiesa (Instrumentum laboris 19-31). Il nocciolo della sfida sollevata dalla vicenda della interpretazione moderna della Sacra Scrittura l’aveva identificato anni fa l’allora cardinale Ratzinger: «Come mi è possibile giungere ad una comprensione che non sia fondata sull’arbitrio dei miei presupposti, una comprensione che mi permetta veramente d’intendere il messaggio del testo, restituendomi qualcosa che non viene da me stesso?» (“L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea”, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Casale Monteferrato 1991, pp. 93-125).
In merito a questa difficoltà, il Magistero recente della Chiesa ci offre elementi per uscire da ogni possibile riduzione.
È stato pregio del Concilio Vaticano II aver recuperato un concetto di rivelazione come avvenimento di Dio nella storia. In effetti, la Dei Verbum permette di comprendere la rivelazione come l’avvenimento dell’autocomunicazione della Trinità nel Figlio «mediatore e pienezza di tutta intera la Rivelazione», nel quale risplende la «profonda verità […] su Dio e sulla salvezza degli uomini» (DV 2), mediante lo Spirito Santo nella storia umana
. È Cristo che «col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione» (DV4). A buon diritto l’enciclica Deus caritas est ribadisce che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1; cfr. FR 7).
Questo avvenimento non appartiene soltanto al passato, a un momento del tempo e dello spazio, ma rimane presente nella storia, comunicandosi attraverso la totalità della vita della Chiesa che lo accoglie. Infatti «la contemporaneità di Cristo rispetto all’uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa» (VS25; cfr. FR 11). Come gli Apostoli trasmisero «ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire» (cfr. DV 7), così «la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (DV 8). Precisamente per questo carattere di avvenimento proprio della rivelazione e della sua trasmissione, la Costituzione conciliare sottolinea che, sebbene «espressa in modo speciale nei libri ispirati» (cfr. DV 8), l’evento della rivelazione non coincide con la Sacra Scrittura. La parola della Bibbia attesta la Rivelazione; ma non la contiene in modo tale da poterla esaurire in se stessa. Per questo «la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» (DV 9).
Se la rivelazione ha il carattere di un avvenimento storico, quando entra in contatto con l’uomo non può che colpirlo, provocando la sua ragione e la sua libertà. È quanto mostrano, nella loro semplicità, le narrazioni evangeliche, testimoniando lo stupore che suscitava la persona di Gesù in chi lo incontrava (cfr.  Mc 1,27; 2,12; Lc 5,9). La presenza di Gesù dilata lo sguardo affinché possiamo vedere e riconoscere ciò che abbiamo davanti (cfr. Lc 24, Emmaus). È ciò su cui insiste l’enciclica Fides et ratio quando afferma che «questa verità [della rivelazione], donata all’uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo» (FR 13).
L’enciclica, dunque, caratterizza l’impatto che la verità rivelata provoca nell’uomo che la incontra secondo un duplice impulso: a) dilatare la ragione per adeguarla all’oggetto; b) facilitarne l’accoglimento del suo senso profondo. Invece di mortificare la ragione e la libertà dell’uomo, la rivelazione permette di sviluppare entrambe al massimo della loro condizione originale.
Il rapporto con la tradizione vivente nel corpo della Chiesa consente a ciascun uomo di partecipare all’esperienza di coloro che incontrarono Gesù. Questi, stupiti dalla Sua eccezionalità unica, iniziarono un cammino che permise loro di raggiungere la certezza sulla Sua pretesa assoluta, cioè divina. Chi fa questo percorso non accetta in modo ingenuo la tradizione incontrata; al contrario, la sottopone a verifica permettendo così alla propria ragione di coglierne la verità.
L’esperienza dell’incontro con Cristo presente nella tradizione viva della Chiesa è un avvenimento e diventa, perciò, il fattore determinante dell’interpretazione del testo biblico. È l’unico modo di entrare in sintonia con l’esperienza testimoniata dal testo della Scrittura. Infatti, «la giusta conoscenza del testo biblico è accessibile dunque solo a chi ha un’affinità vissuta con ciò di cui il testo parla»
(PCB 70). Ho potuto documentare questo criterio ermeneutico in un episodio semplice ma significativo, capitato anni fa a Madrid. Una giovane che non aveva avuto alcun contatto con il cristianesimo, nell’incontrare una comunità cristiana viva ha cominciato a frequentarla, e a partecipare alla S. Messa. Dopo le prime occasioni in cui ascoltava il Vangelo ha commentato: «A loro è successo come a noi!». Era il presente ecclesiale che apriva al senso del racconto evangelico.
In sintesi, «la capacità di credere [degli apostoli] era completamente sostenuta e operata dalla persona rivelatrice di Gesù», secondo la bella espressione di H.U. von Balthasar, e consentiva loro di cogliere il mistero della Sua persona e aderirvi. Analogamente oggi la nostra ragione ha bisogno dell’Avvenimento presente nella tradizione dei testimoni viventi per aprirsi al Mistero di Cristo, che ci viene incontro in loro. Ma soltanto potremo riconoscere in questi testimoni i tratti inconfondibili di Gesù Cristo, se abbiamo familiarità con la testimonianza unica, canonica, dei Suoi tratti assolutamente originali, offerta dalle Sacre Scritture. Icasticamente lo riassumeva sant’Agostino: «In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta».«Nelle nostre mani i libri, nei nostri occhi i fatti»

Postato da: giacabi a 08:24 | link | commenti
chiesa, benedettoxvi, carron

domenica, 16 gennaio 2011
La vera educazione dei figli
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Nel capitolo sulla verginità don Giussani cirichiama al distacco come condizione di un voler bene autentico, così che non prevalga in noi il tentativo di possesso verso la persona amata. Io voglio molto bene ai miei figli, ma mi accorgo che ho paura della loro libertà, dei “no” che essa può porre a Dio e alla Sua volontà. Ti chiedo comeposso voler loro bene sul serio e amare e non temere la libertà. Cosa vuol dire vivere in questo il
distacco che rende la relazione tra noi più vera?». Queste domande dobbiamo guardarle in faccia.
Chi ci ha fatto liberi? Uno che non ci vuole bene o uno che ci vuole bene? Ha avuto, il Mistero,
paura di farci liberi? Dobbiamo immedesimarci con il vero Padre, che non ha avuto paura di
buttarci nel reale attrezzati soltanto con un criterio, il cuore, cosciente di quello che faceva. Perché con questo criterio ci ha dato la possibilità di scoprire il vero in qualsiasi cosa e, soprattutto, di scoprire Lui, nel momento in cui uno Lo può incontrare
. Non ha avuto paura della nostra libertà.
Per questo se noi abbiamo paura della nostra libertà o soccombiamo a questo tentativo di possesso, è
perché non ci immedesimiamo con Colui che ci ha generati, ma vogliamo rispondere al  nostrotentativo invece di abbracciare il disegno che il Mistero ha sui nostri figli; perché noi pensiamo che sappiamo già qual è il disegno e come devono raggiungerlo. Invece siamo noi che dobbiamo piegarci alla modalità con cui il Mistero li porta al destino, che non sappiamo. E capisco che a uno viene la paura come padre, come genitore. Che cosa ha potuto portare il Mistero a generarci così e a correre questo rischio? È soltanto immedesimandoci con quella paternità che noi possiamo imparare a paternità nostra, perché altrimenti creiamo più problemi di quelli che risolviamo. Questo vuol
dire che non possiamo fare niente? No, possiamo fare molto, come ha fatto Lui. Per risolver e il problema non ha tolto la libertà, non si è imposto, si è fatto uomo (lo abbiamo appena celebrato nel Natale): è diventato una Presenza in modo tale che ciascuno potesse, vedendo, riconoscere quello per cui è fatto e potesse scoprire il cammino che compie la libertà. Che cosa possiamo fare noi a
somiglianza di Lui? Diventare una presenza, diventare testimoni, il che non toglie la libertà, ma aiuta mettendo davanti all’altro una presenza che chiarisca la strada: «Guarda, guarda come la vita si compie». Perché è così che possiamo diventare padre e madre, cioè  testimoni, come dice San Paolo: «Non padroni della vostra fede, ma collaboratori della vostra gioia». Questo è essere padre,perché diventiamo una presenza che attira perché corrisponde. Mettiamo davanti ai figli una bellezza fatta carne (non un discorso), una vita vissuta in modo così sovrabbondante che il figlio può avere davanti l’ipotesi realizzata della proposta che voi siete per lui. Capisco che è più
immediato il possesso che diventare testimoni. Ma il possesso non è scambiabile con questaattrattiva della testimonianza di qualcosa che rende la vita più chiara; ciascuno deve  decidere. Non confondiamoci, voler bene al figlio è questo: nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita.
E cosa è dare la vita? Mettere davanti una presenza così.

Julián Carrón
SdC Milano, 12 gennaio 2011

Postato da: giacabi a 19:36 | link | commenti
educazione, carron

sabato, 25 dicembre 2010
AUGURO AGLI AMICI
UN BUON SANTO NATALE!!

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"Amici, dobbiamo decidere che cosa fare da grandi: se continuare ad accontentarci di “seconde scelte”, come le ha descritte il Papa ai ragazzi britannici (soldi, carriera, eccetera), continuando a lasciarsi andare, senza prendere mai seriamente posizione davanti a Cristo; oppure appartenerGli.
Il problema ...per ta...nti di noi è che siamo già grandi e il tempo si fa breve."
don Carron Tracce ottobre10 pagina uno

Postato da: giacabi a 08:29 | link | commenti
natale, carron

venerdì, 24 dicembre 2010
Una lettera scritta a don Carron


Una  lettera scritta a don Carron
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«Caro Julián, il cammino che ci stai facendo fare si sta rivelando sempre più determinante per me e per tanti amici. La Scuola di comunità sulla speranza (Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 173-253) ha fatto emergere in modo clamoroso il problema: quanti tra noi non erano certi! Anche per chi da tanto tempo era nel movimento, la vita si appoggiava di fatto su altro e la speranza – effettivamente vissuta – era solo che le circostanze fossero favorevoli. Una cosa importante è stata ripensare alla mia responsabilità (tengo una Scuola di comunità, e sono il priore di un gruppetto di Fraternità), che mi sono accorto esser fatta da tanto “mestiere”: dopo tanti anni di movimento hai sempre la rispostina “corretta”, che mette tutti d’accordo, vai a riprendere una frase in un altro libro di Giussani, fai altre citazioni appropriate, l’amico più grande ti dice sempre qualcosa di interessante che puntualmente riporti negli incontri; e tutto ciò ti fa fare anche una certa figura. Il problema è che raramente davo un contributo di esperienza reale vissuto alla luce di ciò che ci stavamo dicendo. Ero io per primo a non entrare nella realtà con l’ipotesi che ci veniva suggerita, quindi ero il primo a essere incastrato dalle circostanze. Di fronte ai problemi della vita, mettermi davanti alle cose che ci vengono dette a volte mi irritava, perché volevo qualcosa che mi risolvesse il problema, non ero interessato a qualcosa che mi mettesse nella posizione giusta; anche le testimonianze, paradossalmente, capitava che mi indisponessero, aumentavano il mio scetticismo, sotto sotto mi dicevo: “Quello che succede a loro a me non capiterà mai”. Che grazia essermi accorto di questo! Gli Esercizi sono stati un punto di riscossa decisivo, ho cominciato ad affrontare la realtà cercando di essere cosciente della sfida che ci lanciavamo, e a questo proposito ti racconto un fatto che mi ha colpito molto. Un amico stava affrontando la realtà del lavoro con una superficialità tale che mi lasciava sbigottito, rischiando un ottimo posto che, se perso, avrebbe fatto sprofondare la numerosa famiglia in una situazione drammatica; non faceva i conti col reale, ma si lasciava guidare dal pregiudizio e dal “mi piace”. Mi dispiaceva moltissimo e dicevo: “Ma come si può far così?”. Quando, riflettendo su che cosa volesse dire questa provocazione, mi sono accorto che io facevo lo stesso nell’affronto della realtà. Quindi il Mistero attraverso quella circostanza mi correggeva. Sorprendentemente mi sono commosso, mi sono sentito amato come raramente mi è capitato, e da allora è scattata nella mia vita una dinamica nuova: la realtà comincia (pian piano, ma comincia) a essere il luogo dove Uno ti chiama, e questo dà un gusto sconosciuto prima. Prima mi sembrava non succedesse mai nulla nel quotidiano. Adesso succede sempre tutto – anzi: Tutto –, le situazioni, anche quelle pesanti, cominciano a essere affrontate con un impeto, una baldanza, un desiderio di andarci in fondo nuovi. Come è evidente che questa energia non viene da me! Che stupore commosso vedere così chiaramente come Cristo mi cambia! E chi, se non Lui? Altre volte mi sarei detto scettico (“Sì, adesso è così, ma dopo tornerà tutto come prima”), ora questo non mi importa, tanto ci penserà Lui a rifarsi sotto fino al punto che Lo riconoscerò, commuovendomi ancora una volta. È proprio solo il mio “no”, con il gomito davanti agli occhi, che può impedire la mia rinascita».

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carron

giovedì, 14 ottobre 2010
Cosa ci tira fuori da questo borghesismo
                              ***   
Ora, che cosa ci tira fuori da questo borghesismo, da questo
conformismo, da questa riduzione dell’io,aiutandoci a vincere la
resistenza ad appartenere a un Altro, cioè a convertirci? Non i testi
della Bibbia o del carisma, non un ricordo che abbiamo vissuto nel
passato, non un cristianesimo ridotto a regole: tutto questo non è in
grado di rendere presente quell’attrattiva che ci consente di cambiare,
di destare la coscienza di appartenenza in cui consiste la liberazione.
Ci troviamo qui davanti all’autentica sfida che ci aiuta a riconoscere
qual è la vera compagnia. Ciò che è in gioco, infatti, è qual è la vera
natura della compagnia, la vera natura della comunione, del nostro
stare insieme. Vera non è qualsiasi compagnia, ma quella che rende
presente lo sguardo di Cristo su di me. Per questo non basta leggere i
testi del passato. Perfino per leggere i testi del passato, come la Bibbia,
occorre la tradizione, perché la tradizione è il riaccadere dell’inizio.
Non basta un discorso, e per questo non valgono soltanto i testi, non
vale soltanto il ricordo, non basta dire che me l’ha detto qualcuno o
che «me l’ha detto don Giussani». Non basta! Mi dispiace, ma non
basta! E lo sappiamo bene che non basta: si vive per qualcosa che sta
succedendo ora, perché soltanto qualcosa che è presente ora può essere

in grado di ridestare l’io, e questo si chiama “testimonianza. Noi siamo
qua perché abbiamo incontrato uno che ci ha reso presente lo sguardo
di Cristo, e questo ci ha fatto capire che cosa era successo a Zaccheo.
Questo è il valore della testimonianza. La testimonianza è rendere
presente questo sguardo. Come è stato padre Aldo per quella persona
.

Don Carron

«VIVERE È LA MEMORIA DIME»
Assemblea Internazionale Responsabili
di Comunione e Liberazione
Supplemento al periodico Tracce - Litterae Communionis, n. 8, Settembre 2010.

Postato da: giacabi a 21:55 | link | commenti
carron

mercoledì, 25 agosto 2010

Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore

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SE UNO CI TIENE ALLA SUA VITA DOVREBBE ASCOLTARE QUESTO INTERVENTO

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nietzsche, leopardi, giussani, carron, cl, senso religioso, milosz, judina

mercoledì, 09 giugno 2010


OSSERVATORE ROMANO/ Carron: prima di tutto autenticamente uomini


 

mercoledì 9 giugno 2010

Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l’umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all’epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede».
Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale. Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti.
Ci troviamo agli antipodi dell’indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall’altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi. Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno?
Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell’io», nell’assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale.
Solo un uomo così «ferito» dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all’incontro con il Signore. «Cristo infatti - afferma don Giussani - si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).
«Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone», ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l’influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l’uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico?
Come ha ricordato Benedetto XVI a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
 
Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l’uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri.
«Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l’allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Dirci perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. (...) Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142-143).

Questa certezza che Benedetto XVI testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri - pensiamo alla vicenda della pedofilia - ci invita a un cammino per la riscoperta e l’approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamenta, ma c’è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi (...): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l’audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un’avventura per ciascuno dì noi e quindi l’occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell’esser nostro» (G. Leopardi).
 
(Tratto da L’Osservatore Romano del 9 giugno 2010)

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benedettoxvi, carron

domenica, 30 maggio 2010
Ciò che  manca oggi tra noi non è la Presenza

manca l’umano

 Cristo è risorto! Questo è l’annuncio che instancabilmente, da secoli,
la Chiesa ci rivolge. Questo è l’avvenimento che domina la storia, un
evento che nessuno sbaglio nostro o dei nostri fratelli può far fuori e
che tutto il male che possa capitare non può cancellare. Questo fatto è il
motivo della nostra speranza; è dunque questo fatto che deve dominare
in noi dal primo istante di questi giorni: la Sua presenza risorta. Non
sarebbe adeguato a tutti i fattori del reale, ora, uno sguardo sulla
nostra vita, sul sentimento di noi stessi, sul reale e sul mondo che non
cominciasse da questo riconoscimento; sarebbe menzognero, perché
mancherebbe il fattore decisivo di tutta la storia. Non c’è una novità più
grande, non c’è mai stata una novità più grande che il fatto che Cristo è
risorto.Per questo, nella misura in cui ci lasciamo invadere totalmente
da questa Presenza viva, ci lasciamo dominare da questa verità – che
è un fatto, non un pensiero creato da noi, ma un evento successo nella
storia –, noi vediamo cambiare il sentimento che abbiamo di noi stessi.
Ci ritroviamo insieme questi giorni per viverli sotto la pressione di
questa commozione, sotto l’onda tutta carica di questa commozione:
Cristo è morto e risorto per noi. Vi prego di lasciarGli spazio, cioè di
lasciarci trascinare da questo evento; non consentiamo che resti in noi
soltanto una parola. È successo: che luce, che respiro, che speranza
porta alla vita questo fatto! È il segno più evidente e più potente della
tenerezza del Mistero per ciascuno di noi, di questa carità sconfinata di
Dio per il nostro niente (compreso il nostro tradimento).
È la Sua presenza vittoriosa in mezzo a noi che ci spinge a continuare
il nostro percorso per cercare di superare sempre più la frattura tra il
sapere e il credere, affinché questo fatto riconosciuto dalla fede determini
la vita più di tutto il resto.Se invece questo fatto rimanesse soltanto a
livello pio o devoto, sarebbe come se non ci fosse stato, come se non
avesse tutta la densità di realtà per cambiare la vita, per incidere sulla
vita; e allora resteremmo determinati da tutto il resto, che ci travolge, che
ci confonde, che ci scoraggia, che ci impedisce di respirare, di vedere, di
toccare con mano la novità che Cristo risorto ha introdotto e introduce
nella nostra vita…
. La fede è il riconoscimento di questa Presenza eccezionale,
oggi resa carnalmente presente dai testimoni, dal popolo cristiano, dalla
Chiesa, che sarebbe impossibile se Lui non la generasse costantemente.
Ma l’anno scorso abbiamo approfondito che, malgrado tanti fatti
eccezionali che abbiamo visto, malgrado tanti testimoni che abbiamo
davanti, spesso dopo un istante ci sembra che tutto svanisca; e abbiamo
identificato la ragione in quella frattura tra il sapere e il credere che si
manifesta nella riduzione della fede a proiezione di un sentimento, a
un’etica o a una forma di religiosità estranea e opposta alla conoscenza.
La riduzione sta in ciò: la fede non viene più concepita e vissuta come
un percorso di conoscenza di una realtà presente, e questo ci rende
deboli e confusi come tutti. Una fede che non è conoscenza, che non è
il riconoscimento di una Presenza reale, non serve alla vita, non fonda
la speranza, non cambia il sentimento che noi abbiamo di noi stessi,
non introduce un respiro in ogni circostanza.E l’aspetto cruciale della
difficoltà l’avevamo identificato nella mancanza dell’umano: «Ciò che
manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da
testimoni!); manca l’umano.Se l’umanità non è in gioco, il cammino
della conoscenza si ferma.Amici, non manca la Presenza, manca
il percorso», il percorso introdotto dalla curiosità davanti a questa
Presenza, con la quale vogliamo entrare sempre di più in una conoscenza
approfondita….
Dopo un anno ci sono segni che rendono evidente che la frattura tra
sapere e credere non è ancora superata.
Il primo è che non si capisce il nesso tra l’avvenimento cristiano e
l’umano: si continua a percepirli come estrinseci l’uno all’altro. ……
non abbiamo capito il rapporto che c’è tra l’avvenimento cristiano e la messa
 in moto dell’io, non si capisce che il segno che ho fatto un incontro è che mi
metto al lavoro, perché il mio umano è ridestato. Il lavoro
 è il segno più evidente che il cristianesimo è un
avvenimento, cioè che avviene in me
qualcosa che mi ridesta.
Il secondo segno è che l’avvenimento cristiano non
 produce  una mentalità nuova. ………

È come se vedessimo su di noi gli effetti di quello che Charles Péguy
descrive in modo così suggestivo: «Per la prima volta, per la prima volta
dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi, noi stiamo per vedere
un nuovo mondo sorgere, se non una città; una società nuova formarsi,
se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una
società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) ingrandirsi, dopo
Gesù, senza Gesù. E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna
negarlo, è che ci sono riusciti. [...] È ciò che vi pone in una situazione
tragica, unica. Voi siete i primi. Voi siete i primi dei moderni».
Dopo Gesù, senza Gesù. Non si tratta soltanto di un progressivo
allontanamento da una pratica religiosa; il segno per eccellenza della
emarginazione di Cristo dalla vita è una mortificazione delle dimensioni
proprie dell’umano, una concezione ridotta della propria umanità, della
percezione di sé, un uso ridotto della ragione, dell’affezione, della
libertà, una censura della portata del desiderio. Giussani ha utilizzato
tanti anni fa la metafora dell’esplosione nucleare di Chernobyl, che ha
prodotto questa alterazione nell’animo degli uomini: «L’organismo,
strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso.
Vi è come un plagio fisiologico».
Per questo mi domandavo:il cristianesimo è in grado di colpire il
nocciolo duro della nostra mentalità oppure riesce soltanto ad aggiungere
qualcosa di decorativo, di pio, di moralistico, di organizzativo a un io
già perfettamente costituito, refrattario a qualsiasi ingerenza?…..
È possibile in questa nostra
situazione la creatura nuova, qualcosa di veramente nuovo? Questa,
secondo me, è la sfida più grande che il cristianesimo ha davanti a sé
adesso: se – nella modalità in cui ci ha persuasivamente raggiunto: il
movimento – è in grado di perforare la crosta del modo con cui ciascuno
sta nel realeo se è condannato a rimanere estraneo, in fondo un’aggiunta.
Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà,
vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che
l’avvenimento cristiano è rimasto esterno all’io. Anche per noi la fede
può essere una cosa fra le altre, appiccicata, giustapposta, che convive
con il modo di vedere e di sentire di tutti.……
Ciascuno di noi può giudicare il lavoro di quest’anno, e verificare in
che misura questa novità è entrata nella radice del proprio io. Che novità
ha portato? Non sono nostri pensieri, non è una questione di opinioni, di
interpretazioni: se Cristo è entrato come novità nella radice del nostro io
e determina tutto in un modo nuovo, ce lo portiamo addosso nel modo
di vivere il reale. …..
Ma prima dobbiamo guardare in faccia l’obiezione cui accennavo
prima: a noi avvenimento e lavoro sembrano sempre in contrasto. Questo
è un esempio della distanza che a volte percepisco tra l’intenzione
di seguire don Giussani e il seguirlo veramente. Guardate quel che
dice a tutti quelli che contrappongono cristianesimo e lavoro: «Gesù
Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano [questa
affermazione già basterebbe], all’umana libertà o per eliminare l’umana
prova – condizione esistenziale della libertà –. Egli è venuto nel mondo
per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura
fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che
l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano,
invece di sciogliersi, se non sono salvati determinati valori fondamentali.
Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza
della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della
conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle
cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore),
il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della
giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella
storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla
religiosità nel tentativo della propria soluzione (“Chi mi segue avrà la
vita eterna e il centuplo quaggiù”). Non è compito di Gesù risolvere i vari
problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente
può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa
fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel tentativo».
E ancora: «L’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere
dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole aiutare l’umano
nel cammino al suo destino. E l’umano è inesistente originalmente,
se non nel singolo, nella persona. Questa insistenza è tutto quanto il
richiamo di Gesù Cristo. Non si può pensare di cominciare a capire il
cristianesimo se non partendo dalla sua origine di passione alla singola
persona».
E qualora non fosse abbastanza chiaro, don Giussani osserva che
il compito della Chiesa è lo stesso: «La Chiesa, dunque, non ha come
compito diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli
incontra lungo il suo cammino.Abbiamo visto che la funzione che essa
dichiara sua nella storia è l’educazione al senso religioso dell’umanità
e abbiamo visto anche come ciò implichi il richiamo a un giusto
atteggiamento dell’uomo di fronte al reale e ai suoi interrogativi,
giusto atteggiamento che costituisce la condizione ottimale per trovare
più adeguate risposte a quegli interrogativi. Abbiamo anche appena
sottolineato che la gamma dei problemi umani non potrebbe essere
sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo, quasi che la Chiesa
dovesse dar loro una soluzione già confezionata».10
Per questo il migliore omaggio che possiamo offrire a don Giussani
nel quinto anniversario della sua scomparsa è la nostra sequela, non
soltanto intenzionale, ma reale. Potremo vedere così come cinque anni
dopo la sua morte egli continua a esserci padre più che mai e, se noi ci
rendiamo veramente disponibili, a generarci.


Carrón agli Esercizi spirituali della Fraternità di Cl (Rimini, 23-25 aprile 2010)

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cristianesimo, giussani, carron, cl

mercoledì, 24 febbraio 2010

La fede può soddisfare la ragione e il cuore

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di Redazione
Il Giornale anticipa un brano dell'introduzione che don Juliàn Carròn, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha scritto per il libro Vivere intensamente il reale. Scritti sull'educazione (Editrice La Scuola, pp.160, 9.50 euro)

Julián Carrón
«Fino dalla prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni”. Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere repertata e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento. Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo “quindi” è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola “razionalità”, usa la parola “cuore”. La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell’uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé».
Questo brano di don Giussani, che compare in questa antologia, tratto da uno dei suoi libri più noti, descrive quale fosse l’originalità della sua posizione nei confronti dei giovani, così come emerse fin dalla prima ora di insegnamento della religione cattolica, che lui chiamava «scuola di religione»: una fiducia totale. Molti anni dopo affermò che nel lungo arco della sua vita aveva scommesso tutto sulla «libertà pura» di chiunque avesse incontrato - e si possono contare a decine di migliaia le persone che aveva conosciuto -. Proviamo a immaginare quale stima un uomo debba nutrire per l’umanità di chi incontra sul suo cammino per rischiare tutto su di essa. Come è raro trovare uomini così, oggi! Proprio a causa di questa mancanza siamo arrivati a parlare di «emergenza educativa», tanto che la Chiesa italiana ha appena lanciato un programma decennale dedicato al tema dell’educazione.
Fin dall’inizio del suo impegno con gli studenti milanesi, a metà degli anni Cinquanta - prima come assistente della gioventù femminile e maschile di Azione Cattolica e poi come insegnante nel liceo Berchet -, Giussani ebbe chiaro che l’unico modo per rispondere alla sfida di un mondo che andava nella direzione opposta a quella della tradizione - e per il quale la fede e la ragione erano come due rette che non si sarebbero mai potute incontrare - era di indicare un metodo per cui le parole cristiane tornassero a essere una risposta convincente alla vita dei giovani. Il metodo educativo di don Giussani non era quello di ripetere idee giuste, ma piuttosto il tentativo di ridestare qualcosa che c’era nell’altro, provocandone la libertà. Questo era il suo modo di fare compagnia ai ragazzi, di essere loro amico. Il suo era un richiamo a quel fascio di esigenze ed evidenze originali del cuore - esigenze di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità - e un invito a un paragone continuo con esse. E per realizzare questo utilizzava tutto ciò che il genio dell’umanità aveva prodotto, dalla musica alla poesia. C’è un testo, tra i tanti di Giussani, che descrive il percorso di questa conoscenza e che compare in questa antologia. Il capitolo decimo de Il senso religioso. In esso si esprime il suo “genio” educativo, come un accompagnare dentro la profondità della realtà fino alla scoperta di un quid ultimo che la costituisce. Tutto parte dal rapporto con la realtà. La realtà agisce sulla ragione dell’uomo come un invito a scoprire il significato di tutto ciò in cui si imbatte. Interrompere questa dinamica è come bloccare la conoscenza. «Il modo con cui il reale si presenta a me è sollecitazione a qualche cosa d’altro. Il reale mi sollecita a ricercare qualche cosa d’altro, oltre quello che immediatamente mi appare. La realtà afferra la nostra coscienza in maniera tale che questa pre-sente e percepisce qualche cosa d'altro. Di fronte al mare, alla terra e al cielo e a tutte le cose che si muovono in esso, io non sto impassibile, sono animato, mosso, commosso da quel che vedo, e questa messa in moto è per una ricerca di qualcosa d’altro».
Giussani osserva che questa dinamica del segno non è completa, se non giunge sino al suo culmine: il riconoscimento stupefatto della realtà del Mistero che fa tutte le cose. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero». E ancora: «Il mondo è un segno. La realtà richiama a un’Altra. La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega». .
È estremamente significativa la corrispondenza di questa posizione di Giussani con le preoccupazioni di un suo antico vescovo, quel Giovanni Battista Montini – futuro Paolo VI – che nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1957, intitolata Sul senso religioso, scriveva: «Il senso religioso è un’attitudine naturale dell’essere umano a percepire qualche nostra relazione con la divinità , come l’apertura dell’uomo verso Dio, l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino».
È questa una preoccupazione che mostra quanto fosse già allora urgente, e quanto lo sia ancor più oggi, il bisogno di educazione, così come la definisce Josef Andreas Jungmann, ripreso da Giussani: educare è «introdurre alla realtà, in definitiva alla realtà totale».

Postato da: giacabi a 08:16 | link | commenti
giussani, carron

giovedì, 24 dicembre 2009

NATALE/
quella nostalgia verso l'infinito
Julián Carrón

giovedì 24 dicembre 2009
***
Caro Direttore,
c’è una frase di Dostoevskij che mi accompagna in questi tempi, dovendo parlare del cristianesimo alle persone più diverse in Italia e all’estero: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».
Questa domanda suona come una sfida a ciascuno di noi. È precisamente dalla risposta ad essa che dipende la possibilità di successo della fede oggi. In un discorso del 1996, l’allora cardinale Ratzinger rispose che la fede può sperare questo «perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito». E con ciò indicava anche la condizione necessaria: che il cristianesimo ha bisogno di trovare l’uomo che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa.
Eppure in quante occasioni siamo tentati di guardare l’umanità concreta che ci troviamo addosso - per esempio, il disagio, l’insoddisfazione, la tristezza, la noia - come un ostacolo, una complicazione, un intralcio alla realizzazione di ciò che desideriamo. E così ci arrabbiamo con noi stessi e con la realtà, soccombendo sotto il peso delle circostanze, nell’illusione di andare avanti tagliando via qualche pezzo di noi.
Ma disagio, insoddisfazione, tristezza, noia non sono sintomi di una malattia su cui intervenire coi farmaci, come accade sempre più spesso in una società che confonde l’inquietudine del cuore col panico e con l’ansia. Sono piuttosto segni di quale sia la natura dell’io. Il nostro desiderio è più grande di tutto l’universo. La percezione del vuoto in noi e attorno a noi di cui parla Leopardi («mancamento e voto») e la noia di cui parla Heidegger sono la prova dell’inesorabilità del nostro cuore, del carattere smisurato del nostro desiderio - niente è in grado di darci soddisfazione e pace -; possiamo dimenticarlo, tradirlo, ingannarlo, ma non possiamo togliercelo di dosso.
Per questo il vero ostacolo al cammino non è la nostra concreta umanità, ma la trascuratezza di essa. Tutto in noi grida l’esigenza di qualcosa che riempia il vuoto. Lo intuiva perfino Nietzsche, che non poté evitare di rivolgersi al “dio ignoto” che fa tutte le cose: «Rimasto solo, levo le mie mani/ (…) “Al dio ignoto”:/ (…) Conoscerti io voglio - te, l’Ignoto,/ Che a fondo mi penetri nell’anima,/ Come tempesta squassi la mia vita,/ Inafferrabile eppure a me affine!» (1864).
Il Natale è l’annuncio che questo ignoto Mistero è diventato una presenza familiare, senza la quale nessuno di noi potrebbe rimanere uomo a lungo, finirebbe travolto dalla confusione, vedendo decomporsi il proprio volto, perché «solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino» (don Giussani).
Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande da cui tutti rimanevano colpiti - più ancora che le gambe raddrizzate e la cecità guarita - era uno sguardo senza paragoni. Il segno che Cristo non è una teoria o un insieme di regole è quello sguardo, di cui è pieno il Vangelo: il Suo modo di trattare l’umano, di entrare in rapporto con coloro che trovava sulla sua strada.
Pensiamo a Zaccheo e alla Maddalena: non ha chiesto loro di cambiare, li ha abbracciati così com’erano, nella loro umanità ferita, sanguinante, bisognosa in tutto. E la loro vita, abbracciata, si ridestava in quel momento in tutta la sua profondità originale.
Chi non desidererebbe essere raggiunto da un simile sguardo ora? Infatti «non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora - ora! -, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora» (don Giussani). Sarebbe l’unica modalità per rispondere da uomini del nostro tempo, ragionevolmente e criticamente, alla domanda di Dostoevskij.
Ma come sappiamo che Cristo è vivo ora? Perché il Suo sguardo non è un fatto del passato. Continua nel mondo tale e quale: dal giorno della Sua resurrezione la Chiesa esiste solo per rendere esperienza l’affezione di Dio, attraverso persone che sono il Suo corpo misterioso, testimoni nell’oggi della storia di quello sguardo capace di abbracciare tutto l’umano.

(Tratto da Il Corriere della Sera del 24/12/2009)

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natale, carron

giovedì, 29 ottobre 2009
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Ma che differenza, che differenza con ciò che don Giussani ci ha testimoniato - lo ricordava prima Davide - leggendo Giacomo Leopardi. Perché è impossibile che uno veda quella umanità e non desideri quello sguardo, non desideri partecipare a quella modalità di rapportarsi al reale; perché quello che vediamo in quel video è un uomo, testimone di come si può stare davanti al reale e leggere Leopardi in modo tale da scoprire, da testimoniare quel «Misterio eterno / Dell’esser nostro» («Sopra il ritratto di una bella donna…», in Cara beltà, Bur, Milano 1996, p. 96), cioè quello che noi siamo. E qual è questo mistero? «Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?» (Ibidem, p. 97). Tu, essendo così fragile, hai desideri così grandi. Ma questi desideri - diciamo tante volte - non ci sono, è come se tutto venisse meno. Don Giussani - ed è impressionante sentirlo mentre brandisce Leopardi - dice: neanche un po’, no, questo è il pensiero dominante: «Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente» («Il pensiero dominante», in Ibidem, p. 77). Questo grido, questa esigenza di felicità, riemerge dal naufragio universale, perché «l’infinita vanità del tutto» («A se stesso», in Ibidem, p. 84) non riesce a togliere il seme di questo pensiero dominante, di questa sete, di questa passione per la felicità: «Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei» («Il pensiero dominante», in Ibidem, pp. 77-78). Possiamo trovarci in mezzo a questo naufragio universale e a questa confusione totale, ma il pensiero dominante implacabilmente riemerge. Puoi essere confuso quanto vuoi, ma quando qualcuno ti fa una ingiustizia riemerge tutta l’esigenza di giustizia; puoi essere stanco quanto vuoi, ma davanti alla bellezza non puoi evitare che venga fuori tutto lo stupore. E ciò che chiamiamo cuore, questo pensiero dominante, è una realtà «dimenticabile, mistificabile, obiettabile, ma inestirpabile» (Uomini senza patria. 1982-1983, Bur, Milano 2008, p. 256). È di questo che don Giussani è testimone: di questa lealtà con l’esperienza, che trova un compagno in uno come Leopardi. In mezzo al disastro c’è questa realtà inestirpabile che si erge impetuosa, grandiosa. Se qualche volta noi seguissimo questo…
Il testimone è uno che usa la ragione così, che ha questa lealtà con se stesso, che è definito da questo pensiero dominante, e perciò non può entrare in rapporto con alcuna cosa senza che gli venga il desiderio di tutto. E questo è il giudizio. È con questa umanità che occorre paragonare tutto, è questa esigenza che viene fuori nel rapporto con tutto, ma occorre la lealtà che vediamo in Giussani e in Leopardi: solo uno che prende sul serio questo pensiero dominante, questa esigenza che è dentro le viscere di ciascuno di noi, che viene fuori nel rapporto con tutto e che non si accontenta di meno di questa esigenza di tutto, può capire veramente che cosa è l’esperienza.
Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia Fiera Rho-Pero, 26 settembre

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giussani, carron, senso religioso

lunedì, 26 ottobre 2009
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“don Giussani ci dice che non c’è esperienza fin quando uno non riconosce «Dio come l’ultima implicazione della umana esperienza, e quindi la religiosità come dimensione inevitabile di autentica, esauriente esperienza» ((Il rischio educativo, op. cit., p.129). Facciamo il paragone tra quello che noi chiamiamo “esperienza” e questa affermazione, e ci renderemo conto fino a che punto la riduciamo...
È così semplice che ho scelto come titolo del nostro incontro questa frase di Leopardi: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà» («Aspasia», in Cara beltà, op. cit., p. 86). È così semplice che Leopardi non può evitare che nel contraccolpo della bellezza della donna che ama scopra il raggio divino. Questa è l’esperienza nella sua semplicità: la bellezza della donna conduce Leopardi a riconoscervi dentro il raggio divino. È esattamente quel che intendiamo quando diciamo che non c’è vera esperienza che non abbia dentro il Mistero, che non implichi il Mistero come spiegazione esauriente
Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia Fiera Rho-Pero, 26 settembre

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esperienza, giussani, carron

sabato, 10 ottobre 2009

Perché quelle due lezioni sono il cuore di sette giorni

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Gli incontri di don Carrón e di Di Martino sono stati il cardine di tutto il Meeting. Nell’esperienza di Paolo di Tarso il culmine di ogni vera conoscenza
Ascoltando le due relazioni che hanno aperto l’orizzonte, e al tempo stesso hanno segnato la direzione al Meeting di quest’anno - quella tenuta da Carmine Di Martino, che ha illustrato il tema generale, e quella su san Paolo svolta da Julián Carrón - emergeva un dato comune: una passione per l’evidenza, cioè un interesse sincero e un’attenzione acuta a capire e a far capire che nella vita di un uomo tutto si gioca, o passa, attraverso l’apertura della sua conoscenza e l’accoglienza dei dati della realtà.

Un tema decisamente “filosofico” (sebbene ben più che accademico), che è stato affrontato non genericamente o per slogan, ma cercando di entrare nel merito delle questioni, vale a dire nella descrizione di cosa avviene quando noi incontriamo il mondo e diveniamo coscienti di noi stessi. Risalendo alla genesi del nostro modo abituale di pensare, sviluppatosi a partire da alcune decisioni fondamentali prese nel corso della filosofia moderna (soprattutto Cartesio e Kant), Di Martino ha mostrato la grande, persistente disputa tra coloro che ritengono che sia il “soggetto” o l’io a precedere di diritto l’“oggetto”, vale a dire il dato della conoscenza, e a determinare a priori le condizioni alle quali esso può apparire a noi, e coloro che invece ritengono sia la realtà a precederci, ma non come un dato estraneo o indifferente al nostro io, bensì come qualcosa che si dà a noi e anzi chiede la nostra apertura (percezione, ragione, giudizio) per manifestarsi nella sua presenza.

È a proposito di questa seconda posizione che appare in tutta la sua pertinenza il contributo originale di Giussani - a buon diritto presentato come un “autore” di primo piano all’interno della discussione storica e filosofica sulla conoscenza umana - e in particolare il suo concetto di “esperienza”, vale a dire
il luogo in cui la realtà si rende evidente: nell’esperienza la realtà tocca il soggetto umano e lo sollecita a rispondervi e ad aderirvi, e l’io da parte sua si scopre capace di un giudizio sulle cose, cioè di interrogare e seguire ciò che accade nel mondo, come segno o traccia di un significato che attende di essere scoperto e affermato.
Per questo “
la conoscenza è sempre un avvenimento”: occorre un incontro, cioè che accada o si doni qualcosa, perché da questo “urto” possa avviarsi il nostro conoscere. E quest’ultimo si sviluppa adeguatamente solo per una ragione “affettiva”, che segua l’attrattiva di ciò che ci ha toccato, non sottraendosi all’invito che i dati ci fanno di continuo a ricercarne e a coglierne il perché. Un invito che noi non potremo mai concludere o arrestare una volta per tutte, trattandosi di una prospettiva tendenzialmente infinita, così come è inesauribile il richiamo delle cose e il linguaggio dei fatti.
Da questo punto di vista il caso di Paolo di Tarso può ben essere inteso come un’esemplificazione straordinaria di un tale significato di “esperienza”, e cioè dell’“avvenimento” come origine e dimensione della conoscenza umana: è per l’incontro storico con Cristo, che sin dall’inizio ha sfidato la sua intelligenza e la sua libertà, che Paolo diviene capace di “conoscere” Colui che lo ha raggiunto, e quindi aderire alla rivelazione di Cristo come ad un avvenimento di cui ha fatto esperienza personale. Ma l’esperienza di Paolo è qualcosa di più, come ha sottolineato Carrón: essa diventa metodo paradigmatico per tutti coloro che vivono
la fede, non come il frutto di una dottrina o di un insieme di leggi, ma come l’impatto con una realtà eccezionale che irrompe nella vita e cambia tutto rispetto ai pregiudizi e alle abitudini del singolo e della cultura in cui si vive. Una novità, un incontro, che costituisce la strada permanente lungo la quale la conoscenza può effettivamente realizzarsi, lì dove si sia disponibili a seguire ciò che ci è accaduto - e che continua ad accadere - come l’unico metro di giudizio ragionevole per valutare ogni cosa.

Sfidando la tentazione sempre incombente nella modernità di sostituire all’avvenimento le nostre idee e le nostre immagini, si scopre così il paradosso per cui la nostra “passività” rispetto all’essere - il fatto cioè che non lo produciamo né lo dominiamo noi, ma lo riceviamo come altro da noi - è la fonte inesauribile di un’“attività” e di una creatività che ci rende protagonisti della vita e della storia, cioè scopritori del significato. Ma appunto, il significato della realtà, per Paolo come per noi, è più grande di ogni dottrina e di ogni cultura: esso ha il volto di una presenza vivente, che si può conoscere solo perché riaccade, e la cui possibilità trascende sempre le nostre misure. Solo in questa scoperta dell’infinito da parte della ragione, l’io scopre la sua vera dimensione: e se fosse proprio in Paolo che bisogna cercare la vera fisionomia dell’uomo moderno?
Costantino Esposito                   da: tracce 09/09

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giussani, carron

mercoledì, 30 settembre 2009
L’esperienza
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l’esperienza non è caratterizzata da una accumulazione di impatti, di impressioni,di emozioni, ma da un acquisto di conoscenza, da una scoperta,
da una comprensione del senso. Senza un aumento di coscienza,di conoscenza delle cose e di sé, non si può dire che si è fatta esperienza.”
Don Carron da: Esperienza: lo strumento per un cammino umano tracce09/09

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esperienza, carron

sabato, 04 luglio 2009
Gius contro il «gulag» della modernità
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«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Forse nessuno più di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov ha posto in modo sintetico e perentorio la sfida davanti alla quale si trova il cristianesimo nella modernità. Don Giussani ha avuto il coraggio di misurarsi con questa sfida storica, radicalizzandola, se possibile. Infatti, scommette tutto sulla capacità della sua proposta educativa di generare un tipo di soggetto cristiano per cui «anche se andassero via tutti – tutti! –, chi ha questa dimensione di coscienza personale (che la fede genera) non può fare altro che ricominciare le cose da solo».

È la stessa, identica, scommessa che lo stesso Gesù non ebbe paura di correre coi suoi. Che cosa avrebbe fatto Gesù nell’ipotetico caso che, davanti alla sfida: «Anche voi volete andarvene?», tutti i discepoli l’avessero abbandonato? Nessuno ha alcun dubbio: avrebbe ricominciato da solo. Che cosa può consentire una tale capacità di ripresa, nelle attuali circostanze storiche? Possiamo incominciare a intravedere la risposta, se cerchiamo di immedesimarci con Gesù: che cosa l’avrebbe potuto fare ripartire da capo? È evidente che Lui non si sarebbe potuto appoggiare su una logica di gruppo, dal momento che, nella nostra ipotesi, era rimasto da solo. Per potere affrontare questa sfida occorre passare «
da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale». Gesù sarebbe stato costretto a poggiare tutto sul contenuto dalla sua autocoscienza, della sua appartenenza al Padre.

«Qual è il contenuto di questa dimensione di coscienza personale? La definizione dell’io è "appartenenza". L’appartenenza definisce ciò che sono; come l’essere figli è definito dall’appartenenza al padre e alla madre; e non è schiavitù, perché tale appartenenza non è estrinseca. Dire che l’io è rapporto con l’Infinito vuole dire che l’essenza dell’io, nel senso stretto della parola, è appartenenza a un Altro». Così don Giussani indica che quello che potrebbe far ripartire da capo ciascuno è la stessa cosa per cui Gesù ha cominciato: la coscienza della sua appartenenza al Padre. Non è, dunque, una capacità nostra, una energia propria, una nostra bravura, ma è l’esito d’una appartenenza. In questo modo don Giussani non fa altro che identificare lo scopo ultimo dell’opera salvifica di Cristo. Infatti Lui è diventato uomo, è morto e risorto, perché mediante il dono dello Spirito potessimo vivere con la coscienza di figli, come "figli nel Figlio".

Prendere consapevolezza del nostro essere figli, cioè della nostra appartenenza al Padre, è il compito di ogni educazione cristiana, che ha la verifica della sua verità nella capacità dell’io – così educato – di ricominciare da capo, se tutti se ne andassero. Questo chiarisce la strada che ognuno di noi deve cercare di percorrere: che la vita diventi un cammino che ci renda sempre più certi e consapevoli della nostra appartenenza. Ma acquistare questa consapevolezza è possibile soltanto se essa è verificata nelle circostanze della vita: «L’impatto con le circostanze, il rapporto con la realtà, non è nient’altro che l’avvenimento della vita come vocazione, in cui il "soggetto" è l’appartenenza a ciò che ci è accaduto – Cristo dentro la fragilità effimera della comunità –, mentre il contenuto "oggettivo", su cui questo soggetto è chiamato ad agire, è l’incontro con quel complesso di circostanze finalizzate che si chiamano appunto "vocazione", perché Dio non fa nulla per caso. Il complesso di circostanze sollecita il soggetto e questo agisce secondo l’origine totalizzante che ha dentro, secondo quel principio formale, quel principio determinante, che è stato l’incontro».

Raggiungere questa coscienza è una lotta che chiede a ciascuno di noi la disponibilità alla conversione, vale a dire a vivere secondo un’altra mentalità. La ragione è evidente. Questa posizione entra in contrasto con l’atteggiamento diffuso in questo preciso momento storico, in cui siamo chiamati a vivere la fede, e ci penetra molto più di quanto pensiamo: «L’uomo moderno ha creduto di evitare tutto dicendo: "L’uomo appartiene a se stesso", che è la più grande menzogna, perché prima non c’era, perciò va contro l’evidenza più chiara.

"L’uomo appartiene a se stesso" vuole dire: l’uomo diventa possesso del potere, appartiene al potere, cioè appartiene ad altri uomini che lo determinano». Le conseguenze di questa scelta adesso sono più documentabili di quando furono dette queste parole, a metà degli anni Ottanta: «
Amici miei, siamo in un’epoca di una pericolosità sterminata. Siamo in un’epoca in cui le catene non sono portate ai piedi, ma alla motilità delle prime origini del nostro io e della nostra vita. L’Occidente sta, non lentamente, ma violentemente spingendo tutta la realtà umana, anche nostra, verso il "gulag" di un asservimento mentale e psicologico inaudito: la perdita dell’umano, di cui Teilhard de Chardin segnalava già il sintomo più impressionante, che è la perdita del gusto del vivere»
Julián Carrón

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giussani, carron

giovedì, 02 luglio 2009
Il peccato originale
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«come potremmo sintetizzare questo peccato? l'uomo è fatto per la felicità ma cerca la morte. La libertà dell'uomo cerca di negare, tenta di negare quello che è evidente  che è fatta per la felicità. É l'orgoglio : l'orgoglio ha portato il male nel mondo; è l’affermazione di sé prima della realtà.
Don Carron da:Esercizi di fraternità 2003 Rimini

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carron

domenica, 28 giugno 2009
Il gruppo di fraternità
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"La fraternità, il gruppo di fraternità, è una trama di rapporti, non una seconda scuola di comunità. Può capitare questo: che uno si raduna, ma poi quando gli si domanda:«Ma  con chi condividi la tua vita?» non c’è risposta. Il gruppo di fraternità non è un raduno in più: è questa trama di rapporti che sostiene la vita. Se non è questo, non serve a niente, perché non abbiamo bisogno di un raduno in più, ma di una trama rapporti che ci accompagni nella vita, che ci sostenga nella vita, con cui condividere la vita, con cui condividere i bisogni. È questa trama di rapporti non è per risparmiarmi il dramma del mio rapporto con il Mistero (non voglio che nessuno mi risparmi il dramma di dire «Tu» a Cristo ogni mattina, voglio dirlo io), ma per destare in continuazione questo dramma. Perché senza un luogo cosi, una trama di rapporti così, il Mistero rimane estraneo e vince la mentalità moderna dove il Mistero è estraneo e tutta la speranza delude. Abbiamo bisogno di un luogo così, perché altrimenti la nostra compagnia diventa utopia, cioè tante volte l’immagine  che abbiamo della compagnia è quella di un luogo che meccanicamente ci risparmi il dramma di vivere, invece di destarlo in continuazione.
Abbiamo bisogno…. di un luogo, di una trama di rapporti che desti  continuamente il desiderio, che ci metta in moto, perché l’incontro con Cristo si manifesta proprio nel destarsi del desiderio, che dà allo stesso tempo una impossibile serenità. Altrimenti aspettiamo tutto dal meccanicismo della compagnia, contro la quale il don Gius dice di lottare. Accade così che la compagnia diventa qualcosa di schiavizzante."
Don Carron Esercizi di fraternità Rimini 2005

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chiesa, carron

domenica, 31 maggio 2009
La contemporaneità di Cristo oggi
è questo fatto di umanità diversa
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«Qual è la prima caratteristica della fede in Cristo? Per Andrea e Giovanni qual è la prima caratteristica della fede che hanno avuto in Gesù?
[...] La prima caratteristica è un fatto! Qual è la prima caratteristica della conoscenza? È l’impatto della coscienza con una realtà».
Il fatto che continua a sfidare ciascuno di noi è il punto di partenza per cui ancora ritorniamo qui quest’anno: il presentimento di una corrispondenza che non possiamo toglierci di dosso, perché è l’imbattersi in una diversità umana:
«L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita [...]. Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi, riflessione e sviluppo: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato, che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa strutturale del cuore»
Senza questa contemporaneità della Sua presenza nel fenomeno di una umanità diversa, non sarebbe possibile la fede cristiana. E la contemporaneità
di Cristo oggi è questo fatto di umanità diversa che tanti di voi mi testimoniate –, fatto che sfida la mia ragione e la mia libertà.
Don Carron «DALLA FEDE IL METODO»
Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione maggio 09

 

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cristianesimo, giussani, carron

giovedì, 28 maggio 2009
  Se manca l’umano
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Ciò che manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da testimoni!); manca l’umano. Se l’umanità non è in gioco, il cammino della conoscenza si ferma. Amici, non manca la Presenza, manca il percorso, manca che noi ci decidiamo a fare tutto il percorso della fede come ci è stato annunciato, perché da questa situazione, da questo contesto in cui ci troviamo a vivere la fede (che incide su di noi molto più di quanto ne siamo consapevoli), noi non possiamo venire fuori automaticamente, scaldando la sedia, senza un lavoro. «È una schiavitù da cui non ci si libera automaticamente, ci si libera con una ascesi [...]:l’ascesi è una applicazione che l’uomo fa delle sue energie in un lavoro su se stesso, intelligenza e volontà».
L’esperienza fatta in questi anni ci rende consapevoli che non basta
ripetere certe frasi di don Giussani – riducendo così la sua persona a uncatalogo di discorsi – o partecipare a momenti belli. Occorre impegnarsi seriamente in un cammino, in un lavoro, e la sfida davanti a cui ci troviamo è se prendere sul serio o no la proposta che ci ha rivolto don Giussani.
Smettiamola di prenderci in giro! Pochi luoghi nella Chiesa di Dio
hanno avuto il coraggio di accettare la sfida dei tempi moderni come ha fatto l’esperienza nata da don Giussani. Ma noi tante volte la riduciamo a una serie di iniziative, a partecipare a certi gesti, però senza fare un cammino umano, cioè della ragione e della libertà: l’abbiamo presa un po’ “sportivamente”, quasi non veramente consapevoli della situazione
drammatica in cui ci troviamo, che invece chiede tutto l’impegno della persona nella verifica. Proprio lui ce l’aveva predetto già tanti anni fa: «Se il movimento non è un’avventura per sé e non è il fenomeno d’un allargarsi del cuore, allora diventa il partito [...] che può essere
sovraccarico di progetti [che non mancano tra di noi], ma nel quale la singola persona è destinata a rimanere sempre più tragicamente sola [insieme,ma sola!] e individualisticamente  definita».
Don Carron «DALLA FEDE IL METODO»
Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione maggio 09

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carron

mercoledì, 27 maggio 2009
Le circostanze
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Per noi le circostanze non sono neutre, non sonocose che capitano senza alcun senso; cioè non sono cose soltanto da sopportare, da subire stoicamente.
Attraverso queste circostanze il Mistero ci vuole ridestare da questa anestesia, educarci alla consapevolezza di noi stessi, alla nostra verità,
ci ridesta alla coscienza per cui siamo fatti, non ci lascia andare verso il niente senza preoccuparsi di noi, per una passione per la nostra vita che
è il segno più potente della tenerezza di Dio per noi.
Per chi ha ricevuto l’annuncio cristiano – «il Mistero si è incarnato in un uomo» – ogni circostanza è l’occasione in cui ciascuno mostra la sua posizione davanti a questo annuncio, a questo fatto poi scopriamo che nella realtà noi
ci muoviamo secondo un’altra logica.
Per questo, dal modo con cui noi affrontiamo le circostanze da cui siamo sfidati, noi affermiamo qual è la nostra appartenenza.
 Cioè, noi diciamo a noi stessi qual è la nostra cultura, che cosa e chi amiamo di più e abbiamo di più caro, nel modo in cui noi affrontiamo le circostanze.
È davanti alle vere sfide del vivere che si pone in evidenza la consistenza di una posizione culturale,la sua capacità di reggere davanti a tutto, anche davanti al terremoto.
 

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carron

sabato, 16 maggio 2009
La morale cosiddetta laica non è ragionevole
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Nel suo libro Fede, Verità, Tolleranza, l’allora cardinale Ratzinger riferisce un episodio – narrato da Werner Heisenberg – molto significativo, accaduto a Bruxelles nell’ambito di una discussione tra scienziati.

«Ci si trovò a discutere del fatto che Einstein parlava spesso di Dio e Max Planck sosteneva l’opinione che non ci sia alcuna contraddizione tra scienze della natura e religione [...]. Secondo Heisenberg, a fondamento di tale apertura [di Planck] stava la concezione che scienze naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è l’alternativa tra vero e falso, nella religione l’alternativa tra bene e male, tra valore e disvalore. [...] “Le scienze naturali sono, in certo senso, il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà [...]. La fede religiosa,
viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la
quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita”. [...] A questo punto Heisenberg aggiunge: “Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione. Dubito che, alla lunga, delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere”. A un certo punto interviene Wolfgang Pauli e rafforza
il dubbio di Heisenberg, addirittura lo eleva al grado di certezza: La separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente d’emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell’ambito culturale occidentale, potrebbe venire in un futuro non troppo lontano il momento in cui le parabole e le immagini della religione qual è stata finora non possiederanno più alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo, anche l’etica finora vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di una atrocità che non ci possiamo neppure immaginare”».
Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 145-146.
don Carron
Da:  ESE R C I Z I D E L L A F R A T E R N I T À d i C O M U N I O N E E L I B E R A Z I O N E  2009

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einstein, benedettoxvi, carron, plank, scienza - articoli

domenica, 03 maggio 2009
Presentazione del libro "Si può vivere così?
*** 
15 maggio 2008
Auditorium Parco della Musica -  Roma
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