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sabato 4 febbraio 2012

Carron2

«Una misericordia che ci sfida»
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Julián Carrón
Avvenire, 14 marzo 2009


La prima cosa che colpisce è il fatto che il Papa abbia sentito il bisogno di scrivere una lettera così: piena di dolore davanti all’incomprensione non tanto degli estranei, quanto dei cattolici. Caso insolito nella storia recente, da quanto ricordi, e segno del fatto che non capiamo un gesto che, come dimostra  la lettera, è pieno di ragionevolezza.
Nella sua semplicità, è stato un gesto di misericordia per una parte di fedeli affidati alla sua paternità di pastore universale della Chiesa, che acquista tutta la sua portata davanti agli irrigidimenti di coloro che lo criticano, inclusi quelli a cui era rivolto. Questo gesto pone davanti a tutti lo scandalo cristiano. È difficile, infatti, che leggendo la lettera non vengano alla mente le parole di Gesù: «Beato colui che non si scandalizza di me», rivolte a chi si arrabbiava perché mangiava coi pubblicani e i peccatori. La misericordia, gesto inequivocabile del divino, continua a scandalizzare come il primo giorno. Peccato che questo succeda anche tra chi appartiene al popolo dei redenti, vale a dire, tra chi per primo è stato oggetto di una sconfinata misericordia.
Diversamente da quanti pensano che Benedetto XVI confermi i destinatari nella loro posizione, il suo gesto costituisce la sfida più grande davanti alla quale si siano mai trovati. Soltanto la misericordia sfida come nessun altro richiamo la nostra testardaggine. A chi molto viene perdonato, molto ama, dice Gesù. A nessun altro gesto è sensibile l’uomo come alla misericordia, tanto è vero che è stato il metodo di Gesù, come ci ricorda San Paolo: «Quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Quella del Papa è una risposta alla «priorità che sta al di sopra di tutte, rendere Dio presente in questo mondo», un Dio incarnato il cui nome è “misericordia”, che si manifesta attraverso «l’unità dei credenti».
Questa lettera ha un “respiro” di cui non possiamo non ringraziare il Papa, tanto più quanto più aumentano gli irrigidimenti di coloro che riducono la vita cristiana a un moralismo soffocante. Niente più di una lettera così mi fa sentire orgoglioso della mia appartenenza ecclesiale, pieno di fiducia che il giorno in cui io dovessi sbagliare sarei trattato con altrettanta misericordia.
Julián Carrón

Postato da: giacabi a 22:26 | link | commenti
benedettoxvi, carron

lunedì, 23 febbraio 2009
Giussani è vivo ed è vivo se seguiamo radicalmente Carròn
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Da: padre Aldo TRENTO
Data: Sat, 21 Feb 2009 09:56:07 -0300
Oggetto: lettera 22/02/200
Cari amici,
non ci ardeva il cuore mentre lungo il cammino parlavamo con lui?” Si domandavano i due discepoli di Emmaus. Ebbene, alla fine di questi giorni passati in compagnia di Carron, durante l’incontro responsabili dell’America Latina a S. Paolo e il commovente incontro allo stadio con 15000 amici guidati dai miei carissimi amici, gli Zerbini, è quanto vibra dentro di me.
Ho rivisto vivo, palpitante, fisicamente presente, don Giussani.
Guardando Carròn, ascoltandolo, lasciandomi provocare dall’intensità della sua umiltà che ci conduce sempre a quello che Giussani definisce “il criterio oggettivo, infallibile per giudicare tutto, il cuore” era evidente che Giussani stava lì. Che bello: per me Giussani non è morto, anzi, direi che in Carròn è più vivo di prima. Ed è il mio cuore a dirmelo, perché ero commosso nel seguirlo, era come quel primo giorno che avevo incontrato Giussani in via Martinengo, era come quando 20 anni fa mi ha tenuto con sé due mesi: la stessa intensità di sguardo, una capacità impressionante di parlare al mio io. Davvero nei miei 62 anni solo Giussani ed ora Carròn hanno saputo e sono capaci di parlare così al mio cuore.
Uno spettacolo che, avvicinandosi l’anniversario della morte di Giussani, mi fa gridare: Giussani è vivo, più vivo di prima perché adesso quelle parole che avevano soffocato il mio cuore, salvandomi dall’ideologia, hanno in me uno spessore impensabile allora. Allora sentivo la verità della promessa, oggi vedo il lento, inesorabile, progressivo compimento.
Amici, che razza di uomo questo amico e padre Carròn!
E come vorrei che con l’intelligenza dei “piccoli”, con la semplicità dei bambini ci potessimo immedesimare con lui, con quanto ci indica. Ho visto in lui il Giovanni Battista: un uomo che rimanda ad altro, ci indica quei segni inconfondibili del Mistero che sono fra noi. Sono tornato commosso, come ai primi giorni del mio incontro con il Giuss, fino al punto di chiedere ai miei ammalati terminali questa mattina: “amici, da oggi in avanti offriamo i nostri dolori ed anche il sacrificio della nostra vita per questo uomo che davvero è la garanzia per ognuno che quell’abbraccio del Giuss mediante il quale Dio ha cambiato la mia vita, segua vivo”.
Come vorrei che quanti hanno la grazia di ascoltarlo di frequente o vivergli al fianco vibrassero come vibra il mio cuore da quando due anni fa l’ho conosciuto prendendo sul serio la sua instancabile ripetizione: “io sono Tu che mi fai” o quella del vangelo “anche i capelli del vostro capo sono contati”. È proprio da quel giorno che è sbocciata anche la grande amicizia con gli Zerbini, un’amicizia piena di chiarezza, di tenerezza che ha spinto loro a venire ben due volte a visitarci e a P. Paolino con 4 ragazzini fare 50 ore di corriera per partecipare al grande gesto di domenica scorsa allo stadio.
Amici, uno spettacolo di fede che, credo solo nel Medio Evo era possibile vedere, quando un re aderiva alla fede, tutti aderivano, così come erano, grandi peccatori.
Davvero ho rivisto il cuore del Movimento, della libertà. Dopo anni di stanchezza, di rischio di vivere di ricordi, oggi a 62 anni comprendo, vedo che Giussani è vivo ed è vivo se seguiamo radicalmente Carròn, assimilandoci con il suo modo di vivere Giussani. La paternità umana di quest’uomo, che ha come centro l’io, la realtà, il cuore umano, commuove e sconvolge tutti. Come è successo venerdì mattina quando con gli Zerbini ho incontrato il cardinale di S. Paolo e alcuni fra i più importanti Rettori universitari della città.
Amici, volevo solo “festeggiare” con voi la certezza che Giussani vive e che quanti seguono con intelligenza Carròn toccano con mano questa verità: siamo più felici, più contenti. Mentre chi vive di nostalgia è triste.
Un abbraccio
P.Aldo

Postato da: giacabi a 20:39 | link | commenti (2)
giussani, carron, padre trento

sabato, 21 febbraio 2009
La forma della risposta al desiderio dell'uomo è Cristo stesso
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“Questa forma non è, come tante volte noi pensiamo, una nostra immagine, un prodotto della nostra immaginazione. Al contrario: «Questa forma non è nient' altro che la grande Presenza stessa» (p. 195). Lo possiamo capire bene tra di noi: non è il regalo che una persona mi fa a costituire la pienezza di quella esigenza di felicità. Quello che mi rende felice è la persona stessa, non i regali che mi fa! «La contemplazione dei tuoi beni e certamente per noi un dolce ristoro -scrive Guglielmo di Saint-Thierry -, ma non ci sazia perfettamente senza la tua presenza» (La contemplazione di Dio, »Fabbri, Milano 1997, p. 65).
Sperare, perciò, non significa sperare "qualcosa" da Dio, ma Dio stesso. Per il fatto che la nostra natura e desiderio dell'Infinito, e Dio stesso l'unico in grado di riempire il desiderio.
Lo dice bene sant' Agostino: «Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti [. ..] da Dio sperano qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio; [...] dimenticando le altre cose ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. [. ..] Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).
La forma della risposta al desiderio dell'uomo è Cristo stesso. Cristo è l'unica speranza di compimento della nostra affettività. Egli solo, Egli solo è capace di esaudire, di soddisfare veramente l'affettività.
Null'altro e in grado di soddisfarci realmente. Perciò la speranza- è il compimento dell'affezione: Egli solo e in grado di soddisfare, di compiere veramente l'affezione. Per questo tutti gli uomini ardono dal desiderio; ma quanto è difficile trovare uno che dica: «Di te ha sete l'anima mia» (Sal63,2)!
Cristo, la Presenza riconosciuta dalla fede, è l'unico fondamento ragionevole della speranza. Senza di Lui la vita dell'uomo e priva di un fondamento su cui poggiare.
Invece e proprio cosi, perche -come conferma san Tommaso -«la vita dell'uomo consiste nell'affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (San Tommaso d'Aquino, Secunda secundae, in Summa Theologiae, q. 179, art. 1). La soddisfazione è nell'affezione a Cristo, la soddisfazione è Cristo.”
Don Carron da: Pagina uno  Tracce di febbraio

Postato da: giacabi a 14:49 | link | commenti
desiderio, agostino, carron

domenica, 08 febbraio 2009
E’ possibile sperare?  
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L’attuale situazione in cui sembra che tutto stia per crollarci davanti agli occhi rende questa domanda ancor più urgente .
 E’ possibile sperare?
Se la fede è riconoscere con certezza una Presenza così corrispondente alle attese del cuore,
 allora la speranza è avere una certezza sul futuro che nasce da questa Presenza.
Perciò la speranza cristiana è tutto tranne che irragionevole.
Non è una speranza campata per aria , senza punto d’appoggio, una sorta di ottimismo irrazionale contro l’evidenza dei dati del presente.
Anzi, la sua ragionevolezza poggia tutta su una conoscenza verificata dall’esperienza.
È con questa Presenza davanti a me che, adesso, posso guardare senza paura tutta la portata della mia attesa, dei miei desideri più profondi.
Io ho speranza perché ho tutta la certezza nel potere della grande Presenza riconosciuta dalla fede, sapendo che l’esigenza di felicità che mi costituisce si realizzerà secondo la forma che il Mistero vorrà.
Sperare, perciò, non significa sperare “qualcosa” da Dio, ma Dio stesso. Per il fatto che la nostra natura è desiderio dell’infinito, è Dio stesso l’unico in grado di riempire il desiderio.

Julian Carron
grazie a;

Postato da: giacabi a 13:47 | link | commenti
speranza, carron

giovedì, 29 gennaio 2009
La realtà e l’astrazione
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"Che cosa distrugge più in fretta che lavorare, pensare, sentire senza un'intima necessità, senza una scelta profondamente personale, senza gusto? Nulla corrode più profondamente, più intimamente di ogni dovere "impersonale", di ogni sacrificio dinanzi al Moloch dell'astrazione..."
F. Nietzsche
"Io non ho altro metodo, infatti, che obbedire a quello che accade, non ho nessuna pagina segreta nascosta, nessun filo diretto con lo Spirito Santo, ho quello che avete tutti: il reale, l'esperienza, quello che accade; una accanita lealtà con quello che accade.[...] E' la verifica della fede, la verifica di Cristo, non come astrazione, ma come intensità del vivere: si chiama centuplo. "
J. Carron
grazie a : nihilalieno.

Postato da: giacabi a 14:13 | link | commenti
reale, nietzsche, carron

domenica, 28 dicembre 2008
Un movimento nasce proprio con il ridestarsi della persona
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«Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società». Come ci piacerebbe essere degni di queste parole che Giovanni Paolo II rivolse a don Giussani, durante un'udienza privata nell'estate del 1982!
In realtà, queste parole esprimono la situazione in cui viene a trovarsi qualsiasi cristiano, se vive il cristianesimo secondo la sua vera natura. Così lesse don Giussani le parole del Papa: «Non ha patria da nessuna parte nella società di oggi colui che riconosce la presenza di Cristo – una presenza diversa da tutte le altre – nella propria vita, nella trama dei propri rapporti, nella società in cui vive . Fino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio e accoglienza dovunque. Ma là dove il cristiano è l'uomo che annuncia nella realtà umana, storica, la presenza permanente di Dio fatto Uno tra noi, oggetto di esperienza  la presenza di Cristo centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la vita, senso di ogni azione, sorgente di tutta l'attività dell'uomo intero, vale a dire dell'attività culturale dell'uomo, questo uomo non ha patria» .
Dal 1982 sono successe tante cose, che ci consentono di capire quanto fosse profetica l'osservazione del Papa.
Come cristiani siamo sempre più senza patria. Questa è la bellezza della sfida che abbiamo davanti, se non fosse allo stesso tempo tragica: «
L'epoca moderna, anzi, l'epoca contemporanea è la documentazione tragica di ciò cui l'uomo arriva nella pretesa di autonomia: la pretesa di farsi da sé, di realizzarsi da sé, di crearsi da sé, di decidere da sé, di avere sé come centro. Questa pretesa porta alla dissoluzione, alla perdita della libertà come originalità di giudizio sulla vita: si diventa alienati nell'opinione comune, nella cultura, nelle opinioni indotte dalla cultura dominante
»
Etica o sentimentalismo: ecco le due interpretazioni riduttive del cristianesimo, operate dall'uomo moderno, lungo una strada che ha reso sempre più astratto Cristo. E ha lasciato l'uomo da solo.

La conseguenza non si è fatta aspettare: concependosi come autonomo, sganciato dal rapporto con l'Infinito, l'io diventa preda del potere: «La persona individualista è il fascio dei suoi fatti. L'individualista non ha consistenza personale, è un fascio di reazioni. Invece un fatto veicola una funzione, un riferimento a un ordine più grande: è questo che dà il senso della sua consistenza. Un fatto, una reazione, appartiene a qualcosa di più grande \. Per questo la lotta di oggi – culturale – è fra due concezioni dell'uomo, fra l'uomo che appartiene a qualcosa di più grande, oppure che appartiene a se stesso. Ma dov'è il veleno che sta in coda a tutta questa situazione? Che l'uomo che appartiene a se stesso è una manciata di polvere in cui ogni grano è staccato dall'altro e perciò può essere utilizzabile facilmente dal potere».
Venticinque anni dopo vediamo tutta la verità di questo giudizio. Anche noi ci troviamo immersi in questa lotta. Perciò la domanda più stringente è come venirne fuori vincitori. O, detto con altre parole: come possiamo vivere da cristiani, inassimilabili a questa situazione? Per don Giussani è chiaro qual è il primo passo da compiere:
«L'uomo ritorna a essere se stesso quando ritorna a essere mendicante, a mendicare il suo traguardo, il suo destino, come un bambino che mendica la presenza della madre».
Solo così ciascuno di noi potrà capire la portata di Cristo nella propria vita. Parlando agli universitari nell'estate del 1982, don Giussani la descrive così: «Cristo è una risposta all'uomo», ma «una risposta è capita solo nella misura in cui uno sente la domanda addosso a sé. E se Cristo è il Redentore, è perché io sono un poveraccio, un povero». E più avanti augura ai suoi giovani amici che abbiano «a covare la percezione della Presenza che è risposta al vuoto che si ha addosso, a quello che non si è ancora».
Si capisce così qual è il nostro vero bisogno per potere vivere da cristiani senza patria:
«Vivere l'urgenza personale di Cristo nella nostra vita, vivere l'incombenza di questa Presenza sulla nostra vita».
La conseguenza che si prospetta non può essere più entusiasmante per chi vuole vivere il cristianesimo di fronte a tutto e tutti: «Centrare questo punto stabilisce una iniziale libertà, rappresenta un punto fermo al di là di tutto, consente una stabilità umana indipendente dalle circostanze, e perciò finalmente la libertà, finalmente l'autonomia che è propria della personalità» .
Non smetto mai di stupirmi di come don Giussani continua ad accompagnarci, sgomberando il campo dagli equivoci e mettendo davanti ai nostri occhi il vero compito: «Abbiamo riconosciuto stamattina che mai il movimento è stato così attivo, mai le comunità sono state così in attività e anche così presenti. Il progetto del movimento va! Allora, il momento che stiamo attraversando ci obbliga a sgomberare la nostra attesa o pretesa di una implicazione progettuale. Questa volta non possiamo parlare di cose da fare, ma di un atteggiamento che la storia oramai esige
. La differenza è che l'atteggiamento è un problema della tua persona. Il punto non è dunque la proposta di sviluppo di un discorso né la proposta di cose da realizzare. Se il movimento non è un'avventura per sé e non è il fenomeno d'un allargarsi del cuore, allora diventa il partito, che può essere sovraccarico di progetti, ma nel quale la singola persona è destinata a rimanere sempre più tragicamente sola e individualisticamente definita».
da:prefazione di Julián Carrón al libro di don Luigi Giussani Uomini senza patria, Bur


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giussani, carron

martedì, 23 dicembre 2008
Il Natale e la Speranza
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Carrón su La Repubblica: Il Natale e la Speranza
martedì 23 dicembre 2008
Caro direttore, sono stato colpito dalle letture che la Liturgia ambrosiana proponeva il lunedì della terza settimana di Avvento. Come devono essere rimasti sconcertati i membri dell’antico popolo di Israele davanti alle parole del profeta Geremia: «Divorerà le tue messi e il tuo pane; divorerà i tuoi figli e le tue figlie; divorerà i greggi e gli armenti; distruggerà le città fortificate nelle quali riponevi la fiducia» (Ger 5,17). Annunciava loro che un’altra nazione stava per sconfiggere il regno su cui avevano riposto fiducia. «Allora, se diranno: "Perché il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?", tu risponderai: "Come voi avete abbandonato il Signore e avete servito divinità straniere nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese non vostro"» (Ger5,19).
E come se questo fosse detto per noi; oggi vediamo segnali che preoccupano tutti, come se quello che ha sostenuto la nostra storia non potesse resistere all’urto dei tempi: un giorno sono l’economia, la finanza e il lavoro, un altro la politica e la giustizia, un  altro ancora la famiglia, l’inizio della vita e la sua fine naturale. E così, come l’antico Israele di fronte a una situazione preoccupante, anche noi ci domandiamo: «Perché accade tutto questo?». Perché anche noi siamo stati talmente presuntuosi da pensare di cavarcela dopo avere tagliato la radice che sosteneva l’edificio della nostra civiltà. Negli ultimi secoli, infatti, la nostra cultura ha pensato di poter costruire il futuro da sé, abbandonando Dio. Ora vediamo dove ci sta portando questa pretesa.
Davanti a tutto questo che ci siamo procurati, il Signore che cosa fa? Ce lo indica il profeta Zaccaria, parlando al suo popolo Israele: «Ecco, io manderò», attenzione al nome, «il mio servo Germoglio» (Zc 3,8). E come se davanti alla crisi di un mondo, il nostro - i profeti userebbero per descriverla un’immagine a loro molto cara, quella del tronco secco -, spuntasse un segno di speranza. Tutta l’enormità del tronco secco non può evitare che in mezzo al popolo, umile e fragile, spunti un germoglio, nel quale è riposta la speranza del futuro.
Ma c`è un inconveniente: anche noi, quando vediamo apparire questo germoglio - come coloro che erano davanti a quel bambino a Nazareth -, possiamo dire scandalizzati: «É  mai possibile che una cosa così effimera possa essere la risposta alla nostra attesa di liberazione?». Da una realtà così piccola come la fede in Gesù può venire la salvezza? Ci pare impossibile che tutta la nostra speranza possa poggiare sulla appartenenza a questo fragile segno, ed è motivo di scandalo la promessa che solo a partire da esso si possa ricostruire tutto. Eppure uomini come san Benedetto e san Francesco hanno fatto proprio così: cominciarono a vivere appartenendo a quel germoglio che si era inoltrato nel tempo e nello spazio, la Chiesa. E sono diventati protagonisti di popolo e di storia.
Benedetto non affrontò da arrabbiato la fine dell’impero, non protestò perché il mondo non era cristiano, né si lamentò perché tutto crollava, accusando l’immoralità dei suoi contemporanei. Piuttosto testimoniò alla gente del suo tempo una compiutezza del vivere, una soddisfazione e una pienezza che divenne attraente per tanti. E fu l’albore di un mondo nuovo, piccolo quanto si vuole - quasi un niente paragonato al tutto, un tutto che pur franava d a ogni parte -, ma reale. Quel nuovo inizio fu talmente concreto che l’opera di Benedetto e di Francesco è durata nei secoli e ha trasformato l’Europa, umanizzandola.
«Egli si è mostrato. Egli personalmente», ha detto Benedetto XVI parlando del Dio-con-noi. E don Giussani: «Quell`uomo di duemila anni fa si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di un’umanità diversa», in un segno reale che desta il presentimento di quella vita che tutti attendiamo per non soccombere al nostro male e ai segnati del nulla che avanza. E la speranza che ci annuncia il Natale, per cui gridiamo: «Vieni, Signore Gesù!».
Pubblicato su La Repubblica del 23 Dicembre 2008

 da: http://www.ilsussidiario.net/

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natale, carron

domenica, 09 novembre 2008
L’amicizia
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“Se il nostro stare insieme non è per questo aprire costantemente al Padre, al Mistero, la vita è insopportabile, è un'asfissia, uno soffoca. Invece si sta con qualcuno perchè ti spalanca in continuazione, ti fa diventare te stesso perchè ti riapre in continuazione: l'io, infatti, è questo capacità dell'Infinito, è questo spalancarsi alla totalità: siamo fatti per l'Infinito. Se non è per questo, prima o poi stare insieme non ci interessa più.
Juliàn Carròn - Qualcosa dentro qualcosa - La Thuile - 27-31 ago 2005

Postato da: giacabi a 13:41 | link | commenti
amicizia, carron

domenica, 02 novembre 2008
Chiesa piena di scalcagnati
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"Io sono contentissimo…Che ci sia una compagnia di peccatori! Altrimenti cercatevi un altro posto, se vi lasciano entrare, se avete il “livello” per entrare. Io sono contento di appartenere a questa Chiesa che è piena di scalcagnati,perché Gesù è venuto non per i giusti, ma per i peccatori; e sono grato di avere bisogno costantemente del Suo perdono, della Sua misericordia,della Sua tenerezza.
Tutte queste cose sono, di nuovo, una riduzione. Perché mi posso guardare fino in fondo senza nascondere il mio male? Io non sono definito dal mio male, perché Lui mi continua a dare la vita dopo che ho sbagliato, e continua a dirmi: «Tu sei Mio perché quello che ti definisce non è quello che tu riesci a fare, ma quello che ho fatto con te nel battesimo, ti ho afferrato e tutto il tuo male non è più potente di quella energia con cui Io ti afferro!». E questo vale ugualmente per la nostra compagnia. Non voglio censurare niente di tutto quanto di male c’è tra di noi, ma anche quando c’è, non posso non dire che qualsiasi sia la persona che è qua,l’ultimo arrivato o il più accanito peccatore di tutti, è chiamato come me, è afferrato come me; e se è qui con tutto il dolore del suo male, è afferrato come me e mi dà la testimonianza di rispondere di sì anche in mezzo al suo male."
Don Carron Esercizi della Fraternità Rimini 2008

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chiesa, carron

venerdì, 31 ottobre 2008
La contemporaneità di Cristo
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“Una persona in un paese vicino a Madrid aveva incontrato i nostri amici. Questa persona non aveva avuto fino a quel momento nessun rapporto con la Chiesa; ha incominciato a diventare amico dei nostri e vedeva che cosa succedeva, che novità incominciava a introdursi nella vita; e poi, stando con loro, è andata anche a messa e, sentendo il Vangelo, a un certo momento commenta: «Ma a quelli del Vangelo capitava lo stesso che capita tra di noi». Aveva identificato che quella novità che vedeva accadere davanti ai suoi occhi nel rapporto con gli amici della comunità cristiana, che aveva incontrato, erano le stesse cose che capitavano a quelli che erano intorno a Gesù! Non si rendeva conto che era il contrario, che era a questi suoi amici che capitava lo stesso che ai discepoli, ma questo è secondario. Perché i Vangeli sono e saranno sempre il canone, la regola che ci aiuta a scoprire quando un’esperienza è cristiana, quando ci troviamo veramente davanti a un’esperienza cristiana. Perché nel presente e in ogni momento della storia accade lo stesso (con altri volti, con altre facce) che capitava all’inizio; passa attraverso volti diversi, ma Egli si rende contemporaneo a noi dentro volti con tratti inconfondibili, che sono Suoi. Non è che i discepoli hanno incontrato Gesù e noi dobbiamo accontentarci di un succedaneo. Ciò che sperimentiamo sono esattamente i tratti inconfondibili di Lui, che si rende presente oggi per pietà del nostro niente.
  Come scopro che questi tratti sono Suoi? Dobbiamo guardare bene, perché a noi rischia di sembrare tutto uguale. Guardiamo bene, per esempio, quello che racconta Vicky. «Prima di incontrare Rose nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano in famiglia, come se ci fossimo procurate da sole la malattia. E all’improvviso in quella situazione compare una presenza nuova: Rose è venuta a sedersi di fianco a me. Io mi scostavo perché non emanavo certo un buon odore, lei si avvicinava e io continuavo a scostarmi, ma Rose continuava ad avvicinarsi». E a questa persona, in questa situazione in cui tutti la evitano, che ha un odore così, Rose dice una cosa strana: «Tu hai un valore più grande della tua malattia». Occorre una certa familiarità con Uno che diceva queste cose strane. Come è strano dire a una madre che va a seppellire il figlio: «Non piangere!» (Lc 7,13). O a uno che l’ha tradito dire: «Mi ami tu?» (Gv 21,16). O al più odiato di tutta la città dire: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).
Se, nello stesso tempo, quando noi vediamo questi fatti, non abbiamo anche questa familiarità con il Vangelo, ci sembrano “di chiunque” questi tratti diventano “di chiunque”; cioè possiamo dire così di Gesù o Maometto o Buddha o vattelapesca, perché tutto è uguale.
Ma dove è successo che uno si avvicini così a chi tutti hanno rifiutato come un lebbroso? Dove è successo che uno si avvicini a chi tutti considerano un peccatore abominevole nella città? Dove è successo che uno continui ad affermare il valore dell’uomo nella situazione più disperata? Non è successo ovunque, ma nel momento della storia in cui Egli si è mostrato!
Noi facciamo difficoltà perché ci manca l’immedesimazione con Gesù, col Vangelo, che Giussani ci ha testimoniato lungo tutta la sua vita, perché noi non sapremmo immedesimarci con questi episodi, se non avessimo sentito don Giussani ripeterceli tantissime volte. Ma noi - sembra - abbiamo altro da fare: leggere il Vangelo ci sembra una cosa spiritualistica, e perciò quando vediamo gli stessi fatti davanti ai nostri occhi, facciamo fatica a dire il Suo nome. Allora perché dovremmo credere? Si capisce bene che così la fede non è ragionevole. Invece se uno continua a immedesimarsi, è impossibile che non scatti un’affezione dell'altro mondo che ci rende sempre più caro Cristo.
 don Carron da:Tracce ottobre 08
 

Postato da: giacabi a 06:23 | link | commenti
cristianesimo, carron

giovedì, 23 ottobre 2008
La vita quotidiana
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La vita ogni mattina è determinata da quello che c'è, dal riconoscimento della Sua presenza, oppure da quello che manca.
 Juliàn Carròn

Postato da: giacabi a 14:31 | link | commenti
carron

domenica, 31 agosto 2008
Scuola esegetica di Madrid
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Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La scuola esegetica di Madrid è un gruppo di biblisti spagnoli che da diversi anni conduce uno studio esegetico dei Vangeli basandosi sulla seguente ipotesi: la redazione originaria dei Vangeli non sarebbe quella in lingua greca che ci è pervenuta, bensì questa sarebbe la traduzione di un testo originale in lingua aramaica, che era la lingua comunemente parlata nell'area palestinese al tempo di Gesù.
Essi, quindi, si propongono di risolvere le ambiguità e le apparenti contraddizioni che si presentano nel testo greco dei Vangeli, spiegandole come errori introdotti nella traduzione dall'aramaico.
Alcuni esponenti di questa scuola sono Mariano Herranz Marco, José Miguel García e Julián Carrón.
Gli studiosi in generale concordano che i Vangeli siano stati scritti utilizzando alcune fonti preesistenti, alcune delle quali molto probabilmente erano scritte in ebraico o in aramaico (si veda l'articolo Nascita dei Vangeli). La scuola di Madrid assume questa ipotesi come base del proprio lavoro e la sviluppa sistematicamente, tentando di ricostruire la "versione originale" aramaica di numerosi passi evangelici, concentrandosi in particolare su quelli più oscuri e controversi. Il libro di José Miguel García che riassume il lavoro fin qui svolto, in termini comprensibili per i non specialisti, è stato recentemente tradotto in italiano con il titolo La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli.
Riportiamo alcuni dei problemi che i biblisti della scuola ritengono di avere spiegato:
  • Sia Matteo che Luca affermano che Gesù nacque al tempo di Erode. Tuttavia Luca situa anche la nascita di Gesù in occasione di un censimento fatto "quando era governatore della Siria Quirino" (Lc 2,2). Quirino però divenne governatore solo nel 6 d.C., dieci anni dopo la morte di Erode. Secondo la scuola di Madrid, il passo di Luca fu tradotto in modo errato dall'originale aramaico: non si doveva leggere "questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirino", bensì "questo censimento fu prima di quello fatto quando...".
  • Nei Vangeli vengono citati più volte i "fratelli di Gesù". Alcuni vedono in questi passi la prova che Maria non rimase sempre vergine, ma ebbe altri figli dopo Gesù. Altri intendono che la parola "fratelli" indichi in realtà dei cugini o parenti in genere (questa tesi fu sostenuta da San Gerolamo), oppure che ci si riferisca a figli di San Giuseppe nati da un suo precedente matrimonio. La scuola di Madrid, dopo un'accurata analisi dei passi in questione, ritiene che l'espressione "fratelli di Gesù" indicasse in realtà gli apostoli e gli altri discepoli che aiutavano Gesù nel suo ministero.
  • In diverse occasioni, specie nel vangelo di Marco, Gesù dopo aver compiuto un miracolo ordina di non raccontare del fatto a nessuno. Gli studiosi a questo proposito parlano di "segreto messianico" e ne danno diverse interpretazioni. Secondo la scuola di Madrid, queste richieste di silenzio derivano da un fraintendimento del traduttore: la parola "nessuno" in aramaico si rende spesso con l'espressione "non un figlio di uomo", ma "Figlio dell'uomo" è anche l'appellativo con cui Gesù parla di sé stesso in terza persona. Gesù quindi non chiedeva di "non dirlo a nessuno", bensì di "non ringraziare il Figlio dell'uomo".
  • Mentre i tre sinottici, nel descrivere la sepoltura di Gesù, dicono che il suo corpo fu avvolto in un lenzuolo (in greco sindon), Giovanni parla invece di bende (otonia) e di un sudario posto sul capo, ma non cita alcun lenzuolo. Secondo la scuola di Madrid, il traduttore greco lesse al plurale la parola aramaica che significa "telo, pezzo di stoffa" e quindi tradusse con "bende"; in realtà si trattava di un duale (forma che esprime la quantità di due), che nella scrittura consonantica dell'aramaico si scrive allo stesso modo. Giovanni parlava quindi di un "doppio lenzuolo", cioè un lenzuolo che fu steso sopra e sotto il corpo, come la Sacra Sindone.
  • Considerati insieme, i resoconti del mattino della Resurrezione dati dai quattro Vangeli sono confusi e in parte contraddittori. Secondo la scuola di Madrid, le incongruenze sono dovute a traduzioni imprecise dall'aramaico. Ecco come si svolsero gli eventi, secondo la loro ricostruzione dei testi originali:
    • molto presto, quando è ancora buio, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome si recano per prime al sepolcro, e trovano che la pietra è stata rotolata dall'ingresso (Mt 28, 1-4; Mc 16, 1-4; Gv 20, 1).
    • Maria di Magdala corre ad avvisare Pietro e Giovanni, che corrono al sepolcro e lo trovano vuoto (Gv 20, 2-10; Lc 24, 12).
    • al sorgere dell'alba, un secondo gruppo di donne, avvertite dalle prime, si reca al sepolcro, e un angelo dà loro l'annuncio della Resurrezione (Mt 28, 5-7; Mc 16, 5-7; Lc 24, 1-8).
    • esse vanno quindi ad avvertire gli Undici, ma non vengono credute (Mt 28, 8; Mc 16, 8; Lc 24, 9-11, 21-23).
    • dopo aver parlato con gli Undici, appare loro Gesù (Mt 28, 9-10); prima o dopo egli appare anche a Maria di Magdala, ritornata al sepolcro (Gv 20, 11-18).
    • nel pomeriggio Gesù appare poi ai due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-32), e quindi a Pietro e agli altri apostoli (Lc 24, 33-42; Gv 20, 19-23).
L'esistenza di testi originali in aramaico ha anche un impatto diretto sul problema della data di composizione dei Vangeli: questi testi, infatti, devono essere stati scritti nell'ambito della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, la quale si disperse prima del 70, quando la città fu occupata dai Romani. Nel libro La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli si fa riferimento a due passi della seconda lettera ai Corinzi, scritta prima dell’autunno del 57 d.C., in cui san Paolo parla di un Vangelo già scritto e circolante fra le comunità e cita espressamente Luca come il suo estensore. 


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cristianesimo, carron

«La profezia di Wojtyla
è la nostra sfida oggi»
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Don Carrón: «Cl sia ancora degna di quelle parole del Papa»

«Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili
a questa società». Come ci piacerebbe essere degni di queste parole che Giovanni Paolo II rivolse a don Giussani, durante un’udienza privata nell’estate del 1982! In realtà, queste parole
esprimono la situazione in cui viene a trovarsi qualsiasi cristiano, se vive il cristianesimo secondo la sua vera natura.
(…) Dal 1982 sono successe tante cose, che ci consentono
di capire quanto fosse profetica l’osservazione del Papa.
La situazione è talmente cambiata che neanche coloro
che pensavano di “cavarsela” - cioè di trovarsi un posto al sole -, vivendo un cristianesimo ridotto ai valori cristiani, hanno oggi patria. Pensiamo alla discussione sulle radici cristiane dell’Europa o a certi cambiamenti nelle legislazioni impensabili soltanto qualche decennio fa. Come cristiani siamo sempre più senza patria.
Questa è la bellezza della sfida che abbiamo davanti,
se non fosse allo stesso tempo tragica: « L’epoca moderna, anzi l’epoca contemporanea è la documentazione tragica di ciò cui l’uomo arriva nella pretesa di autonomia: la pretesa di farsi da sé, di realizzarsi da sé, di crearsi da sé, di decidere da sé, di avere sé come centro. Questa pretesa porta alla dissoluzione, alla perdita della libertà come originalità di giudizio sulla vita: si diventa alienati nell’opinione comune, nella cultura, nelle opinioni indotte dalla cultura dominante ». Questo riguarda anche noi. Infatti, dice don Giussani, «è come se il movimento di Comunione e Liberazione, dal 70 in poi, avesse lavorato, costruito e lottato sui valori che Cristo ha portato, mentre il fatto di Cristo, per noi, per le nostre persone e per tutti coloro che hanno fatto con noi Cl,“ fosse rimasto parallelo” (…). Così abbiamo lavorato, costruito e lottato per un’ottima posizione ideologica; ottima, perché i valori erano quelli che ha portato Cristo e ha continuato a costruire la Chiesa». Questa riduzione del cristianesimo a etica ha rimandato Cristo fuori dalla storia, senza incidenza su di essa, tanto è vero che Cristo è diventato soltanto l’alibi per una nostra interpretazione.
Giussani dice una frase capitale, che fotografa la situazione più diffusa: «Noi scivoliamo o sulla nostra interpretazione o su una ospitalità sentimentale al fatto di Cristo». Etica o  sentimentalismo: ecco le due interpretazioni riduttive  del cristianesimo, operate dall’uomo moderno, lungo una strada che ha reso sempre  più astratto Cristo.»
di Julián Carrón
da: La prefazione del volume Luigi Giussani Uomini senza patria (Rizzoli)



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giussani, carron

domenica, 08 giugno 2008
don Julián Carrón -
***
 
 Testimonianza di don Julián Carrón
Cosa ha portato qui ognuno di noi, questa sera? Soltanto il riconoscimento e l'aver preso sul serio il proprio bisogno umano, solo un momento di lealtà con se stessi, con la propria umanità. Perché ognuno di noi è proprio questo: bisognoso. È bello essere bisognosi, perché ci rimanda all'Unico che può rispondere a questo bisogno. Ma bisognosi di che cosa? Il Papa nella si domandava nella Spe salvi(n. 11): che cosa vogliamo veramente? «In fondo» - diceva il Papa citando sant'Agostino - «vogliamo una sola cosa: la vita che è sempspinti».
Cosa ha portato qui ognuno di noi, questa sera? Soltanto il riconoscimento e l'aver preso sul serio il proprio bisogno umano, solo un momento di lealtà con se stessi, con la propria umanità. Perché ognuno di noi è proprio questo: bisognoso. È bello essere bisognosi, perché ci rimanda all'Unico che può rispondere a questo bisogno. Ma bisognosi di che cosa? Il Papa nella si domandava nella Spe salvi(n. 11): che cosa vogliamo veramente? «In fondo» - diceva il Papa citando sant'Agostino - «vogliamo una sola cosa: la vita che è semplicemente vita, semplicemente "felicità". Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati: di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente», e tuttavia «sappiamo che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti».
Non è scontato riconoscere che ognuno di noi ha questo bisogno e che deve esistere qualcosa che non conosciamo, perché - come ci ricorda il regista Tarkovskij - "da tempo l'uomo occidentale ha bruciato la bisaccia e il bastone del viandante, con la sua commovente attitudine alla domanda". L'uomo ha rinunciato ad essere pellegrino, vale a dire ha rinunciato a capire che la vita è cammino verso un destino infinito, e allora "la dimora dell'uomo non è più l'orizzonte, ma il nascondiglio, dove non incontra più nessuno e dove perciò comincia a dubitare della sua stessa esistenza".
 L'epoca contemporanea è una tragica documentazione di ciò cui l'uomo arriva nella pretesa di autonomia, di farsi da sé, di realizzarsi da sé, di crearsi da sé. Per questo la lotta è tra il mendicante, tra chi si riconosce bisognoso, e l'autosufficiente, chi pensa di non aver bisogno di niente e di bastare a se stesso. È una lotta fra due concezioni dell'uomo, fra chi appartiene a qualcosa di più grande e chi appartiene a se stesso.
Ognuno di noi sa di essere immerso in questa lotta: perciò la domanda più stringente è come venirne fuori vincitori. Per don Giussani è chiaro qual è il primo passo da compiere: l'uomo ritorna ad essere se stesso quando torna ad essere mendicante, a mendicare il suo traguardo, il suo destino, come un bambino che mendica la madre. Il pellegrinaggio che stiamo per compiere è un'occasione unica di ritornare ad essere mendicanti. Il mendicante è l'uomo vero, l'uomo che riconosce tutta la grandezza del suo desiderio: che è così grande che noi non siamo in grado di rispondere da soli. Per questo, Signore - come dice il salmo (Is26 8-9) -, "è al tuo nome e al tuo ricordo che si volge tutto il nostro desiderio". La cosa più stupefacente è che vedendoci così bisognosi il Signore è diventato lui stesso mendicante di noi: "Cristo mendicante del cuore dell'uomo". Chi guarda questa mendicanza di Cristo del nostro cuore non può non essere colpito: "Che cosa mai è l'uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell'uomo perché te ne curi?" (Sal8, 5).
È la notizia arrivata a quella ragazza di 15/17 anni, a Nazareth, che la fa esultare di gioia, come esprime lei stessa davanti a Elisabetta: "Il Signore ha guardato l'umiltà" - il niente - "della sua serva". Il Cristianesimo è l'annuncio di questa notizia, di questo sguardo nuovo, pieno di compassione, di Cristo per ognuno di noi. Per farsi riconoscere Dio è entrato nella storia, nella vita di ogni uomo, come uomo, secondo una forma umana: e così il pensiero e tutta l'affezione sono stati "bloccati", calamitati, diceva don Giussani. Chi ha incrociato questo sguardo è rimasto segnato, investito di una gioia senza pari, come successe a quel pubblicano di Gerico, che quando Gesù lo guarda e gli dice "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua, in fretta accorse pieno di gioia. È questo sguardo che attraversa il Vangelo: quando Gesù, rivolgendosi alla gente, le dice - come dice adesso a ognuno di noi - "perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati"; o a quella donna che va a seppellire il figlio: "Donna, non piangere". Queste espressioni dicono tutta la tenerezza di Cristo nei nostri confronti.
Questo è il nostro valore: noi, che non siamo niente, siamo stati guardati - siamo guardati ora - così, e perciò chi ha incontrato questo sguardo non ha potuto non essere preso fino al midollo. Da allora tutti quelli che lo hanno incrociato sono diventati, anche loro, mendicanti di Cristo. "Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo": come noi facciamo questa sera, cercando di immedesimarci nella Madonna, che lasciava entrare questo sguardo; come hanno fatto i discepoli, che appena hanno trovato quell'uomo sono stati così calamitati dalla sua presenza che non hanno potuto evitare di andarlo a cercare il giorno dopo; o di Paolo, il fariseo che dopo averlo incontrato dice: «Tutto quello che prima consideravo guadagno l'ho considerato una perdita, a motivo di Cristo; (...) non però che io abbia conquistato il premio: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anche io sono stato conquistato da Cristo» (Fil.3). Anche noi siamo tutti stati conquistati da Cristo, e per questo oggi siamo venuti qua per correre, per conquistarlo ancora, perché tutta la nostra vita sia investita dalla sua presenza. Come succede a San Paolo: «Non più io, ma Cristo che vive in me».
Questa vita nella carne io la vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Lasciare entrare questa presenza si chiama memoria: è quello che consente che tutte le nostre prigioni diventino luogo di respiro, che qualsiasi circostanza, anche quella più brutta, possa essere investita da un respiro e da una novità nuova. La vita ci è stata data per questo: per riconoscere sempre di più che cos'è Cristo. Che qualsiasi circostanza ci tocchi affrontare o vivere, che qualsiasi dolore, qualsiasi sofferenza, possano essere luogo, occasione in cui Cristo svela se stesso, ci fa capire di più fino a che punto Lui ama la nostra vita e vuole cambiarla, farla diventare grande.
Amici, percorriamo la strada verso Loreto coscienti del nostro niente, perché altrimenti saremmo formali, incoscienti del nostro bisogno. Non abbiamo altro, per sostenere la strada, se non questo nostro bisogno, con gli occhi fissi nella Madonna "di speranza fontana vivace" (Dante, Par./span> XXX 12), guardando Lei senza censurare niente. Ecco come la nostra vita può riempirsi di speranza. Qualsiasi sia il momento che attraversiamo, andiamo verso di Lei con tutto il nostro bisogno, perché Cristo possa riempire la nostra vita della sua Presenza.................        Grazie a: Graciete

Postato da: giacabi a 18:50 | link | commenti
tarkovskij, agostino, carron

sabato, 17 maggio 2008
Presentazione del libro Si può vivere così?
con don Julián Carrón
ROMA - 15 maggio 2008
Auditorium Parco della Musica - Viale Pietro de Coubertin 30

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grazie al grande amico :  fontana vivace
videoregistrazione dell’evento (da www.clonline.org)  

Postato da: giacabi a 20:54 | link | commenti
carron

domenica, 06 aprile 2008
Saluto al Santo Padre Benedetto XVI

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 Grazie a:fontanavivace

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benedettoxvi, carron

domenica, 16 marzo 2008
L’amicizia che può affrontare tutto
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Tracce n. 3 - marzo 2008
Brasile



Domenica 24 febbraio. Nella cattedrale di San Paolo, davanti a 50mila persone e al cardinale Odilo Scherer, Cleuza e Marcos Zerbini affidano il movimento dei Senza Terra «nelle mani di don Carrón, perché incontrando Comunione e Liberazione abbiamo incontrato tutto quello che avevamo bisogno di incontrare». Cronaca di un avvenimento commovente che per Cl ha segnato una svolta. Non solo in Sudamerica

di Vando Valentini

Domenica 24 febbraio la pioggia non ha impedito che i giovani studenti universitari e gli appartenenti al Movimento Senza Terra affollassero la piazza della Cattedrale. Secondo Cleuza e Marcos Zerbini, i leader del Movimento, «l’obiettivo dell’evento era incontrare il nostro pastore, affinché tutto questo popolo riconoscesse che il nostro movimento vuole servire la Chiesa secondo il carisma di Comunione e Liberazione». Pioveva a dirotto. Così, alle quattro, gli organizzatori hanno chiesto che la gente potesse entrare nella Cattedrale. Molti sono dovuti tornare a casa affrontando il diluvio, dato che la chiesa non poteva contenere tutti. L’evento, quindi, è proseguito all’interno.
Il cardinale Odilo Scherer ha aperto l’incontro dicendo: «È bello vedere la Cattedrale piena di giovani. Sono felice di vedere che tanti giovani e tante persone che cercano un pezzo di terra su cui abitare possano essere aiutati avendo come punto di riferimento Comunione e Liberazione unitamente alla Chiesa di San Paolo. Spero che il vostro lavoro possa raggiungere tanti giovani per dar loro la possibilità di studiare all’università e anche di conoscere la Chiesa. Forse Dio ha mandato questa pioggia battente perché qualcuno di voi potesse entrare in chiesa e sentisse di essere nella Chiesa. Per questo, come Arcivescovo di San Paolo, li devo ricevere e incoraggiare affinché si sentano parte della Chiesa che vuole accompagnarli, perché abbiano un futuro positivo e pieno di speranza. La vostra presenza in questo luogo e il lavoro del vostro movimento è un segno del fatto che “Dio abita in questa città”, come recita il motto delle celebrazioni per i cento anni della nostra Arcidiocesi».
Poi Cleuza e Marcos Zerbini hanno preso la parola, ringraziando il Cardinale e la presenza di Julián Carrón, guida di Comunione e Liberazione. Cleuza ha detto che «la pioggia caduta oggi rappresenta le lacrime di 20 anni di lotta per la costruzione delle case e di tutto il nostro movimento. Questo è il momento più importante della nostra storia. Carrón anni fa, quando incontrò don Giussani, consegnò il suo movimento nelle mani di don Giussani. Oggi noi del movimento Senza Terra di San Paolo desideriamo consegnare il nostro movimento nelle sue mani, perché, incontrando Comunione e Liberazione, abbiamo incontrato tutto quello che avevamo bisogno di incontrare».
Don Carrón ha chiuso l’evento con queste parole: «Mi sento piccolo e indegno di ascoltare Cleuza mentre affida il suo movimento al nostro. Ma non ho timori, perché Colui che ha iniziato tra noi un’opera buona la porterà a compimento. Siamo figli di don Giussani. E posso dire che non mi sono sbagliato, perché la mia vita è diventata più intensa, più gioiosa e piena di motivazioni. Per questo sono felice di condividere con voi questa esperienza. Vogliamo costruire insieme con voi un’amicizia che possa affrontare qualsiasi cosa: la paura e la tristezza, le lotte e la sofferenza, ma anche le gioie. Non abbiamo paura di nulla poiché Cristo è con noi! Cristo è con noi non come un sentimento o un’idea, ma come un fatto che rende la vita ogni volta più bella... A presto, amici!».

Postato da: giacabi a 12:15 | link | commenti
zerbini, giussani, carron

sabato, 15 marzo 2008
Noi abbiamo bisogno di uno che abbia..
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«...passione per il nostro niente, perche ci guarda senza ridurci, avendo a cuore tutta l'esigenza di felicità che ci costituisce. Uno, sentendosi guardato così, sperimenta subito il contraccolpo che gli fa cogliere la corrispondenza. «E questo che io aspettavo: uno che mi guardasse così, che  avesse veramente a cuore il mio io,che mi affermasse così, in modo da farmi sperimentare il vivere come mai prima! »
don Carron Esercizi di Fraternità  2007
1°esempio:"Cristo era l'unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi; così, ad esempio, proprio coloro che credevano di avere solo il bisogno del pane incominciavano a capire che «non di solo pane vive l'uomo».
Cristo si presenta a loro proprio così, come un Altro che viene loro sorprendentemente incontro, li aiuta, spiega i loro guai, li guarisce perfino se sono storpi o ciechi, fa bene all'anima, risponde alle loro esigenze, è dentro la loro esperienza... Ma cosa sono le loro esperienze? Le loro esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini lì, la loro umanità stessa.
"
don giussani da: Tracce di esperienza cristiana
2°esempio: "un ragazzo disadattato dopo averla incontrata (Delbrel),  illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere" delbrel
3°esempio: «25 marzo 1988, padre Aldo Trento non dimentica questa data, incontra don Giussani e gli dice piangendo che vuole farla finita. «Lui mi ha risposto: bene, io ora ti tengo con me. Mio fratello voleva farmi ricoverare in ospedale, ma Giussani mi ha portato con sé per mesi. Diceva che era certo che quella malattia era per un progetto che Dio aveva su di me. Io stavo come un cane, ma mi sono fidato. Un giorno mi ha annunciato: "Ora è tempo che parti per la tua missione". E io sbalordito: ma dove vado, cosa annuncio, io che ho solo voglia di essere morto? "Io mi fido di te", mi ha risposto. E sono partito».
 ptrento                                                                                                     a P.

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santi, gesù, carron

sabato, 01 marzo 2008


Lo sguardo cristiano
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Se noi, attraverso quello che facciamo, non portiamo quello sguardo attraverso cui noi siamo stati guardati, siamo come tutti. Come dice quell'espressione stupenda di don Giussani: «Uno sguardo che dà forma allo sguardo». Questo è il cristianesimo!
Julián Carrón Tende Avsi 2006/2007 e degli Avsi Point - Milano, 18 novembre 2006 - Tracce n. 11,2006
 Don Giussani

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cristianesimo, giussani, carron

martedì, 29 gennaio 2008
La religiosità


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"La religiosità è riconoscere il Mistero, è la conoscenza, fino in fondo del reale. Scopriamo la religiosità soprattutto da come ci mettiamo nel reale e da come viviamo il reale fino a riconoscere il mistero presente. Come viene incontro il Mistero? Attraverso persone, avvenimenti, circostanze.
Ogni pezzo del reale è la modalità con cui Lui mi chiama, perché ogni cosa è segno. Segno di Colui che è la consistenza di tutto. La religiosità non è altro che la dipendenza da Dio. Soltanto coloro che si mettono in gioco con le loro domande,potranno sorprendersi di chi è Dio. Soltanto chi guarda il buio senza fondo potrà scoprire che al fondo c’è un Tu che fa rinascere.”
Don Carron giornata inizio d’anno Lombardia 2007

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carron, senso religioso

lunedì, 28 gennaio 2008
L’istintività
mezzo per arrivare a riconoscere Cristo


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1) L’istintività. E’ ciò che mi trovo addosso, ciò che mi determina, mi attrae, mi stimola. Proprio da questo l’uomo è introdotto al servizio della realtà: da un complesso di dati da cui non può prescindere”.
Perciò per don Giussani l’istintività non è un ostacolo, qualcosa da buttare via, ma un mezzo, una cosa di cui servirsi, da cui non si può prescindere perché è proprio da questa che l’uomo è introdotto al servizio della realtà. La prima reazione che ci viene è strapparci di dosso l’istintività. Come questa mattina il nostro bisogno lo vorremmo buttare via perché lo consideriamo una debolezza. Adesso vogliamo buttare via l’istintività perché ci spinge a prendere ciò che abbiamo davanti in modo diverso.
Don Giussani davanti a una cosa così dice: “Ma come è umana la mia umanità!”. Invece di buttarla via, la questione che l’istintività deve far sorgere è: perché mi è data questa umanità? Se Dio ha messo lì tutto questo complesso di dati, perché sono lì? È per un bene. È la positività con cui don Giussani guarda qualsiasi dato del reale, qualsiasi cosa data da un Altro, è questo sguardo di simpatia per l’umano, per tutto l’umano che c’è in noi.
“Siccome questo è un momento drammatico sempre - continua la nostra amica - io vorrei che non ci fosse neppure qualche cosa che mi attira, che passa davanti e mi colpisce, non vorrei sentire così tanto il fascino delle cose, dei volti, per non rischiare di sbagliare”. Sembra umanissimo: uno vuole amare e non
vuole sbagliare, e allora per non sbagliare la prima cosa che ci viene è non volere il fascino delle cose, dei volti, si vorrebbe cancellare la bellezza che mi attira.
Prima abbiamo fatto fuori l’istintività e adesso facciamo fuori la bellezza, sempre per lo stesso motivo:strapparci il dramma del vivere!
Guardate come don Giussani svela la verità di ciò che c’è dentro, che c’è dietro questo: se uno vuole bene a una persona, d’impeto accetta di sacrificarsi per lei, questo è naturale. Eppure per la resistenza che è in noi rifuggiamo dal sacrificio.
 La resistenza non è resistenza al sacrificio, ma è una resistenza alla bellezza,
è una resistenza al vero. Non volere il vero, questa è la presunzione sterminata del peccato originale: si chiama menzogna. La resistenza al sacrificio è per un attaccamento a una menzogna, per il cedimento a una menzogna, è perché siamo mentitori. La nostra è una resistenza alla bellezza, alla verità. Noi
cominciamo a difenderci dalla bellezza perché la bellezza ci mette in moto, ci richiama a qualcos’altro.
Giussani diceva sempre di non censurare mai la nostra umanità, anzi dice che è proprio questa che ci porta al riconoscimento di Cristo.
È vero questo perché io sono colpito se c’è un luogo che non ha paura della mia umanità. Lui ci ama e non ha paura della nostra umanità. Don Giussani dice di guardare con simpatia la nostra umanità perché questo, come abbiamo visto stamattina, è indispensabile per il riconoscimento di Cristo. Abbiamo bisogno di tutte e due le cose: della nostra umanità e del fascino di una bellezza che ci attira.
Se uno non sente il fascino delle cose e dei volti vuol dire che non sentirà neanche il fascino di Cristo. È importantissimo capire bene queste cose perché a volte davanti alla paura dello sbaglio la tentazione è far fuori la propria umanità. Ma se io faccio fuori la mia umanità divento un sasso. Se io taglio, stronco la mia umanità come posso commuovermi davanti a Cristo, come posso essere trascinato da Cristo?
Per questo non basta sostituire l’umanità con i principi, come diceva Eliot: “I nostri principi non ci rendono veramente comprensibile quel tutto che governa il nostro attaccamento alle cose più di quanto un frammento di brandello umano riesca a comunicarci quella viva bellezza della carne che tanto amiamo”. “I sensi che Dio ha creato – dice ancora Paul Claudel – sono nostri servitori che percorrono l’intero mondo fino a quando non trovano la bellezza”.
Tutto questo ci è dato per trovare la bellezza, per riconoscerla. Io non posso prescindere dalla mia umanità, dalla mia istintività perché è quello che mi determina, mi attrae, mi stimola, mi introduce al servizio della realtà.
Occorre adesso domandarsi perché mi è data.
“2) Tale attrattiva, stimolo, impulso contingente hanno un fine. Perciò il secondo fattore è la coscienza del fine proprio a questo fascio di istintività. La natura umana infatti ha come fattore del suo dinamismo non solo la sua urgenza ma anche la consapevolezza dello scopo, di quell’urgenza stessa”.
Io che ho questa istintività non sono soltanto istintività, ma ho anche la consapevolezza dello scopo per cui ce l’ho, e so che questa energia, questo impeto è fatto per un fine. L’unica cosa che non posso fare è bloccare l’impeto che mi rimanda oltre per evitare il sacrificio che comporta, il dramma in cui mi mette.
Invece tante volte quello che succede è che, come dice ancora la nostra amica: “Tante volte io riduco il desiderio a voglia e Cristo a regola”. Il desiderio ridotto a voglia, istinto, reazione. Ma se il mio desiderio è soltanto voglia senza uno scopo, se questa istintività – che per il fatto di essere all’interno del mio io ha il respiro dell’infinito – è ridotta a voglia e Cristo si riduce a regola, è normale che uno ha paura. Resta soltanto il moralismo: bloccare l’istintività per evitare di andare contro la regola!
L’uomo, a differenza degli animali e delle altre cose, è consapevole del rapporto che passa tra il suo emergente istinto e il tutto, cioè l’ordine delle cose”.
Cioè l’istinto non può essere staccato dalla totalità dell’io, con tutto il bisogno infinito che ha dentro, perciò non c’è soltanto voglia. Io sono questa istintività che ha la coscienza del fine, che ha tutta l’apertura dell’infinito. Nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito.
Qual è allora il fine di questa istintività, di questa urgenza?
L’ordinare l’istinto allo scopo (cioè al Tutto) è il fondamentale dono di sé al tutto: è il cosiddetto dovere, la cui essenza quindi non può essere che amore, cioè consegna di sé”.
Perciò questa istintività, urgenza, energia, questo complesso di dati cerca la vita per darsi, per ordinarlo al tutto, perché è nel darsi al tutto che l’uomo si ritrova, come l’esperienza amorosa suggerisce. “L’amore
– dice Papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – è estasi. Ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé”.
La questione è che la mia energia, tutto il mio desiderio di pienezza con la mia istintività trova compimento e questo soltanto, questa è la proposta, soltanto trova compimento nel darsi al tutto, nel darsi all’infinito. Siccome non c’è niente di nostro al mondo, il desiderio di possesso, la volontà di possesso diventa lo spunto per incominciare il lungo cammino al tutto.
 È questo che noi non siamo in grado tante volte di fare e perciò o scivoliamo nell’istintività o stronchiamo la nostra umanità e tante volte
come ci sembra misterioso questo cammino, questo momento in cui siamo, nel tentativo di comprenderlo pensiamo che prima c’è il distacco e poi avremo queste cose. Invece no, non prima c’è il distacco e poi c’è la verità, ma c’è la verità e quindi il distacco.
Questa è la pretesa di Cristo: che è soltanto perché c’è la verità, perché c’è la verità che compie, dove l’uomo può vedere compiuta tutta la sua vita, tutta la sua affezione, che può rapportarsi in un modo vero con tutto.
Guardate cosa racconta un universitario nostro amico della sua reazione davanti a una proposta indecente: “Era bella, stavo per dirle di sì, volevo dirle di sì, ma quando ho iniziato a risponderle mi sonovenute le lacrime agli occhi; mi sono fermato un attimo e ho pensato alla giornata d’inizio, al fatto di darsi alla compagnia dei miei amici, e così le ho detto di no perché le volevo bene ed ero convinto che era la cosa più istintiva senza ragione che potessimo fare”.
Questo non succede soltanto con il rapporto con una persona, succede con il rapporto con tutto, con il rapporto con le cose. Mi dicevano un gruppo di amici: “Davanti al tentativo di vivere il potere o gli interessi come possiamo vivere in modo da non soccombere al potere o agli interessi?”. Sapete cosa gli horisposto? Ho parlato della verginità.
È soltanto se c’è la verità, se c’è Cristo, se c’è qualcosa che compie la vita più di ogni altra cosa che uno può vivere in un rapporto di verità con tutto, con l’altro, con gli interessi, con il potere e con le cose.
Avremo il coraggio qualche volta di fare la verifica di questa proposta di Cristo? Di verificare fino in fondo se la proposta di vita che Cristo ci offre come compimento del nostro umano e perciò della nostra affezione è in grado di rispondere? È soltanto la verità, è soltanto la bellezza di qualcosa che vivo che rende possibile non cedere all’istintività. Non si tratta di stroncare o di censurare, ma di ordinare tutto allo scopo, di avere qualcosa che sia più potente, che abbia un’attrattiva più grande, per cui tutto il mio essere con tutte le mie energie sia calamitato.
Non è umano dare se stessi se non ad una persona.
Il tutto, in ultima analisi, è l’espressione di una persona: Dio. Perché? Perché l’unico che corrisponde a tutto il mio desiderio di infinito, a tutta la mia esigenza di felicità, a cui mi spinge tutta la mia umanità, è soltanto questo che può ordinare tutto. Al di sopra dell’attività dell’anima vi è qualcosa di più profondo ed essenziale: è quando questo istinto profondo è ordinato, è orientato verso Dio, allora tutto il resto è ordinato. Ma se questo istinto profondo si distoglie da Dio, tutto il resto ne è distolto, che l’uomo se ne accorga o no. Ma Dio, il Mistero, intanto rimane lontano, astratto.
Per questo occorreva l’incarnazione, occorreva, come dice Leopardi, che la Bellezza (con la B maiuscola) si “vestisse di sensibil forma”, diventasse carne; occorreva una presenza affettivamente attraente per attirare tutta la mia energia, tutta la mia affezione, tutto il mio desiderio verso di Lui.
Per questo l’unica speranza è questa: Cristo ci trae tutto, tanto è bello. Senza di questo possiamo sbagliare finché vogliamo o possiamo censurare o possiamo stroncare, ma non risolviamo niente perché né l’istintività né il moralismo possono risolvere il problema della persona umana. Il problema di qualcosa che riesca veramente a rispondere in modo adeguato a tutte le esigenze della vita. Per questo senza la bellezza di Cristo presente che ci “trae tutto” non c’è possibilità di compimento dell’umano e diventiamo persone affettivamente compiute.
La vita dell’uomo - diceva S. Tommaso - consiste nell’affetto che principalmente la sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione. Dov’è la vera soddisfazione lì è la risposta al problema affettivo
dell’uomo, perciò è soltanto un cristianesimo come bellezza, come attrattiva l’unico in grado di rispondere alla sfida dell’uomo, l’unico in grado di fare fronte, di affrontare questa esigenza di totalitàche il cuore ha. Per questo è l’unico in grado di vincere la lontananza se il cuore cede alla sua attrattiva.
Senza Cristo non c’è pienezza e perciò non c’è verginità che consenta un rapporto vero con tutto, con le cose, con le persone, con la moglie, con i figli, con quelli che lavorano con te, senza che il potere decida tutto. Per questo è inutile tutto il moralismo perché prima o poi soccombiamo.
Per questo il Papa usa in tante occasioni la parola “attrae”: il Dio incarnato ci attrae. E ripete in continuazione il verbo attrarre, il verbo attirare. S. Agostino dice, citando Virgilio: Ciascuno è attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto. A maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo.
La vita è darsi, amare Cristo, trovare in Lui soddisfazione, e per questo se ridotto soltanto a regola e non questa presenza affettivamente attraente è impossibile che compia affettivamente l’uomo.
È qui dove si vede la portata della promessa di Cristo, perché quando uno ha provato che niente soddisfa incomincia a capire che forse conviene aderire a Lui. Quando uno ha sentito parlare di una promessa di infinito e di felicità che si accende con l’innamoramento e della grave incapacità dell’altro di soddisfare questa promessa, si rende conto del fatto che da questa ferita scaturisce la domanda di Cristo.
Come scriveva la nostra amica: “Queste cose mi hanno molto toccato e non smetto di ripensarci quanto sono vere e quanto brucia la ferita di una promessa insoddisfatta. Ognuno di noi può pensare a mille situazioni, a mille conferme di questa grande verità, ma ti vorrei chiedere come si fa a tenere aperta questa ferita? Mi pare umanamente insopportabile sostenere una posizione così. Una promessa ha bisogno di essere compiuta prima o poi, e se il poi è troppo lontano nel tempo l’attesa si fa difficile. Io personalmente cado regolarmente in questi due opposti: o mi anestetizzo cercando soddisfazione in mille attività, oppure affiora il cinismo, il dubbio che una vera umanità diversa non sia possibile”.
Senza affrontare questo è impossibile che uno prima o poi non si domandi: ma Cristo la promessa è in grado di compierla? È qui che siamo di nuovo chiamati a un salto in questo rapporto con Cristo, è qui dove si vede la promessa: Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà dell’uomo e ponendo se stesso al cuore delle stesse esigenze umane si colloca con pieno diritto come la loro radice vera.
In tal modo Gesù rivela la portata della promessa: Gesù ha la pretesa perché è soltanto seguendo Lui che l’uomo può trovare veramente la risposta.
Come dice S. Gregorio di Nissa: “Solo il Bene eterno (con la B maiuscola) è veramente dolce e desiderabile e amabile. Il suo godimento diviene sempre di più l’impulso a un desiderio più grande”.
Il desiderio ogni volta che è saziato produce un nuovo desiderio di una realtà superiore. L’anima si protende in un desiderio sempre più forte. Soltanto chi la verifica  vede che non deve stroncare il suo desiderio ma che miracolosamente appare quello che dicevamo ieri: la conversione del desiderio.
Uno incomincia a desiderare di sorprendere incominciando a desiderare ciò che lo compie, incomincia a desiderare ogni volta di più quel bene, quella presenza in cui il cuore trova quella soddisfazione non per appagarlo, ma per desiderarlo sempre di più. Ma è una sfida così sconvolgente, così drammatica che
soltanto se siamo in grado di accettare questa sfida possiamo vederne il compimento.
Concludo con quello che dice Giussani alla fine di questo capitolo bellissimo:
Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all’umana libertà o per eliminare l’umana prova. Egli è venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale… Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla
religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione”.
L’amore, la politica, il lavoro, tutto diventa confuso se non si vive bene questa religiosità. Per questo la vita è un cammino, è una tensione. La concezione della vita di Gesù Cristo è essenzialmente una tensione, una lotta, un camminare. “Bestiali come sempre - dice Eliot - carnali, egoisti come sempre, interessati e
ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi,tornando, eppure mai seguendo un’altra via”.
don Carron da: Esercizi della fraternità 2007

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giussani, carron, istintività

martedì, 15 gennaio 2008

Sfida al nichilismo

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Autore: Corradi, Marina  Curatore: Buggio, Nerella
Fonte: Avvenire, 21.02.2006
Carròn: non orfani di Giussani. Niente meno di Dio basta all'uomo


Un anno dopo la morte di don Giussani. «È stato padre di molti», aveva detto l'allora cardinale Ratzinger nell'omelia dei funerali in Duomo, celebrati insieme all'arcivescovo Tettamanzi. Ma: «Non ci siamo sentiti orfani», scrive in una lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrón, successore di Giussani alla guida del Movimento. Ripensi a quanta gente gremiva il Duomo quel giorno di un anno fa, e quanto commossa. Eppure, quell'affermazione quasi fiera: non siamo orfani, «un'eredità presente continua a sfidarci».

Oltre la morte - che spesso invece lascia solo meste commemorazioni. Dov'è per voi ora, don Carrón, la presenza di Giussani?
Lo stesso Ratzinger in quell'omelia aveva detto che Giussani non ha legato le persone a sé, ma a Cristo, e così ha legato i cuori. È questa presenza di Cristo che noi vediamo all'opera tra di noi in quest'anno, in un modo che ci stupisce: per la nostra unità, per l'intensità della vita fra noi, per ciò che continua a accadere. L'eredità di Giussani è viva, la sua presenza permane.

Lei si è detto grato a Giussani di averla resa consapevole di tutta la profondità del desiderio dell'uomo. È l'ampiezza di questo desiderio, ciò che dell'insegnamento di Giussani continua a attrarre i giovani?
Sì, perché i ragazzi hanno ancora vivo tutto il desiderio nel cuore. Questo richiede che si sia all'altezza di tale desiderio. È difficile, ormai, incontrare un adulto che a 40 anni non sia scettico. I ragazzi stanno a guardare, e quando vedono che una dopo l'altra tutte le loro aspettative di felicità non hanno compimento pensano che, forse, non c'è una risposta, e si rassegnano. Trovare una persona che vuole vivere con intensità per tutta la vita non lascia indifferente chi abbia a cuore la propria felicità: Giussani è stato questo.

Riprendendo un tema a lui caro, lei ha scritto recentemente che viviamo in una cultura che ha dimenticato il Mistero, e ha ridotto la realtà alla sua apparenza. In un nichilismo senza inquietudine. Come è possibile reagire?
Solo qualcosa di reale e presente, in grado di trascinare il cuore, può sfidare il nichilismo. La gente è sempre più apatica, perché mancano proposte che affascinino l'Io. Ma è solo quando il Mistero rivela il suo volto che l'uomo trova la chiarezza e l'energia per aderire.

Abbiamo bisogno del Mistero presente, di una presenza viva di cui innamorarci. Ci vuole un'attrazione carnale, come quella del bambino per la madre. Niente di meno basta all'uomo.

E come è possibile innamorarsi di Cristo in questo modo?
Ci occorre la presenza di un altro uomo. Occorre che il Mistero sia diventato carne. Questo è il cristianesimo, come ha detto Benedetto XVI nella Deus caritas est: i concetti che erano astratti, in Cristo si sono fatti carne e sangue. Questo realismo inaudito, questo coinvolgimento con il Mistero è la sola possibilità di essere salvati. Nessuna riduzione del cristianesimo a spiritualismo o etica è in grado di ridestare gli uomini. Giussani ha ripetuto mille volte una frase di Giovanni Paolo II: «Noi crediamo in Cristo morto e risorto, presente qui e ora». Il "qui e ora" è la contemporaneità a ogni uomo. E, come afferma la Veritatis splendor, la contemporaneità di Cristo all'uomo si chiama Chiesa. Il suo Corpo è segno tangibile e storico, che porta nel grembo il Mistero.

Eppure, anche fra noi cristiani c'è spesso malinconia e quasi senso di sconfitta, come se la pienezza promessa sfuggisse sempre.
Proprio per questo ci occorrono degli uomini che testimonino questa pienezza per tutta la vita. Ci occorrono dei testimoni. Giovanni Paolo II lo è stato, Giussani fino alla fine ci ha mostrato che una pienezza di vita è possibile. Il cristianesimo è in grado di abbracciare tutto l'umano e portarlo a compimento, senza alcuna riduzione.

Non è il senso, quest'ultimo, della Deus caritas est?
Infatti: nell'enciclica il Papa dimostra come l'esperienza cristiana viva dialoghi con Nietzsche, e affronti l'eros, senza togliere niente all'intensità del desiderio dell'uomo. Ma è accaduto in passato che il cristianesimo fosse ridotto a morale o a poco di più di un discorso corretto. Come disse Giovanni Paolo II: abbiamo cambiato lo stupore del Vangelo con delle regole. E dunque leggendo questa enciclica, che ci riporta alla novità dell'inizio, ci stupiamo. Così come stupiva l'inizio. È lo stupore del Vangelo. Davanti alla capacità di Cristo di rispondere agli uomini, di perdonare, alla sua tenerezza non era possibile non dire: non abbiamo mai incontrato un uomo come questo.

Il contributo del Movimento - lei scrive - è mostrare la ragionevolezza della fede. In che modo affrontate oggi questa sfida?
Occorre intervenire su questa atrofia spirituale, per cui in molti hanno dimenticato il loro desiderio ultimo di felicità. È l'apatia che spesso gli insegnanti vedono negli studenti, quasi non capissero più la ragione di studiare; è la fatica nei matrimoni e in famiglia. È l'ora di mostrare un cristianesimo non ridotto nella sua natura. Ma il problema è di metodo: bisogna presentare la proposta cristiana rendendo possibile la verifica della sua verità, e mostrando la ragionevolezza dell'adesione.

Dunque è una questione che riguarda l'educazione.
L'educazione è per noi certamente l'emergenza più drammatica. Stiamo riproponendo ovunque Il rischio educativo di Giussani. Occorre tornare a educare, contro quello che Augusto Del Noce chiamava nichilismo gaio, e che è l'assenza del «cor inquietum» di S.Agostino. Solo qualcosa di presente e di reale può ridestarci. Questa è la battaglia.
Il Papa recentemente ha accostato nichilismo e fondamentalismo, quali comuni minacce per l'uomo. Come guarda all'ondata di violenza anti-cristiana in alcuni Paesi islamici?
La prima cosa è non sottovalutare il pericolo di questa minaccia. In ogni caso, quanto sta accadendo è occasione per approfondire la coscienza della nostra identità, nella consapevolezza che questo è l'unico modo per vivere la testimonianza cristiana, come ha ricordato il Papa dopo la morte di don Santoro: «Il Signore faccia sì che il sacrificio della sua vita contribuisca alla causa del dialogo fra le religioni e della pace tra i popoli». Questo non toglie che si facciano tutti gli sforzi per evitare il dilagare della violenza, e che si debba essere attenti alla tutela della libertà religiosa da parte delle autorità dei singoli Paesi e delle istituzioni internazionali.

Come guarda all'Italia nell'imminenza delle prossime elezioni?
Rispetto alla crisi profonda di cui ho detto, non ci aspettiamo dalla politica la risposta, ma speriamo in una politica che dia spazio a quei soggetti sociali che possano offrire un contributo nell'affrontare questo disagio. Una politica che non sia statalismo, che non tagli le gambe all'iniziativa della società.

Non teme che l'Italia possa affrontare un'offensiva laicista come quella della Spagna, il suo Paese?
Zapatero in Spagna ha incontrato poche resistenze. In Italia c'è una maggiore tenuta del corpo intermedio della società. Certo, se non si affronta l'emergenza educativa, il rischio c'è. C'è una spinta forte nella cultura dominante in Italia, ed è la pretesa di assoluta autonomia dell'uomo, come si è visto nel referendum sulla legge 40. In questo senso la sfida del Movimento è seguire la eredità che ci ha lasciato Giussani: educarci a sentirci figli, e dunque a convertirci continuamente. Che è anche il solo modo per non invecchiare.

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chiesa, nichilismo, carron

domenica, 30 dicembre 2007
Julián Carrón su “EL MUNDO” alla manifestazione per la famiglia del 30 dicembre 2007, festa della “Sacra Famiglia”.
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Indiscutibile.
L’appello a intervenire alla manifestazione di questa domenica (30 dicembre) nella Plaza de Colón di Madrid ha suscitato un moto di adesione in moltissime persone,desiderose di riunirsi per testimoniare gioiosamente davanti a tutti il bene che per loro significa la famiglia. Non dovremmo sottovalutare questa risposta. Da decenni continuiamo a ricevere messaggi che vanno nella direzione opposta: molte serie televisive, film e molta letteratura ci mettono davanti il contrario. Davanti a questo impressionante spiegamento di mezzi, parrebbe normale che la famiglia avesse smesso di interessare.
Invece c’è qualcosa che siamo costretti a riconoscere quasi con sorpresa: questo impressionante apparato ha dimostrato di non essere più potente dell’esperienza elementare che ciascuno di noi ha vissuto nella propria famiglia, l’esperienza di un bene. Un bene del quale siamo grati e che vogliamo trasmettere ai nostri figli per condividerlo con loro.
Qual è l’origine di questo bene di cui siamo così grati?
È l’esperienza cristiana.
Non è sempre stato così, come testimonia la reazione dei discepoli la prima volta che sentirono Gesù parlare del matrimonio. “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “è lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?”. E aggiunse: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. I discepoli gli dissero: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. (Mt 19,3-6.10)
Non dobbiamo sorprenderci, quindi.
La stessa cosa che a tanti oggi, e spesso a noi stessi, appare impossibile, tale appariva anche ai discepoli. Solo la grazia di Cristo ha reso possibile vivere la natura originale della relazione fra l’uomo e la donna. È importante guardare a questa origine per poter rispondere alle sfide che dobbiamo affrontare. Noi cattolici non siamo diversi dai più; molti fra noi hanno problemi nella vita familiare. Dolorosamente constatiamo come fra noi vi siano molti amici che non sono perseveranti di fronte alle numerose difficoltà esterne e interne che attraversano. E quanto a noi, non è sufficiente conoscere la vera dottrina sul matrimonio per resistere a tutte le tentazioni della vita. Ce lo ha ricordato il Papa: “Le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (Spe salvi, 25).
Dobbiamo far nostro quello che abbiamo ricevuto per poterlo vivere nella nuova situazione che siamo tenuti ad affrontare, come ci invita Goethe: “Ciò che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente”.
Per riappropriarci veramente dell’esperienza della famiglia dobbiamo imparare che “la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna – come ha detto Benedetto XVI – affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da quì. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?”. Davvero la persona amata ci rivela “il mistero eterno del nostro essere”. Nulla ci risveglia talmente, e ci rende così coscienti del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto l’esperienza di essere amato. La sua presenza è un bene così grande che ci fa rendere conto della profondità e della vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Le parole di Cesare Pavese sul piacere si possono applicare alla relazione amorosa: “Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito”. Un io e un tu limitati si suscitano reciprocamente un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal proprio amore verso un desiderio infinito.
In questa esperienza, a entrambi si svela la propria vocazione.
Per questo i poeti hanno visto nella bellezza della donna un “raggio divino”, ossia un segno che rimanda più oltre, a un’altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto al suo limite naturale. La sua bellezza grida di fronte a noi: “Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?”. Con queste parole il genio di C. S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, di cui la relazione fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cede all’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. E la relazione finisce per diventare insopportabile.
Come diceva Rilke, “questo è il paradosso nell’amore tra l’uomo e la donna: due infiniti trovano due limiti. Due infinitamente bisognosi di essere amati trovano due fragili e limitate capacità di amare. Solo nell’orizzonte di un Amore più grande non si divorano nella pretesa, né si rassegnano, ma camminano insieme verso la pienezza di cui l’altro è segno”.




La più bella esperienza, innamorarsi
In questo contesto si può comprendere l’inaudita proposta di Gesù perché l’esperienza più bella della vita, innamorarsi, non decada sino a trasformarsi in una pretesa soffocante. “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,37.39). Con queste parole Gesù rivela la portata della speranza che la sua persona costituisce per coloro che lo lasciano entrare nella propria vita. Non si tratta di una ingerenza nei rapporti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo ha potuto ricevere: se non si ama Cristo – la Bellezza fatta carne – più della persona amata, questo rapporto appassisce. È Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale i due reciprocamente si rinviano e nella quale il loro rapporto si realizza pienamente. Solo permettendogli di entrare in essa, è possibile che la relazione più bella che accade nella vita non decada e col tempo muoia. Noi sappiamo bene che tutto l’impeto col quale uno si innamora non basta a impedire che l’amore, col tempo, si corrompa.
Questa è l’audacia della sua pretesa. Appare quindi in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire una esperienza del cristianesimo per la pienezza della vita di ciascuno. Solo nell’ambito di questa relazione più grande è possibile non divorarsi, perché ciascuno trova in essa il suo compimento umano, sorprendendo in se stesso una capacità di abbracciare l’altro nella sua diversità, di una gratuità senza limiti, di un perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura, sarà difficile, se non impossibile, che la portino a compimento felicemente. Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione – della quale sono i protagonisti principali –, pensando che appartenere all’ambito della comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà. In questo modo si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro risveglia costantemente in me, cioè verso Cristo. Così si eviterà di passare, come la Samaritana, di marito in marito (cfr. Gv 4,18) senza riuscire a soddisfare la propria sete. La coscienza della sua incapacità a risolvere da sola il proprio dramma, nemmeno cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile da non poter fare a meno di gridare: “Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete” (Gv 4,15).
Senza l’esperienza di pienezza umana che Cristo rende possibile, l’ideale cristiano del matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile da realizzare. L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. E in realtà esse sono frutti tanto gratuiti di una intensità di esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la testimonianza che “a Dio nulla è impossibile”. Solo una tale esperienza può mostrare la razionalità della fede cristiana, come una realtà che corrisponde totalmente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto in questo modo costituisce la migliore proposta educativa per i figli. Attraverso la bellezza della relazione fra i genitori, essi vengono introdotti, quasi per osmosi, al significato dell’esistenza. Nella stabilità di questa relazione la loro ragione e la loro libertà vengono costantemente sollecitate a non perdere una tale bellezza. È la stessa bellezza, che risplende nella testimonianza degli sposi cristiani, che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare
.



Julián Carrón

Siamo di fronte a un fatto strano.

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famiglia, rilke, lewis, carron

La legge dell’esistenza è il dono di sé
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«L'obiezione sull' eros che fa Nietzsche e che il Papa cita nell' enciclica Deus caritas est si potrebbe allargare a tutto il resto dell'esistenza. «il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino
In questo contesto sarà impossibile resistere alla pressione della mentalità che ci circonda, se noi non facciamo un altro tipo di esperienza. Non basta opporre il discorso giusto a quello sbagliato per vivere in questa situazione. Occorre un'esperienza diversa, un'esperienza di pienezza, altrimenti non resisteremmo e prima o poi soccomberemmo anche noi alla mentalità di tutti.
Questa è proprio la sfida e don Giussani vi risponde dicendo: «Quanto più uno lo accetta [di darsi], tanto più sperimenta già in questo mondo [attenzione alle parole!] una maggiore completezza»:è un'esperienza, non nell'al di là, ma in questo mondo. Sono parole che invitano all'esperienza, alla verifica di questa legge: che il darsi porta alla vita una maggiore pienezza. Non è ragionando, non è cercando di capire il paradosso che uno va avanti, ma guardando l'esperienza. Non ci sarà nessuno che ci potrà convincere a freddo, o con dei ragionamenti, di questo paradosso: è soltanto se uno vede che quanto più ama, tanto più è se stesso, che la vita è dono di sé e che in questo darsi non si perde, ma si guadagna. Si intuisce questo quando, in un rapporto amoroso, il darsi al tu è la pienezza del proprio io; chiunque abbia amato lo capisce. Chiunque abbia amato qualcuno capisce che più ama, più dona sé all'altro e più pienezza sperimenta.
Questo ci fa capire qual è la strada per mettere in discussione il modo solito di muoversi in cui noi diventiamo la misura. Tante volte sentiamo dire: «Non lo faccio fin quando non lo capisco», cioè prima bisognerebbe capire e poi fare. No! Perché noi non possiamo capire se il nostro criterio è la nostra ragione come misura; al contrario, è l'esperienza che rende evidente a me stesso questa legge. E per questo che don Giussani ha creato un gesto per aiutarci a capire questa legge partendo dall' esperienza: la caritativa. Egli dice che per capire non basta sapere, occorre fare.
Questo è il valore educativo, per tutti, del gesto della caritativa, dove uno impara, verifica la legge dell'esistenza come dono.»
J.Carron esercizi di fraternità 2007

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benedettoxvi, giussani, carron

domenica, 16 dicembre 2007

Soli con la nostra autosufficienza
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 C’è molto di peggio dell’essere bisognosi: essere da soli con la nostra autosufficienza. Pensate per un istante se  preferite aver bisogno  delle persone che amate, della compagnia dei figli, degli  amici, o se preferite  essere da soli.

J.Carron esercizi di fraternità 2007

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solitudine, carron

mercoledì, 07 novembre 2007
Chi educa
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Ti educa non uno che ti spiega la vita
guardando i tori dagli spalti”, che ti dà istruzioni per l’uso, ma uno che vive davanti a te seguendo la modalità attraverso cui il Mistero si rende presente nel reale: ti può introdurre nel reale, perché lui stesso segue il Mistero nel segno. Questa è l’educazione, la funzione educativa della Chiesa, in continuità con la funzione educativa di Cristo: educare il senso religioso, educare alla religiosità,cioè educare a entrare nel reale fino al suo sorgere, fino al Mistero.
Può educare solo chi vive questa religiosità, cioè chi penetra la
realtà fino al suo cuore, chi ci porta fino al fondo dell’apparenza,chi arriva fino al Tu. Solo chi vive questo educa, vale a dire può far venire fuori l’io, perché l’io non viene fuori attraverso istruzioni per l’uso, ma soltanto davanti al Mistero. Chi ha una capacità di fascino tale da prendere tutto il nostro io, se non il Mistero? Chi ci corrisponde, se non il Mistero? Per questo, se non c’è chi mi accompagna e mi mette in rapporto con il Mistero, non viene fuori il mio io. Per questo, quando ci sostituiamo all’altro, non educhiamo: creiamo dei soldatini, che è quello che possono produrre le istruzioni per l’uso, ma non permettiamo che venga fuori l’io.
Solo il Mistero è in grado di suscitare l’io nella sua interezza.
Noi non accompagniamo dunque facendo i gestori, i “mediatori”
degli altri nel rapporto con il Mistero. Il “mediatore” ti vuole
risparmiare la vertigine del Mistero («Ci penso io». «No, grazie»), pensa di avere il filo diretto con il Mistero, di sapere già che cosa vuole il Mistero nel rapporto con te. No! L’io è rapporto diretto con il Mistero. Sembra pochissimo quello che dice don Giussani, ma è decisivo. Il mediatore crede di sapere che cosa il Mistero ti riserva.
Ma chi ti risparmia il Mistero, ti prende in giro: è un tentativo
di possesso. C’è un solo vero mediatore: Cristo. Che cosa vuole dire Cristo come figura? Cristo è il mediatore, perché ha vissuto in
prima persona il Suo rapporto con il Mistero, col Padre, e quando
qualcuno ha cercato di staccarlo da questo, come Pietro, lo ha
mandato a quel paese: «Allontanati da me»72. Cristo ha generato i
discepoli, non perché ha spiegato loro delle cose, ma perché ha vissuto in prima persona, fino alla croce, fino all’ultimo istante, il Suo rapporto unico e personale con il Mistero. Il Suo problema non era organizzare la Chiesa, ma vivere la volontà del Padre, e così ha generato la Chiesa, ha generato il popolo, e genera noi.
Il nostro problema non è la gestione o l’organizzazione del nostro popolo: il mio e il tuo problema è vivere! Soltanto chi vive può generare un popolo, può essere veramente  tramite al rapporto diretto con il Mistero, perché mette l’altro in rapporto con Lui. Don Giussani diceva una frase che non mi sono mai più scordato:
«Gesù non legava a sé, ma al Padre»73. E questo è quello che ha detto paradossalmente il Papa di don Giussani, al suo funerale:«Non legava a sé, ma a Cristo, e perciò ha generato un popolo»
Quello che noi abbiamo vissuto è la presenza di Cristo oggi attraverso la figura di don Giussani, che, proprio in quanto ha vissuto così intensamente il rapporto con il Mistero, ci ha educato, con tenacia, a non avere nella vita altro scopo che questo.
Noi possiamo - a immagine di Cristo, nella sequela di don Giussani
- generare, se noi per primi seguiamo, così che siamo facilitati
a riconoscere il Mistero. Il metodo non può essere altro che
seguire uno che segue, guardare uno che guarda, riconoscere tra di noi le persone che vivono così, quelle che il Signore ci dà per facilitare il nostro cammino, per aiutarci, per educarci alla religiosità, fossero anche gli ultimi arrivati. Non è un problema diruoli, è un problema di verità: solo chi vive un rapporto vero con il reale ci educa.
Don Carron: Amici, cioè testimoni L A  T H U I L E  A G O S T O  2 0 0 7

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educazione, carron

sabato, 27 ottobre 2007
Mendicanti davanti ad una Presenza
***
 
luigi giussani e carron 
  don Carron 24 marzo 2007 davanti al Santo Padre Benedetto XVI
 
Da: youluire           
 

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cristianesimo, benedettoxvi, carron

lunedì, 22 ottobre 2007
L’EDUCAZIONE SECONDO GIUSSANI
                     ***
Da: FAMIGLIA CRISTIANA n° 47 - novembre 2005
Con l’uscita dell’edizione italiana del “Rischio educativo”, il libro più originale scritto dal fondatore di CL, il suo successore lancia un appello sull’emergenza-educazione.
Incontriamo don Julian Carron, 55 anni, docente di teologia all'Università di Madrid, che ha vissuto accanto a don Giussani gli ultimi mesi della sua lunga malattia e che gli è succeduto nel marzo scorso alla guida di Comunione e Liberazione. Don Carron, che attualmente vive a Milano e insegna Introduzione alla teologia all'Università Cattolica (la cattedra che fu di Giussani) quest'estate è stato ricevuto dal papa in occasione del Meeting di Rimini. Inoltre per la stima che il Papa ha dimostrato verso il carisma di don Giussani Carron è stato invitato al Sinodo dei vescovi sull'Eucarestia.
Al successore di mons. Luigi Giussani abbiamo posto alcune domande sull'educazione, in occasione dell'uscita del libro Il rischio educativo (Rizzoli), breve e intenso testo di don Giussani in cui emergere tutta l'originalità del suo metodo educativo, che ha saputo risvegliare in moltissimi giovani e adulti il gusto di vivere la fede.

- Don Carron, come ha vissuto quest'anno così intenso?
«E stato davvero un anno decisivo, straordinario: sono successi fatti come la morte di don Giussani e di papa Woityla e l'elezione di Benedetto XVI che ci hanno segnato profondamente».
- Come vive le sue giornate il successore di don Giussani?
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Dedico la mattina allo studio e alla preparazione degli incontri, il pomeriggio ricevo le persone o sono in Cattolica dove insegno, seguo gli studenti, partecipo alla vita del movimento».
- Nel suo recente intervento al Sinodo dei vescovi lei ha detto che la Chiesa, attraverso l'eucarestia, incide nella storia perché suscita ed educa persone che si sono lasciate coinvolgere nella novità della vita di Cristo. Si può dire che l'uomo moderno e la nostra società hanno ancora bisogno di un'educazione che dia senso alla vita?
«Le persone oggi sono alla ricerca di chiarezza e positività perché la vita non diventi una trappola e le circostanze insopportabili. L'uomo moderno ha bisogno di qualcuno che lo introduca in modo ragionevole e positivo alla realtà. La vita si può a mala pena sopportare, oppure si può trovare qualcosa o qualcuno di più grande che ci aiuti a non esserne travolti. Questa domanda, questo desiderio oggi, nonostante tutte le risposte che abbiamo a disposizione, normalmente non trova soddisfazione».
- Al Sinodo lei ha anche sottolineato come nella vostra esperienza l'Eucarestia abbia realmente dato frutti di umanità nuova, per esempio nei luoghi di missione come le favelas del Brasile, i giovani del Kazachistan o i malati di Aids in Uganda. Che rapporto c'è tra queste opere di carità e un testo come Il rischio educativo che ha fatto il giro del mondo e che l’anno prossimo sarà tradotto anche in russo ?
«Siamo stupiti di fronte al fatto che il metodo educativo di don Giussani possa essere utile in situazione concrete così diverse tra loro. Forse è perché questo metodo si rivolge al cuore e risponde al vero bisogno dell’uomo. Stupisce vedere come gli studenti del Kazakistan, pur essendo musulmani, hanno sentito il bisogno di approfondire questa impostazione. Ma la cosa veramente affascinante è che don Giussani - come lui stesso ha sempre affermato - non ha mai voluto creare un movimento ma semplicemente presentare la propria esperienza personale del dramma umano, così come si può trovare anche in un poeta da lui amatissimo come Giacomo Leopardi, in cui vibrano le stesse esigenze. Io sono appena tornato da un viaggio a Salvador de Bahia dove ho visto come questo metodo in azione abbia coinvolto le persone (persino la Banca mondiale!) in modo tale da compiere il desiderio di tutti, coinvolgendo il soggetto nella propria liberazione! »
- Don Giussani ha sempre sottolineato che la fede è un'esperienza, un incontro con un avvenimento. Nel Rischio educativo scrive parole forti: “un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento non c'entra in nessun modo, non c'è, è un Dio che non c'è”. Come si può educare a una fede così?
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E' la cosa più facile del mondo, così come è facile l’esperienza dell’amore: uno resta stupito di fronte al bene che l'altro è per lui! Se di fronte alla bellezza e alla positività dell'incontro con una persona non ci si sottrae - ma si cede a questa attrattiva vincente - si sperimenta la fede come avvenimento, come qualcosa che accade. Io dico che questa è la cosa che convince di più, un po' come la storicità dei vangeli: quello che gli evangelisti raccontano non potevano immaginarselo prima perché era impensabile. Io resto stupito tutti i giorni per il modo con cui i nostri amici affrontano in modo diverso il lavoro, la famiglia, la malattia, una vacanza insieme e come desiderano condividere con tutti la bellezza di una vita così».
- Nel rapporto tra il maestro e il discepolo, il genitore e il figlio, l'insegnante e l'allievo come si salva la libertà?
«Siamo tutti dei poveracci, possiamo solo condividere con gli altri quello che a noi serve per vivere: se qualcuno trova nell'altro qualcosa che gli serve per vivere meglio lo prenda! Questa è l'educazione. L'unica cosa che possiamo fare è offrire all'altro quello che a noi serve al mattino per alzarci di buon umore, per andare a lavorare con letizia, per affrontare questa o quella situazione: ti offro questo se ti può essere utile. L'indottrinamento è la parola più estranea a questo atteggiamento, a questa posizione. Quando uno riconosce che il rapporto con una persona così fa diventare la vita più umana allora uno riconosce in lui naturalmente un maestro, un padre, senza che per questo che l'altro abbia alcuna velleità di convincerlo. San Paolo al proposito ha un'espressione bellissima: “non vogliamo essere padroni della vostra fede ma collaboratori della vostra gioia”; e questa è la definizione più bella del rapporto maestro-discepolo. Diceva don Giussani: "guarda, provo a dirtelo oggi così ma se non riesco a rispondere alla tua domanda, amico, ritorna domani, fammela ancora in modo che io possa cercare di ridirtelo per aiutare il tuo cammino". Questo è il tentativo, tutto il resto è inutile: cercare di imporsi alla libertà dell’altro è inutile come quando compri delle scarpe e sbagli il numero: prima o poi devi cambiarle perché il piede non è a posto. Così l'altro alla tua imposizione educativa prima o poi si ribella».
- Qual è la difficoltà dell'uomo moderno di fronte al fatto religioso, in cosa siamo maggiormente condizionati rispetto al passato?
«La nostra maggiore difficoltà è l'estraneità che abbiamo al Mistero. Siamo stati educati nel razionalismo, usiamo la ragione in modo riduttivo. In un incontro con dei ragazzi ho letto un testo dal Fedone di Platone che conclude dicendo come, davanti al problema della vita, se non si trova una risposta soddisfacente si deve cercare di attraversare “il pelago” con una nave più solida e sicura: la rivelazione di un Dio. Per il grande filosofo dunque la ragione è apertura al Mistero, all'imprevisto. Chi non desidera attraversare la vita in modo sicuro? Oggi nel modo con cui parliamo dei nostri problemi questa apertura all'infinito, al desiderio che il mio cuore ha dell'infinito non c'è, addirittura è negata. Parliamo per un anno ai fidanzati del senso religioso ma, alla fine, essi non hanno capito la natura del loro amore, pensano di rendersi felici da soli, o che la riuscita della loro vita dipenda dal lavoro: mai dal desiderio del loro cuore, che è fatto per l’infinito e a cui può rispondere solo ciò che è più adeguato al cuore infinito dell'uomo. Noi moderni utilizziamo la ragione come misura di tutto il reale impedendo che la ragione ci introduca al Mistero, che riduciamo a un sentimento. Ma la vita senza Mistero è invivibile, ci soffoca e noi non respiriamo più.
- Perché l'educazione è un rischio?
Perché dipende dalla libertà dell’altro. Don Giussani per cinquant'anni ha scommesso tutto sulla libertà, ha corso sempre il rischio della libertà, che è il contrario di ogni tentativo di possesso o indottrinamento. Senza correre questo rischio e senza verifica personale non ci si appropria di ciò che si impara, l'esperienza non diventa nostra. Senza il rischio della verifica personale non c'è educazione. Gesù non ha perso neanche un minuto a fare della propaganda. Diceva: “Venite e vedete”! Corre questo rischio chi è cosciente di proporre una cosa vera: allora si sfida l'altro al paragone perché verità e bellezza non temono la sfida, il confronto e la verifica.
«SE CI FOSSE UNA EDUCAZIONE DEL POPOLO TUTTI STAREBBERO MEGLIO»
Questa frase con cui don Giussani commentò al TG2 i tragici fatti di Nassiriya del 2003 fa da il titolo all’appello internazionale proposto da CL e che raccoglie le firme di molti intellettuali e imprenditori.
L’Italia è attraversata da una grande emergenza. Non è innanzitutto quella politica e neppure quella economica - a cui tutti, dalla destra alla sinistra, legano la possibilità di "ripresa" del Paese -, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l'economia. Si chiama "educazione". Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l'educazione si costruisce la persona, e quindi la società.
Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli.
Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere.

È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell'uomo fosse destinato a rimanere senza risposta.
È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere.
Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell'educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa.
Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti.
Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose.
Perché l'educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. È la strada sintetizzata in un libro cruciale, nato dall'intelligenza e dall'esperienza educativa di don Luigi Giussani: Il rischio educativo.. Tutti parlano di capitale umano e di educazione, ci sembra fondamentale farlo a partire da una risposta concreta, praticata, possibile, viva.
Non è solo una questione di scuola o di addetti ai lavori: lanciamo un appello a tutti, a chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo. Ne va del nostro futuro.

Postato da: giacabi a 18:41 | link | commenti
educazione, giussani, carron

giovedì, 27 settembre 2007

Chi è amico
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Uno è amico se apre questa religiosità, se la ridesta, non se la spegne, non se la blocca, non se la sistema: quest'ultimo non è un amico, ma un connivente. Domandiamoci quanti amici veri abbiamo, cioè qualcuno che ci ridesta costantemente questo, che ci ridesta la ferita, il dramma del vivere, che ci ridesta la domanda: «Ma a cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?». Chi ci dica così, questo è un amico.

Rimini 4-6 maggio 2007

Fraternità di C.L. Esercizi spirituali

Postato da: giacabi a 15:22 | link | commenti (2)
amicizia, carron, senso religioso

martedì, 04 settembre 2007
L’Infinito
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 So che desidero l’Infinito, che questo Infinito c’è perché ho sempre la nostalgia di lui, come diceva Lagerkvist, ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualsiasi oggetto, che poi mi lascia insoddisfatto. Questo è il destino dell’uomo, a meno che - come dice L. Wittgestein, nei Diari 1936-37 - “Dio” si degni di visitarlo: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (…) Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire (…) Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti»
Don Carron meeting di Rimini 2006

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