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domenica 5 febbraio 2012

cash jonny

Speciale Johnny Cash
     A man in music

Saremmo qui a parlarne se non ci fosse stato il successo della serie "American"?
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se lo stesso Cash non fosse morto nel periodo in cui veniva assunto a simbolo della musica americana?
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non ci fosse stato il film di James Mangold? Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non fossero stati pubblicati proprio in questi giorni "Personal file" e "American V"?
Probabilmente sì. Saremmo qui a parlarne ugualmente, perchè Johnny Cash è stato molto di più dell'uomo, dell'artista e del mito che è tornato alla ribalta in questi ultimi anni.

1. Inside Johnny Cash

Quella che oggi è una delle più grandi icone della musica americana è stata un “everyman”, un uomo comune.
Un uomo che è passato come tanti su questa terra, ma anche un uomo che ha fatto del suo passaggio un segno distinguibile, un solco netto tracciato prima su un vinile e poi su un territorio i cui confini vanno oltre quelli degli Stati Uniti e toccano l’anima di chiunque abbia orecchie per ascoltare le sue canzoni e la sua voce.

Come vuole il mito americano, ma come volle soprattutto la sua vita, che a vederla col senno di poi sembra intrisa di segni premonitori, John R. Cash nacque il 26 febbraio 1932 da una famiglia di contadini a Kingsland, sperduta cittadina dell’Arkansas.
Nelle vene aveva sangue Cherokee e alle spalle qualche antenato scozzese che aveva attraversato l’Oceano. Radici ideali per l’artista che sarebbe diventato: un songwriter con i piedi ben piantati nella storia. Non un self-made man fattosi dal nulla, ma piuttosto un uomo con un passato, che sul passato avrebbe costruito la sua vita.

Il passato che Johnny Cash si è portato dentro ha trovato nella musica una forma di espressione riconosciuta definitivamente dal sistema quando venne ammesso nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1992 e quando venne premiato con i Grammy Awards per “American recordings” nel 1997, per “Unchained” nel 1998 e per “The man comes around” nel 2003.
Eppure, ben prima di cominciare a registrare e a raccogliere canzoni con il produttore Rick Rubin, Cash aveva assorbito la tradizione americana diventandone parte: sin dai primi 45 giri (“Hey Porter/Cry Cry Cry”, 1955 - “Folsom Prison Blues/So Doggone Lonesome”, 1956) e dall’album d’esordio pubblicati per la storica Sun Records di Sam Phillips (“Johnny Cash with His Hot and Blue Guitar”, 1957), ogni sua canzone era già testimone di una storia.
Una voce giovane ma profonda, intensamente baritonale, un ritmo che si muoveva variando l’andamento del rock’n’roll con un incedere country (il cosiddetto “boom-chicka-boom”) e i continui riferimenti ai treni fecero sì che la sua musica diventasse subito portatrice di un carico non indifferente.
Certo, bisogna risalire all’infanzia e ancora più indietro per capire da dove più o meno consciamente il giovane Cash attingeva: i primi responsabili della formazione del giovane John furono la madre e la radio. È da qui, si sa, che venne a contatto con la tradizione country, folk e gospel, attraverso le voci di The Louvin Brothers, The Carter Family, Jimmie Rodgers, Sister Rosetta Tharpe, The Georgia Crackers, Jimmie Davis e tanti altri, compresa la “race music” trasmessa dalle black stations.
Spesso si trattava di canzoni anonime, reinterpretate da quartetti vocali con pochi strumenti, a volte semplicemente ascoltate con un giradischi o cantate da quei ragazzi che vivevano “across the road”, gli “Williams boys” di cui lo stesso Cash parla introducendo “There’s a mother always waiting at home” in “Personal file”, (2006).


Era una musica fortemente legata alla terra: non solo parlava della terra, ma veniva cantata e quindi diffusa mentre si lavorava la terra. E la famiglia Cash, John compreso, aveva nella terra l’unico mezzo di sostentamento avendo ottenuto dal New Deal del governo Roosevelt venti acri di un campo di cotone a Dyess, nel Nordest dell’Arkansas, vicino alla linea di confine tracciata dal Mississippi.
La terra e il territorio furono il patrimonio in cui il giovane Cash si trovò immerso: un patrimonio povero, spesso piatto e duro da far fruttare, ma che intrise di storie e di riferimenti specifici le sue canzoni. John tradusse il suo mondo in simboli e luoghi fisicamente riconoscibili (treni, fiumi, nomi di paesi, campi, prigioni, personaggi e fatti più o meno reali) e in concetti vissuti concretamente (il lavoro, la povertà, l’ingiustizia, la morte, la fede, la salvezza).
                         
Dalle prime incisioni per la Sun fino alle ultime prima della morte, la sua musica ha sempre messo l’ascoltatore di fronte ai temi antichi ed essenziali della vita dell’uomo: la sopravvivenza, la dignità, l’amore, la mortalità, la religiosità.
E sin dalla gioventù le sue scelte umane ed artistiche furono votate a risolvere queste questioni. Nel bene e nel male Cash ha sempre tentato di raggiungere una condizione superiore trovandola incarnata nel successo, nella famiglia, nella conversione religiosa, ma anche negli eccessi, nelle donne, nell’alcol e nella droga.
                           
Anche gli spostamenti da Kingsland a Dyess, da Memphis a Nashville, miravano ad un’emancipazione senza però rompere il legame con le proprie origini. Quello che appare il percorso di un giovane ambizioso determinato a lasciare la provincia per raggiungere i grossi centri nevralgici del paese fu in realtà l’esperienza di un uomo che continuò a preferire la terra alla città, la campagna alla metropoli, al punto che in età adulta, quando si trovò nella condizione migliore per scegliersi una casa, abbandonò Nashville, ovvero il luogo ideale per la sua carriera, e optò per Hendersonville stabilendosi in quella che almeno inzialmente appare simile alla “house in the woods” descritta da Henry David Thoreau in “Walden”: per quanto l’abitazione del cantante si sviluppò e divenne poi la famosa House of Cash, con tanto di studi di registrazione, di uffici e di museo, entrambi gli alloggi erano collocati nelle vicinanze di un lago, a stretto contatto con la natura.
Come dire che la vita di Cash partì dalla terra per tornare alla terra: partì da una terra piatta ed dura da lavorare per diventare parte di una terra fertile, dai confini molto più ampi.
 
Cominciò bambino a faticare con le sue mani e con la schiena piegata su pochi acri  ed arrivò anziano ad erigersi con fermezza su un vasto territorio musicale ed umano da lui stesso coltivato e riconosciutogli come suo.
Quello che le sue canzoni contenevano e che lo rendeva subito credibile al pubblico, era questo vissuto, un vissuto basato su un’esperienza nella maggior parte dei casi condotta in prima persona oppure tramandata.
La prima caratteristica che ancora oggi è indiscutibilmente attribuita a Johnny Cash è la sua capacità di suonare “vero”. Valgono le parole di Rick Rubin riportate nel booklet del box-set “Unearthed” (2003): “He has a way of personalizing the music and communicating the emotion of the lyrics that very few people have”, ossia “ha un modo tutto suo di impossessarsi della musica e di comunicare l’emozione della parola che in pochissimi hanno”.
Rubin, che ricordiamolo era stato produttore di tutt’altra musica (Run-DMC, Beastie Boys, Red Hot Chili Peppers e in seguito System of a Down, Rage Against the Machine), ebbe l’intuizione e la fortuna di trovare un songwriter “saggio”, che aveva affinato le sue capacità in cinquant’anni di carriera e che era cosciente delle sue possibiltà, ma una delle caratteristiche di Cash è sempre stata il cantare solo ciò che conosceva o che sentiva estremamente vicino (anche quando Rubin lo invitò ad interpretare pezzi di band come Soundgarden e Nine Inch Nails).

Lo stesso Cash racconta che la prima volta che si presentò agli studi della Sun a Memphis dichiarò di essere un cantante gospel, perché quella era la musica che sentiva più sua. Venne respinto, tornò e si presentò nuovamente a Sam Phillips unicamente con “Hello, I’m Johnny Cash”.
Quelle parole divennero poi simbolo della sua identità, tanto che andarono a intitolare più di un disco e che lo stesso Cash le usò per rivolgersi al pubblico appena salito sul palco. Era come dire: “Ecco quello che sono, ecco quello che vi porto”.
Nel motto “Hello, I’m Johnny Cash” è contenuta una vita intera e oltre: quella frase, usata già prima dallo stesso Cash quando lavorava di porta in porta come venditore per la Home Equipment Company, è diventata una metafora di uno stile e di una carriera, alludendo per estensione anche a ciò che l’artista aveva ereditato e avrebbe lasciato in eredità.
Johnny Cash è sempre rimasto Johnny Cash, con tutte le sue passioni e con tutte le sue contraddizioni.
L’amore per la madre e per la musica gospel lo spingevano ad inserire quasi in ogni disco almeno un pezzo dal contenuto religioso. D’altronde per lui la musica era sbocco ad una lotta interiore, se non addirittura una forma di salvezza e di redenzione: per questo pubblicò dischi come “Hymns by Johnny Cash” (1959), i cosiddetti “Christmas albums”, “The gospel road” (1973), riuscendo solo nel 2003 ad incidere quel disco di canzoni gospel che aveva sempre avuto in mente (“My Mother's Hymn Book”, che raccoglie alcune interpretazioni chitarra e voce dal libro dei canti della madre).

Allo stesso tempo però Cash era facile a sfoghi e posizioni estreme, in contraddizione  con la sua indole sobria e religiosa: dalla celebre serata in cui si scagliò contro l’impianto luci del Grand Ole Opry alla famosa foto del dito medio alzato, scattata ad un concerto nel carcere di San Quentin e poi pubblicata in segno di “ringraziamento” all’establishment di Nashville per il conseguimento del Grammy, le sue posizioni furono sempre nette, discusse e discutibili, ma ferme. Colui che suonava e si mostrava a fianco di disadattati e carcerati, nel 1970 cantò alla Casa Bianca per Richard Nixon e si fece autografare una foto di Ronald Reagan da appendere in casa.

Ci sarebbe da interrogarsi anche su alcune suoi dischi non certo indimenticabili, come qualche “concept album” votato alla causa dei Nativi Americani, ai problemi del suolo americano o al concetto stesso di patria, lavori che oggi suonano datati, ma da cui traspare un’assoluta dedizione ad un’idea di giustizia e di purezza da diffondere attraverso le canzoni.
Fu questo senso dell’etica e della responsabilità che lo portò ad esibirsi nelle carceri: lì furono registrati alcuni tra i suoi più memorabili concerti e ne vennero live album  storici come “At Folsom Prison” (1968) e “At San Quentin” (1969), tra i più venduti della sua discografia. La solidarietà che dimostrò suonando più volte per un pubblico di carcerati gli garantì popolarità, ma soprattutto stima e affetto da parte del pubblico che vedeva in lui un uomo pronto a vivere in prima persona ciò che cantava.
                           
Anche le sue apparizioni cinematografiche più che da una scelta artistica furono dettate da una schietta preferenza umana: nel 1971 interpretò un western con Kirk Douglas, poi partecipò a “The gospel road” e comparve in un episodio della serie “Colombo” di Peter Falk. Più che una qualità da attore, Johnny Cash confermò la sua natura popolare e cercò sul set personaggi e storie in cui riconoscersi, identificandosi con figure a lui non certo estranee come cowboy, fuorilegge e sbandati alla ricerca di una via.
Con lo stesso spirito condusse “The Johnny Cash Show”, un programma televisivo in onda sull’ABC dal giugno 1969 al marzo 1971, durante il quale ospitò musicisti prevalentemente folk (Bob Dylan, Neil Young, June Carter, The Carter Family, Buffy Saint-Marie, Merle Haggard, James Taylor, Neil Diamond, Ray Charles, Kris Kristofferson,  Jackie DeShannon, Arlo Guthrie ecc.). E più avanti negli anni, nel 1985, partecipò al progetto Highwaymen, una sorta di cowboy band, che lo vide andare in tour e in studio con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson.

Grazie alla sua coscienza e al suo istinto, Johnny Cash ha sempre saputo ciò che faceva, ma soprattutto ciò che cantava e come lo cantava: dotato di una scrittura asciutta e povera, come la sua terra, ha prodotto una musica sobria, cantata in modo profondo, anche quando pervasa dal rock’n’roll.

Oltre che dal country, dal gospel e dal rock’n’roll, le sue canzoni si nutrivano di una linfa blues: non poteva essere altrimenti visto il luogo e le condizioni in cui da giovane era cresciuto, nelle vicinanze del Mississippi. Il blues infatti viene nominato come condizione da cui liberarsi in molti suoi pezzi, tra cui i celeberrimi “Folsom Prison blues”, “Cocaine blues” e “Get rhythm”.
Ma il blues è uno stile di vita che uomo e artista si portarono sempre dentro, quasi come un’ossessione attraverso un confronto e un contatto continuo con il lato oscuro della propria identità. Con i cosiddetti “demoni” più o meno esorcizzati attraverso la droga e la fede, l’alcol e l’amore.

Cash conosceva bene i propri demoni, essendoseli trovati in casa sin da bambino: lo spettro della povertà, la violenza rabbiosa del padre e soprattutto la scomparsa del fratello maggiore, Jack, deceduto in seguito ad un incidente con una sega elettrica.
Spesso nominando il blues, o meglio “i blues”, Cash affronta l’argomento della morte e lo fa con poche parole, con immagini brevi ma significative, proprie di chi sa che questa non può essere descritta o spiegata in modo esaustivo, ma solo insinuata come un enigma, come un dolore.
Così succede che il protagonista di parecchie canzoni vede uomini morti o in punto di morte: “I shot a man in Reno / just to watch him die” (“Ho fatto secco uno a Reno / solo per guardarlo morire”, da “Folsom Prison blues”) e ancora “I found him by the railroad track this morning / I could see that he was nearly dead / I knelt down beside him and I listened / Just to hear the words the dying fellow said” (“Ho trovato uno vicino ai binari stamattina / ho visto che era quasi andato / così mi sono inginocchiato accanto a lui per ascoltare / le parole che dice un uomo quando sta per crepare”, da “Give my love to Rose”).
Crescendo Cash si trovò più volte la morte davanti agli occhi: la propria, mettendo ripetutamente a rischio la sua carriera, la sua famiglia e la sua stessa salute; quella di Luther Perkins, suo storico chitarrista deceduto nel 1968; quella di parecchi amici, tra cui Carl Perkins (gennaio 1998) e Waylon Jennnings (febbraio 2002), e quella della seconda moglie June Carter, che lo anticipò di pochi mesi (lei spirò il 15 maggio e lui il 12 settembre 2003).
Invecchiando la morte fu sempre più presente nella vita e nella scrittura, al punto che anche nelle canzoni interpretate per la serie “American” Cash e Rubin andarono a ripescare molti brani sulla morte e sul giudizio ultimo.
                    
Dovendo noi ora concludere questo breve viaggio dentro Johnny Cash con un giudizio riassuntivo di una storia tanto intensa, si può sicuramente dire che la sua musica contiene tutti i valori e le traversie della popular music americana.
E se oggi siamo ancora qui a parlarne, è perché sicuramente merita di essere conosciuta e approfondita.
2. Johnny come lately: il recupero di Johnny Cash
È purtroppo un dato di fatto che in Italia Johnny Cash non è stato conosciuto e considerato come la sua musica meriterebbe. Nonostante il solito periodo di curiosità seguito alla morte, ancora oggi l’interesse è poco e ne è prova la mancanza di testi in italiano sulla sua vita e sulla sua storia: non è ancora stato scritto né tradotto nella nostra lingua alcun saggio o biografia su Johnny Cash.
Ovviamente non è così negli Stati Uniti, ma anche qui la stima e la considerazione riservategli sono state spesso altalenanti, complice anche la natura non facile e tuttaltro che compiacente dello stesso Cash. Nonostante i milioni di dischi venduti, i premi ricevuti e l’affetto incondizionato di moltissimi colleghi e fans, la sua carriera ha vissuto momenti di stasi: difficoltà dovute alla dipendenza dalla droga, a dischi poco riusciti e ad esternazioni discutibili, se non arroganti, ma anche a precise scelte del sistema e delle case discografiche, che sono arrivate a scaricarlo ritenendolo più di una volta un musicista finito, parte di un’epoca passata.
Ostinatamente invece Cash ha sempre ritrovato sé stesso, anzi la sua carriera è stata un continuo recupero, al punto che possiamo tranquillamente dire che ha condotto in prima persona un processo di recupero della propria identità e della propria musica, avviato ben prima della morte e del ritorno di popolarità ottenuto con la serie “American”.
                                           
Quei discografici che vedevano in lui un artista legato al passato vedevano bene, ma vedevano solo una parte del tutto. Cash è sempre stato più conservatore che innovatore, ma ha guardato al passato per piantare le sue radici profondamente e per far crescere la sua musica nel modo più duraturo possibile: i posteri già confermano.
E una conferma viene anche dalla pubblicazione di “Personal file”, una raccolta di canzoni voce e chitarra registrate nel 1973, in cui Cash interpreta pezzi propri e di altri autori recuperati dal periodo della gioventù, se non dell’infanzia: tra una traccia e l’altra è qua possibile sentirlo raccontare aneddoti del proprio passato personale ed artistico.
Nell’arco poi di cinquant’anni di carriera, ha dato nuova vita a canzoni di moltissimi songwriters che lo hanno preceduto e accompagnato, diventando per più di una generazione un testimone, un padre della musica country, folk ed oltre. Anche la scelta di sposare June Carter, figlia della Carter Family, una delle formazioni più votate al recupero dell’american music, può essere interpretata come un ulteriore passo diretto verso la tradizione.
È stato però con la serie “American” che è diventato chiaro a tutti quanto Cash fosse un raccoglitore di canzoni, capace di portare su di sé musiche passate come fossero nuove e musiche nuove come fossero passate.
Vanno riconosciute l’idea e l’abilità di Rick Rubin nel proporre a Cash anche pezzi attuali (Tom Waits, Nick Cave, Tom Petty, U2, Soundgarden, Nine Inch Nails, Depeche Mode ecc.) che hanno contribuito ad attirare una maggior attenzione attorno al progetto, ma va soprattutto ammirata la capacità d’interpretazione di Cash nel fissare in modo definitivo qualunque canzone, più o meno nota.

È prossima ormai anche l’uscita di “American V: A hundred highways”, il volume conclusivo del lavoro condotto con Rubin, che si va ad aggiungere al box-set postumo “Unearthed”, ma rimane il dubbio di quanto materiale con e senza Rubin sia stato inciso da Cash e giaccia ancora inedito. Come un tesoro nascosto.

                                       
Un processo di recupero è anche quello svolto nel film “Walk the line”. Non è un caso, anzi è una scelta precisa, che James Mangold dia inizio alla pellicola con un flash-back: dopo una scena introduttiva al celebre concerto nella prigione di Folsom, la storia riparte dal ricordo dell’infanzia secondo un copione approvato ed elaborato con gli stessi coniugi Cash.
Questa partenza-ripartenza permette di andare a toccare quelli che sono stati i temi fondanti dell’identità di Cash. Sin dall’inizio le immagini si muovono seguendo un percorso che dall’esterno porta all’interno del carcere, oltrepassando le mura, varcando l’entrata, i cancelli della sezione e infine le sbarre delle celle: è un cammino intestino, diretto verso il fondo, verso quella che è considerata la feccia dell’uomo, ma proprio lì si comincia a risorgere, a trovare forza, perché lì Johnny Cash si sta esibendo con la sua band.
            
“Walk the line”  ha il merito di seguire la vita di Johnny Cash orientandosi verso il passato, verso il fondo, per poi ripartire e risalire come il protagonista ha fatto nella vita reale.
Forse viene messa troppo in primo piano la relazione con June Carter, scendendo a patti con le esigenze hollywoodiane, ma, non si perde di vista quello che è stato il bisogno costante nella vita di Johnny Cash, ovvero quell’andare a ritroso per scavare ed andare ad afferrare la parte più vera di sé stesso.

Con questo processo retrospettivo Mangold è riuscito a rimettere parzialmente in scena la vita e la musica di Johnny Cash, grazie da un cast di attori e di musicisti che hanno cantato e suonato sotto la supervisione di T-Bone Burnett.
Il film ha permesso di riaccendere i riflettori su un uomo e su un artista che non si possono imbalsamare nè chiudere in una categoria o in una sala da museo.
Ma il recupero più completo che si possa tentare è ovviamente quello condotto dallo stesso Cash attraverso le tante canzoni e i tanti dischi che ci ha lasciato: “Nobody here will ever find me / But i will always be around / Just like the songs / I leave behind me / I'm gonna live forever now” (“Nessuno mi troverà mai / Ma io sarò sempre qui in giro / come le canzoni / che mi lascio alle spalle / vivrò per sempre”, da “Live forever”).
 
3. Where The Soul of Man Never Dies: da dove ripartire  
“At Folsom prison” (Columbia, 1968)
Il famoso concerto tenuto nella prigione di Folsom: disintossicato e di nuovo in forma, Cash è a suo agio e non si fa remore nell’imbastire una scaletta colma di brani a tema sul carcere. Sferzato da una band composta tra gli altri da Carl e Luther Perkins alle chitarre e dalla Carter Family ai cori, dialoga col pubblico e lancia critiche sotto forma di canzoni: spiccano “25 Minutes To Go” e un paio di pezzi d’amore a dir poco sarcastici come “Dirty old egg-suckin' dog” e “Flushed from the bathroom of your heart”. La forza che il suo country-folk aveva all’epoca si sente invece in “Orange blossom special”, “I got stripes” e “The legend of John Henry's hammer”. Imperdibile, anche nella ristampa del 1999 con l’aggiunta di tre bonus-track, un’introduzione di Steve Earle e una lettera scritta di suo pugno dallo stesso Cash.

 “Unearthed” (Lost Highway, 2004)
Avrebbero potuto chiamarlo “The black box” questo monumentale cofanetto che raccoglie solo materiale del periodo Rubin. Allora si pensava che cinque cd fossero sufficienti a raccogliere tutto i materiale registrato dal 1994 in poi. Anche se ora sappiamo che così non è, questo lavoro rimane una testimonianza imprescindibile degli anni che Cash trascorse in sala d’incisione in compagnia del grande produttore. Oltre al meglio delle American Recordings, quello che sorprende e illumina sulla grandezza artistica dell’uomo, sono i quattro dischi di inediti. Non manca nulla per rendere. “Unearthed” una raccolta di canzoni imprescindibili, anche nell’immensa discografia di Cash.Nemmeno quel “cappotto nero” che sarebbe piaciuto anche a Johnny Cash.

“Legend” (Columbia / Legacy, 2005)
Quando un titolo dice tutto, c’è davvero poco da aggiungere. Quattro dischi neri con quattro splendide foto, raccolgono un periodo lunghissimo: dal 1955 al 2002. Il materiale, con sette inediti, è suddiviso per tema. Ci sono i grandi successi, le canzoni preferite di Cash, vecchie e nuove, quelle tratte dal pozzo senza fine della tradizione americana, e i duetti con gli amici, ma soprattutto con la famiglia Carter. E c’è anche uno stupendo libretto ricco di foto che documentano, in questo caso cronologicamente, la carriera di Johnny Cash. Difficilmente si potrebbe chiedere di più ad un cofanetto come questo, che certamente non deve finire solo sugli scaffali dei collezionisti.

“Live from Austin TX” - dvd (New West, 2005)
Un breve e intenso live del 1987, registrato per  il noto show televisivo Austin City Limits. Johnny Cash  si presenta davanti alle telecamere in grande forma, soprattutto vocalmente. Imbraccia la chitarra da par suo, sorride dolce e amaro come sempre e basta “Ring Of Fire”, sfruttata quanto si vuole, per essere rapiti dal fascino di questo artista. “Folsom Prison Blues”, I Walk The Line”, “Long Black Veil”, fino a “Where Did We Go Right?”, mirabile duetto con June Carter Cash, non lasciano indifferenti anche in questo ambiente inevitabilmente patinato. Il suo carisma è incredibile e non si può non ricordare con rabbia il fatto che in Italia non ha mai suonato. Magari perchè qualcuno pensava che Johnny Cash fosse solo un country man.
da:
http://www.mescalina.it/intervista_02-07-2006/johnny-cash

Postato da: giacabi a 22:10 | link | commenti
cash jonny

Il Paolo di Johnny Cash
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Copertina
C’è un filo rosso, una sorta di campo magnetico, che attraversa l’intera storia della canzone americana. Una tensione che oscilla tra due poli: il desiderio di salvezza e l’ineluttabilità della caduta, il salto verso la salvezza e la vertigine della dannazione. Questo campo di forze cattura in qualche modo l’animo americano e le sue contraddizioni. Non è un caso che uno studioso come Rodney Clapp abbia scelto Johnny Cash – una delle “voci” più importanti e paradigmatiche della canzone Usa – per illuminare gli orli dell’animo americano: i suoi conflitti, i suoi demoni ma anche la sua inesauribile volontà di riscatto. Cash (1932-2003) racchiude questa costellazione di senso, questa serie di opposizioni binarie – salvezza caduta, individualismo comunità, colpa innocenza, morte vita – all’interno della quale si dispiega il discorso della canzone americana.So cantare canzoni di morte. Ne ho vista tanta – ha detto una volta lo stesso cantante – ma sono ossessionato dalla vita”. Queste lacerazioni – gli eccessi del successo, la dipendenza dalle droghe, persino l’esperienza del carcere – che attraversano tanto la sua biografia che la sua arte sono però illuminate dalla fede che costituisce la vera cifra poetica di Cash: l’oscurità è sempre rischiarata dalla luce, la caduta è riscattata nella redenzione, la contraddizione si scioglie nell’affidamento, nella fede.S
“Quasi un quarto delle canzoni scritte da Cash – ha notato uno dei suoi biografi, Steve Turner – parlano in qualche modo della sua fede e della Bibbia. Molte altre, anche se non trattano specificamente questo argomento, sono influenzate dalla sua visione del mondo cristiano. “I walk the line”, con la sua dichiarazione di fedeltà coniugale, conteneva un inconscio impulso cristiano, così come molte sue canzoni sulla giustizia e la povertà. Quando scriveva di lavoro lo faceva da un’ottica biblica”.
Questa dinamica tra caduta e redenzione, tra cecità e nuova vista, Cash la rintracciò – in tutta la sua radicalità – in san Paolo. Con l’apostolo delle genti il cantante istaurò una sorta di rapporto “personale”, intimo, quasi un rispecchiamento. Un’affinità. Tanto da dedicare all’apostolo un libro: Man in white. Un romanzo – la riscrittura della vita di Paolo prima e dopo la conversione – che lo accompagnò e lo impegno per ben sette anni. E che fu un’ancora di salvezza che gli consentì di uscire dalla crisi umana e religiosa che lo paralizzava. Per tutti Cash era l’uomo in nero (“the man in black”): mi vesto di nero, ripeteva, per testimoniare la mia vicinanza agli affitti, agli ultimi, agli outlaw, ai rifiutati. Ma in quel nero c’era forse anche traccia del senso della caduta, della consapevolezza del peccato che lo tormentava. Dunque l’uomo in bianco” e quello “in nero”. Non due distanze inavvicinabili, ma due estremità dello stesso filo.
Nell’introduzione al romanzo Cash – che nella sua carriera cantò più volte all’interno delle prigioni, fino a farne uno dei momenti topici della sua carriera – scrive: “Anche Paolo cantò dietro le sbarre, un canto capace di rompere la prigionia (Jailbraking song). Non solo cantò, ma duettò con Sila”. Il “fuoco”, la figura attorno alla quale ruota tutto il romanzo di Cash, è la conversione di Paolo. E’ essa ad attrarre Cash, ed è in essa che il cantante ritrovava qualcosa della sue esistenza, del suo – tormentato – vissuto. “Cosa esattamente Paolo – si chiede Cash – vedeva e sentiva negli istanti in cui fu accecato sulla strada di Damasco? Credo che cercasse di vedere attraverso quel grande vuoto, di cogliere anche solo uno scintillio del fulgore che lo gettò a terra?”. Il persecutore che si fa perseguitato, che investe tutte le sue energie e risorse nella missione che assorbe interamente la sua vita: ecco la traccia che lo stesso Cash voleva seguire nella sua vita. “Paolo sorrideva ai suoi persecutori – scrive. Fu picchiato, insultato, imprigionato, odiato dalla sua stessa gente”. Nella sua vita Cash sentì irrompere, e con la stessa violenza, la forza della conversione. “Non sono stato mai così privilegiato da avere una esperienza come quella che sorprese Paolo sulla via di Damasco. Ma nella notte di Natale del 1985 fui visitato da una visione, come in un sogno: ho visto una luce che non era terrena. Ripresi a lavorare. Ritrovai la gioia dello scrivere. Conclusi il libro”.
San Paolo e Johnny Cash “hanno visto” il Signore. Di un incontro Paolo parla nella prima lettera ai Corinzi, per legittimare il suo ruolo di apostolo autorevole come gli altri missionari, in particolare i “dodici”. Il Cristo risuscitato appare all’apostolo, ultimo dei destinatari delle apparizioni pasquali. Si tratta di un’apparizione-incontro, in cui si manifesta l’amore gratuito di Dio che lo trasforma. Johnny Cash canta il rivelarsi di Dio a lui, un’esperienza che gli ha modificato la vita e le sue scelte. Lo testimonia nella canzone “Meet me in Heaven”: “Abbiamo visto il segreto le cose rivelate da Dio. E abbiamo sentito ciò che gli angeli avevano da dire…”. In diversi passi delle lettere, San Paolo parla della sua esperienza di cambiamento radicale avuto nell’incontro con Cristo. Per esprimere questa esperienza sconvolgente, egli fa ricorso al linguaggio biblico della rivelazione di Dio, lo stesso usato da Cash nei suoi brani per indicare l’origine del suo rinnovamento spirituale. San Paolo rievoca la conversione con una dichiarazione: “Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto” (Corinzi 15,11) . Cash, invece, riprende a compilare il suo libro, in un slancio di vita nuova.
L’iniziativa di Cristo stravolge le sua esistenza, come fu per Paolo sulla via di Damasco. “Man in White” non è un hobby per Johnny Cash o un’attività aggiunta al suo essere artista e cristiano, ma coincide con la sua nuova identità di credente, che ha fatto del Cristo e della relazione personale con Lui la ragione della sua vita e il criterio delle sue scelte. Cash comprova il cambiamento della sua etica, conseguente allo svelarsi di Dio, in “(Ghost) Riders in the Sky”: “Mentre i cavalieri passavano sopra di lui udì qualcuno chiamare il suo nome. Se vuoi salvare la tua anima dall’inferno di cavalcare per sempre, allora cowboy cambia il tuo atteggiamento oggi, o cavalcherai con noi. Tentando di catturare la mandria del diavolo per questi cieli infiniti”.
San Paolo apostolo scrive: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me. Guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Cor 9,16). L’annuncio del vangelo fa parte di quel dinamismo spirituale cominciato dall’incontro con Gesù Risorto, che in Paolo ha dato inizio all’attività missionaria itinerante, mentre in Johnny Cash ha provocato il cambiamento del centro gravitazionale della sua esistenza.
La vita e la morte, in San Paolo e Johnny Cash, s’intrecciano con il mistero cristico. Nella Seconda Lettera a Timoteo (4,6-7), Paolo si prepara ad affrontare il suo sacrificio: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Con queste parole cariche di fede nel Risorto, l’apostolo indica il mistero della sua morte, utilizzando l’immagine della partenza: la nave pronta ad affrontare il mare della passione di Cristo, che lo bagnerà con il sangue del martirio. Cash, da par suo, in un’interpretazione magistrale di “Spiritual”, cover del gruppo Spain (inclusa nell’album The Blue Moods of Spain), si rivolge supplice al Signore in un atto di abbandono fiducioso e drammatico: “Gesù, non voglio morire da solo. Il mio amore non era autentico, ora tutto ciò che possiedo sei Tu. Se senti il mio ultimo respiro, non lasciarmi morire, non abbandonarmi”.
Al termine della buona battaglia della fede, entrambi allargano le braccia alla morte in maniera eroica, come il Cristo inchiodato sull’albero della vita. Li accomuna, dunque, la conversione sulla via di Damasco, il coraggio della testimonianza cristiana e la fede nella Resurrezione, scandita dall’attesa del giudizio misericordioso di Gesù Cristo.
Più di tutti, c’è un principio che associa l’esperienza riscattata di Johnny Cash a quella di San Paolo: l’universalità. Da essa deriva la scelta paolina dell’annuncio del vangelo ai pagani. Se il vangelo è la manifestazione dell’amore gratuito di Dio, esso è destinato a tutti senza distinzione e discriminazioni (Rm 15,16.20-21; 2 Cor 10, 15-16). La stessa origine che rende il gospel di Johnny Cash accessibile a chiunque voglia specchiarsi nelle canzoni di un vecchio e grande uomo, salvato dalla musica e dal suo Ispiratore.
Scritto da Max Granieri e Luca Miele per il magazine Paulus (settembre 2009) | Site PaulusWeb

Ferito

Oggi mi sono ferito da solo,
Per vedere se ero ancora in grado di sentire,
Mi sono concentrato sul dolore,
la sola cosa reale,

l'ago fa un buco
la vecchia familiare trafittura
(che) cerca di eliminare ogni cosa
ma io ricordo tutto,

(Chorus)
Cosa sono diventato?
mio dolce amico
tutti quelli conosco
sono andati via alla fine

e potresti avere tutto
il mio impero di sporcizia
Ti abbandonerò
Ti farò star male

Ho portato questa corona di spine
sulla sedia di coloro che mi mentono
pieno di pensieri interrotti
(che) non posso riparare

sotto le macchie del tempo
i sentimenti scompaiono
tu sei qualcun altro
Sono ancora qui

Cosa sono diventato?
il mio più caro amico
tutti quelli che conosco
sono andati via alla fine

e potresti averlo tutto
il mio impero di sporcizia
Ti porterò in basso
Ti farò male

Se potessi ricominciare
a un milione di miglia da qui,
mi controllerei,
troverei un modo

Postato da: giacabi a 21:45 | link | commenti
cash jonny

sabato, 29 maggio 2010
Johnny Cash, il rock
che cantava la fede

Personal Jesus
Personal Jesus - Depeche Mode

"Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who's there

Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer

Take second best
Put me to the test
Things on your chest
You need to confess
I will deliver
You know I'm a forgiver

Reach out and touch faith
Reach out and touch faith

Your own personal Jesus...

Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
I will deliver
You know I'm a forgiver

Reach out and touch faith

Your own personal Jesus

Reach out and touch faith"


Traduzione


 Gesù personale

"Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno a cui importi di te
Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno che sia lì
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Prendi la seconda scelta
Mettimi alla prova
Cose nel tuo petto
Che hai bisogno di confessare
Io gliele porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale…
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Io ti porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale
Allunga la mano e tocca la fede"

 

 
Ci sono artisti che arrivano ad usare i valori come maschera: per ottenere maggiore successo. E poi ci sono quelli come Johnny Cash. Non un santo, certo. Uno che ha conosciuto la prigione ed ha rischiato la morte di overdose: ma pure uno che, ad un certo punto della sua vita, ha colto di essa un possibile Senso con la maiuscola, e delle sue canzoni sugli ultimi ha iniziato a fare dolenti, commossi inni all’uomo. Innestati nella propria fede in un Dio che all’uomo dà orizzonti e speranze.

Quando si parla di Johnny Cash, scomparso nel 2003 per complicazioni del diabete (ma fors’anche perché provato dalla morte della moglie June pochi mesi prima), si parla di un personaggio che va oltre gli stereotipi. Quelli del rock che sfiorava, quelli del blues che interpretava magistralmente, quelli che ne hanno fatto personaggio anche televisivo. Prima perché anticonformista anche in senso retrivo e poi «solo» perché scomodo; ma quasi mai indagando a fondo il perché di quel suo scomodo cantare l’uomo e Dio. Sono quindi importanti, le occasioni per esplorare uno come Johnny Cash, specie di questi tempi. Anche in «prodotti» come un dvd e un libro, che seguono di poco il suo album postumo Ain’t no grave, ulteriore e toccante testimonianza di arte intrisa di fede e umanità. Certo, poi bisognerà, dal dvd e dal libro, passare ad ascoltarlo, Cash: ma questi due «prodotti» spingono a farlo.

Il dvd, Singing at his best, presenta 17 rare apparizioni di Cash in tv. A cantare Cristo, i dolori della gente comune, l’amore in senso alto. Non a fare il «personaggio». E il libro, The man in black - Testi commentati, edito da Arcana, beh, è un ritratto fuori dagli schemi redatto facendo arguta selezione di ciò che conta di più, nella storia di Cash. Il giovane cantante country che viene educato al rispetto della terra ed a credere che c’è Qualcuno che la terra governa, e da cui bisogna saper accettare anche faccende come le alluvioni. Quello che torna nelle carceri a cantare e, pur potendone fare solo evento discografico, diviene portavoce dei reietti, interpretandone pentimenti e disagi.

Quello che canta l’America discostandosi dal «sogno» per sottolineare anche ingiustizie e tragedie. Quello che, sì, diviene «Man in black», «personaggio», ma «per i poveri» e «per quelli che non hanno mai letto le parole di Gesù». Quello che si confessa in pubblico gridando che nella fede ha trovato un senso. Quello che ritrova il successo con i dischi di American Recordings, azzerando ogni residuo rischio di predicare o speculare sulla sua storia di disastri e riscatto.

E per chi Cash non lo conoscesse, forse una spinta in più per riflettere sul suo mondo viene dagli autori del libro di cui si parla. Valter e Francesco Binaghi, un padre e un figlio. Un padre che ha conosciuto la droga, lo scrive, e rilancia: narrando Cash per testimoniare ai giovani che si possono vincere, i demoni della modernità. E un figlio pazzo dell’heavy metal che scopre Cash, e capisce che la musica può essere anche altro. Un padre e un figlio che chiudono il loro lavoro segnalando come l’eredità di Cash per l’uomo del Duemila sia «voce, chitarra e fede». «Bagaglio leggero», scrivono. E quanto scomodo, oggi. Eppure, senza la fede, la voce di Cash non sarebbe stata la stessa: ed avremmo un esempio in meno di quanto, volendo, anche una chitarra può aiutare a vivere.
da:www.avvenire.it  23.05.2010

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