Io, Asia Bibi, muoio:
ascoltate la mia voce!
***
In
carcere i giorni e le notti sono uguali. Non so più dire che cosa
provo. Paura, questo è sicuro... ma non mi opprime più come all’inizio. I
primi giorni arrivava a farmi battere un tamburo in petto. Ora si è un
po’ calmata. Non è più un soprassalto continuo. Le lacrime no, non mi
hanno mai lasciata. Scendono a intervalli regolari. I singhiozzi,
invece, sono cessati. Le lacrime sono le mie compagne di cella. Mi
dicono che non mi sono ancora arresa, mi dicono che sono vittima di
un’ingiustizia, mi dicono che sono innocente.
Non so molto del mondo al di fuori del mio villaggio. Non ho studiato, ma so che cosa è bene e che cosa è male. Non sono musulmana, ma sono una buona pakistana, cattolica e patriota, devota al mio Paese come a Dio. Abbiamo amici musulmani. Non ci sono mai stati problemi. E anche se non abbiamo avuto sempre vita facile, abbiamo il nostro posto. Un posto di cui ci siamo sempre accontentati. Quando si è cristiani in Pakistan, ovviamente bisogna tenere gli occhi un po’ più bassi. Certi ci considerano cittadini di seconda categoria. A noi sono riservati lavori ingrati, mansioni umili. Ma il mio destino non mi dispiaceva. Prima di tutta questa storia ero felice con i miei, laggiù a Ittan Wali. Oggi sono come tutti i condannati per blasfemia del Pakistan.
Che siano colpevoli o no, la loro vita viene stravolta. Nel migliore dei casi stroncata dagli anni di carcere. Ma il più delle volte chi è condannato per l’oltraggio supremo, che sia cristiano, indù o musulmano, viene ucciso in cella da un compagno di prigionia o da un secondino. E quando è giudicato innocente, cosa che capita assai di rado, viene immancabilmente assassinato appena lascia il penitenziario. Nel mio Paese l’accusa di bestemmiatore è indelebile. Essere sospettati è già un crimine agli occhi dei fanatici religiosi che giudicano, condannano e uccidono in nome di Dio. Eppure Allah è solo amore. Non capisco perché gli uomini usino la religione per fare il male. Mi piacerebbe credere che prima di essere esponenti di questa o quella religione siamo anzitutto uomini e donne. In questo momento mi rammarico di non saper né leggere né scrivere. Solo ora mi rendo conto di quale enorme ostacolo sia. Se sapessi leggere, oggi forse non mi ritroverei chiusa qui dentro. Sarei senz’altro riuscita a controllare meglio gli eventi. Invece li ho subiti, e li sto subendo tuttora. Secondo i giornalisti, 10 milioni di pakistani sarebbero pronti a uccidermi con le loro mani.
A chi mi eliminerà, un mullah di Peshawar ha addirittura promesso una fortuna: 500.000 rupie. Da queste parti è il prezzo di una bella casa di almeno tre stanze, con tutti i comfort. Non capisco questo accanimento. Io, Asia, sono innocente. Comincio a chiedermi se, più che una tara o un difetto, in Pakistan essere cristiani non sia diventato semplicemente un crimine. Il mio unico desiderio, in questa minuscola cella senza finestre, è quello di far sentire la mia voce e la mia rabbia. Voglio che il mondo intero sappia che sto per essere impiccata per aver aiutato il prossimo.
Sono colpevole di avere manifestato solidarietà. Il mio torto? Solo quello di avere bevuto dell’acqua proveniente da un pozzo di alcune donne musulmane usando il «loro» bicchiere, quando c’erano 40 gradi al sole. Io, Asia Bibi, sono condannata a morte perché avevo sete. Sono in carcere perché ho usato lo stesso bicchiere di quelle donne musulmane. Perché io, una cristiana, cioè una che quelle sciocche compagne di lavoro ritengono impura, ho offerto dell’acqua a un’altra donna. Voglio che la mia povera voce, che da questa lurida prigione denuncia tanta ingiustizia e tanta barbarie, trovi ascolto. Desidero che tutti coloro che mi vogliono vedere morta sappiano che ho lavorato per anni presso una coppia di ricchi funzionari musulmani. Voglio dire a chi mi condanna che per i membri di quella famiglia, che sono dei buoni musulmani, il fatto che a preparare i loro pasti e a lavare le loro stoviglie fosse una cristiana non era un problema. Ho passato da loro 6 anni della mia vita, ed è per me una seconda famiglia, che mi ama come una figlia!
Sono arrabbiata con questa legge sulla blasfemia, responsabile della morte di tanti ahmadi, cristiani, musulmani e persino indù. Da troppo tempo questa legge getta in prigione degli innocenti, come me. Perché i politici lo permettono? Solo il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro cristiano per le Minoranze, Shahbaz Bhatti, hanno avuto il coraggio di sostenermi pubblicamente e di opporsi a questa legge antiquata. Una legge che è in sé una bestemmia, visto che semina oppressione e morte in nome di Dio. Per avere denunciato tanta ingiustizia questi due uomini coraggiosi sono stati assassinati in mezzo alla strada. Uno era musulmano, l’altro cristiano. Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza. Supplico la Vergine Maria di aiutarmi a sopportare un altro minuto senza i miei figli, che si chiedono perché la loro mamma sia improvvisamente sparita di casa. Dio mi dà ogni giorno la forza di sopportare questa orribile ingiustizia. Ma per quanto ancora?
Copyright © Oh! Éditions, 2011. All rights reserved © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Non so molto del mondo al di fuori del mio villaggio. Non ho studiato, ma so che cosa è bene e che cosa è male. Non sono musulmana, ma sono una buona pakistana, cattolica e patriota, devota al mio Paese come a Dio. Abbiamo amici musulmani. Non ci sono mai stati problemi. E anche se non abbiamo avuto sempre vita facile, abbiamo il nostro posto. Un posto di cui ci siamo sempre accontentati. Quando si è cristiani in Pakistan, ovviamente bisogna tenere gli occhi un po’ più bassi. Certi ci considerano cittadini di seconda categoria. A noi sono riservati lavori ingrati, mansioni umili. Ma il mio destino non mi dispiaceva. Prima di tutta questa storia ero felice con i miei, laggiù a Ittan Wali. Oggi sono come tutti i condannati per blasfemia del Pakistan.
Che siano colpevoli o no, la loro vita viene stravolta. Nel migliore dei casi stroncata dagli anni di carcere. Ma il più delle volte chi è condannato per l’oltraggio supremo, che sia cristiano, indù o musulmano, viene ucciso in cella da un compagno di prigionia o da un secondino. E quando è giudicato innocente, cosa che capita assai di rado, viene immancabilmente assassinato appena lascia il penitenziario. Nel mio Paese l’accusa di bestemmiatore è indelebile. Essere sospettati è già un crimine agli occhi dei fanatici religiosi che giudicano, condannano e uccidono in nome di Dio. Eppure Allah è solo amore. Non capisco perché gli uomini usino la religione per fare il male. Mi piacerebbe credere che prima di essere esponenti di questa o quella religione siamo anzitutto uomini e donne. In questo momento mi rammarico di non saper né leggere né scrivere. Solo ora mi rendo conto di quale enorme ostacolo sia. Se sapessi leggere, oggi forse non mi ritroverei chiusa qui dentro. Sarei senz’altro riuscita a controllare meglio gli eventi. Invece li ho subiti, e li sto subendo tuttora. Secondo i giornalisti, 10 milioni di pakistani sarebbero pronti a uccidermi con le loro mani.
A chi mi eliminerà, un mullah di Peshawar ha addirittura promesso una fortuna: 500.000 rupie. Da queste parti è il prezzo di una bella casa di almeno tre stanze, con tutti i comfort. Non capisco questo accanimento. Io, Asia, sono innocente. Comincio a chiedermi se, più che una tara o un difetto, in Pakistan essere cristiani non sia diventato semplicemente un crimine. Il mio unico desiderio, in questa minuscola cella senza finestre, è quello di far sentire la mia voce e la mia rabbia. Voglio che il mondo intero sappia che sto per essere impiccata per aver aiutato il prossimo.
Sono colpevole di avere manifestato solidarietà. Il mio torto? Solo quello di avere bevuto dell’acqua proveniente da un pozzo di alcune donne musulmane usando il «loro» bicchiere, quando c’erano 40 gradi al sole. Io, Asia Bibi, sono condannata a morte perché avevo sete. Sono in carcere perché ho usato lo stesso bicchiere di quelle donne musulmane. Perché io, una cristiana, cioè una che quelle sciocche compagne di lavoro ritengono impura, ho offerto dell’acqua a un’altra donna. Voglio che la mia povera voce, che da questa lurida prigione denuncia tanta ingiustizia e tanta barbarie, trovi ascolto. Desidero che tutti coloro che mi vogliono vedere morta sappiano che ho lavorato per anni presso una coppia di ricchi funzionari musulmani. Voglio dire a chi mi condanna che per i membri di quella famiglia, che sono dei buoni musulmani, il fatto che a preparare i loro pasti e a lavare le loro stoviglie fosse una cristiana non era un problema. Ho passato da loro 6 anni della mia vita, ed è per me una seconda famiglia, che mi ama come una figlia!
Sono arrabbiata con questa legge sulla blasfemia, responsabile della morte di tanti ahmadi, cristiani, musulmani e persino indù. Da troppo tempo questa legge getta in prigione degli innocenti, come me. Perché i politici lo permettono? Solo il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro cristiano per le Minoranze, Shahbaz Bhatti, hanno avuto il coraggio di sostenermi pubblicamente e di opporsi a questa legge antiquata. Una legge che è in sé una bestemmia, visto che semina oppressione e morte in nome di Dio. Per avere denunciato tanta ingiustizia questi due uomini coraggiosi sono stati assassinati in mezzo alla strada. Uno era musulmano, l’altro cristiano. Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza. Supplico la Vergine Maria di aiutarmi a sopportare un altro minuto senza i miei figli, che si chiedono perché la loro mamma sia improvvisamente sparita di casa. Dio mi dà ogni giorno la forza di sopportare questa orribile ingiustizia. Ma per quanto ancora?
Copyright © Oh! Éditions, 2011. All rights reserved © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Asia Bibi
Postato da: giacabi a 19:15 |
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islam, cattolico
Lettera di un missionario
dell'Africa ai giornali anticlericali
***
pubblicata da Papa Benedetto XVI il giorno martedì 31 maggio 2011 alle ore 15.02
Ce lo sta insegnando proprio il Papa.
Vedo in molti mezzi di informazione, soprattutto sul vostro giornale (la lettera si rivolge al New York Times, ma per estensione a tutti quei che parlano della Chiesa solo per fatti sinistri -in Italia ne sappiamo qualcosa-), l’amplificazione di questo tema in una forma morbosa, indagando nei dettagli la vita di qualche sacerdote pedofilo. Cosí appare uno di una città degli USA degli anni Settanta, un altro in Australia degli anni Ottanta e cosí via, altri casi recenti... Certamente tutto riprovevole! Si vedono alcune presentazioni giornalistiche ponderate ed equilibrate, altre esagerate, piene di pregiudizi e che arrivano fino all’odio.
È curiosa la poca informazione e il disinteresse per migliaia e migliaia di sacerdoti che si consumano per milioni di bambini, per gli adolescenti e i piú sfavoriti nei quattro angoli del mondo! Penso che al vostro mezzo di informazione non interessi che io abbia dovuto trasportare, su strade minate, nell’anno 2002, molti bambini denutriti da Cangumbe a Lwena (Angola), giacché né il governo era disposto né le ONG erano autorizzate; che abbia dovuto seppellire decine di piccoli deceduti fra i profughi di guerra e quelli che son tornati; che abbiamo salvato la vita a migliaia di persone a Moxico, grazie all’unico posto medico in 90.000 kmq, cosí come con la distribuzione di alimenti e sementi; che in questi dieci anni abbiamo dato la possibilità di educazione e scuole a piú di 110.000 bambini... Non desta interesse che con altri sacerdoti abbiamo dovuto soccorrere la crisi umanitaria di circa 15.000 persone negli acquartieramenti della guerriglia, dopo la loro resa, perché non arrivavano gli alimenti del governo e dell’ONU. Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, Padre Roberto, durante le notti, percorra le vie di Luanda curando i “ragazzi di strada”, portandoli in una casa di accoglienza, perché si disintossichino della benzina; che dei sacerdoti alfabetizzino centinaia di carcerati; che altri, come Padre Stefano, tengano case di passaggio per i ragazzi picchiati, maltrattati e violentati o che cercano un rifugio. E neppure che Fra Maiato, con i suoi 80 anni, passi casa per casa confortando gli infermi e i disperati. Non fa notizia che piú di 60.000 dei 400.000 sacerdoti e religiosi abbiano lasciato la loro terra e la loro famiglia per servire i loro fratelli in un lebbrosario, in ospedali, campi di rifugiati, orfanotrofi per bambini accusati di maleficio o orfani di genitori morti di AIDS, in scuole per i piú poveri, in centri di formazione professionale, in centri di attenzione ai sieropositivi... e soprattutto, in parrocchie e missioni dando motivazioni alla gente per vivere e per amare.
Non fa notizia che il mio amico Padre Marcos Aurelio, per salvare alcuni giovani durante la guerra in Angola, li abbia trasportati da Kalulo a Dondo e, tornando alla sua missione, sia stato mitragliato lungo la strada; che Fratel Francisco, con cinque signore catechiste, per andare ad aiutare nelle aree rurali piú lontane, sia morto in un incidente stradale; che decine di missionari in Angola siano deceduti, per mancanza di soccorso sanitario, per una semplice malaria; che altri siano saltati in aria a causa di una mina, mentre andavano a visitare la loro gente. Nel cimitero di Kalulo ci sono le tombe dei primi sacerdoti che arrivarono nella regione... Nessuno supera i 40 anni.
Non fa notizia accompagnare la vita di un sacerdote “normale” giorno per giorno, nelle sue difficoltà e gioie, mentre, senza far rumore, consuma la sua vita a favore della comunità che serve.
La verità è che non cerchiamo di fare notizia, bensí di portare la Buona Notizia, quella notizia che, senza rumore, cominciò la notte di Pasqua. Fa piú rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Non pretendo di fare un’apologia della Chiesa e dei sacerdoti. Il sacerdote non è né un eroe né un nevrotico. È un semplice uomo, che con la sua umanità si sforza di seguire Gesú e servire i suoi fratelli. Ci sono miserie, povertà e fragilità, come in ogni essere umano; ma anche bellezza e bontà, come in ogni creatura...
Insistere in forma ossessiva e persecutoria su un tema, perdendo la visione d’insieme, crea in realtà caricature offensive del sacerdozio cattolico, nelle quali mi sento offeso.
Solo Le chiedo, amico giornalista, di cercare la Verità, il Bene e la Bellezza. Questo La farà nobile nella Sua professione".
In Cristo,
Padre Martín Lasarte, SDB
Postato da: giacabi a 12:43 |
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cattolico
La ragione ortodossa e cattolica
***
“Opera della ragione ortodossa e cattolica, è raccogliere tutti i frammenti, la loro totalità, mentre opera dell’intelletto eretico e settario è scegliere i frammenti che piacciono”Pavel A. Florenskij (1882-1937
Grazie ad :anna vercors
Postato da: giacabi a 06:53 |
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cattolico, cristianesimo, florenskij
Cosa vuol dire autentico portatore dello Spirito di Dio
***
L’abba Isidoro era un autentico portatore dello Spirito di Dio.
Ecco perché quanto di eccezionale è in lui era e continua a restare
inefferrabile per il nostro linguaggio, impercettibile per il nostro
intelletto. Di per sé tutto d’un pezzo, unitario, l’abba diventa
interamente contraddittorio nel momento in cui si tenta di
caratterizzarlo a parole, dicendo: “Ecco, era questo e quest’altro”. È
vero, sottostava ai digiuni, ma al contempo li violava. È vero, era
dotato dello spirito di sottomissione, ma anche di indipendenza. È
vero, viveva relegato dal mondo, ma amava tutta la creazione come
nessuno mai. È vero, viveva tutto assorto in Dio, ma non trascurava di
leggere i giornali e di dilettarsi di poesia. È vero, era di
carattere mite, ma sapeva essere anche severo. In una parola, al
nostro intelletto egli si presenta come un’insanabile contraddizione.
Ma alla ragione purificata egli appare come un tutto coerente come
nessuno mai. Anche
la sua unità spirituale sembra costituire una contraddizione sul
piano razionale. Viveva nel mondo, e al contempo non era di questo
mondo. Non disdegnava nulla, eppure si manteneva sempre al di sopra,
in una dimensione celeste. Era spirituale, pneumatoforo, e nella
sua persona era possibile comprendere che cosa significhi la
spiritualità cristiana, che cosa significhi essere cristiani “non di
questo mondo”.
Pavel A. Florenskij, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro
|
Postato da: giacabi a 10:28 |
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cattolico, florenskij
Niente progetti a tavolino:
la lezione dell’esperienza
***
DI GIORGIO PAOLUCCI da: www.avvenire.it/18-09-09
Q
uattordici figli naturali, ventiquattro ragazzi ospitati in affido
residenziale in quattro comunità familiari, 75 in affido diurno. E
poi la Contrada degli artigiani, una scuola- bottega dove gli
artigiani insegnano vecchi mestieri ai giovani: falegnameria,
tappezzeria, restauro , decorazione. E ancora, un’associazione sportiva
con 100 mini-atleti (calcio, atletica leggera, nuoto, pallavolo), un
centro diurno e varie attività di sostegno ai genitori in difficoltà.
Cometa, l’associazione non profit che ha promosso la scuola Oliver Twist
che s’inaugura domani, è tutto questo, ma è molto di più: è
un’esperienza di comunione. All’origine
di Cometa stanno due frasi. Una la pronuncia il padre dei fratelli
Figini (Innocente, Erasmo e Maria Grazia) poco prima di morire: «Vi
lascio la mia fede. E una sola raccomandazione: vivere in comunione».
L’altra è di don Giussani, che per anni li ha accompagnati: «Andate a
vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi la realtà ha lanciato le sue provocazioni, e loro le hanno raccolte. La
richiesta di aiuto di un sacerdote che propone a Erasmo di prendere in
casa un bambino sieropositivo – cosa impopolare al giorno d’oggi,
figuriamoci nel 1987 –, poi l’acquisto di una vecchia cascina alla
periferia di Como, che diventa la casa comune dei due fratelli e delle
loro famiglie, a cui presto se ne aggiungono altre due. E il luogo attorno al quale negli anni sono nate opere di accoglienza e educazione. «Non
siamo eroi né progettisti di alcunché – si schermisce Innocente Figini
–. È Dio che si fa vivo attraverso la realtà, noi rispondiamo. Alla
fonte di tutto c’è un io cambiato dall’incontro con Cristo, unito al
desiderio di condividere la vita con chi ha fatto la medesima
esperienza di cambiamento. Così, di incontro in incontro, è nato tutto
ciò che oggi si chiama Cometa».
per saperne di più: http://www.puntocometa.org/Lui se la ricorda come fosse oggi quella frase profetica che Giussani gli disse durante una conversazione: «Tra non molto diventerà difficile, quasi impossibile comunicare qualcosa di importante alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il desiderio che abita nel cuore di ogni uomo possa essere risvegliato ». E chi avvicina l’esperienza di Cometa è contagiato dal fascino che ne promana. Un fascino che si esprime nelle opere e nella bellezza che le accompagna: il giardino, i fiori sui tavoli, l’arredo curato, la scelta dei colori, l’attenzione ai particolari. Si avverte la mano di Erasmo, affermato stilista di tessuti da arredo, ma non c’è nessuna concessione all’estetismo formale. La bellezza non è un vestito, non è un’aggiunta, è il modo con cui si manifesta l’amore alla vita. È, ultimamente, un richiamo al Mistero presente in ogni cosa. L’esperienza di Cometa ha fatto scuola ed è diventata oggetto di studio a livello accademico. L’anno scorso per conoscerla è arrivato dagli Stati Uniti il professor Lester Salamon, direttore del Centro studi sulla società civile alla Johns Hopkins University di Baltimora, uno dei massimi esperti di non profit a livello mondiale: «Da vent’anni giro il mondo per studiare l’argomento, ma devo ammettere che non ho mai visto niente di simile e che questa è una delle esperienze più belle che abbia mai conosciuto ». Ciò che l’ha colpito di più (e che quest’anno l’ha spinto a portare in visita alla sede di Cometa 50 suoi collaboratori provenienti da tutto il mondo) è avere visto quanto l’esperienza della fede vissuta in una dimensione comunitaria è capace di generare un cambiamento rilevante anche a livello sociale. Proprio quello che «La vita è tortuosa e piena di prove, ma chi ha incontrato Gesù sa che con Lui ogni passo è possibile, che la comunione è la vera liberazione». Il consiglio di Giussani: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi il fiorire di opere educative e di accoglienza |
Postato da: giacabi a 16:05 |
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bellezza, cattolico
Il cristianesimo felice
***
Il cristianesimo felice di una peccatrice malata di Aids e il moralismo triste che vanifica l’incarnazione di Dio
«Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto Fabiana
di Aldo Trento
Negli
ultimi giorni di agosto migliaia di persone hanno visitato la mostra
“Il Cristianesimo Felice”, allestita da un gruppo di architetti e
studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Brera presso il Meeting per
l’Amicizia fra i popoli, a Rimini. Più precisamente la mostra si chiama:
“Una vita felice per Dio e per il re. La vita quotidiana nelle
Riduzioni Gesuitiche”. Di fronte a questo titolo, in molti mi hanno
chiesto: «Perché parlate di cristianesimo felice? Esiste forse un
cristianesimo triste?». Ludovico Antonio Muratori, famoso storiografo del Settecento e autore di un libro che si intitola proprio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, ha inteso provocarci proprio questa domanda. E la risposta è che sì, esiste un cristianesimo felice e sì, ne esiste anche uno triste. Però mentre il primo è un Avvenimento che
entrando nel mondo ha cambiato la vita di quanti lo hanno incontrato,
riconosciuto e accolto, e da cui è scaturita la civiltà dell’amore e
della verità, il secondo è un modo ideologico e moralista di guardare alle conseguenze del fatto cristiano, che mette in secondo piano il fatto cristiano stesso.
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» dichiarava l’ultimo grande retore dell’impero romano, Mario Vittorino. È
proprio questo il contenuto della prima evangelizzazione dell’America
latina, che i padri della Compagnia di Gesù realizzarono nell’esperienza
delle riduzioni. In questi luoghi gli
indios Guaraní, affascinati dall’avvenimento cristiano, diedero vita,
in assoluta libertà, a una società fondata sull’amore e sulla ricerca
della verità, suscitando perfino l’ammirazione di Voltaire e Montesquieu.
Ma come è nata un’esperienza simile? Di che cosa si sono preoccupati i
gesuiti fin dal primo impatto con gli indios? È lo stesso Ruiz de Montoya, padre dei Guaraní impersonificato
da Robert De Niro nel bellissimo film Mission, a raccontarlo nel suo
libro La conquista spirituale del Paraguay: «Per
due anni non abbiamo parlato della morale cristiana, e in particolare
del VI e IX comandamento, perché non volevamo soffocare quelle piccole e
tenere piante che stavano per aprirsi alla vita con dei precetti
assolutamente incomprensibili per loro, poligamici da sempre. Per due
anni abbiamo annunciato senza stancarci la bellezza dell’Avvenimento
cristiano. E sarà il fascino di questo Fatto che permetterà alla loro
libertà di chiedere il matrimonio monogamico». Non è per una decisione etica che si diventa cristiani, ma per un incontro vivo, l’incontro con il Fatto cristiano di cui parla padre Ruiz de Montoya. È questo che cambia la vita, ci dice Benedetto XVI.
Cosa
vuol dire che la vita cambia? Il segno, come accadde a me, è una
rinascita dell’Io, che ogni giorno si guarda allo specchio e si sorride:
comincia a guardarsi con gli occhi di Dio. Ossia uno vive guardando con
sorpresa come cresce il proprio Io, come diventa grande e maturo. L’Io
non può essere definito da regole e precetti, non può vivere sempre
scandalizzandosi dei limiti propri e stracciandosi le vesti di fronte a
quelli altrui, perché così diventa disperato. L’Io
cambia se è totalmente afferrato da quel “Tu che mi fai”. La moralità
di un uomo si vede se è felice, ed è felice quando il suo Io è definito
dal nesso con l’infinito. L’uomo morale è colui che vive cosciente che
“Io sono Tu che mi fai”. È l’uomo che in ogni momento vive un inizio di
pienezza, di corrispondenza, il cui segno visibile è la letizia.
Recentemente alcuni religiosi mi hanno chiesto: «Perché molti abbandonano la propria vocazione?». Perché non
sperimentano in ogni momento quella soddisfazione che il cuore
desidera, e un cuore vuoto o a metà non può reggere l’urto del mondo.
Il cristianesimo è l’incontro con un Uomo che si è fatto carne, perciò è
incontrabile oggi, e il cuore di chi lo incontra trabocca di letizia.
Il moralista al contrario è l’uomo “castrato” nel suo desiderio di
felicità, mortificato e scandalizzato dal limite, che cerca
farisaicamente di vivere aggrappato alle regole finendo per restarne
soffocato. È l’uomo che vive colpevolizzando gli altri, che a loro volta
lo soffocano con le loro miserie ripugnanti. Il cristianesimo felice è invece l’ironia e il sorriso di Dio che cambia la vita.
Le bellissime mostre su sant’Agostino e sulle riduzioni gesuitiche
presenti al Meeting di quest’anno ci testimoniano che il cristianesimo è
un fatto. È l’ironia, è il sorriso di Dio fatto carne… Sì, fatto carne solo ed esclusivamente per noi pubblicani, peccatori umilmente coscienti di ciò che ontologicamente siamo.
Che bello alzarsi ogni giorno e gridare “Io sono Tu che mi fai”, o ripetere insieme al profeta Geremia: «Di un amore eterno ti ho amato, per questo ho pietà del tuo niente». Scandalizzarci
del peccato e condannare il peccatore è davvero l’eliminazione non solo
dell’umano, ma anche del divino, che per il mio peccato sì è umiliato
facendosi uomo, per ridare a me e ad ogni uomo (“creatura divina”) il
sorriso e l’ironia dell’inizio dei tempi, quando «creò l’uomo a Sua
immagine e somiglianza». Dolorosamente, quando l’uomo elimina la
ferita lacerante del cuore che brama vedere il volto di Dio, si
appiattisce e cade vittima del fariseismo, schiacciato dalle regole e
dai precetti. I
Guaraní chiamavano Dio con la parola “Tupa”: “Tu”, cioè bellezza,
meraviglia; “Pa”, cioè chi ha fatto queste cose belle? Il riaccadere di
questo stupore, di questa domanda, è la fine del moralismo e l’inizio
della libertà, cioè della felicità.
Non esiste niente di più concreto capace di scrollarci di dosso il
polverone mediatico di questi giorni, che non il riaccadere di questo
sguardo, “Io sono Tu che mi fai”, in cui consiste la bellezza della
vita, e quindi in fondo anche la moralità.
Solitudine e desiderio
Il “cristianesimo felice” del Muratori, o il
“paradiso in Paraguay”, come ha definito Chesterton l’esperienza dei
gesuiti tra gli indios, ci dice che la spada e la croce in questo mondo
non si possono separare, così come il peccato e la Grazia, il santo e il
peccatore. È di questa consapevolezza, di questa libertà, che il mondo,
perdutosi nel gioco farisaico del puritanesimo e dell’idolatria delle
regole, ha estremo bisogno. Non si diventa cristiani a forza di
scrupoli, ma grazie a un incontro che è sempre presente nell’orizzonte
della vita, come un bellissimo sorgere del sole.
I
miei malati terminali me lo ricordano ogni giorno, loro, vittime delle
peggiori nefandezze cui può giungere la libertà umana… Eppure,
incontrando un uomo che si inginocchia davanti a loro abbracciandoli, il
loro sguardo diventa luminoso. «Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto in questi giorni Fabiana, una ragazza di appena diciannove anni, madre di una bambina di due. Chi
è più morale? Lei, peccatrice, o il borghese, il fariseo con il cuore
rinsecchito dalle sue false sicurezze e con il dito sempre puntato per
condannare, sempre dimentico di quanto ci ha detto Gesù: con la misura
con cui misuriamo saremo noi stessi giudicati?
Nei
giorni del Meeting ho incontrato un popolo di peccatori, cioè di santi
che si avvicinano a me non per parlarmi degli scandali dei politici –
che non interessano all’uomo d’oggi – ma per chiedermi: «Padre, sto
male, sono depresso, ho perso un figlio, mio marito mi ha abbandonato…
Per favore, può aiutarmi?». Ho
visto una grande solitudine, e nello stesso tempo un desiderio umano di
un senso ultimo per cui vivere, di poter incontrare qualcuno sul cui
volto si rifletta “il volto del Mistero”. Ho visto ancora una volta il
cuore dell’uomo mendicante di Cristo, e Cristo mendicante del cuore
dell’uomo.
|
Postato da: giacabi a 08:28 |
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cattolico, pseudo recensioni, padre trento
La reducción del cristianesimo felice
Nel
“castello” di don Aldo ad Asunción, dove centinaia di paraguaiani
cercano una famiglia, un rifugio o anche solo una carezza prima di
morire. La cittadella che commuove perfino i “nemici” al governo
***
di Luigi Amicone tratto da [tempi.it] 18.8.2009
Nella
parrocchia di San di San Rafael ad Asunción sorge un castello. Che è un
po’ come la Fabbrica del Duomo di Milano. Sempre in costruzione. E in
perenne manutenzione. Oggi chi scrive ricapitola il suo passaggio in un
angolo di cristianesimo felice. E prende nota. Asilo e scuole per 200 bambini. Clinica
per malati terminali. Venticinque letti che raddoppieranno il prossimo
anno a fronte dell’apertura della nuova clinica con facciata scolpita da
artista locale e cupola di Etsuro Sotoo, architetto giapponese erede di Gaudí, responsabile dei lavori alla Sagrada Famiglia di Barcellona. Poliambulatorio. Sede dell’Observador Semanal, che esce ogni giovedì allegato al quotidiano laico di tiratura nazionale Ultima Hora. Libreria e sede della casa editrice Editorial San Rafael. Farmacia. Casa
di riposo per anziani. Casita de Belén, per l’accoglienza di bambini
abbandonati e/o malati. Pizzeria ’O sole mio. Caffè letterario. Boutique
di artigianato. Agenzia di viaggio. Cooperativa per il microcredito. Negozio di articoli religiosi.
Inoltre, appena fuori città, dependance del castello, una fattoria, La
Granja, dove ci sono voluti cinquecento camion di terra e sassi per
trasformare una palude appestata da serpenti e altri animali poco amici
dell’uomo in un ranch di lusso, con giardini inglesi, cavalli, mucche e
una sorgente di acqua minerale che si è cominciato a imbottigliare e a
commercializzare.
Un morto raccolto per strada
Tutto
ha inizio cinque anni orsono, racconta il medico e compagno di viaggio
Roberto Sega, «con un morto raccolto per strada, caricato in macchina e
seppellito in parrocchia». Quante volte padre Aldo Trento si era trovato
in quella circostanza, aveva visto un cadavere, si era fatto il segno
di croce, aveva recitato un Gloria e poi passi lunghi e ben distesi?
Tutto ricomincia ogni mattina, prima dell’alba, in una clinica per
malati terminali voluta dal prete dopo quel morto, tra pareti domestiche
che sanno di amore, corridoi illustrati da riproduzioni di Van Gogh,
lettini di ferro che ricordano fantaccini agonizzanti in ospedali da
campo. Con l’unica e non piccola differenza che qui le latrine e gli
altri locali da trincea sono lindi e profumati come potrebbero esserlo
le migliori beautyfarm, con annesse palestra, musica e massaggiatrici. In
questa Casa della Divina Provvidenza intitolata al santo e medico
italiano Riccardo Pampuri, una sessantina tra medici, infermiere e
volontari accompagnano al trapasso in Cristo decine di esseri umani
giunti agli ultimi respiri. Qui incontriamo la suora
carmelitana Sonia Maria della Croce, una donna di una bellezza
stupefacente. Una innamorata di Cristo che vive 24 ore su 24 in un
hospice con persone come Pablo, 22 anni e un sarcoma alla spalla che gli
pesa e puzza fino a togliergli il fiato, fino a fargli vomitare il poco
che ha mangiato. O come Gloria, 27 anni e una metastasi ossea che è un
coltello che entra ed esce ad ogni istante in quegli occhi così belli,
in quel volto così da madonna.
Il posto più pulito del paese
E
va bene – uno si chiede – dove sta il trucco in questo film? Niente
trucchi e niente film. Tutta realtà da morirci dentro. Da viverci in un
crescendo di stupore e di ammirazione che fanno venir voglia ai tanti
che sono passati e passano di qui di dire, come quel tale dei Vangeli,
«Signore, piantiamo delle tende e restiamo qua». Di uomini, donne,
vecchi e bambini in fin di vita, dal 2005 ad oggi, nell’hospice di don Aldo ne sono passati settecento. Morti
e, dice la fede cattolica, ora viventi nella comunione dei santi.
Eccolo Victor, tre anni, idrocefalo che doveva essere stecchito da un
pezzo. Victor che gemeva in continuazione e che adesso non geme più.
Chissà perché. Chissà cosa può capire della compagnia che gli fanno gli
altri tre piccoli idrocefali che gli hanno messo in stanza,
quell’esserino il cui cervello è stato spappolato da un liquido che gli
sgorga in continuazione nella testa, come un rubinetto rotto che
continua a sversare e premere sulle cervici. Victor,
un bambino ridotto a ostia, a trasparenza come di medusa in cui ogni
filamento è una vena o un’arteria che pulsa nelle notti blu dello
strepitoso emisfero australe. Dove le stelle sono cascate di
fuochi d’artificio e la mezza luna ha la gobba che non guarda né a
Occidente né a Oriente. Ma guarda a Sud o a Nord. Luna dei cieli
stellati del Paraguay a cui il corpicino di Victor grida: «Ed io che
sono?».
In
un paese dove due bambini su tre non sanno chi è il loro padre, né
sanno se i loro fratellini e sorelline siano figli di primo o di
ennesimo letto della loro madre, qui, accanto all’hospice, accanto alla
pizzeria sorta per iniziativa di una cooperativa di sopravvissuti al
carcere o a una dura malattia, la pizzeria dove ogni sabato sera passa
la festa dei malati che possono ancora ingoiare un pezzo di pasta col
pomodoro e farsi un segno di croce al passaggio della bara aperta (così
usa ad Asunción, e – badate – la pizzeria degli amici di don Aldo è
frequentata da gente comune, bella gioventù e buone famiglie),
in due casette piantate in un buon quartiere residenziale, un plotone di
bambini ora festosi, ieri perduti o abbandonati come cani per strada,
violati dalla bestialità di adulti scriteriati o malati di Aids, bambini
tra gli uno e i sedici anni, chiamano “padre” don Aldo e “madre”
Cristina, una ragazza che ha perso due figli e ne ha ritrovati a decine
sotto le ali delle opere di carità sorte dalla fede di un povero prete,
malato di depressione e d’amore. «Come quella volta che dissi a don
Giussani: ma non si tratta solo di sentimento, qui c’è di mezzo qualcosa
che ti scombussola le viscere alte e il basso ventre. E lui: “Quando sei lì lì per arpionarla, dì un gloria al padre, e che Dio ti protegga amico mio”».
Un
pretino venuto dal Sessantotto, che doveva finire spretato in qualche
comune dionisiaco-guevarista e invece è stato arpionato col suo povero
comunismo terzomondista dall’obiezione di un ragazzino di Battipaglia.
Un ragazzino di don Giussani che un giorno gli disse: «Prof, non è così che si cambia il mondo, ma con la nostra amicizia che ha origine in Gesù. E dovrebbe essere lei a insegnarlo».
È per questo che, molti anni dopo quell’incontro, il montanaro venuto
da un paesino del Bellunese ha fatto incidere all’entrata della sua
chiesa paraguaiana la testimonianza dei primi padri gesuiti che
cristianizzarono i guaraní e li protessero fino al martirio dai fratelli
degli imperi cattolici e protestanti. Che nel nome delle nuove idee
moderne e progressiste vennero dall’Europa per schiavizzare gli indios
e, infine, sterminarli. «Padre Louis de Montoya ci insegna che l’essenza dell’antropologia cristiana e il cuore dell’esperienza gesuitica è l’affermazione della supremazia dell’ontologia sull’etica, dell’avvenimento sulle conseguenze, della grazia sulla norma».
Una supremazia laica. Basti pensare che quando i gesuiti arrivarono
nelle selve del Paraguay la speranza di vita media di un indio era di 26
anni. Quando se ne andarono, alla fine del Settecento, 56 (quella degli
italiani nell’immediato Dopoguerra dello scorso secolo era di 58 anni).
Come i gesuiti del Cinquecento
Vent’anni fa don Giussani promise a don Aldo che avrebbe fatto grandi cose. Lui
piangeva, era depresso, si era innamorato di una vedova, voleva morire.
«Bene, adesso che sei diventato un uomo – gli disse Giussani – la tua
vocazione fiorirà». E così è stato. Il simbolo visivo di questa
vocazione fiorita per la felicità di sé e dei fratelli uomini è il
castello, letteralmente un castello, con tanto di muri di cinta,
merlature, passaggi reconditi, cavalieri scolpiti da Ferdinando
Pistilli, un artista recentemente scomparso, dallo stile che ricorda il
grande Giacometti. Un castello costruito ad arte e a imitazione delle
amate reducciones gesuitiche, quelle comunità cristiane di indios sparse
per tutta l’America latina che don Aldo ha illustrato in una strepitosa
mostra allestita al Meeting di Rimini 2009, e che proprio in Paraguay
ebbero la loro principale fioritura. Di queste comunità sorte intorno
alla metà del Cinquecento, che durarono centocinquant’anni e furono
distrutte dalla furia imperialista e schiavista delle potenze europee,
la parrocchia di San Rafael vuol essere ideale erede. Ecco,
nel cuore di uno dei paesi più poveri del mondo, dove il tre per cento
degli abitanti possiede tutte le ricchezze (e dunque si capisce che il
Pil pro capite di 200 dollari mese è una statistica che non spiega come
stanno i conti domestici dei sei milioni di abitanti sparsi su
quattrocentomila chilometri quadrati, centomila in più dell’Italia con i
suoi sessanta milioni di abitanti); dove le più importanti e
sterminate coltivazioni di soia, canna da zucchero e manioca sono
gestite da colonie agricole di multinazionali laiche e sette religiose
di tedeschi, ucraini, polacchi; dove la metà della popolazione vive da
campesino in proprietà agricole grandi come intere regioni italiane,
mentre solo il 2 per cento risiede nel Grande Chaco, una steppa
semidesertica che copre il 60 per cento del territorio del Paraguay;
dove le scuole scarseggiano, la corruzione è regina, il contrabbando
fiorisce e trova uno dei punti di maggiore attrazione internazionale a
Ciudad del Este, famosa città sui tre confini, Paraguay, Brasile,
Argentina; dove la migliore sanità è costituita dalla fortuna di non
beccarsi il parassita che scivola nel cuore e lo fa scoppiare o di avere
i soldi per acquistare le medicine per la chemioterapia; in tutto
questo casino don Aldo Trento ha piantato un seme di umanità che produce
curiosità, rispetto, ammirazione e – aspetto decisivo – contagio,
emulazione. «È impressionante vedere come questa gente impari imitando.
Mangio le mele verdi argentine? I miei bambini, che non hanno mai visto
una mela, vogliono solo mele verdi. Nasce la pizzeria a San Rafael? Ecco
che in città sorgono come funghi locali dove si serve pizza. Piantiamo
ficus benjamin? Tutti mi chiedono un ramo per piantarlo. Insegno ai
bimbi che le regole servono perché nella comunità regnino bellezza,
ordine, rispetto e disciplina? Le mamme applicano anche a casa il metodo
dei “cercatori della terra senza male”, una specie di catechismo in
azione, una sorta di scoutismo, che abbiamo organizzato qui in
parrocchia sotto un titolo che ricorda l’esperienza religiosa dei
guaraní, il cui Dio insegnava a cercare, appunto, “la tierra sin mal”».
Cristianesimo felice è quello che si radica in una ossessione di
bellezza, ordine, pulizia. Un
posto dove Gesù Cristo non insegna valori a nessuno. Ma porta il fuoco e
la bellezza, anche i più elementari. Dalla cura del mare di begonie che
colorano di rosa l’entrata della chiesa ai pavimenti tirati a lucido,
dentro e fuori ogni angolo della parrocchia. Uno si chiede se tutto
questo è spiegabile con una concezione della fede come metodo. O se nei
paraggi di San Rafael c’è una grossa azienda di pulizie. Appurato che
non c’è , ci si deve arrendere alla constatazione di maestro Rubin: «Non ci credo, ma se questo è Dio, quasi quasi ci credo».
Chi è Rubin?
Humberto Rubin è uno dei più autorevoli giornalisti paraguaiani,
anchorman tv e fustigatore per via radiofonica dei vizi della nazione.
Ebreo agnostico dal background ideologico alla Michele Santoro e un
cervello da Giuliano Ferrara. Cocktail micidiale. Sua moglie, ministro
delle Pari opportunità, è un tipetto femminista che pare abbia vietato
l’entrata in Paraguay perfino al compagno Manuel Ortega, presidente
nicaraguense coinvolto in uno scandalo di violenza sessuale. Bene,
dopo aver cercato invano di attirare don Aldo in una di quelle
trasmissioni dove si parla di preti e omosessualità, con le solite ovvie
implicazioni dell’agguato a mezzo televisivo intorno ai mali della
Chiesa, la pedofilia, l’omofobia, l’arretratezza culturale e
scientifica, Rubin si è presentato in parrocchia armato di taccuino,
troupe e telecamere. Doveva essere una fucilazione. È finita nella
“quasi”conversione del fucilatore. Un’ora di trasmissione con immagini
di malati e bambini ripresi in primo piano, che mai nessuna tv al mondo
manderebbe in onda per non incorrere nelle sanzioni previste dalle leggi
su privacy e minori. «Mi
scuso con i telespettatori, mi assumo tutta la responsabilità di quanto
state vedendo, mi dispiace, ma anche questa è la realtà». Così
avverte Rubin nel mezzo di un filmato cominciato sotto il Santissimo
esposto nell’hospice e con il quesito sarcastico del conduttore: «Cos’è questa roba qui e cosa c’entra la Madonna?».
Abbiamo
incrociato il fiume di lava incandescente sulla strada brecciata,
l’empedrado che comincia appena all’angolo della parrocchia di San
Rafael, mentre già alle sette del mattino urlava al telefono con un
collaboratore di Sotoo. Come la vuole questa scultura? Cosa deve
rappresentare in un hospice per morituri? E don Aldo con il suo
veneto-ispanico da cavernicolo, la voce concitata, al limite
dell’afonia: «Ricapitolare
in Cristo tutte le cose, questo è il tema. Tutto in Cristo resuscitato,
trasfiguratore della realtà. E poi il destino che ci aspetta, vivi e
morti, agonizzanti e nuovi nati, terra nuova e cieli nuovi, la creatura
che soffre e grida Cristo, Cristo vincitore della morte che attrae a sé,
alla felicità totale, tutte le cose». Uno si chiede se quest’uomo è matto. Oppure un altro, uno che nel nostro caso è
Federico Franco, vicepresidente del Paraguay e leader del maggior
partito di governo, congiunge le mani e chiede: «Padre, mi benedica».
«Chi si mette contro la Chiesa soccombe»
Signor
vicepresidente, chi è secondo lei don Aldo Trento? «È molto difficile
appurarlo, ma so che è impossibile imbattersi in padre Aldo senza poi
sentirsi attratti a seguirlo. La sua testimonianza mi fa piangere. Fa il
bene senza guardare a chi lo fa. È l’avamposto di un altro mondo.
Diciamo che è merito suo se oggi il Paraguay ha un legame speciale con
l’Italia. E dire che don Aldo ha fatto una infuocata propaganda contro
di me e il presidente Lugo durante la campagna elettorale. Ma come le ho
detto, quando lo si conosce non si può non diventare amici. Anzi,
fratelli». Il presidente Lugo si è allineato a Chávez, anche se su
posizioni più moderate, e il boliviano Evo Morales, un altro dei
presidenti dei paesi latinoamericani che come il Paraguay sono entrati
nell’alleanza bolivariana e chavista denominata Alba, ha appena fatto
una dichiarazione programmatica in cui sostiene che «la Chiesa cattolica
è un simbolo del colonialismo europeo e per tanto deve sparire dalla
Bolivia». Come la mette con questi “fratelli”? «Io rispetto le posizioni
del presidente Lugo e le decisioni del mio governo, ma non penso come
loro. In particolare credo
che la linea del presidente venezuelano sia completamente sbagliata,
perché vìola la democrazia, la libertà di stampa, la proprietà privata,
lo Stato di diritto. Quanto alle dichiarazioni di Morales, è chiaro che
dissento e mi dissocio completamente. Penso che gli scriverò facendogli
notare il fatto che chiunque è andato contro la Chiesa cattolica alla
fine ha dovuto soccombere».
Le peripezie di un ex vescovo al governo
Chissà
se vorrà dire qualcosa sui piccoli e grandi Antonio Di Pietro in giro
per il pianeta il fatto che secondo la classifica stilata dalla molto
politicamente corretta Transparency International i paesi più corrotti
dell’America latina sono gli stessi governati da caudillos andati al
potere sull’onda di parole d’ordine quali “lotta alla povertà, lotta
alla corruzione”. Classifica che, nell’ordine di apparizione, vede in
testa il Venezuela di Chávez, seguito da l’Ecuador di Correa e dal
Paraguay del presidente Fernando Armindo Lugo Méndez, già vescovo di San
Pedro e nipote di Epifanio Méndes Fleitas, che a metà del secolo scorso
fu esponente di punta dell’Associación Nacional Repubblicana, meglio
nota come Partito Colorado. Lugo non può ricordare che anche suo zio
brigò perché nel 1954 salisse al potere un giovane generale che i boss
colorado credevano di potere controllare e utilizzare per restituire
stabilità interna e affidabilità internazionale a un paese sconvolto da
continui colpi di Stato. Quel giovane generale si chiamava Alfredo
Stroessner. Ma invece di essere controllato, fu lui il controllore.
Mandò in esilio Epifanio e piegò il Paraguay a una dittatura feroce che
durò fino al 1989, anno in cui come il Muro di Berlino, anche Stroessner
divenne da un giorno all’altro un cascame storico. Gli sfilarono la
poltrona come se fosse la cosa più semplice e naturale. Come la muta
sfila la pelle al serpente. Altri vent’anni e il nipote di Epifanio era
lì, dopo una vocazione religiosa che lo condusse a entrare nel seminario
di una congregazione tedesca, la Società del Verbo Divino, a
raccogliere prima il sacramento dell’ordine sacerdotale, poi l’anello
pastorale del vescovo, infine la palma del presidente della Repubblica
del Paraguay. Una decisione maturata nel seno della cosiddetta teologia
della liberazione, avendo come consigliere il vecchio Leonardo Boff.
L’ideologo del Cristo poveraccista “stroncato” dal cardinal Ratzinger
prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. È forse per
distrarsi dalla fine ingloriosa di una teologia in dismissione che Boff
ha ingiuriato l’encilica Caritas in veritate con un «Benedetto XVI
dovrebbe leggersi Marx»? Comunque sia, il 20 aprile 2008, dopo sessantun
anni di generali giannizzeri e politici colorado, il prete e vescovo
Lugo ha conquistato la presidenza del Paraguay sostenuto da una
coalizione molto simile all’Unione di Romano Prodi, l’Alleanza
patriottica per il cambiamento, composta da partiti e movimenti che
vanno dalla Democrazia cristiana al Partito comunista. In realtà il
grosso dell’Alleanza è costituito dal Partito liberale radicale
autentico, un nome davvero troppo sfarzoso anche per il medio
latinoamericano retorico. Mentre il partitino democristiano di Lugo è
una formazione di peso infinitesimale nella coalizione. A dimostrazione
del fatto che Lugo è espressione del mondo clericale. È un fatto
deducibile sulla base dei risultati del voto: Lugo è stato votato dai
preti e soprattutto dalle suore, mentre il laicato cattolico ha votato
liberale o colorado. In effetti preti e suore lo chiamano “illuminador”.
E in lui il clero è convinto di aver trovato il profeta di un’epoca
nuova, dopo una lunga e frustrante storia di cristianesimo per il
socialismo fallito in tutti i continenti. E del resto Lugo, da parte
sua, una volta eletto, ha scelto di non mettersi in diretta
contrapposizione alla Chiesa. «Dal nuovo governo – ha spiegato a Tempi
il nunzio vaticano in Asunción, monsignor Orlando Antonini – mi
aspettavo un atteggiamento ostile, perché tutti sanno quali siano state
le nostre posizioni a riguardo della candidatura di Lugo. Mi attendevo
di essere dichiarato persona non grata. Ma da un autorevole esponente
dell’esecutivo mi è stato risposto: “E perché mai, eccellenza? Lei ha
fatto solo il suo dovere”. Devo dire che anche Lugo, da presidente, è
stato rispettoso nei confronti della Chiesa».
E
infatti, dopo aver ottenuto la spoliazione dalla veste ecclesiastica e
la riduzione allo stato laicale, Lugo ha chiesto perdono al Papa e ha
riconosciuto il figlio naturale avuto quando era vescovo della città di
San Pedro dalla relazione con una 24enne. Ora però il presidente non
accetta di sottoporsi all’esame del Dna che stabilisca se è vero, come
sostengono le signorine, che da vescovo abbia reso madri felici altre
cinque ragazze. Non bastando l’aver dovuto rinunciare a distribuire ai
poveri lo stipendio presidenziale perché, come ha dichiarato lo stesso
Lugo, «adesso quei soldi servono per pagare gli alimenti a una madre e
al suo bambino», sulla testa di un presidente che resta tra i più
simpatici e amati dell’America latina, adesso è piovuto un altro
scandalo a sfondo sessuale: uno degli imprenditori che ha finanziato la
sua campagna elettorale, forse per vendetta per non aver ottenuto il
posto di ministro che, a suo dire, Lugo gli aveva promesso, sostiene di
avere le prove di orge e amori pedofilici che si sarebbero svolti nella
residenza presidenziale e in cui sarebbe coinvolto pure il presidente
della Corte di giustizia, l’analogo della nostra Corte costituzionale.
L’avvocato di Lugo ha annunciato querele. Ma intanto la storia ha fatto
crollare di oltre dieci punti il suo indice di gradimento.
L’indigenista e il gesuita
Lugo
sorride: «Hola padre, mi raccomando la dieta. Come va il suo diabete?».
La scena si svolge nella fine mattinata di un giorno di fine luglio,
davanti al palazzo del Parlamento paraguaiano, prima che il presidente
entri nella conferenza stampa in cui annuncerà lo storico accordo con il
Brasile per la gestione di Itaipù, la più grande centrale idroelettrica
del mondo. Don Aldo Trento è stato tra i pochi sacerdoti che, insieme
al vescovo di Ciudad del Este e il nunzio Antonini, si sono schierati
apertamente contro il candidato vescovo. E Lugo sa bene fino a che punto
l’opinione e il giudizio del prete italiano pesino anche dentro il suo
palazzo. Ecco, tanto per fare un esempio, il passaggio che parla di lui
nel decreto numero 1996 licenziato dalla presidenza della Repubblica lo
scorso maggio, in occasione del bicentenario dell’indipendenza del
Paraguay: «Visto la nota presentata all’Eccellentissimo Signor
Vicepresidente della Repubblica da Padre Aldo Trento, della Fondazione
Centro San Rafael… dichiara di Interesse Nazionale la Commemorazione dei
400 anni della fondazione di San Ignacio Guazù, prima Riduzione
Gesuitica in Paraguay». Un atto politico e culturale che per un
presidente teologo della liberazione e indigenista, alleato di Morales e
di Chávez, è abbastanza singolare.
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Postato da: giacabi a 20:52 |
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cattolico, padre trento
Elogio dei viziosi
***
Avere piccole valvole di sfogo ci rende normali. Lo sapeva san Escrivá de Balaguer
di Tempi
«Se
non fumi e non bevi, morirai sano». Pare a noi che dell’antica saggezza
di codesto proverbio russo oggi si sia persa traccia. Lotta al tabacco (sulla copertina di Famiglia cristiana), lotta all’alcol (nelle vie milanesi), lotta all’amore (nel “lettone di Putin”), lotta alla flatulenza delle mucche australiane
(come bucano l’ozono loro, non lo buca nessuno). Per i viziosi non c’è
scampo. Eppure un mondo senza di loro sarebbe più inaffidabile. Perché
il vizioso – se è tale, cioè consapevole di esserlo, ché altrimenti è
solo un allocco – è la persona giusta da cui comprare un’auto usata. Il
vizioso sa di avere una debolezza, non sa resistervi, ma ciò non gli
impedisce di condurre positivamente la vita. Anzi, proprio perché la sua
meschinità ha una piccola valvola di sfogo, si può star certi che non
sarà capace di grandi frodi.
Chi ama invece presentarsi come irreprensibile – condizione umanamente impossibile – celerà le sue nere miserie nell’ombra per poter predicare la virtù in pubblico. Ma quelle, da piccole, si faranno grandi, fino alla frustrazione, fino alla tragedia (Hitler era un igienista vegetariano). |
Postato da: giacabi a 20:36 |
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cattolico
Credo nella Chiesa Cattolica
***
« Quale
membro della vera e venerabile Chiesa ortodosso-orientale o
greco-russa, che non parla per mezzo di un sinodo anticanonico, ne per
mezzo di impiegati del potere secolare, ma con la voce dei suoi grandi Padri e Dottori, io riconosco come giudice supremo, in materia religiosa, colui che è stato riconosciuto da
sant’Ireneo, da Dionigi il grande, sant’Atanasio il Grande, san
Giovanni Crisostomo, san Cirillo, San Flaviano, il Beato Teodoro lo
Studita, Sant’Ignazio ecc.- ossia l’apostolo Pietro che vive nei suoi successori e che non ha udito invano le parole del Signore:«
Tu Sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Con ferma i
tuoi fratelli. Pasci le mie pecorelle, pasci i miei agnelli»
Vladimir Solov’ev da :La Russia e la Chiesa universale
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Postato da: giacabi a 11:38 |
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chiesa, cattolico, soloviev
Ernst Jünger, cattolico
***
L’undicesima ora di Ernst Jünger
«
Ernst Jünger e’ morto il 17 febbraio del 1998 all’ospedale di
Riedlingen. E’ stato alcuni giorni in rianimazione, nei quali sua moglie
Liselotte ha cercato di capire cosa volesse dire, ma invano.
Ersnt
Jünger abitava nei pressi di Riedligen da circa 47 anni. Nel luglio del
1950, si era trasferito a Wilfligen, un villaggio comprendente mille
anime. Abito’ con la sua prima moglie, morta nel 1960, al castello di
Schenk zu Stauffenberg, barone e parente del conte Claus Schenk zu
Stauffenberg, che aveva perpetrato un attentato contro Hitler. Per colpa
sua, gli Stauffenberg de Wilfligen erano stati imprigionati e subirono
un interrogatorio nel loro castello. La famiglia Jünger si stabilira’
nella primavera del 1951 in un’antica e maestosa villa forestale,
costruzione barocca risalente al 1728 e appartenente al castello che era
situato di fronte.
Fu
proprio nella chiesa Saint-Jean-Nepomucène del castello che il
pomeriggio del 21 febbraio 1998, venne celebrata una messa da requiem
per Ernst Jünger. Il Dr Roland Niebel, curato locale, presiedera’ la
cerimonia liturgica che sara’ concelebrata con un canonicus della
diocesi di Rottenburg. Delegati militari e appartenenti ad associazioni
di antica tradizione militare, in uniforme, gli renderanno grandi onori,
mentre dalla tribuna organistica sara’ la figlia di Jünger a cantare
l’Ave Maria.
I
presenti alla cerimonia funebre, sia quelli accalcati all’interno della
chiesa, che all’esterno in religioso silenzio si ponevano pero’ una
questione: perche’ un rito cattolico? Forse perche’ gli Stauffenberg de
Wilfligen e la loro chiesa appartenevano alla confessione romana? Ma
Jünger non era cresciuto in una casa paternale strettamente legata al
protestantesimo liberale?
Quando
gli fu chiesto, in vecchiaia gia’ avanzata, come mai ancora pagasse
l’importo ecclesiastico, aveva effettivamente risposto in maniera
equivocabile: « Perche’ sono un conservatore».
Il
giorno della sepoltura, quasi nessuno, fatta eccezione per la sua
famiglia, sapeva che il 26 settembre 1996, e quindi nel pieno delle sue
facolta’ intellettuali, Ernst Jünger si era convertito alla Chiesa cattolica dinanzi al curato locale, il Dr Niebel. L’arcivescovo di Munich-Freising confermo’ la conversione ».
Bernhard Gajek , « La onzième heure d’Ernst Jünger », Catholica, Printemps 1999, p. 98-99.
da: http://it.novopress. |
Postato da: giacabi a 17:11 |
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cattolico
Il cattolicesimo
***
G. Prezzolini, (Don G. De Luca e G. Prezzolini, Carteggio 1925-1962, ed. Storia e Letteratura Roma 1975, p. 15, nota).
|
Postato da: giacabi a 20:29 |
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cattolico
McLuhan
***
“Nel tempo in cui cominciai a studiare il cattolicesimo, non avevo alcuna fede religiosa. Non credevo in niente. Pregai Dio per due e tre anni, dicendo semplicemente "Mostrami".
Non avevo alcuna prova. Non sapevo che cosa mi sarebbe stato mostrato, perchè non credevo in niente. Qualcosa mi fu mostrato, all'improvviso. Non accadde in maniera prevedibile.
Si verificò come una evidenza immediata, senza che mi facessi alcuna domanda sull'intervento divino.
Non
ci fu trauma nè impulso personale. Non avevo mai avuto bisogno della
religione: non avevo avuto mai nessuna crisi personale o emotica. Volevo semplicemente sapere ciò che era vero... e mi fu detto. Divenni cattolico il giorno dopo ! ”
McLuhan
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Postato da: giacabi a 14:59 |
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cattolico
Ecumenismo
***
“Ecumenismo è andare verso l'altro desiderando di riconoscere la verità che c'è in lui”
Arcivescovo Paolo Pezzi
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Postato da: giacabi a 08:04 |
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cattolico
Shakespeare era cattolico
***
Insomma,
è sicuro: il maggiore poeta e drammaturgo di lingua inglese di tutti i
tempi (e che nella cultura anglosassone occupa il posto che ha per noi
Dante) era cattolico. Un libro di Joseph Pearce (intervistato dall’agenzia zenit.org il 14 luglio 2008) lo dimostra inequivocabilmente. The Quest for Shakespeare: the Bard of Avon and the Church of Rome (questo il titolo) non è comunque una novità, essendo stato preceduto da Shadowplay: the hidden beliefs and coded politics of Shakespeare, di Claire Asquith. «Esiste
una schiera di illustri studiosi di Shakespeare che sono arrivati alla
conclusione che il Poeta era cattolico», dice Pearce.
Ma la sua fede è rimasta nascosta per il semplice motivo che il cattolicesimo ai suoi tempi era fuorilegge. E lo fu praticamente fino al XIX secolo. Furono oltre settantamila i cattolici uccisi in Inghilterra per la loro fedeltà al papa. Che Shakespeare fosse cattolico lo sapeva bene anche Elisabetta I, ma la di lui discrezione le consentiva di tollerarlo. Erano del pari tollerati, benché cattolici, il compositore di corte William Byrd e il conte di Southampton, non a caso benefattore di Shakespeare. Di quest’ultimo, «la famiglia della madre era una delle famiglie cattoliche più note in Inghilterra e diverse cugine di Shakespeare erano state giustiziate per il loro coinvolgimento nei cosiddetti complotti cattolici. Il padre di Shakespeare era stato multato in quanto cattolico e così anche la sorella Susanna». L’impronta cattolica è, nelle opere del Poeta, giudicata «evidente» da Pearce, anche se, date le circostanze, espressa «in modo circospetto». Strano posto l’Inghilterra protestante: tutti i suoi maggiori letterati (da Wilde a Tolkien) erano cattolici. Rino Camilleri
grazie a: ppdumb
|
Postato da: giacabi a 21:29 |
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shakespeare, cattolico
L’orgoglio della fede in Gesù da spirito libero: Basta con le infamie miranti a screditarmi con l’obiettivo di attaccare il Papa
*** da: www.magdiallam.it
La
mia replica ai cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo e
del politicamente corretto, che avrebbero voluto che mi convertissi al
cattolicesimo mantenendo una valutazione positiva dell’islam
autore:
Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Vi propongo la versione integrale della mia seconda e spero ultima lettera al Direttore Paolo Mieli, pubblicata oggi dal Corriere della Sera, in cui chiarisco il mio pensiero sulle critiche infondate, infamanti e strumentali sollevate da taluni dopo la mia conversione al cattolicesimo. Voglio precisare che da parte del Corriere della Sera non c’è stata alcuna censura ma che per ragioni di spazio non è stato possibile pubblicare la versione integrale della lettera.
Caro Direttore,
la mia conversione al cattolicesimo avvenuta nella solenne celebrazione della Veglia Pasquale nella Basilica di San Pietro per mano del Papa è stata da più parti strumentalizzata sia per screditarmi sia per accusare il Santo Padre. Ebbene voglio subito chiarire che sottoscrivo pienamente, in ogni sua virgola, la precisazione del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, che distingue correttamente tra le mie idee personali, di cui mi si riconosce la libertà d’espressione, e le posizioni ufficiali della Chiesa, che ovviamente sono del tutto autonome dal mio pensiero. Ci mancherebbe altro! Mi auguro che a questo punto cessino le manovre più o meno occulte di tutti coloro che, pur facendo riferimento ad ambiti religiosi o ideologici differenti, si sono sostanzialmente ritrovati uniti nell’attacco a Benedetto XVI.
Sai
bene, e lo sanno anche i lettori del Corriere, che da musulmano sono
stato uno spirito libero ed è proprio questa libertà intellettuale, a
cui fa da sponda una radicata rigorosità etica, ciò che ha gradualmente fatto maturare in me il
convincimento che la religione cattolica corrisponda pienamente al
contesto ideale al cui interno possono naturalmente convivere dei valori
inalienabili e inviolabili che per me sono da sempre irrinunciabili in
quanto rappresentano l’essenza della nostra umanità, a cominciare dalla
fede nella sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale,
dal riconoscimento della dignità della persona quale fondamento della
civile convivenza, dal rispetto della libertà di scelta tra cui spicca
l’esercizio incondizionato della libertà religiosa. Ebbene
voglio rassicurare tutti che continuerò ad essere ancor di più uno
spirito libero da cattolico. E non potrebbe essere diversamente visto
che proprio
da questo Papa ho imparato che l’uso della ragione, l’adozione di
parametri valutativi e critici, la verifica della verità scientifica e
storica, costituiscono la condizione imprescindibile per accertare la
fondatezza della bontà di una autentica religione e per perseguire
quella Verità che coniughi l’oggettività, l’assolutezza e l’universalità
del pensiero laico con la trascendenza propria della fede in Dio.
Così come la libertà di spirito è stato il tratto saliente degli amici
fraterni cattolici che mi hanno accompagnato nel percorso interiore
culminato nella piena adesione alla fede in Gesù, a cominciare da monsignor Rino Fisichella,
la mia guida spirituale, che forse non a caso riuscì a diventare il
referente religioso di Oriana Fallaci, il vessillo della libertà
incondizionata e irrefrenabile nella storia del giornalismo italiano
contemporaneo.
Da spirito libero trovo del tutto infondate, pretestuose e maligne le critiche che mi sono state rivolte. Ci si è scandalizzati per il fatto che il mio battesimo sia avvenuto nella notte di Pasqua, a San Pietro, da parte del Papa. Forse i più non sanno che i catecumeni, gli adulti che si convertono, ricevono i sacramenti d’iniziazione al cristianesimo nel corso della cerimonia della Veglia Pasquale. Ciò avviene ovunque nel mondo. E che, avendo effettuato il percorso di conoscenza e di adesione alla nuova fede a Roma, non deve sorprendere che sia stato il Papa, nella sua veste di vescovo di Roma, a impartirmi il battesimo, la cresima e l’eucarestia. Sinceramente sono allibito e rammaricato quando perfino alcuni esponenti del clero cattolico arrivano a sostenere che sarebbe stato di gran lunga preferibile che il mio battesimo fosse stato impartito in una parrocchia di una remota cittadina, lontano da occhi discreti e dall’interesse dei mass media. Come se il mio battesimo fosse una vergogna da tenere il più possibile nascosta. Alla luce di questa interpretazione infamante, il ruolo di Benedetto XVI ha finito per essere equiparato a una “provocazione” se non un vero e proprio “complotto” contro l’islam. Ebbene io sono orgoglioso della mia conversione al cattolicesimo, sono orgoglioso che sia avvenuta in modo pubblico e che sia stata pubblicizzata, sono orgoglioso di poterla affermare a viva voce, sono orgoglioso di poter testimoniare la mia nuova fede ovunque nel mondo e considero il mio battesimo dalle mani del Papa come il dono più grande che la vita potesse accordarmi. Sono stato criminalizzato, qualcuno mi ha paragonato agli estremisti islamici che mi hanno condannato a morte, per aver espresso un giudizio radicalmente negativo nei confronti dell’islam. Una folta schiera di cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo etico, culturale e religioso nonché del politicamente corretto, avrebbe voluto che io limitassi la mia denuncia al terrorismo islamico ma che mantenessi una valutazione comunque positiva dell’islam. Perché, a loro avviso, tutte le religioni sono pari a prescindere dai loro contenuti e, in ogni caso, non bisogna dire alcunché che possa urtare la suscettibilità altrui. Ma scusatemi: se mi sono convertito al cattolicesimo è del tutto ovvio che l’ho fatto perché ho maturato una valutazione negativa nei confronti dell’islam. Se io veramente credessi che l’islam sia una religione vera e buona, perché mai l’avrei abbandonata? A questo punto emerge il sospetto, usando un eufemismo, che si vorrebbe che io pur nutrendo una valutazione negativa dell’islam, non la debba però esternare rendendola pubblica. Sempre per la paura della reazione di condanna nelle sue varie sfumature, dalla deplorazione fino alla minaccia se non all’uso della violenza. Ebbene mi spiace per costoro: ciò che dentro di me è vero e giusto lo dirò e lo scriverò sinceramente e integralmente. Se loro sono già sottomessi al terrorismo dei taglia-lingua e già praticano l’auto-censura per prevenire la violenza degli estremisti islamici, io intendo affrontare questa guerra di libertà e di civiltà a testa alta e con la schiena dritta, fino alla fine. A questo punto è doveroso chiarire che io non sono affatto un apologeta e un fautore di una “guerra di religione” o di una “guerra di civiltà”. Ciò che l’Occidente non ha o non vuole capire che è in già in atto una guerra scatenata dal terrorismo e dall’estremismo islamico globalizzato, i cui protagonisti sono i taglia-gola e i taglia-lingua che massacrano e sottomettono nel nome di Allah tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza, a cominciare dagli stessi musulmani nei paesi a maggioranza islamica. Io sono un ex musulmano che ha subito e continua a subire questo terrorismo e che ora, da cattolico, intende essere testimone di una verità storica e promotore del riscatto di valori e di un’identità senza cui l’Occidente, che affonda la sue radici nella fede e nella cultura giudaico-cristiana, non potrà affrancarsi e confrontarsi costruttivamente anche con i musulmani. Pur prendendo radicalmente e definitivamente le distanze dall’islam in quanto religione, sono assolutamente convinto che si possa e si debba dialogare con tutti i musulmani che, in partenza, condividono i diritti fondamentali della persona senza se e senza ma e perseguono il traguardo di una comune civiltà dell’uomo. L’errore in cui si incorre è di immaginare che i musulmani, quali persone, sarebbero dei cloni che incarnano in modo automatico e acritico i dogmi dell’islam. Sono, come tutte le persone, una realtà singolare e complessa in cui la dimensione religiosa, che assume dei connotati diversi, si confronta con quella che è l’esperienza personale frutto di uno specifico contesto familiare, psicologico, sociale, culturale, economico e politico. Caro direttore, tu sai bene che il Corriere si è sempre speso per valorizzare la posizione dei musulmani moderati. Io stesso sono orgoglioso di essere stato nell’ultimo decennio il musulmano che più di altri si è speso per affermare in Italia un islam della fede e della ragione. Ricordo con orgoglio come il 10 settembre 2004 fui l’artefice della prima visita nella storia d’Italia di una delegazione di musulmani moderati al Quirinale, accolti dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, dopo la pubblicazione, il 2 settembre 2004 sul Corriere, di un “Manifesto contro il terrorismo e per la vita” da me redatto e fatto sottoscrivere a una trentina di musulmani che presumevo fossero moderati. Poi mi sono dovuto ricredere. Perché nel momento in cui devono confrontarsi con i dogmi e con i precetti dell’islam, qual è il caso della mia conversione al cattolicesimo, la loro moderazione viene del tutto meno. Non è forse singolare che i più accaniti critici della mia conversione siano proprio i cosiddetti moderati, a cominciare dai sedicenti 138 “saggi” dell’islam che hanno proposto un dialogo con il Vaticano sulla base di versetti coranici, estrapolati dal loro contesto, sull’unicità di Dio e l’amore per il prossimo? Ormai la millenaria esperienza con l’islam deve insegnarci che il dialogo è possibile solo con quei musulmani che accettano di assumere incondizionatamente, a prescindere da ciò che dice o non dice il Corano, rivolgendosi nella propria lingua alla loro gente, una chiara e ferma posizione sulle questioni concrete, tra cui oggi certamente figurano il massacro e la persecuzione dei cristiani, la negazione del diritto all’esistenza di Israele, la condanna a morte dei musulmani convertiti in quanto apostati, la legittimazione del terrorismo palestinese ed islamico, la discriminazione e la violenza nei confronti della donna e, più in generale, la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Denunciare tutto ciò nella mia lettera che il Corriere ha pubblicato nel Giorno di Pasqua e della mia conversione al cattolicesimo, non significa in alcun modo voler “dettare la linea” al Papa o politicizzare il mio battesimo. Sono cose che io ho sempre detto da lunghi anni e sarebbe stato veramente singolare che, di punto in bianco, le avessi ignorate. Magdi Cristiano resterà sempre il Magdi che ha difeso dei valori inalienabili e inviolabili, con la sostanziale differenza che oggi questi valori convivono in modo del tutto armonico nel contesto della religione e della cultura cattolica. Ti ringrazio per l’attenzione e la correttezza con cui hai seguito questa mia vicenda personale di fede e di vita e ti comunico che con questo mio intervento ritengo di aver detto tutto ciò che ho ritenuto opportuno che i nostri lettori sapessero. Cordiali saluti e i miei migliori auguri di successo e di ogni bene. Magdi Cristiano Allam
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cattolico, magdi allam
Non si diventa cristiani da soli
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”Per prima cosa mi sembra importante rilevare che la chiesa non concepisce il processo del divenire cristiani come risultato di un processo di insegnamenti o di un itinerario pedagogico, ma come sacramento. Ciò
vuol dire che nessuno diventa cristiano grazie soltanto alla sua opera
personale. Non ci si può fare cristiani da se stessi. Non è affare e capacità dell'uomo modellarsi, per così dire, prima in gentiluomo e, infine, in cristiano. Al contrario, si
incomincia a diventare cristiani solo quando si abbandona l'illusione
della autarchia e dell'autosufficienza, quando si capisce che l'uomo non
può creare se stesso e non può da solo provvedere a se stesso, ma deve
aprirsi, lasciarsi guidare. In tal modo, essere
cristiani significa prima di tutto che noi riconosciamo la nostra
insufficienza, che noi lasciamo agire Lui in noi, il Dio diverso da noi. Louis Evely un giorno ha osservato molto giustamente che il peccato di Adamo non
consistette propriamente nel fatto che egli volle essere simile a Dio:
questa infatti è la vocazione dell'uomo, datagli dal suo stesso
creatore. La
sua colpa va vista, piuttosto, nel modo sbagliato con cui egli cercava
una somiglianza con Dio e nella meschina immagine di Dio che lo guidava
in questo proposito; nel pensare che sarebbe divenuto come Dio, se
fosse riuscito a sussistere con potere proprio, a dare in modo autonomo
ed autosufficiente a se stesso la vita. In
realtà, un simile concetto errato di una immaginaria divinità conduce
all'autodistruzione, perché Dio stesso, come ce lo rappresenta una fede
cristiana, non è un autarchico indipendente, ma colui che è
completamente divino solo nel dialogo dell'amore, infinitamente
richiedendo e ricevendo, donando se stesso. L'uomo
diviene simile a Dio solo quando entra in questa dinamica; quando
desiste dal voler creare se stesso e si lascia creare da Lui. Infatti è
tuttora vero che l'uomo non è la creatura dell'uomo, ma egli può essere
creato e dato a se stesso soltanto da Dio.
Forse, queste affermazioni ci sembrano un po' antiquate. Ma io credo che, proprio in questo nostro tempo, potremmo riscoprire la verità di questo concetto ed accorgerci come ciò che qui è stato detto, soprattutto del singolo, valga anche per l'umanità nella sua totalità. Oggi, quest'umanità pone se stessa come il tutto più grande di ogni realtà, vuole trasformare se stessa nell'umanità totale e non desidera più confidare in nessun altro aiuto che non sia quello che essa stessa si dà. Ma, proprio così facendo, si distrugge nella sua stessa umanità. Proprio mentre annuncia l'umanità totale e pura, essa dissolve - lo sperimentiamo da ogni parte - l'umanità vera dell'uomo. Anche l'umanità, nella sua totalità, non è autarchica, ma rimanda oltre se stessa. Sia cristiani che uomini non si diventa da se stessi, per conquista propria. Per quanto strano ancor oggi ci possa sembrare, noi abbiamo necessità di aprirci nella fede all'azione di Dio. Non si diventa cristiani da soli. Ciò significa che lo si può divenire soltanto nella comunità dei credenti, nella stretta reciprocità della fede comune e della preghiera. Certo, come abbiamo udito proprio nel vangelo di oggi, per essere cristiani è necessaria anche la «tranquilla cameretta», la solitudine di chi lotta e crede da solo con se stesso, di chi si pone dinanzi al volto di Dio. Ma non solo questo. Si esige anche l'essere insieme. Dio viene agli uomini solo per mezzo di uomini. Anche nell'ambito spirituale l'uomo è un essere aperto; anche nell'ambito spirituale è vero che noi uomini possiamo sussistere solo nella dipendenza reciproca e nell'essere gli uni per gli altri. Penso che dovremmo finalmente arrivare a superare la moderna illusione che la religione rappresenti il momento più intimo, che noi viviamo da soli con noi stessi e che non può entrare nella sfera pubblica. Volendo così mettere al sicuro la fede in una spiritualità irreale, la svuotiamo e con ciò stesso togliamo alla convivenza umana il suo elemento più prezioso. Nascono allora il puro collettivo da una parte, il puro individuo dall'altra. Una comunità, nella quale il singolo rimane se stesso, e dove, contemporaneamente, avviene un incontro con ciò che vi è di veramente umano nell'altro, una siffatta comunità non si forma dove l'uomo riserba solamente a sé quello che egli ha di più profondo. Eppure, per poter essere se stesso, l'uomo ha bisogno di una comunità del genere. Diventa compito nostro allora manifestare il nostro intimo, portando in maniera pregnante nel mondo attorno a noi. Spetta a noi non permettere che il mondo rimanga senza Dio, e comunicare ad esso Dio mediante la nostra fede.”
Joseph Ratzinger Tratta da: Dogma e predicazione
a M.
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chiesa, cattolico, benedettoxvi
IL DIO DI JACK KEROUAC
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Da: © La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139 quaderno 3758
I diari di uno «strano solitario pazzo mistico cattolico»
ANTONIO SPADARO S.I.
«Dio,
devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i
vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire
la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio. Non
riesco a scorgere il tuo volto in questa storia» (1):
è la preghiera dello scrittore Jack Kerouac ventiseienne. Riecheggiano
le parole del Salmo: «Non nascondermi il tuo volto…», che ritorneranno
ancora, in interviste e saggi. Così dieci anni dopo: «Cosa sta cercando? mi chiedevano. Rispondevo che aspettavo che Dio mi rivelasse il suo volto» (2).
«Salmi»
è il titolo di una sezione dei diari di Jean-Louis Lebris de Kerouac
(1922-69), conosciuto come Jack Kerouac, una delle icone di culto della
letteratura (3).
Egli tenne nota delle sue vicende e dei suoi pensieri sin dal 1936,
quando era ancora adolescente. Un mondo battuto dal vento raccoglie le
pagine scritte tra il giugno del 1947 e il febbraio del 1954, cioè tra i
25 e i 32 anni, la fase più dinamicamente creativa della sua esistenza,
che si concluderà a soli 47 anni. Questi diari sono stati pubblicati
negli Stati Uniti nel 2004 ed escono adesso anche in Italia.
Il
volume si divide in due parti: la prima è dedicata agli sforzi compiuti
da Kerouac per scrivere e far pubblicare il suo primo romanzo La città e
le metropoli; la seconda riguarda i diari intimi e di viaggio scritti
nel corso della stesura di On the road. Non intendiamo qui illustrare la
ricchezza di contenuti e suggestioni di cui i diari di Kerouac
abbondano. Ci soffermiamo esclusivamente sui passaggi che meglio mettono a fuoco la radice religiosa fino a vette di espressione orante. Approfondiremo la riflessione con riferimento a interviste e ad altre fonti.
Il diario di un uomo in cammino
Kerouac
è ormai ampiamente conosciuto, e le sue opere più note sono lette da un
vasto pubblico, soprattutto il romanzo Sulla strada. Non sarà nostro
compito riassumere la sua esperienza letteraria completa: la
presentazione, infatti, prenderebbe necessariamente tutto lo spazio a
nostra disposizione (4). Il nostro obiettivo è più semplice e limitato: dare
un’idea della profonda sensibilità cattolica dello scrittore così come
essa emerge a partire dai diari, allo scopo di far notare come essa sia
viva, pulsante e ben presente alle radici della sua ispirazione. E questo è vero nonostante il carattere moralmente trasgressivo che caratterizza la sua produzione più nota.
Il
percorso umano, artistico e religioso di Kerouac è, in realtà,
complesso e dialettico. Non saremo qui alla ricerca di coerenze o di
logiche troppo stringenti. Ma proprio attraverso le contraddizioni si
potrà valutare in lui la forte permanenza dell’ispirazione e
dell’immaginario cattolico, che gli deriva dalle sue stesse radici
familiari e che lo accompagnerà fino alla fine. Addentrarsi nelle pagine
dei suoi diari è un’esperienza viva e pulsante, capace di dare un
contributo decisivo per comprendere meglio la sua opera e smontare
eventuali falsi cliché accumulatisi nel tempo sullo scrittore. Tutto il
cattolicesimo implicito ed esplicito presente nella sua opera trova nei
diari espressione e forma, sia essa ortodossa sia essa inusuale e
«selvaggia». Commenta il curatore, Douglas Brinkley: «È una ricerca religiosa senza tregua» (5). Senza di essa l’opera di Kerouac non sarebbe pienamente comprensibile.
La porzione di diario che va sotto il nome di Un mondo battuto dal vento è composta durante la stesura di La città e la metropoli e lascia trasparire tutto il suo desiderio di dare a questo romanzo-fiume un’impronta religiosa. Egli stesso
scrive di tenere il Nuovo Testamento sempre con sé e di pregare prima
di ogni sessione di lavoro. Qualcuno ha notato che gli eroi della
cultura popolare americana, i maestri del buddismo zen, i personaggi
«battuti e beati» descritti in tutta la sua opera vivono sullo stesso
terreno dei santi cattolici. Un esempio:
Neal Cassady, il suo buddy, l’amico fraterno, compagno di avventure e
di sogni, di sregolatezze e di intuizioni, fonte di energia a getto
continuo, che poi diventerà il personaggio Dean Moriarty in On the road,
non è forse un misto tra il cowboy televisivo Hopalong Cassidy e san
Francesco (6)?
O meglio ancora, come Kerouac disse in una celebre intervista, egli «è
l’uomo più intelligente che abbia mai incontrato nella mia vita. Neal
Cassady. È un gesuita» (7).
Anche Neal era di origini cattoliche e da bambino cantava nel coro
della sua chiesa di Denver. Nella stessa intervista egli stesso si
auto-definisce «Everardo Mercuriano, Generale dell’esercito dei gesuiti
(General of the Jesuit Army)» (8).
Kerouac è stato alunno della scuola dei gesuiti di Lowell, nel
Massachusset, il paese in cui era nato. In un’autopresentazione nel 1960
egli riconosceva di aver ricevuto una «buona istruzione» (9).
Ed essa deve aver lasciato anche una traccia significativa su di lui se
gli ha permesso di ricordare persino il nome di colui che fu il quarto
Generale dell’Ordine di sant’Ignazio, tra il 1573 e il 1580!
In
ogni caso i suoi personaggi sono una parata di fuorilegge divini,
angeli solitari, santi folli — un po’ «francescani» o un po’ «gesuiti»
—, profeti sotterranei. Attraverso figure simili lo scrittore affrontò
una delle questioni centrali della letteratura occidentale del
dopoguerra, che riassunse in questa domanda, espressa in un linguaggio
arcaico di stampo biblico-liturgico: Whither goest thou, America, in thy
shiny car in the night? (Dove vai, tu, America, la notte, nella tua
piccola macchina scintillante?) (10).
Una sensibilità cattolica non può non riconoscere in questa domanda un
appello di salvezza e «giustificazione» espressa in termini coerenti
alla sensibilità e all’immaginario statunitensi. E proprio in quegli
anni la grande scrittrice cattolica Flannery O’Connor ironicamente
metteva in bocca al protagonista del romanzo La saggezza nel sangue
l’espressione: Nobody with a good car needs to be justified, cioè
«Nessuno con una buona macchina ha bisogno di essere giustificato». La
simbolica della macchina e della strada è una simbolica di dannazione e
redenzione che attraversa fino ad oggi l’ispirazione artistica
statunitense, dalla musica di Bruce Springsteen al cinema di Terrence
Malick. Ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
«Gesù siede alla mia scrivania»
Dall’infanzia
sino alla morte Kerouac scrisse lettere a Dio, preghiere rivolte a
Gesù, poesie dedicate a san Paolo e invocazioni per la propria salvezza (11). «[…] se
Gesù sedesse alla mia scrivania questa notte, guardando fuori dalla
finestra, tutta quella gente che ride felice per l’inizio delle vacanze
estive, forse sorriderebbe e ringrazierebbe suo Padre. Non lo so. La
gente deve “vivere”, eppure so che soltanto Gesù conosce la risposta
definitiva» (Mv, 62), scrive il
26 giugno del ’47. Il suo è un Gesù vicino, presente lì dove lo
scrittore vive e scrive; è colui che guarda dalla finestra e che ha the
only answer, la risposta, la chiave. Per Kerouac questa risposta non è
opzionale: è fondante e coinvolge la stessa espressione artistica.
L’opera d’arte infatti vive, come l’essere umano, di queste domande:
«Che cos’è, da dove viene, dove sta andando, perché e quando e chi la
conoscerà?» (ivi, 63). Lo spirito di Kerouac in questi anni è affine a
quello di Pascal, autore che egli ha letto con interesse, prendendo
appunti (12). L’inquietudine della domanda lo agita profondamente a livello intimo: «Interi universi di nuove idee vanno a sbattere contro i miei sentimenti (crashing into my feelings) senza fine. Perché penso?» (ivi, 65 s).
La
persona di Gesù, con tutta la spinta ideale, si innesta per Kerouac in
questo terreno di domande. Egli è the only soul, l’unica anima a cui far
riferimento, e the only answer, cioè l’unica risposta (13): «Gli
insegnamenti di Gesù Cristo sono stati una svolta, un modo per
confrontarsi con il terribile enigma della vita umana e confondersi di
fronte ad esso. Che cosa miracolosa! Quali pensieri deve aver avuto Gesù
prima di “aprire la sua bocca” e iniziare il Discorso della montagna.
Che pensieri profondi, oscuri e silenziosi (long dark silent thoughts)!»
(ivi, 66). Così anche nelle «profondità desolate (desolate deeps)»
brillano le stelle, «alte e luccicanti in un firmamento spirituale (high
and sparkling in a spiritual firmament)» (ivi, 79). «Come
mai non hai mai scritto di Gesù?» chiede Ted Berrigan a Kerouac in
un’intervista realizzata un anno prima della sua morte. E Kerouac
risponde ironicamente: «Io non avrei scritto nulla di Gesù? Non
venirtene a casa mia a fare il pazzo bugiardo… e… tutto ciò su cui scrivo è Gesù» (14).
«Gesù, la tua è l’unica risposta per tutti gli esseri viventi!»
(ivi, 71), esclama. Ancora una volta Gesù è the only answer, la sola
risposta ai dilemmi e agli «impulsi» interiori, al desiderio di vita.
L’anno successivo scriverà, e in maniera più concitata e visionaria, «Abbiamo
bisogno di Gesù? Si sta avvicinando quel momento? E questo Agnello di
Dio rivelerà (will reveal)? Rivelerà i segreti della gioia sulla terra e
nella morte?» (ivi, 252). Qual è questa risposta? Cosa Cristo rivelerà? Perché Cristo è la risposta? Perché «Cristo
è il primo uomo a essersi reso conto che l’amore è il principio della
vita umana. Lui ora risplende sopra di noi più grande che mai e io sarei
pronto a scommettere che nel prossimo secolo Cristo (e i pochi altri
grandi uomini come lui) riempiranno le menti della gente come mai prima» (ivi, 197).
Il
2 giugno del 1949 nota che la sera precedente era andato a dormire
leggendo il Nuovo Testamento. Annota: «Ben presto scriverò la mia
personale interpretazione di Gesù Cristo». Quale il nucleo della sua
visione? Essenzialmente che Gesù
«è stato il primo, e forse l’ultimo, a riconoscere che affrontare il
mistero ultimo della vita è l’unica attività importante a questo mondo».
Ecco che cosa cattura l’attenzione di Kerouac: il mistero ultimo della
vita intesa come una questione seria che richiede una vera e propria
«resa dei conti». Egli fa appello a «un mondo che rispecchi fedelmente il Cristo. Il Re mite, che giunge in groppa a un Mulo»
(ivi, 265). Troviamo qui tutto il senso di un atteggiamento umile nei
confronti dell’esistenza, che spesso invece sarà in seguito storpiato in
forme vanamente ribellistiche dai suoi emulatori.
Modello di scrittore e fratello di anima è allora Dostoevskij, vero scrittore proprio perché anima religiosa: «Dostoevskij
è davvero un ambasciatore di Cristo e per me la sua opera è il moderno
Vangelo. Il suo fervore religioso vede attraverso i fatti e i dettagli
della nostra vita quotidiana, cosicché non deve concentrare la sua
attenzione sui fiori e gli uccelli, come san Francesco, o sulle finanze,
come Balzac, ma su qualsiasi dettaglio… sulle cose più ordinarie» (ivi, 346). Da qui maturerà la sua definizione preferita di letteratura e di romanzo, sconvolgente nella sua semplicità e originalità che leggiamo in Satori a Parigi (1966): una «storia
raccontata per amicizia e per insegnare un che di religioso, di
riverenza religiosa verso la vita reale, in questo mondo reale che la
letteratura dovrebbe riflettere» (15).
La vita non è abbastanza
Riflettendo
liberamente sulle parole di Cristo «Il mio regno non è di questo
mondo», Kerouac scopre in sé un dualismo tra ciò che egli avverte come
rigido (e tra questo anche una religione intesa come moralismo) e un
ampio slancio vitale: «Il
mondo si schiude di fronte a me come un luogo di cose potenti che mi
danno nutrimento; i pensieri morali restrittivi svaniscono in un impeto
ottobrino di eccitazione, fame, gioia ed entusiasmo, il disgusto di sé
che proviene dall’introspezione solitaria si trasforma in desiderio di
socievolezza e affabilità, un carburante così necessario per spingerci a
partecipare alla vita» (Mv,
130). Lo scrittore si rende conto che la chiave della vita non è nella
lonely introspection, che poi è la sterile introversione egocentrica e
consolatoria, capace di generare in letteratura solamente «brodaglia
psicotica (psychotic sloppiness)» (16). L’autoconoscenza per lui «è vanità» (ivi, 121). Invece
vivere significa esporsi alle powerful things, al mondo e alla realtà
che ha una potenza di apertura alla vita, e scrivere è «un’esplosione di
interesse (explosion of interest)» (ivi, 130). Questa è per lui
«scrittura sana (sane writing)».
Quando
questa apertura, seppur di rado, si coniuga con una tensione orante,
allora egli guadagna l’espressione di una radicale fiducia, di una
confidenza estrema: «Sarò
forte come l’acciaio, mio Signore, diventerò sempre più forte, il fuoco
mi forgerà, mi renderà più deciso, più saldo, migliore, secondo la tua
volontà o Dio perduto, secondo i tuoi comandamenti. Ora lascia che io Ti
trovi, come una nuova gioia che invade la terra all’inizio del nuovo
giorno, come il cavallo che, nel suo campo, al mattino, vede il padrone
giungere verso di lui attraverso l’erba. Ora sono come l’acciaio, mio
Signore, tu mi hai reso forte e pieno di speranza. Colpiscimi e
risuonerò come una campana!» (ivi, 220).
Introspezione
ed esuberanza, rigidezza e slancio, «non smetteranno mai di agitarsi
dentro di me — riconosce Kerouac —, il che rappresenta un grande stimolo
per farmi continuare a girovagare» (ivi, 68). Vive proprio di queste
tensioni, in fondo, il celeberrimo romanzo On the road, di cui l’autore
descrive le prime intuizioni nell’agosto del ’48: «Ho in mente un altro
romanzo — Sulla strada — a cui continuo a pensare: parla di due ragazzi
che fanno l’autostop fino in California, in cerca di qualcosa che non
riescono a trovare veramente e si perdono lungo il cammino per poi
tornare indietro sperando in qualcos’altro» (ivi, 186). Lo slancio fa
sentire la vita come esplorazione, un’«avventura del cuore, della mente,
dell’anima» (17)
tesa tra «l’immortalità e i singoli istanti inconoscibili e a frantumi»
(ivi, 166), proiettata verso qualcos’altro. Kerouac descrive giovani
assetati di esperienza, ma questa esperienza non è fine a se stessa, non
è puro «esperimento», ma una via per ottenere una nuova visione della
vita, forse qualcosa d’altro ancora.
Life
is not enough, annota Kerouac nell’agosto del ’49: «La vita non è
abbastanza». Il clima rovente delle sue meditazioni lo conduce ad
avvertire una forza centrifuga senza confini se non quello
dell’eternità: «Allora
cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere
e da cui non mi allontanerò mai, in nessuna oscura esistenza o
qualunque altra cosa accada. E qual è questa decisione? Un qualche tipo
di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà
oltre, trascenderà questa vita verso nuove esistenze, una visione seria,
finale e immutabile dell’universo. Questo è ciò che intendo quando dico
che “voglio degli Occhi”. […] Perché dovrei volere tutto questo? Perché
qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare» (ivi, 275). I confini del viaggio sono infranti.
Kerouac è teso alla «comunione
finale fra tutte le cose, l’unione elettrica della vera eternità. È
l’altro mondo, menzionato in principio come la Parola di Dio nelle
Scritture e illustrato dal grande san Tommaso d’Aquino come un concetto
che va oltre la nostra ragione ed è necessario per l’umanità. La
prospettiva di quest’altro mondo, questa forma di comprensione che non
abbiamo mai immaginato, va al di là della mia capacità di capire, ma
sospetto che sia molto strana e che quando finalmente ci arriveremo,
diremo tutti: “Certo, certo, sì, sì!”» (ivi,
277). Così anche, quando con la morte entreremo stupiti nell’aldilà
grideremo con la nostra carne morente: «“Allora è questo ciò per cui
sono stato creato! Gloria a Dio”» (ivi, 229). Questa conoscenza della
vita e dell’eternità non è una follia (foolishness), protesta Kerouac,
«è solo quel caro e intenso amore (warm dear love) che proviamo verso la
nostra difficile condizione. Con la grazia di Dio Misterioso, alla fine
dei tempi, forse soltanto in quel giorno essa verrà risolta e chiarita
per tutti noi». E conclude drammaticamente e perentoriamente: «Altrimenti non posso vivere» (ivi). Senza eternità non si può vivere.
Scrivere
dunque per Kerouac significa anche, in qualche modo, impegnarsi in una
«personale salvezza attraverso le mie opere (my own personal salvation
in works)» (ivi, 291). L’opera letteraria, come accade per tutti i
grandi scrittori, qui non è gioco, intrattenimento ludico o di puro
«gusto». Ha a che fare con la salvezza, in un modo o nell’altro. Quando
la scrittura assorbe queste tensioni vitali, allora essa stessa diventa
un dono ricevuto, come scrive dopo la composizione de La città e le
metropoli: «Il
lavoro del 1948 su C & M è stato un Dono di Dio, poiché prima di
questo lavoro ero stato a lungo in ginocchio, come Haendel prima di
comporre il Messia, e poi l’avevo Ricevuto. Ma grazie, Dio, di tutto.
L’altra notte l’ho capito» (Mv, 266). Scrivere è rispondere a un dono, a una chiamata. E allora ecco la gratitudine profonda espressa in preghiera: «Grazie
per le Visioni che Tu mi hai dato, per Te; e tutto è per Te; grazie, o
mio Signore, per questo mondo e per Te. Riempi il mio cuore del calore
del Tuo spirito per sempre» (ivi, 241).
Cattolico perché peccatore
A
questo punto le alternative sono chiare. La prima è considerare le
radici cattoliche di Kerouac una sovrastruttura pesante e bigotta, un
retaggio faticoso da eliminare e di cui egli avrebbe voluto disfarsi. La
seconda possibilità è comprendere come invece il cattolicesimo di
Kerouac sia una delle fonti vive della sua ispirazione. Insomma:
rimozione o ispirazione. Qui la critica si divide. Noi riteniamo, anche
alla luce di ciò che leggiamo nei diari, che la seconda alternativa,
quella che riconosce in un cristianesimo inquieto e dialettico una fonte
vivace di intuizione creativa, sia quella che meglio rende giustizia
alla personalità letteraria di Kerouac e ai percorsi della sua
precarietà esistenziale e artistica.
Steve
Turner, nella sua bella biografia illustrata dal titolo L’angelo
caduto, ha potuto scrivere: «Il lato di Kerouac che più mi ha
interessato è quello spirituale, che per anni è stato ignorato. Ma
adesso i critici hanno finalmente riconosciuto quanto spazio abbia avuto
la religione nella sua vita. Era questa, senza
dubbio, la strada che aveva scelto di percorrere». Riconosce pure però
che «le droghe e la ribellione sono da sempre un argomento per i
giornali» (18)
e che dunque hanno prevalso nella percezione comune della sua opera. E
abbiamo ragione di credere che lo sia ancora anche per una parte della
critica letteraria italiana su questo autore. A dire il vero, però,
nessuno nega la «spiritualità» di Kerouac. Molti però riducono il suo
cristianesimo a uno stantio bigottismo e ne mettono in evidenza o la
diluizione o la radicale trasformazione nel buddismo Mahayana, col quale
Kerouac venne decisamente a contatto intorno al 1953.
Perché
Kerouac si è accostato al buddismo? Ce lo racconta in una intervista:
dopo che si era conclusa una storia d’amore, descritta poi ne I
sotterranei, lo scrittore stava male per il dolore della perdita. In
quel tempo si trovò a leggere una biografia del Buddha, il quale —
scrive Kerouac — «scoprì che la causa della sofferenza, del dolore, del
decadimento e della morte è semplicemente il fatto di essere nati. Così
scoprì anche che il mondo in realtà non esiste» (19).
Il Kerouac buddista è convinto che noi soffriamo a causa di un
«desiderio ignorante» e ci sentiamo soli perché non accettiamo il fatto
che la realtà non esista. Così egli impara a meditare e si astiene
dall’alcool e dal sesso, parte integrante della sua turbolenta vita
affettiva, nel tentativo di rompere il legame della mente con
l’«illusione». Questo è il suo buddismo.
Come
giudicare questa fase? Kerouac era diventato veramente buddista? A
suggerirci la risposta è la biografia dello scrittore, quella che poi si
riflette nei suoi scritti. Noi crediamo che la fase buddista, in
realtà, sia stata una vicenda dialetticamente interna al suo stesso
cattolicesimo. Il cristianesimo gli diceva che c’è un mondo reale, fatto
anche di santità e di peccato; il buddismo, così come da lui era
percepito e vissuto, gli diceva che il mondo non era poi così «reale».
Il Kerouac «cattolico» è ora gioioso ora triste; ora in preghiera, ora
assorbito dal sesso; ora legato agli affetti familiari, ora spinto da
una tensione alla fuga. È
un Kerouac, per dirla cedendo ai cliché, «santo» e «peccatore», capace
di vivere sulla propria pelle il piacere illusorio della trasgressione,
ma anche la ferita del bisogno d’amore e dell’abbandono. Il
Kerouac «buddista» è invece alla ricerca di un equilibrio stabile e
neutro, temporaneamente astemio e casto, perso nelle suggestioni della
«Mente Interna Trascendentale» (20), teso alla cancellazione del dolore e della realtà.
Ad allontanare di fatto Kerouac dal buddismo fu, paradossalmente, proprio l’esperienza della vita dissipata e sregolata: il «peccato», quel «diavolo» che, secondo la sua contemporanea Flannery O’Connor, spesso «getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace» (21).
Nel 1956 comincia a scrivere Angeli della desolazione, opera che è
specchio, nella sua seconda parte, della vita «selvaggia» di Kerouac:
egli «non era più il buddista astemio, adesso era il cattolico preso in
una catena di peccati e pentimenti» (22),
commenta Turner. E così, fra l’altro, in un viaggio del 1957 sulle
coste del Nord Africa, vediamo lo scrittore diviso tra la lettura del
Nuovo Testamento e le facili prostitute di Tangeri.
Insomma,
come racconta Philip Whalen in una testimonianza raccolta nella celebre
biografia a più voci Jack’s Book, «il suo interesse per il buddismo era
abbastanza letterario». E circa Gary Snyder, il suo amico poeta più
radicalmente buddista, prosegue Whalen: «Lo sfiorava semplicemente e poi
diceva: “Ah, bene. È fantastico, ma io in realtà credo nel dolce bambin
Gesù”, oppure nell’“Agnello di Dio”» (23).
Nello stesso volume John Clellon Holmes usa espressioni come: «Il
terreno di Jack è sempre stato il cattolicesimo – il cristianesimo,
cioè». Per quanto abbia «provato come un matto il buddismo», Jack «era
ed è rimasto fino alla fine un cattolico – dal punto di vista dell’idea
più alta della visione cattolica del mondo» (24).
Giunto a Parigi, nel 1966, alla ricerca delle sue radici, lo stesso
Kerouac non lascerà più dubbi scrivendo nel suo (purtroppo ormai
introvabile in italiano) Satori a Parigi: «Ma
io non sono un buddista, sono un cattolico che rivisita la terra
ancestrale che ha lottato per difendere il cattolicesimo contro
difficoltà insormontabili, e che eppure alla fine ha vinto» (25).
Certamente
il cattolicesimo di Kerouac era debole, mal evoluto, forse infantile e
fin troppo tormentato e dialettico. Tuttavia la spiritualità buddista
mal si combinava con il suo approccio insieme esuberante e introverso
alla vita. Certo, la visione del mondo espressa in On the Road sembrava
superata da quella buddista, quando egli provò a eliminare le domande e
ad agire come se nulla avesse importanza. Le «cose», invece, per lui
avevano importanza, e «in seguito egli lasciò perdere il budddismo
perché erano “solo parole”» (26).
Nelle sue reazioni Kerouac era istintivamente cattolico. Anche il suo
rigetto del materialismo e del liberalismo della classe media americana
era emotivamente formato da una sensibilità cattolica (27).
Egli stesso, in fondo, in una sua auto-presentazione scriveva di essere
«non un “beat” ma uno strano solitario pazzo mistico cattolico (a
strange solitary crazy Catholic mystic)» (28).
Il vero «beat»
Una
migliore comprensione della visione della vita di Kerouac ci viene da
alcune considerazioni sul termine beat, parola che individua un fenomeno
generazionale di cui egli è capostipite e padre. Di per sé il termine
ha molti significati: è la prima parte della parola beatitude, ma beaten
significa anche abbattuto, scoraggiato, alla deriva. Beat è anche
battito, ritmo, nel senso della musica jazz. I beat, o beatniks (come
verranno chiamati coniugando le parole beat e sputnik) rinunciano al
progetto di una vita tranquilla, dedita alla produzione e al consumo,
rifiutano la fissa dimora e vivono, da soli o in gruppo, in ristretti e
spesso disagiati luoghi urbani. Il beat dunque individua uno stile di
vita senza regole e inquieto, dominato dall’incertezza, dall’ansia e da
una certa tensione sempre insoddisfatta, che in seguito ha condotto ad
atteggiamenti ribellistici e contestatari connotati politicamente.
A
coniare il termine fu proprio Kerouac, che però ebbe qualcosa da dire e
da ridire sul suo significato, ricordando le sue vere origini.
L’origine della parola beat ci chiarisce il tipo di illuminazione e di
rivelazione al quale lo scrittore tendeva veramente: «Fu
da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia
infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Mass., e a
un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio
della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i
cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele
brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo
voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola
Beat significava beato… È domenica mattina e il prete sta facendo la
predica, quando all’improvviso da una porta laterale della chiesa arriva
un gruppo di personaggi della Beat Generation che indossano
impermeabili legati con cinture come quelli dell’I.R.A. e vengono avanti
in silenzio per “capire” (to dig) la religione… In quel momento mi fu
chiaro» (29).
Beat
è dunque una parola dalle radici religiose, compresa pienamente in una
chiesa durante un momento di raccoglimento: quanto di più distante da un
contesto fragorosamente ribellistico e contestatario. Kerouac dovrà
però tristemente constatare il fatto che «un
sacco di opportunisti, profittatori, comunisti saltarono sul carro.
Ferlinghetti saltò sul carro e trasformò l’immagine della Beat
Generation che originariamente rappresentava persone che amavano la vita
e la dolcezza. Ai giornali parlò di ribellione beat, di insurrezione
beat, parole che io non ho mai usato, essendo cattolico (being a Catholic)» (30).
Conseguentemente, poco prima della sua morte, in un’intervista
rilasciata al New York Times, egli così giungerà a concludere: I’m not a
beatnik. I’m a Catholic: non sono un beatnik, sono un cattolico (31).
Non è certo, questa frase, un rinnegamento del senso della propria
parabola culturale, come potrebbe apparire superficialmente. Al
contrario, forse questa dichiarazione è stata un’estrema lucida
intuizione a difesa della propria identità artistica e umana, cioè
quella mistica — cattolica sebbene «strana solitaria e pazza» — che ha
nutrito la sua estetica.
Questa
radice religiosa — ribadita dalle espressioni it was as a Catholic…
being a Catholic… I’m a Catholic — non è affatto puramente occasionale o
momentanea. Anzi, è addirittura monastica. In un articolo apparso nel
1957 Kerouac non fa mistero del fatto che i fenomeni come quello beat «esprimono
una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori
da questo mondo (che non è il nostro regno), “in alto”, in estasi,
salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux
tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e
indolenzita dopo le sue ultime gesta» (32). Dopo aver dipinto questa immagine solenne, l’anno successivo ripeté: «Non
ho mai sentito parlare più di Dio, delle Ultime Cose, dell’anima, del
dove-stiamo-andando, se non fra i giovani della mia generazione: e non
solo i ragazzi più intellettuali, ma tutti» (33).
***
Come
riassumere il senso della parabola di Kerouac? Probabilmente tenendo
insieme, per quanto in maniera sempre instabile, due poli: una radice
che desidera senza sosta accedere a tutti i nutrimenti terreni, e una
forte tensione a ciò che è, come si è detto, soul, eternity, salvation.
Insomma: la «carne» e l’«infinito». Mai l’una senza l’altro.
Ringraziando Dio per la composizione del suo primo romanzo, nel 1950
Kerouac scrisse nei suoi diari un ultimo «salmo», di un’intensità
straordinaria, che sembra riassumere
in forma orante la sensibilità dello scrittore, svelandone l’anima
inquieta e vagabonda: «Grazie, Signore, Dio degli Eserciti, Angelo
dell’universo, Re della Luce e Creatore delle Tenebre per le Tue vie, le
quali, se non fossero percorse, trasformerebbero gli uomini in ottusi
danzatori di carne senza dolore, menti senza anima, dita senza nervi e
piedi senza polvere». E infine però, folgorante, la richiesta: «Mantieni
la mia carne nella Tua eternità» (Mv, 241) (34).
1
J. KEROUAC, Un mondo battuto dal vento. I diari di Jack Kerouack
[sic!]: 1947-1954, Milano, Mondadori, 2006, 219. I testi citati sono
tratti da questa edizione, ma in alcuni punti abbiamo preferito usare
una nostra traduzione.
2
Id., «Agnello non leone (1958)», in Id., «Beati: le origini della Beat
Generation», in Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, Milano,
Mondadori, 1996, 50. Cfr anche S. TURNER, L’angelo caduto. Vita di Jack
Kerouac, Roma, Fazi, 1997, 173.
3 Il nome «Jack» nasce dall’errore di un sacerdote della sua parrocchia, la chiesa di Santa Giovanna d’Arco.
4
La nostra rivista si è già occupata della sua opera in generale con F.
CASTELLI, «La desolata corsa di Jack Kerouac verso la morte», in Civ.
Catt. 1971 I 34-47. Rinviamo a quell’articolo per un’analisi centrata
sulla sua opera narrativa. Diamo qui solamente qualche rapido cenno
biografico. Jack Kerouac nasce il 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts,
da una famiglia franco-canadese di origine bretone. A undici anni
scrive il suo primo racconto (The cop on the beat) e a 14 comincia a
scrivere un diario. Al liceo si distingue per le sue doti di sportivo,
che gli consentono di vincere una borsa di studio. Si iscrive alla
Columbia University di New York. La stagione newyorkese della seconda
metà degli anni Quaranta è una di quelle fortunate. Kerouac però non
conclude gli studi: ha voglia di assaporare il mondo e la vita, un
desiderio incontenibile che lo porta a scontrarsi con le realtà più
dure. Si mantiene lavorando come muratore e apprendista metallurgico
fino a quando nel 1942 decide di arruolarsi in marina. Viene presto
congedato, ma il mare lo affascina, e decide di trascorrere qualche anno
da marinaio su un cargo mercantile. Nel 1944, coinvolto in una vicenda
di omicidio, viene arrestato e rinchiuso in carcere per favoreggiamento.
Mentre si trova in galera sposa Edie Parker, che poco dopo pagherà la
cauzione per lui. La coppia si scioglie pochi mesi dopo la libertà
conquistata. Tra un viaggio e l’altro Kerouac frequenta William
Burroughs, che gli presenta Allen Ginsberg, e fra i due nasce una
profonda amicizia, che sarà l’inizio della cosiddetta beat generation.
Kerouac si cimenta anche nella critica musicale e scrive alcuni articoli
sul jazz, pubblicati sul giornale della Columbia University. In seguito
legge in pubblico i suoi scritti con accompagnamento jazz, ispirando un
grande interesse nelle collaborazioni jazz-poesia. Nel 1945 inizia a
scrivere il suo primo romanzo La città e la metropoli, pubblicato nel
1950, mentre un anno dopo incontra Neal Cassady, che diventerà il suo
più grande amico e il personaggio di molti suoi romanzi. Nel 1947
Kerouac inizia in autobus e autostop il viaggio coast to coast
attraverso gli Stati Uniti. Nel 1951 scrive su un rotolo di carta da
telescrivente Sulla strada. Kerouac continua a scrivere alternando la
sua attività con lunghe pause a San Francisco, dove incontra i massimi
esponenti della cosiddetta San Francisco Renaissance e scrive la sua
prima raccolta di poesie. Muore il 21 ottobre 1969 per una emorragia
epatica.
5
D. BRINKLEY, «Introduzione», in J. KEROUAC, Un mondo battuto..., cit.,
16. D’ora in poi citeremo l’opera con la sigla Mv. L’edizione in lingua
originale più recente è Windblown world. The Journals of Jack Kerouac: 1947-1954, London, Penguin, 2006.
6 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione», cit., 26.
7 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», in Paris Review, n. 43, Summer 1968, 19.
8 Ivi, 28.
9 «Presentazione di Jack Kerouac», in J. KEROUAC, Romanzi, cit., 1.520.
10 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione»…, cit., 26.
11 Ivi.
12 I’m reading Blaise Pascal and taking notes on religion (J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 46).
13
Del resto, che cosa resterà del mondo, della «luccicante Babilonia che
fuma sotto il sole»?, si chiede Kerouac. Soltanto «le cose plasmate
dalle mani di Dio». Tutto a lui è chiamato a ritornare (Mv, 64).
14 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 28. E
qui fa venire in mente Giovanni Testori quando afferma che «il luogo
del teatro è il corpo di Cristo» (G. TESTORI, La maestà della vita e
altri scritti, Milano, Rizzoli, 1998, 149).
15 Id., Satori in Paris and Pic. Two Novels, New York, Grove Press, 1985, 10.
16
È tanto vero questo sentimento che lo ritroviamo più in là come
criterio di valutazione di un’opera letteraria, in questo caso quella di
James Joyce. Scrive Kerouac: «Credo nella scrittura sana anziché nella
brodaglia psicotica di Joyce. Joyce è un uomo che ha semplicemente
smesso di comunicare con gli altri esseri umani. Lo faccio anch’io
quando sono tormentato e ubriaco di stanchezza, perciò so che non è così
onesto, anzi è addirittura crudele uscirsene con associazioni di idee
senza l’autentico sforzo umano di trovare e dare ai propri discorsi
un’intelligenza significativa. È un tipo di idiozia sdegnosa» (Mv, 101).
E su D. H. Lawrence il giudizio non cade più misericordioso: «È una
pura masturbazione dell’io» (ivi, 346).
17
Mv, 86. Ma, in realtà, nulla di ciò ha a che fare con la reale
dimensione faustiana del desiderio di vita e di conoscenza. Ciò è reso
evidente dal giudizio sprezzante, quanto spiazzante, che egli dà
nell’aprile del 1948 circa la vicinanza con amici quali Ginsberg e
Burroughs: «Sono stanco di scrivere la satira di nevrotici senza
importanza, ecco tutto ciò che è rimasto dei miei rapporti con loro.
Vado a trovarli in uno stato d’animo felice e affettuoso e me ne vado
via ogni volta confuso e disgustato. Questo non succede con gli altri
miei amici, perciò dovrei seguire l’istinto e restar fedele ai miei
simili. “Niente più urrà alla tolleranza”. Sono stanco di indagare su
tutto quanto e di essere un folle “faustiano”, alla ricerca della
“conoscenza assoluta”» (ivi, 124).
18
S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11. La versione originale di questa
biografia è Angelheaded Hipster. A Life of Jack Kerouac, New York,
Viking, 1996.
19 Intervista riportata in E. BEVILACQUA, Guida alla beat generation, Roma - Napoli, Theoria, 1994, 52.
20 J. KEROUAC, Mexico City Blues. Il manifesto poetico del padre della Beat Generation, Roma, Newton Compton, 1993, 167.
21 F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma - Napoli, Theoria, 1993, 80.
22 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11 e 165.
23 B. GIFFORD - L. LEE, Jack’s Book. Una biografia narrata di Jack Kerouac, Roma, Fandango, 2001, 225 s.
24 Ivi, 227 s. «Quando
la situazione si faceva difficile quello a cui lui si aggrappava
veramente era il Piccolo Fiore di Gesù, Santa Teresa di Lisieux, e vari
altri santi cattolici, e questo era quello in cui lui credeva veramente,
quello da cui ricavava il massimo e quello a cui tornava sempre» (ivi, 225).
25 Id., Satori in Paris and Pic…, cit., 69.
26 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 216.
27
Cfr M. FELLOWS, «The Apocalypse of Jack Kerouac: Meditations on the
30th Anniversary of his Death», in Culture Wars, November 1999
(letto in http://www.culturewars.com/CultureWars/1999/kerouac.html).
28 J. KEROUAC, «Presentazione di Kerouac», cit., 1.522. Per
un confronto col «fratello maggiore» Thomas Merton cfr A. STUART,
«Vision of Tom - Jack Kerouac’s monastic elder brother. A preliminar
exploration», in
http://www.thomasmertonsociety.org/kerouac.htm
29
Id., «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop…, cit.,
68. Il verbo to dig nello slang beat significa gustare, apprezzare più
che «capire» in maniera puramente intellettuale.
30
L’intervista, l’ultima prima della morte dello scrittore, realizzata da
William F. Buckley all’interno del Firing Line Show nel 1968, si può
seguire in What Happened to Kerouac?, cit.
31 J. LELYVELD, «Jack Kerouac, Novelist, Dead; Father of the Beat Generation», in The New York Times, 22 october 1969.
32 J. KEROUAC, «Sulla Beat Generation (1957)», in Scrivere bop… cit., 46.
33 Id., «Agnello, non leone (1958)», ivi, 50.
34 Keep my flesh in Thee everlasting.
© La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139 quaderno 3758
|
Postato da: giacabi a 23:46 |
link | commenti
cattolico, kerouac, senso religioso
KEROUAC
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Postato da: giacabi a 15:31 |
link | commenti (1)
cattolico, kerouac
Giovanni Lindo Ferretti
da Lotta Continua
alla Chiesa Cattolica:
L'articolo originale e' all'indirizzo http://italy.indymedia.org/news/2006/10/1169826.php Stampa i commenti.
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Postato da: giacabi a 17:21 |
link | commenti
comunismo, cattolico, ferretti
Da. www.ilgiornale.it n. 212 del 08-09-06 pagina 13 |
Il segreto di Frère Roger
Da 33 anni convertito alla religione cattolica
di Redazione |
Il frate della comunità protestante, ucciso un anno fa, aveva mantenuto il riserbo per non turbare i suoi fedeli
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da Parigi Un segreto custodito gelosamente per 33 lunghi anni, per non distruggere la missione di una vita: Frère Roger, il fondatore della Comunità ecumenica di Taizè, aveva abbandonato la confessione protestante per aderire al cattolicesimo nel 1972. Ma non aveva mai potuto o voluto dirlo pubblicamente, per timore della reazione di parte delle chiese impegnate nel suo progetto: troppo forte sarebbe stato il contraccolpo ad una scelta di campo così netta. In Vaticano la storia circolava già da tempo e trovò una quasi conferma il giorno dei funerali di Wojtyla, quando il frate protestante ha ricevuto la comunione dall’allora cardinale Ratzinger. Il motivo era lo stesso: non complicare il processo di dialogo tra i fratelli separati che il Concilio Vaticano II aveva indicato come una delle grandi sfide del cattolicesimo del terzo millennio. A rivelare, o almeno a confermare ufficialmente, la conversione del frate svizzero è stato l'ex arcivescovo di Autun, la città francese nella cui diocesi si trova Taizè e nella quale Frère Roger ha operato per molti decenni. Frère Roger Schutz nel 1972 aveva 58 anni, e dal 1940 guidava la sua comunità che professava la pace e il dialogo in un'Europa che si dilaniava nella guerra. Dopo la professione di fede si scelse di mantenere il silenzio, nel più classico nicodemismo. Il segreto è stato custodito dal diretto interessato fino all'ultimo momento della vita, quando una pugnalata di una seguace con sospette turbe mentali pose fine ai suoi giorni terreni. |
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