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sabato 11 febbraio 2012

cattolico

Io, Asia Bibi, muoio:
ascoltate la mia voce!

***

In carcere i giorni e le notti sono uguali. Non so più dire che cosa provo. Paura, questo è sicuro... ma non mi opprime più come all’inizio. I primi giorni arrivava a farmi battere un tamburo in petto. Ora si è un po’ calmata. Non è più un soprassalto continuo. Le lacrime no, non mi hanno mai lasciata. Scendono a intervalli regolari. I singhiozzi, invece, sono cessati. Le lacrime sono le mie compagne di cella. Mi dicono che non mi sono ancora arresa, mi dicono che sono vittima di un’ingiustizia, mi dicono che sono innocente.

Non so molto del mondo al di fuori del mio villaggio. Non ho studiato, ma so che cosa è bene e che cosa è male. Non sono musulmana, ma sono una buona pakistana, cattolica e patriota, devota al mio Paese come a Dio. Abbiamo amici musulmani. Non ci sono mai stati problemi. E anche se non abbiamo avuto sempre vita facile, abbiamo il nostro posto. Un posto di cui ci siamo sempre accontentati. Quando si è cristiani in Pakistan, ovviamente bisogna tenere gli occhi un po’ più bassi. Certi ci considerano cittadini di seconda categoria. A noi sono riservati lavori ingrati, mansioni umili. Ma il mio destino non mi dispiaceva. Prima di tutta questa storia ero felice con i miei, laggiù a Ittan Wali. Oggi sono come tutti i condannati per blasfemia del Pakistan.

Che siano colpevoli o no, la loro vita viene stravolta. Nel migliore dei casi stroncata dagli anni di carcere. Ma il più delle volte chi è condannato per l’oltraggio supremo, che sia cristiano, indù o musulmano, viene ucciso in cella da un compagno di prigionia o da un secondino. E quando è giudicato innocente, cosa che capita assai di rado, viene immancabilmente assassinato appena lascia il penitenziario. Nel mio Paese l’accusa di bestemmiatore è indelebile. Essere sospettati è già un crimine agli occhi dei fanatici religiosi che giudicano, condannano e uccidono in nome di Dio. Eppure Allah è solo amore. Non capisco perché gli uomini usino la religione per fare il male. Mi piacerebbe credere che prima di essere esponenti di questa o quella religione siamo anzitutto uomini e donne. In questo momento mi rammarico di non saper né leggere né scrivere. Solo ora mi rendo conto di quale enorme ostacolo sia. Se sapessi leggere, oggi forse non mi ritroverei chiusa qui dentro. Sarei senz’altro riuscita a controllare meglio gli eventi. Invece li ho subiti, e li sto subendo tuttora. Secondo i giornalisti, 10 milioni di pakistani sarebbero pronti a uccidermi con le loro mani.

A chi mi eliminerà, un mullah di Peshawar ha addirittura promesso una fortuna: 500.000 rupie. Da queste parti è il prezzo di una bella casa di almeno tre stanze, con tutti i comfort. Non capisco questo accanimento. Io, Asia, sono innocente. Comincio a chiedermi se, più che una tara o un difetto, in Pakistan essere cristiani non sia diventato semplicemente un crimine. Il mio unico desiderio, in questa minuscola cella senza finestre, è quello di far sentire la mia voce e la mia rabbia. Voglio che il mondo intero sappia che sto per essere impiccata per aver aiutato il prossimo.

Sono colpevole di avere manifestato solidarietà. Il mio torto? Solo quello di avere bevuto dell’acqua proveniente da un pozzo di alcune donne musulmane usando il «loro» bicchiere, quando c’erano 40 gradi al sole. Io, Asia Bibi, sono condannata a morte perché avevo sete. Sono in carcere perché ho usato lo stesso bicchiere di quelle donne musulmane. Perché io, una cristiana, cioè una che quelle sciocche compagne di lavoro ritengono impura, ho offerto dell’acqua a un’altra donna. Voglio che la mia povera voce, che da questa lurida prigione denuncia tanta ingiustizia e tanta barbarie, trovi ascolto. Desidero che tutti coloro che mi vogliono vedere morta sappiano che ho lavorato per anni presso una coppia di ricchi funzionari musulmani. Voglio dire a chi mi condanna che per i membri di quella famiglia, che sono dei buoni musulmani, il fatto che a preparare i loro pasti e a lavare le loro stoviglie fosse una cristiana non era un problema. Ho passato da loro 6 anni della mia vita, ed è per me una seconda famiglia, che mi ama come una figlia!

Sono arrabbiata con questa legge sulla blasfemia, responsabile della morte di tanti ahmadi, cristiani, musulmani e persino indù. Da troppo tempo questa legge getta in prigione degli innocenti, come me. Perché i politici lo permettono? Solo il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro cristiano per le Minoranze, Shahbaz Bhatti, hanno avuto il coraggio di sostenermi pubblicamente e di opporsi a questa legge antiquata. Una legge che è in sé una bestemmia, visto che semina oppressione e morte in nome di Dio. Per avere denunciato tanta ingiustizia questi due uomini coraggiosi sono stati assassinati in mezzo alla strada. Uno era musulmano, l’altro cristiano. Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza. Supplico la Vergine Maria di aiutarmi a sopportare un altro minuto senza i miei figli, che si chiedono perché la loro mamma sia improvvisamente sparita di casa. Dio mi dà ogni giorno la forza di sopportare questa orribile ingiustizia. Ma per quanto ancora?

Copyright © Oh! Éditions, 2011. All rights reserved © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Asia Bibi

Postato da: giacabi a 19:15 | link | commenti
islam, cattolico

mercoledì, 01 giugno 2011

Lettera di un missionario
dell'Africa ai giornali anticlericali

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pubblicata da Papa Benedetto XVI il giorno martedì 31 maggio 2011 alle ore 15.02
"Caro fratello e sorella giornalista, sono un semplice sacerdote cattolico.Mi sento felice e orgoglioso della mia vocazione.È da venti anni che vivo in Angola come missionario.Mi fa molto soffrire che persone, che dovrebbero essere segnali dell’amore di Dio, diventino un pugnale nella vita degli innocenti. Non ci sono parole che giustifichino tali atti. Non c’è dubbio che la Chiesa non può stare se non affianco dei deboli e dei più indifesi. Per cui tutte le misure prese per la protezione e la prevenzione della dignità dei bambini saranno sempre una priorità assoluta.
Ce lo sta insegnando proprio il Papa.
Vedo in molti mezzi di informazione, soprattutto sul vostro giornale (la lettera si rivolge al New York Times, ma per estensione a tutti quei che parlano della Chiesa solo per fatti sinistri -in Italia ne sappiamo qualcosa-), l’amplificazione di questo tema in una forma morbosa, indagando nei dettagli la vita di qualche sacerdote pedofilo. Cosí appare uno di una città degli USA degli anni Settanta, un altro in Australia degli anni Ottanta e cosí via, altri casi recenti... Certamente tutto riprovevole! Si vedono alcune presentazioni giornalistiche ponderate ed equilibrate, altre esagerate, piene di pregiudizi e che arrivano fino all’odio.
È curiosa la poca informazione e il disinteresse per migliaia e migliaia di sacerdoti che si consumano per milioni di bambini, per gli adolescenti e i piú sfavoriti nei quattro angoli del mondo! Penso che al vostro mezzo di informazione non interessi che io abbia dovuto trasportare, su strade minate, nell’anno 2002, molti bambini denutriti da Cangumbe a Lwena (Angola), giacché né il governo era disposto né le ONG erano autorizzate; che abbia dovuto seppellire decine di piccoli deceduti fra i profughi di guerra e quelli che son tornati; che abbiamo salvato la vita a migliaia di persone a Moxico, grazie all’unico posto medico in 90.000 kmq, cosí come con la distribuzione di alimenti e sementi; che in questi dieci anni abbiamo dato la possibilità di educazione e scuole a piú di 110.000 bambini... Non desta interesse che con altri sacerdoti abbiamo dovuto soccorrere la crisi umanitaria di circa 15.000 persone negli acquartieramenti della guerriglia, dopo la loro resa, perché non arrivavano gli alimenti del governo e dell’ONU. Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, Padre Roberto, durante le notti, percorra le vie di Luanda curando i “ragazzi di strada”, portandoli in una casa di accoglienza, perché si disintossichino della benzina; che dei sacerdoti alfabetizzino centinaia di carcerati; che altri, come Padre Stefano, tengano case di passaggio per i ragazzi picchiati, maltrattati e violentati o che cercano un rifugio. E neppure che Fra Maiato, con i suoi 80 anni, passi casa per casa confortando gli infermi e i disperati. Non fa notizia che piú di 60.000 dei 400.000 sacerdoti e religiosi abbiano lasciato la loro terra e la loro famiglia per servire i loro fratelli in un lebbrosario, in ospedali, campi di rifugiati, orfanotrofi per bambini accusati di maleficio o orfani di genitori morti di AIDS, in scuole per i piú poveri, in centri di formazione professionale, in centri di attenzione ai sieropositivi... e soprattutto, in parrocchie e missioni dando motivazioni alla gente per vivere e per amare.
Non fa notizia che il mio amico Padre Marcos Aurelio, per salvare alcuni giovani durante la guerra in Angola, li abbia trasportati da Kalulo a Dondo e, tornando alla sua missione, sia stato mitragliato lungo la strada; che Fratel Francisco, con cinque signore catechiste, per andare ad aiutare nelle aree rurali piú lontane, sia morto in un incidente stradale; che decine di missionari in Angola siano deceduti, per mancanza di soccorso sanitario, per una semplice malaria; che altri siano saltati in aria a causa di una mina, mentre andavano a visitare la loro gente. Nel cimitero di Kalulo ci sono le tombe dei primi sacerdoti che arrivarono nella regione... Nessuno supera i 40 anni.
Non fa notizia accompagnare la vita di un sacerdote “normale” giorno per giorno, nelle sue difficoltà e gioie, mentre, senza far rumore, consuma la sua vita a favore della comunità che serve.
La verità è che non cerchiamo di fare notizia, bensí di portare la Buona Notizia, quella notizia che, senza rumore, cominciò la notte di Pasqua. Fa piú rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Non pretendo di fare un’apologia della Chiesa e dei sacerdoti. Il sacerdote non è né un eroe né un nevrotico. È un semplice uomo, che con la sua umanità si sforza di seguire Gesú e servire i suoi fratelli. Ci sono miserie, povertà e fragilità, come in ogni essere umano; ma anche bellezza e bontà, come in ogni creatura...

Insistere in forma ossessiva e persecutoria su un tema, perdendo la visione d’insieme, crea in realtà caricature offensive del sacerdozio cattolico, nelle quali mi sento offeso.
Solo Le chiedo, amico giornalista, di cercare la Verità, il Bene e la Bellezza. Questo La farà nobile nella Sua professione".
In Cristo,

Padre Martín Lasarte, SDB

Postato da: giacabi a 12:43 | link | commenti
cattolico

domenica, 27 giugno 2010
La ragione  ortodossa e cattolica
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“Opera della ragione  ortodossa e cattolica, è raccogliere tutti i frammenti, la loro totalità,  mentre opera dell’intelletto eretico e settario è scegliere i frammenti che piacciono”
Pavel A. Florenskij (1882-1937
Grazie ad :anna vercors

Postato da: giacabi a 06:53 | link | commenti
cattolico, cristianesimo, florenskij

mercoledì, 23 dicembre 2009

Cosa vuol dire autentico portatore dello Spirito di Dio

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L’abba Isidoro era un autentico portatore dello Spirito di Dio. Ecco perché quanto di eccezionale è in lui era e continua a restare inefferrabile per il nostro linguaggio, impercettibile per il nostro intelletto. Di per sé tutto d’un pezzo, unitario, l’abba diventa interamente contraddittorio nel momento in cui si tenta di caratterizzarlo a parole, dicendo: “Ecco, era questo e quest’altro”. È vero, sottostava ai digiuni, ma al contempo li violava. È vero, era dotato dello spirito di sottomissione, ma anche di indipendenza. È vero, viveva relegato dal mondo, ma amava tutta la creazione come nessuno mai. È vero, viveva tutto assorto in Dio, ma non trascurava di leggere i giornali e di dilettarsi di poesia. È vero, era di carattere mite, ma sapeva essere anche severo. In una parola, al nostro intelletto egli si presenta come un’insanabile contraddizione. Ma alla ragione purificata egli appare come un tutto coerente come nessuno mai. Anche la sua unità spirituale sembra costituire una contraddizione sul piano razionale. Viveva nel mondo, e al contempo non era di questo mondo. Non disdegnava nulla, eppure si manteneva sempre al di sopra, in una dimensione celeste. Era spirituale, pneumatoforo, e nella sua persona era possibile comprendere che cosa significhi la spiritualità cristiana, che cosa significhi essere cristiani “non di questo mondo”.

Pavel A. Florenskij, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro

Postato da: giacabi a 10:28 | link | commenti
cattolico, florenskij

venerdì, 18 settembre 2009
 Niente progetti a tavolino:
 la lezione dell’esperienza
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 DI GIORGIO PAOLUCCI           da:
www.avvenire.it/18-09-09




Q uattordici figli naturali, ventiquattro ragazzi ospitati in affido residenziale in quattro comunità familiari, 75 in affido diurno. E poi la Contrada degli artigiani, una scuo­la- bottega dove gli artigiani insegnano vecchi mestieri ai giovani: falegnameria, tappezzeria, restauro , decorazione. E ancora, un’associazione sportiva con 100 mini-atleti (calcio, a­tletica leggera, nuoto, pallavolo), un centro diurno e varie atti­vità di sostegno ai genitori in difficoltà. Cometa, l’associazione non profit che ha promosso la scuola Oliver Twist che s’inau­gura domani, è tutto questo, ma è molto di più: è un’esperien­za di comunione. All’origine di Cometa stanno due frasi. Una la pronuncia il pa­dre dei fratelli Figini (Innocente, Erasmo e Maria Grazia) poco prima di morire: «Vi lascio la mia fede. E una sola raccomanda­zione: vivere in comunione». L’altra è di don Giussani, che per anni li ha accompagnati: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi la realtà ha lanciato le sue provocazioni, e loro le hanno raccolte. La richiesta di aiuto di un sacerdote che propone a Erasmo di prendere in casa un bambino sieropositi­vo – cosa impopolare al giorno d’oggi, figuriamoci nel 1987 –, poi l’acquisto di una vecchia cascina alla periferia di Como, che diventa la casa comune dei due fratelli e delle loro famiglie, a cui presto se ne aggiungono altre due. E il luogo attorno al quale negli anni sono na­te opere di accoglienza e educazione. «Non siamo eroi né progettisti di alcunché – si schermisce Innocente Figini –. È Dio che si fa vivo attraverso la realtà, noi rispondiamo. Alla fonte di tutto c’è un io cambiato dal­l’incontro con Cristo, unito al desiderio di condividere la vita con chi ha fatto la me­desima esperienza di cambiamento. Così, di incontro in incontro, è nato tutto ciò che oggi si chiama Cometa».
  Lui se la ricorda come fosse oggi quella fra­se profetica che Giussani gli disse durante una conversazione:
«Tra non molto diven­terà difficile,

quasi impossibile comunicare qualcosa di impor­tante

alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il

desi­derio che abita nel cuore di ogni uomo possa

essere risveglia­to
».
E chi avvicina l’esperienza di Cometa è contagiato dal fa­scino che ne promana. Un fascino che si esprime nelle opere e nella bellezza che le accompagna: il giardino, i fiori sui tavoli, l’arredo curato, la scelta dei colori, l’attenzione ai particolari. Si avverte la mano di Erasmo, affermato stilista di tessuti da arre­do, ma non c’è nessuna concessione all’estetismo formale. La bellezza non è un vestito, non è un’aggiunta, è il modo con cui si manifesta l’amore alla vita. È, ultimamente, un richiamo al Mi­stero presente in ogni cosa.
L’esperienza di Cometa ha fatto scuola ed è diventata oggetto di studio a livello accademico. L’anno scorso per conoscerla è arrivato dagli Stati Uniti il professor Lester Salamon, direttore del Centro studi sulla società civile alla Johns Hopkins Univer­sity di Baltimora, uno dei massimi esperti di non profit a livello mondiale: «Da vent’anni giro il mondo per studiare l’argomen­to, ma devo ammettere che non ho mai visto niente di simile e che questa è una delle esperienze più belle che abbia mai co­nosciuto ». Ciò che l’ha colpito di più (e che quest’anno l’ha spin­to a portare in visita alla sede di Cometa 50 suoi collaboratori provenienti da tutto il mondo) è avere visto quanto l’esperien­za della fede vissuta in una dimensione comunitaria è capace di generare un cambiamento rilevante anche a livello sociale.
Proprio quello che 

 
«La vita è tortuosa e piena di prove, ma chi ha

incontrato Gesù sa che con Lui ogni passo è

possibile, che la comunione è la ve­ra liberazione
».
 Il consiglio di Giussani: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi il fiorire di opere educative e di accoglienza

per saperne di più: http://www.puntocometa.org/

Postato da: giacabi a 16:05 | link | commenti (1)
bellezza, cattolico

sabato, 12 settembre 2009
Il cristianesimo felice
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 Il cristianesimo felice di una peccatrice malata di Aids e il moralismo triste che vanifica l’incarnazione di Dio
«Padre, ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù me stessa», mi ha scritto Fabiana

di Aldo Trento
 Negli ultimi giorni di agosto migliaia di persone hanno visitato la mostra “Il Cristianesimo Felice”, allestita da un gruppo di architetti e studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Brera presso il Meeting per l’Amicizia fra i popoli, a Rimini. Più precisamente la mostra si chiama: “Una vita felice per Dio e per il re. La vita quotidiana nelle Riduzioni Gesuitiche”. Di fronte a questo titolo, in molti mi hanno chiesto: «Perché parlate di cristianesimo felice? Esiste forse un cristianesimo triste?». Ludovico Antonio Muratori, famoso storiografo del Settecento e autore di un libro che si intitola proprio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, ha inteso provocarci proprio questa domanda. E la risposta è che sì, esiste un cristianesimo felice e sì, ne esiste anche uno triste. Però mentre il primo è un Avvenimento che entrando nel mondo ha cambiato la vita di quanti lo hanno incontrato, riconosciuto e accolto, e da cui è scaturita la civiltà dell’amore e della verità, il secondo è un modo ideologico e moralista di guardare alle conseguenze del fatto cristiano, che mette in secondo piano il fatto cristiano stesso.
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» dichiarava l’ultimo grande retore dell’impero romano, Mario Vittorino. È proprio questo il contenuto della prima evangelizzazione dell’America latina, che i padri della Compagnia di Gesù realizzarono nell’esperienza delle riduzioni. In questi luoghi gli indios Guaraní, affascinati dall’avvenimento cristiano, diedero vita, in assoluta libertà, a una società fondata sull’amore e sulla ricerca della verità, suscitando perfino l’ammirazione di Voltaire e Montesquieu. Ma come è nata un’esperienza simile? Di che cosa si sono preoccupati i gesuiti fin dal primo impatto con gli indios? È lo stesso Ruiz de Montoya, padre dei Guaraní impersonificato da Robert De Niro nel bellissimo film Mission, a raccontarlo nel suo libro La conquista spirituale del Paraguay: «Per due anni non abbiamo parlato della morale cristiana, e in particolare del VI e IX comandamento, perché non volevamo soffocare quelle piccole e tenere piante che stavano per aprirsi alla vita con dei precetti assolutamente incomprensibili per loro, poligamici da sempre. Per due anni abbiamo annunciato senza stancarci la bellezza dell’Avvenimento cristiano. E sarà il fascino di questo Fatto che permetterà alla loro libertà di chiedere il matrimonio monogamico». Non è per una decisione etica che si diventa cristiani, ma per un incontro vivo, l’incontro con il Fatto cristiano di cui parla padre Ruiz de Montoya. È questo che cambia la vita, ci dice Benedetto XVI.
Cosa vuol dire che la vita cambia? Il segno, come accadde a me, è una rinascita dell’Io, che ogni giorno si guarda allo specchio e si sorride: comincia a guardarsi con gli occhi di Dio. Ossia uno vive guardando con sorpresa come cresce il proprio Io, come diventa grande e maturo. L’Io non può essere definito da regole e precetti, non può vivere sempre scandalizzandosi dei limiti propri e stracciandosi le vesti di fronte a quelli altrui, perché così diventa disperato. L’Io cambia se è totalmente afferrato da quel “Tu che mi fai”. La moralità di un uomo si vede se è felice, ed è felice quando il suo Io è definito dal nesso con l’infinito. L’uomo morale è colui che vive cosciente che “Io sono Tu che mi fai”. È l’uomo che in ogni momento vive un inizio di pienezza, di corrispondenza, il cui segno visibile è la letizia.
Recentemente alcuni religiosi mi hanno chiesto: «Perché molti abbandonano la propria vocazione?». Perché non sperimentano in ogni momento quella soddisfazione che il cuore desidera, e un cuore vuoto o a metà non può reggere l’urto del mondo. Il cristianesimo è l’incontro con un Uomo che si è fatto carne, perciò è incontrabile oggi, e il cuore di chi lo incontra trabocca di letizia. Il moralista al contrario è l’uomo “castrato” nel suo desiderio di felicità, mortificato e scandalizzato dal limite, che cerca farisaicamente di vivere aggrappato alle regole finendo per restarne soffocato. È l’uomo che vive colpevolizzando gli altri, che a loro volta lo soffocano con le loro miserie ripugnanti. Il cristianesimo felice è invece l’ironia e il sorriso di Dio che cambia la vita. Le bellissime mostre su sant’Agostino e sulle riduzioni gesuitiche presenti al Meeting di quest’anno ci testimoniano che il cristianesimo è un fatto. È l’ironia, è il sorriso di Dio fatto carne… Sì, fatto carne solo ed esclusivamente per noi pubblicani, peccatori umilmente coscienti di ciò che ontologicamente siamo.
Che bello alzarsi ogni giorno e gridare “Io sono Tu che mi fai”, o ripetere insieme al profeta Geremia: «Di un amore eterno ti ho amato, per questo ho pietà del tuo niente». Scandalizzarci del peccato e condannare il peccatore è davvero l’eliminazione non solo dell’umano, ma anche del divino, che per il mio peccato sì è umiliato facendosi uomo, per ridare a me e ad ogni uomo (“creatura divina”) il sorriso e l’ironia dell’inizio dei tempi, quando «creò l’uomo a Sua immagine e somiglianza». Dolorosamente, quando l’uomo elimina la ferita lacerante del cuore che brama vedere il volto di Dio, si appiattisce e cade vittima del fariseismo, schiacciato dalle regole e dai precetti. I Guaraní chiamavano Dio con la parola “Tupa”: “Tu”, cioè bellezza, meraviglia; “Pa”, cioè chi ha fatto queste cose belle? Il riaccadere di questo stupore, di questa domanda, è la fine del moralismo e l’inizio della libertà, cioè della felicità. Non esiste niente di più concreto capace di scrollarci di dosso il polverone mediatico di questi giorni, che non il riaccadere di questo sguardo, “Io sono Tu che mi fai”, in cui consiste la bellezza della vita, e quindi in fondo anche la moralità.

Solitudine e desiderio
Il “cristianesimo felice” del Muratori, o il “paradiso in Paraguay”, come ha definito Chesterton l’esperienza dei gesuiti tra gli indios, ci dice che la spada e la croce in questo mondo non si possono separare, così come il peccato e la Grazia, il santo e il peccatore. È di questa consapevolezza, di questa libertà, che il mondo, perdutosi nel gioco farisaico del puritanesimo e dell’idolatria delle regole, ha estremo bisogno. Non si diventa cristiani a forza di scrupoli, ma grazie a un incontro che è sempre presente nell’orizzonte della vita, come un bellissimo sorgere del sole.
I miei malati terminali me lo ricordano ogni giorno, loro, vittime delle peggiori nefandezze cui può giungere la libertà umana… Eppure, incontrando un uomo che si inginocchia davanti a loro abbracciandoli, il loro sguardo diventa luminoso. «Padre, ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù me stessa», mi ha scritto in questi giorni Fabiana, una ragazza di appena diciannove anni, madre di una bambina di due. Chi è più morale? Lei, peccatrice, o il borghese, il fariseo con il cuore rinsecchito dalle sue false sicurezze e con il dito sempre puntato per condannare, sempre dimentico di quanto ci ha detto Gesù: con la misura con cui misuriamo saremo noi stessi giudicati?
Nei giorni del Meeting ho incontrato un popolo di peccatori, cioè di santi che si avvicinano a me non per parlarmi degli scandali dei politici – che non interessano all’uomo d’oggi – ma per chiedermi: «Padre, sto male, sono depresso, ho perso un figlio, mio marito mi ha abbandonato… Per favore, può aiutarmi?». Ho visto una grande solitudine, e nello stesso tempo un desiderio umano di un senso ultimo per cui vivere, di poter incontrare qualcuno sul cui volto si rifletta “il volto del Mistero”. Ho visto ancora una volta il cuore dell’uomo mendicante di Cristo, e Cristo mendicante del cuore dell’uomo.

Postato da: giacabi a 08:28 | link | commenti
cattolico, pseudo recensioni, padre trento

venerdì, 28 agosto 2009
La reducción del cristianesimo felice
Nel “castello” di don Aldo ad Asunción, dove centinaia di paraguaiani cercano una famiglia, un rifugio o anche solo una carezza prima di morire. La cittadella che commuove perfino i “nemici” al governo
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padre Aldo Trento
 di Luigi Amicone tratto da [tempi.it] 18.8.2009
Nella parrocchia di San di San Rafael ad Asunción sorge un castello. Che è un po’ come la Fabbrica del Duomo di Milano. Sempre in costruzione. E in perenne manutenzione. Oggi chi scrive ricapitola il suo passaggio in un angolo di cristianesimo felice. E prende nota. Asilo e scuole per 200 bambini. Clinica per malati terminali. Venticinque letti che raddoppieranno il prossimo anno a fronte dell’apertura della nuova clinica con facciata scolpita da artista locale e cupola di Etsuro Sotoo, architetto giapponese erede di Gaudí, responsabile dei lavori alla Sagrada Famiglia di Barcellona. Poliambulatorio. Sede dell’Observador Semanal, che esce ogni giovedì allegato al quotidiano laico di tiratura nazionale Ultima Hora. Libreria e sede della casa editrice Editorial San Rafael. Farmacia. Casa di riposo per anziani. Casita de Belén, per l’accoglienza di bambini abbandonati e/o malati. Pizzeria ’O sole mio. Caffè letterario. Boutique di artigianato. Agenzia di viaggio. Cooperativa per il microcredito. Negozio di articoli religiosi. Inoltre, appena fuori città, dependance del castello, una fattoria, La Granja, dove ci sono voluti cinquecento camion di terra e sassi per trasformare una palude appestata da serpenti e altri animali poco amici dell’uomo in un ranch di lusso, con giardini inglesi, cavalli, mucche e una sorgente di acqua minerale che si è cominciato a imbottigliare e a commercializzare.

Un morto raccolto per strada
Tutto ha inizio cinque anni orsono, racconta il medico e compagno di viaggio Roberto Sega, «con un morto raccolto per strada, caricato in macchina e seppellito in parrocchia». Quante volte padre Aldo Trento si era trovato in quella circostanza, aveva visto un cadavere, si era fatto il segno di croce, aveva recitato un Gloria e poi passi lunghi e ben distesi? Tutto ricomincia ogni mattina, prima dell’alba, in una clinica per malati terminali voluta dal prete dopo quel morto, tra pareti domestiche che sanno di amore, corridoi illustrati da riproduzioni di Van Gogh, lettini di ferro che ricordano fantaccini agonizzanti in ospedali da campo. Con l’unica e non piccola differenza che qui le latrine e gli altri locali da trincea sono lindi e profumati come potrebbero esserlo le migliori beautyfarm, con annesse palestra, musica e massaggiatrici. In questa Casa della Divina Provvidenza intitolata al santo e medico italiano Riccardo Pampuri, una sessantina tra medici, infermiere e volontari accompagnano al trapasso in Cristo decine di esseri umani giunti agli ultimi respiri. Qui incontriamo la suora carmelitana Sonia Maria della Croce, una donna di una bellezza stupefacente. Una innamorata di Cristo che vive 24 ore su 24 in un hospice con persone come Pablo, 22 anni e un sarcoma alla spalla che gli pesa e puzza fino a togliergli il fiato, fino a fargli vomitare il poco che ha mangiato. O come Gloria, 27 anni e una metastasi ossea che è un coltello che entra ed esce ad ogni istante in quegli occhi così belli, in quel volto così da madonna.

Il posto più pulito del paese
E va bene – uno si chiede – dove sta il trucco in questo film? Niente trucchi e niente film. Tutta realtà da morirci dentro. Da viverci in un crescendo di stupore e di ammirazione che fanno venir voglia ai tanti che sono passati e passano di qui di dire, come quel tale dei Vangeli, «Signore, piantiamo delle tende e restiamo qua». Di uomini, donne, vecchi e bambini in fin di vita, dal 2005 ad oggi, nell’hospice di don Aldo ne sono passati settecento. Morti e, dice la fede cattolica, ora viventi nella comunione dei santi. Eccolo Victor, tre anni, idrocefalo che doveva essere stecchito da un pezzo. Victor che gemeva in continuazione e che adesso non geme più. Chissà perché. Chissà cosa può capire della compagnia che gli fanno gli altri tre piccoli idrocefali che gli hanno messo in stanza, quell’esserino il cui cervello è stato spappolato da un liquido che gli sgorga in continuazione nella testa, come un rubinetto rotto che continua a sversare e premere sulle cervici. Victor, un bambino ridotto a ostia, a trasparenza come di medusa in cui ogni filamento è una vena o un’arteria che pulsa nelle notti blu dello strepitoso emisfero australe. Dove le stelle sono cascate di fuochi d’artificio e la mezza luna ha la gobba che non guarda né a Occidente né a Oriente. Ma guarda a Sud o a Nord. Luna dei cieli stellati del Paraguay a cui il corpicino di Victor grida: «Ed io che sono?».
In un paese dove due bambini su tre non sanno chi è il loro padre, né sanno se i loro fratellini e sorelline siano figli di primo o di ennesimo letto della loro madre, qui, accanto all’hospice, accanto alla pizzeria sorta per iniziativa di una cooperativa di sopravvissuti al carcere o a una dura malattia, la pizzeria dove ogni sabato sera passa la festa dei malati che possono ancora ingoiare un pezzo di pasta col pomodoro e farsi un segno di croce al passaggio della bara aperta (così usa ad Asunción, e – badate – la pizzeria degli amici di don Aldo è frequentata da gente comune, bella gioventù e buone famiglie), in due casette piantate in un buon quartiere residenziale, un plotone di bambini ora festosi, ieri perduti o abbandonati come cani per strada, violati dalla bestialità di adulti scriteriati o malati di Aids, bambini tra gli uno e i sedici anni, chiamano “padre” don Aldo e “madre” Cristina, una ragazza che ha perso due figli e ne ha ritrovati a decine sotto le ali delle opere di carità sorte dalla fede di un povero prete, malato di depressione e d’amore. «Come quella volta che dissi a don Giussani: ma non si tratta solo di sentimento, qui c’è di mezzo qualcosa che ti scombussola le viscere alte e il basso ventre. E lui: “Quando sei lì lì per arpionarla, dì un gloria al padre, e che Dio ti protegga amico mio”».
Un pretino venuto dal Sessantotto, che doveva finire spretato in qualche comune dionisiaco-guevarista e invece è stato arpionato col suo povero comunismo terzomondista dall’obiezione di un ragazzino di Battipaglia. Un ragazzino di don Giussani che un giorno gli disse: «Prof, non è così che si cambia il mondo, ma con la nostra amicizia che ha origine in Gesù. E dovrebbe essere lei a insegnarlo». È per questo che, molti anni dopo quell’incontro, il montanaro venuto da un paesino del Bellunese ha fatto incidere all’entrata della sua chiesa paraguaiana la testimonianza dei primi padri gesuiti che cristianizzarono i guaraní e li protessero fino al martirio dai fratelli degli imperi cattolici e protestanti. Che nel nome delle nuove idee moderne e progressiste vennero dall’Europa per schiavizzare gli indios e, infine, sterminarli. «Padre Louis de Montoya ci insegna che l’essenza dell’antropologia cristiana e il cuore dell’esperienza gesuitica è l’affermazione della supremazia dell’ontologia sull’etica, dell’avvenimento sulle conseguenze, della grazia sulla norma». Una supremazia laica. Basti pensare che quando i gesuiti arrivarono nelle selve del Paraguay la speranza di vita media di un indio era di 26 anni. Quando se ne andarono, alla fine del Settecento, 56 (quella degli italiani nell’immediato Dopoguerra dello scorso secolo era di 58 anni).

Come i gesuiti del Cinquecento
Vent’anni fa don Giussani promise a don Aldo che avrebbe fatto grandi cose. Lui piangeva, era depresso, si era innamorato di una vedova, voleva morire. «Bene, adesso che sei diventato un uomo – gli disse Giussani – la tua vocazione fiorirà». E così è stato. Il simbolo visivo di questa vocazione fiorita per la felicità di sé e dei fratelli uomini è il castello, letteralmente un castello, con tanto di muri di cinta, merlature, passaggi reconditi, cavalieri scolpiti da Ferdinando Pistilli, un artista recentemente scomparso, dallo stile che ricorda il grande Giacometti. Un castello costruito ad arte e a imitazione delle amate reducciones gesuitiche, quelle comunità cristiane di indios sparse per tutta l’America latina che don Aldo ha illustrato in una strepitosa mostra allestita al Meeting di Rimini 2009, e che proprio in Paraguay ebbero la loro principale fioritura. Di queste comunità sorte intorno alla metà del Cinquecento, che durarono centocinquant’anni e furono distrutte dalla furia imperialista e schiavista delle potenze europee, la parrocchia di San Rafael vuol essere ideale erede. Ecco, nel cuore di uno dei paesi più poveri del mondo, dove il tre per cento degli abitanti possiede tutte le ricchezze (e dunque si capisce che il Pil pro capite di 200 dollari mese è una statistica che non spiega come stanno i conti domestici dei sei milioni di abitanti sparsi su quattrocentomila chilometri quadrati, centomila in più dell’Italia con i suoi sessanta milioni di abitanti); dove le più importanti e sterminate coltivazioni di soia, canna da zucchero e manioca sono gestite da colonie agricole di multinazionali laiche e sette religiose di tedeschi, ucraini, polacchi; dove la metà della popolazione vive da campesino in proprietà agricole grandi come intere regioni italiane, mentre solo il 2 per cento risiede nel Grande Chaco, una steppa semidesertica che copre il 60 per cento del territorio del Paraguay; dove le scuole scarseggiano, la corruzione è regina, il contrabbando fiorisce e trova uno dei punti di maggiore attrazione internazionale a Ciudad del Este, famosa città sui tre confini, Paraguay, Brasile, Argentina; dove la migliore sanità è costituita dalla fortuna di non beccarsi il parassita che scivola nel cuore e lo fa scoppiare o di avere i soldi per acquistare le medicine per la chemioterapia; in tutto questo casino don Aldo Trento ha piantato un seme di umanità che produce curiosità, rispetto, ammirazione e – aspetto decisivo – contagio, emulazione. «È impressionante vedere come questa gente impari imitando. Mangio le mele verdi argentine? I miei bambini, che non hanno mai visto una mela, vogliono solo mele verdi. Nasce la pizzeria a San Rafael? Ecco che in città sorgono come funghi locali dove si serve pizza. Piantiamo ficus benjamin? Tutti mi chiedono un ramo per piantarlo. Insegno ai bimbi che le regole servono perché nella comunità regnino bellezza, ordine, rispetto e disciplina? Le mamme applicano anche a casa il metodo dei “cercatori della terra senza male”, una specie di catechismo in azione, una sorta di scoutismo, che abbiamo organizzato qui in parrocchia sotto un titolo che ricorda l’esperienza religiosa dei guaraní, il cui Dio insegnava a cercare, appunto, “la tierra sin mal”». Cristianesimo felice è quello che si radica in una ossessione di bellezza, ordine, pulizia. Un posto dove Gesù Cristo non insegna valori a nessuno. Ma porta il fuoco e la bellezza, anche i più elementari. Dalla cura del mare di begonie che colorano di rosa l’entrata della chiesa ai pavimenti tirati a lucido, dentro e fuori ogni angolo della parrocchia. Uno si chiede se tutto questo è spiegabile con una concezione della fede come metodo. O se nei paraggi di San Rafael c’è una grossa azienda di pulizie. Appurato che non c’è , ci si deve arrendere alla constatazione di maestro Rubin: «Non ci credo, ma se questo è Dio, quasi quasi ci credo».
Chi è Rubin? Humberto Rubin è uno dei più autorevoli giornalisti paraguaiani, anchorman tv e fustigatore per via radiofonica dei vizi della nazione. Ebreo agnostico dal background ideologico alla Michele Santoro e un cervello da Giuliano Ferrara. Cocktail micidiale. Sua moglie, ministro delle Pari opportunità, è un tipetto femminista che pare abbia vietato l’entrata in Paraguay perfino al compagno Manuel Ortega, presidente nicaraguense coinvolto in uno scandalo di violenza sessuale. Bene, dopo aver cercato invano di attirare don Aldo in una di quelle trasmissioni dove si parla di preti e omosessualità, con le solite ovvie implicazioni dell’agguato a mezzo televisivo intorno ai mali della Chiesa, la pedofilia, l’omofobia, l’arretratezza culturale e scientifica, Rubin si è presentato in parrocchia armato di taccuino, troupe e telecamere. Doveva essere una fucilazione. È finita nella “quasi”conversione del fucilatore. Un’ora di trasmissione con immagini di malati e bambini ripresi in primo piano, che mai nessuna tv al mondo manderebbe in onda per non incorrere nelle sanzioni previste dalle leggi su privacy e minori. «Mi scuso con i telespettatori, mi assumo tutta la responsabilità di quanto state vedendo, mi dispiace, ma anche questa è la realtà». Così avverte Rubin nel mezzo di un filmato cominciato sotto il Santissimo esposto nell’hospice e con il quesito sarcastico del conduttore: «Cos’è questa roba qui e cosa c’entra la Madonna?».
Abbiamo incrociato il fiume di lava incandescente sulla strada brecciata, l’empedrado che comincia appena all’angolo della parrocchia di San Rafael, mentre già alle sette del mattino urlava al telefono con un collaboratore di Sotoo. Come la vuole questa scultura? Cosa deve rappresentare in un hospice per morituri? E don Aldo con il suo veneto-ispanico da cavernicolo, la voce concitata, al limite dell’afonia: «Ricapitolare in Cristo tutte le cose, questo è il tema. Tutto in Cristo resuscitato, trasfiguratore della realtà. E poi il destino che ci aspetta, vivi e morti, agonizzanti e nuovi nati, terra nuova e cieli nuovi, la creatura che soffre e grida Cristo, Cristo vincitore della morte che attrae a sé, alla felicità totale, tutte le cose». Uno si chiede se quest’uomo è matto. Oppure un altro, uno che nel nostro caso è Federico Franco, vicepresidente del Paraguay e leader del maggior partito di governo, congiunge le mani e chiede: «Padre, mi benedica».

«Chi si mette contro la Chiesa soccombe»
Signor vicepresidente, chi è secondo lei don Aldo Trento? «È molto difficile appurarlo, ma so che è impossibile imbattersi in padre Aldo senza poi sentirsi attratti a seguirlo. La sua testimonianza mi fa piangere. Fa il bene senza guardare a chi lo fa. È l’avamposto di un altro mondo. Diciamo che è merito suo se oggi il Paraguay ha un legame speciale con l’Italia. E dire che don Aldo ha fatto una infuocata propaganda contro di me e il presidente Lugo durante la campagna elettorale. Ma come le ho detto, quando lo si conosce non si può non diventare amici. Anzi, fratelli». Il presidente Lugo si è allineato a Chávez, anche se su posizioni più moderate, e il boliviano Evo Morales, un altro dei presidenti dei paesi latinoamericani che come il Paraguay sono entrati nell’alleanza bolivariana e chavista denominata Alba, ha appena fatto una dichiarazione programmatica in cui sostiene che «la Chiesa cattolica è un simbolo del colonialismo europeo e per tanto deve sparire dalla Bolivia». Come la mette con questi “fratelli”? «Io rispetto le posizioni del presidente Lugo e le decisioni del mio governo, ma non penso come loro. In particolare credo che la linea del presidente venezuelano sia completamente sbagliata, perché vìola la democrazia, la libertà di stampa, la proprietà privata, lo Stato di diritto. Quanto alle dichiarazioni di Morales, è chiaro che dissento e mi dissocio completamente. Penso che gli scriverò facendogli notare il fatto che chiunque è andato contro la Chiesa cattolica alla fine ha dovuto soccombere».

Le peripezie di un ex vescovo al governo
Chissà se vorrà dire qualcosa sui piccoli e grandi Antonio Di Pietro in giro per il pianeta il fatto che secondo la classifica stilata dalla molto politicamente corretta Transparency International i paesi più corrotti dell’America latina sono gli stessi governati da caudillos andati al potere sull’onda di parole d’ordine quali “lotta alla povertà, lotta alla corruzione”. Classifica che, nell’ordine di apparizione, vede in testa il Venezuela di Chávez, seguito da l’Ecuador di Correa e dal Paraguay del presidente Fernando Armindo Lugo Méndez, già vescovo di San Pedro e nipote di Epifanio Méndes Fleitas, che a metà del secolo scorso fu esponente di punta dell’Associación Nacional Repubblicana, meglio nota come Partito Colorado. Lugo non può ricordare che anche suo zio brigò perché nel 1954 salisse al potere un giovane generale che i boss colorado credevano di potere controllare e utilizzare per restituire stabilità interna e affidabilità internazionale a un paese sconvolto da continui colpi di Stato. Quel giovane generale si chiamava Alfredo Stroessner. Ma invece di essere controllato, fu lui il controllore. Mandò in esilio Epifanio e piegò il Paraguay a una dittatura feroce che durò fino al 1989, anno in cui come il Muro di Berlino, anche Stroessner divenne da un giorno all’altro un cascame storico. Gli sfilarono la poltrona come se fosse la cosa più semplice e naturale. Come la muta sfila la pelle al serpente. Altri vent’anni e il nipote di Epifanio era lì, dopo una vocazione religiosa che lo condusse a entrare nel seminario di una congregazione tedesca, la Società del Verbo Divino, a raccogliere prima il sacramento dell’ordine sacerdotale, poi l’anello pastorale del vescovo, infine la palma del presidente della Repubblica del Paraguay. Una decisione maturata nel seno della cosiddetta teologia della liberazione, avendo come consigliere il vecchio Leonardo Boff. L’ideologo del Cristo poveraccista “stroncato” dal cardinal Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. È forse per distrarsi dalla fine ingloriosa di una teologia in dismissione che Boff ha ingiuriato l’encilica Caritas in veritate con un «Benedetto XVI dovrebbe leggersi Marx»? Comunque sia, il 20 aprile 2008, dopo sessantun anni di generali giannizzeri e politici colorado, il prete e vescovo Lugo ha conquistato la presidenza del Paraguay sostenuto da una coalizione molto simile all’Unione di Romano Prodi, l’Alleanza patriottica per il cambiamento, composta da partiti e movimenti che vanno dalla Democrazia cristiana al Partito comunista. In realtà il grosso dell’Alleanza è costituito dal Partito liberale radicale autentico, un nome davvero troppo sfarzoso anche per il medio latinoamericano retorico. Mentre il partitino democristiano di Lugo è una formazione di peso infinitesimale nella coalizione. A dimostrazione del fatto che Lugo è espressione del mondo clericale. È un fatto deducibile sulla base dei risultati del voto: Lugo è stato votato dai preti e soprattutto dalle suore, mentre il laicato cattolico ha votato liberale o colorado. In effetti preti e suore lo chiamano “illuminador”. E in lui il clero è convinto di aver trovato il profeta di un’epoca nuova, dopo una lunga e frustrante storia di cristianesimo per il socialismo fallito in tutti i continenti. E del resto Lugo, da parte sua, una volta eletto, ha scelto di non mettersi in diretta contrapposizione alla Chiesa. «Dal nuovo governo – ha spiegato a Tempi il nunzio vaticano in Asunción, monsignor Orlando Antonini – mi aspettavo un atteggiamento ostile, perché tutti sanno quali siano state le nostre posizioni a riguardo della candidatura di Lugo. Mi attendevo di essere dichiarato persona non grata. Ma da un autorevole esponente dell’esecutivo mi è stato risposto: “E perché mai, eccellenza? Lei ha fatto solo il suo dovere”. Devo dire che anche Lugo, da presidente, è stato rispettoso nei confronti della Chiesa».
E infatti, dopo aver ottenuto la spoliazione dalla veste ecclesiastica e la riduzione allo stato laicale, Lugo ha chiesto perdono al Papa e ha riconosciuto il figlio naturale avuto quando era vescovo della città di San Pedro dalla relazione con una 24enne. Ora però il presidente non accetta di sottoporsi all’esame del Dna che stabilisca se è vero, come sostengono le signorine, che da vescovo abbia reso madri felici altre cinque ragazze. Non bastando l’aver dovuto rinunciare a distribuire ai poveri lo stipendio presidenziale perché, come ha dichiarato lo stesso Lugo, «adesso quei soldi servono per pagare gli alimenti a una madre e al suo bambino», sulla testa di un presidente che resta tra i più simpatici e amati dell’America latina, adesso è piovuto un altro scandalo a sfondo sessuale: uno degli imprenditori che ha finanziato la sua campagna elettorale, forse per vendetta per non aver ottenuto il posto di ministro che, a suo dire, Lugo gli aveva promesso, sostiene di avere le prove di orge e amori pedofilici che si sarebbero svolti nella residenza presidenziale e in cui sarebbe coinvolto pure il presidente della Corte di giustizia, l’analogo della nostra Corte costituzionale. L’avvocato di Lugo ha annunciato querele. Ma intanto la storia ha fatto crollare di oltre dieci punti il suo indice di gradimento.

L’indigenista e il gesuita
Lugo sorride: «Hola padre, mi raccomando la dieta. Come va il suo diabete?». La scena si svolge nella fine mattinata di un giorno di fine luglio, davanti al palazzo del Parlamento paraguaiano, prima che il presidente entri nella conferenza stampa in cui annuncerà lo storico accordo con il Brasile per la gestione di Itaipù, la più grande centrale idroelettrica del mondo. Don Aldo Trento è stato tra i pochi sacerdoti che, insieme al vescovo di Ciudad del Este e il nunzio Antonini, si sono schierati apertamente contro il candidato vescovo. E Lugo sa bene fino a che punto l’opinione e il giudizio del prete italiano pesino anche dentro il suo palazzo. Ecco, tanto per fare un esempio, il passaggio che parla di lui nel decreto numero 1996 licenziato dalla presidenza della Repubblica lo scorso maggio, in occasione del bicentenario dell’indipendenza del Paraguay: «Visto la nota presentata all’Eccellentissimo Signor Vicepresidente della Repubblica da Padre Aldo Trento, della Fondazione Centro San Rafael… dichiara di Interesse Nazionale la Commemorazione dei 400 anni della fondazione di San Ignacio Guazù, prima Riduzione Gesuitica in Paraguay». Un atto politico e culturale che per un presidente teologo della liberazione e indigenista, alleato di Morales e di Chávez, è abbastanza singolare. 

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cattolico, padre trento

mercoledì, 19 agosto 2009

Elogio dei viziosi
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Avere piccole valvole di sfogo ci rende normali. Lo sapeva san Escrivá de Balaguer
di Tempi
«Se non fumi e non bevi, morirai sano». Pare a noi che dell’antica saggezza di codesto proverbio russo oggi si sia persa traccia. Lotta al tabacco (sulla copertina di Famiglia cristiana), lotta all’alcol (nelle vie milanesi), lotta all’amore (nel “lettone di Putin”), lotta alla flatulenza delle mucche australiane (come bucano l’ozono loro, non lo buca nessuno). Per i viziosi non c’è scampo. Eppure un mondo senza di loro sarebbe più inaffidabile. Perché il vizioso – se è tale, cioè consapevole di esserlo, ché altrimenti è solo un allocco – è la persona giusta da cui comprare un’auto usata. Il vizioso sa di avere una debolezza, non sa resistervi, ma ciò non gli impedisce di condurre positivamente la vita. Anzi, proprio perché la sua meschinità ha una piccola valvola di sfogo, si può star certi che non sarà capace di grandi frodi.



Chi ama invece presentarsi come irreprensibile – condizione umanamente impossibile – celerà le sue nere miserie nell’ombra per poter predicare la virtù in pubblico. Ma quelle, da piccole, si faranno grandi, fino alla frustrazione, fino alla tragedia (Hitler era un igienista vegetariano).

Avere piccoli vizi allegri è auspicabile, come ben sapeva san Josemaría Escrivá de Balaguer che, avendo saputo che dei tre primi sacerdoti dell’Opus Dei nessuno fumava, ordinò che almeno uno cominciasse a farlo. «Perché – disse – su tre persone “normali” almeno una fuma». Solo uno dei tre obbedì: era Álvaro del Portillo, suo primo successore.

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cattolico

sabato, 08 agosto 2009
Credo nella Chiesa Cattolica
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« Quale membro della vera e venerabile Chiesa ortodosso-orientale o greco-russa, che non parla per mezzo di un sinodo anticanonico, ne per mezzo di impiegati del potere secolare, ma con la voce  dei suoi grandi Padri e Dottori, io riconosco come giudice supremo, in materia religiosa, colui che è stato riconosciuto da sant’Ireneo, da Dionigi il grande, sant’Atanasio il Grande, san Giovanni Crisostomo, san Cirillo, San Flaviano, il Beato Teodoro lo Studita, Sant’Ignazio ecc.- ossia l’apostolo Pietro che vive nei suoi successori e che non ha udito invano le parole del Signore:« Tu Sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Con ferma i tuoi fratelli. Pasci le mie pecorelle, pasci i miei agnelli»
Vladimir Solov’ev da :La Russia e la Chiesa universale

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chiesa, cattolico, soloviev

giovedì, 19 marzo 2009
Ernst Jünger, cattolico
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L’undicesima ora di Ernst Jünger
« Ernst Jünger e’ morto il 17 febbraio del 1998 all’ospedale di Riedlingen. E’ stato alcuni giorni in rianimazione, nei quali sua moglie Liselotte ha cercato di capire cosa volesse dire, ma invano.
Ersnt Jünger abitava nei pressi di Riedligen da circa 47 anni. Nel luglio del 1950, si era trasferito a Wilfligen, un villaggio comprendente mille anime. Abito’ con la sua prima moglie, morta nel 1960, al castello di Schenk zu Stauffenberg, barone e parente del conte Claus Schenk zu Stauffenberg, che aveva perpetrato un attentato contro Hitler. Per colpa sua, gli Stauffenberg de Wilfligen erano stati imprigionati e subirono un interrogatorio nel loro castello. La famiglia Jünger si stabilira’ nella primavera del 1951 in un’antica e maestosa villa forestale, costruzione barocca risalente al 1728 e appartenente al castello che era situato di fronte.
Fu proprio nella chiesa Saint-Jean-Nepomucène del castello che il pomeriggio del 21 febbraio 1998, venne celebrata una messa da requiem per Ernst Jünger. Il Dr Roland Niebel, curato locale, presiedera’ la cerimonia liturgica che sara’ concelebrata con un canonicus della diocesi di Rottenburg. Delegati militari e appartenenti ad associazioni di antica tradizione militare, in uniforme, gli renderanno grandi onori, mentre dalla tribuna organistica sara’ la figlia di Jünger a cantare l’Ave Maria.
I presenti alla cerimonia funebre, sia quelli accalcati all’interno della chiesa, che all’esterno in religioso silenzio si ponevano pero’ una questione: perche’ un rito cattolico? Forse perche’ gli Stauffenberg de Wilfligen e la loro chiesa appartenevano alla confessione romana? Ma Jünger non era cresciuto in una casa paternale strettamente legata al protestantesimo liberale?
Quando gli fu chiesto, in vecchiaia gia’ avanzata, come mai ancora pagasse l’importo ecclesiastico, aveva effettivamente risposto in maniera equivocabile: « Perche’ sono un conservatore».
Il giorno della sepoltura, quasi nessuno, fatta eccezione per la sua famiglia, sapeva che il 26 settembre 1996, e quindi nel pieno delle sue facolta’ intellettuali, Ernst Jünger si era convertito alla Chiesa cattolica dinanzi al curato locale, il Dr Niebel. L’arcivescovo di Munich-Freising confermo’ la conversione ».
Bernhard Gajek , « La onzième heure d’Ernst Jünger », Catholica, Printemps 1999, p. 98-99.
 da: http://it.novopress.

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cattolico

domenica, 09 novembre 2008
Il cattolicesimo
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  • «Io non sono cattolico. E, a rigor di termini, nemmeno cristiano. Voglio dire che non seguo il Vangelo e non credo nei dommi fondamentali di esso. Ma io ho un’altissima idea del Cattolicesimo; e sento che se un giorno della mia vita venissi a credere che Dio si è fatto uomo per redimermi da un peccato originale, la mia vita sarebbe profondamente cambiata; e che nulla mi parrebbe grave da sopportare per meritare l’amore di quel Dio. Ma io sento che l’affermazione cristiana è di un tale grave ed eroico significato, che mi meraviglio di vedere tanta gente e tanti galantuomini, che si dicono cristiani, fare su per giù quello che faccio io che mi confesso miscredente assoluto.Basta questo per capire che il giorno in cui l’Italia fosse veramente cristiana e cattolica, essa sarebbe, secondo me, profondamente ed altamente cambiata»
G. Prezzolini, (Don G. De Luca e G. Prezzolini, Carteggio 1925-1962, ed. Storia e Letteratura Roma 1975, p. 15, nota).

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venerdì, 17 ottobre 2008
McLuhan
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Nel tempo in cui cominciai a studiare il cattolicesimo, non avevo alcuna fede religiosa. Non credevo in niente. Pregai Dio per due e tre anni, dicendo semplicemente "Mostrami".
Non avevo alcuna prova. Non sapevo che cosa mi sarebbe stato mostrato, perchè non credevo in niente. Qualcosa mi fu mostrato, all'improvviso. Non accadde in maniera prevedibile.
Si verificò come una evidenza immediata, senza che mi facessi alcuna domanda sull'intervento divino.
Non ci fu trauma nè impulso personale. Non avevo mai avuto bisogno della religione: non avevo avuto mai nessuna crisi personale o emotica.  Volevo semplicemente sapere ciò che era vero... e mi fu detto. Divenni cattolico il giorno dopo !
McLuhan

Postato da: giacabi a 14:59 | link | commenti
cattolico

sabato, 11 ottobre 2008
Ecumenismo
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Ecumenismo è andare verso l'altro desiderando di riconoscere la verità che c'è in lui
Arcivescovo Paolo Pezzi

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cattolico

venerdì, 22 agosto 2008
Shakespeare era cattolico
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Insomma, è sicuro: il maggiore poeta e drammaturgo di lingua inglese di tutti i tempi (e che nella cultura anglosassone occupa il posto che ha per noi Dante) era cattolico. Un libro di Joseph Pearce (intervistato dall’agenzia zenit.org il 14 luglio 2008) lo dimostra inequivocabilmente. The Quest for Shakespeare: the Bard of Avon and the Church of Rome (questo il titolo) non è comunque una novità, essendo stato preceduto da Shadowplay: the hidden beliefs and coded politics of Shakespeare, di Claire Asquith. «Esiste una schiera di illustri studiosi di Shakespeare che sono arrivati alla conclusione che il Poeta era cattolico», dice Pearce.

Ma la sua fede è rimasta nascosta per il semplice motivo che il cattolicesimo ai suoi tempi era fuorilegge. E lo fu praticamente fino al XIX secolo. Furono oltre settantamila i cattolici uccisi in Inghilterra per la loro fedeltà al papa. Che Shakespeare fosse cattolico lo sapeva bene anche Elisabetta I, ma la di lui discrezione le consentiva di tollerarlo. Erano del pari tollerati, benché cattolici, il compositore di corte William Byrd e il conte di Southampton, non a caso benefattore di Shakespeare.
Di quest’ultimo, «la famiglia della madre era una delle famiglie cattoliche più note in Inghilterra e diverse cugine di Shakespeare erano state giustiziate per il loro coinvolgimento nei cosiddetti complotti cattolici.

Il padre di Shakespeare era stato multato in quanto cattolico e così anche la sorella Susanna». L’impronta cattolica è, nelle opere del Poeta, giudicata «evidente» da Pearce, anche se, date le circostanze, espressa «in modo circospetto». Strano posto l’Inghilterra protestante: tutti i suoi maggiori letterati (da Wilde a Tolkien) erano cattolici.

Rino Camilleri
grazie a: ppdumb



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shakespeare, cattolico

domenica, 30 marzo 2008
L’orgoglio della fede in Gesù da spirito libero: Basta con le infamie miranti a screditarmi con l’obiettivo di attaccare il Papa

                     ***  da:  www.magdiallam.it

La mia replica ai cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo e del politicamente corretto, che avrebbero voluto che mi convertissi al cattolicesimo mantenendo una valutazione positiva dell’islam
autore: 
Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Vi propongo la versione integrale della mia seconda e spero ultima lettera al Direttore Paolo Mieli, pubblicata oggi dal Corriere della Sera, in cui chiarisco il mio pensiero sulle critiche infondate, infamanti e strumentali sollevate da taluni dopo la mia conversione al cattolicesimo. Voglio precisare che da parte del Corriere della Sera non c’è stata alcuna censura ma che per ragioni di spazio non è stato possibile pubblicare la versione integrale della lettera.
Caro Direttore,
la mia conversione al cattolicesimo avvenuta nella solenne celebrazione della Veglia Pasquale nella Basilica di San Pietro per mano del Papa è stata da più parti strumentalizzata sia per screditarmi sia per accusare il Santo Padre. Ebbene voglio subito chiarire che sottoscrivo pienamente, in ogni sua virgola, la precisazione del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, che distingue correttamente tra le mie idee personali, di cui mi si riconosce la libertà d’espressione, e le posizioni ufficiali della Chiesa, che ovviamente sono del tutto autonome dal mio pensiero. Ci mancherebbe altro! Mi auguro che a questo punto cessino le manovre più o meno occulte di tutti coloro che, pur facendo riferimento ad ambiti religiosi o ideologici differenti, si sono sostanzialmente ritrovati uniti nell’attacco a Benedetto XVI.
Sai bene, e lo sanno anche i lettori del Corriere, che da musulmano sono stato uno spirito libero ed è proprio questa libertà intellettuale, a cui fa da sponda una radicata rigorosità etica, ciò che ha gradualmente fatto maturare in me il convincimento che la religione cattolica corrisponda pienamente al contesto ideale al cui interno possono naturalmente convivere dei valori inalienabili e inviolabili che per me sono da sempre irrinunciabili in quanto rappresentano l’essenza della nostra umanità, a cominciare dalla fede nella sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, dal riconoscimento della dignità della persona quale fondamento della civile convivenza, dal rispetto della libertà di scelta tra cui spicca l’esercizio incondizionato della libertà religiosa. Ebbene voglio rassicurare tutti che continuerò ad essere ancor di più uno spirito libero da cattolico. E non potrebbe essere diversamente visto che proprio da questo Papa ho imparato che l’uso della ragione, l’adozione di parametri valutativi e critici, la verifica della verità scientifica e storica, costituiscono la condizione imprescindibile per accertare la fondatezza della bontà di una autentica religione e per perseguire quella Verità che coniughi l’oggettività, l’assolutezza e l’universalità del pensiero laico con la trascendenza propria della fede in Dio. Così come la libertà di spirito è stato il tratto saliente degli amici fraterni cattolici che mi hanno accompagnato nel percorso interiore culminato nella piena adesione alla fede in Gesù, a cominciare da monsignor Rino Fisichella, la mia guida spirituale, che forse non a caso riuscì a diventare il referente religioso di Oriana Fallaci, il vessillo della libertà incondizionata e irrefrenabile nella storia del giornalismo italiano contemporaneo.
Da spirito libero trovo del tutto infondate, pretestuose e maligne le critiche che mi sono state rivolte. Ci si è scandalizzati per il fatto che il mio battesimo sia avvenuto nella notte di Pasqua, a San Pietro, da parte del Papa. Forse i più non sanno che i catecumeni, gli adulti che si convertono, ricevono i sacramenti d’iniziazione al cristianesimo nel corso della cerimonia della Veglia Pasquale. Ciò avviene ovunque nel mondo. E che, avendo effettuato il percorso di conoscenza e di adesione alla nuova fede a Roma, non deve sorprendere che sia stato il Papa, nella sua veste di vescovo di Roma, a impartirmi il battesimo, la cresima e l’eucarestia. Sinceramente sono allibito e rammaricato quando perfino alcuni esponenti del clero cattolico arrivano a sostenere che sarebbe stato di gran lunga preferibile che il mio battesimo fosse stato impartito in una parrocchia di una remota cittadina, lontano da occhi discreti e dall’interesse dei mass media. Come se il mio battesimo fosse una vergogna da tenere il più possibile nascosta. Alla luce di questa interpretazione infamante, il ruolo di Benedetto XVI ha finito per essere equiparato a una “provocazione” se non un vero e proprio “complotto” contro l’islam. Ebbene io sono orgoglioso della mia conversione al cattolicesimo, sono orgoglioso che sia avvenuta in modo pubblico e che sia stata pubblicizzata, sono orgoglioso di poterla affermare a viva voce, sono orgoglioso di poter testimoniare la mia nuova fede ovunque nel mondo e considero il mio battesimo dalle mani del Papa come il dono più grande che la vita potesse accordarmi.
Sono stato criminalizzato, qualcuno mi ha paragonato agli estremisti islamici che mi hanno condannato a morte, per aver espresso un giudizio radicalmente negativo nei confronti dell’islam. Una folta schiera di cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo etico, culturale e religioso nonché del politicamente corretto, avrebbe voluto che io limitassi la mia denuncia al terrorismo islamico ma che mantenessi una valutazione comunque positiva dell’islam. Perché, a loro avviso, tutte le religioni sono pari a prescindere dai loro contenuti e, in ogni caso, non bisogna dire alcunché che possa urtare la suscettibilità altrui. Ma scusatemi: se mi sono convertito al cattolicesimo è del tutto ovvio che l’ho fatto perché ho maturato una valutazione negativa nei confronti dell’islam. Se io veramente credessi che l’islam sia una religione vera e buona, perché mai l’avrei abbandonata? A questo punto emerge il sospetto, usando un eufemismo, che si vorrebbe che io pur nutrendo una valutazione negativa dell’islam, non la debba però esternare rendendola pubblica. Sempre per la paura della reazione di condanna nelle sue varie sfumature, dalla deplorazione fino alla minaccia se non all’uso della violenza. Ebbene mi spiace per costoro: ciò che dentro di me è vero e giusto lo dirò e lo scriverò sinceramente e integralmente. Se loro sono già sottomessi al terrorismo dei taglia-lingua e già praticano l’auto-censura per prevenire la violenza degli estremisti islamici, io intendo affrontare questa guerra di libertà e di civiltà a testa alta e con la schiena dritta, fino alla fine.
A questo punto è doveroso chiarire che io non sono affatto un apologeta e un fautore di una “guerra di religione” o di una “guerra di civiltà”. Ciò che l’Occidente non ha o non vuole capire che è in già in atto una guerra scatenata dal terrorismo e dall’estremismo islamico globalizzato, i cui protagonisti sono i taglia-gola e i taglia-lingua che massacrano e sottomettono nel nome di Allah tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza, a cominciare dagli stessi musulmani nei paesi a maggioranza islamica. Io sono un ex musulmano che ha subito e continua a subire questo terrorismo e che ora, da cattolico, intende essere testimone di una verità storica e promotore del riscatto di valori e di un’identità senza cui l’Occidente, che affonda la sue radici nella fede e nella cultura giudaico-cristiana, non potrà affrancarsi e confrontarsi costruttivamente anche con i musulmani. Pur prendendo radicalmente e definitivamente le distanze dall’islam in quanto religione, sono assolutamente convinto che si possa e si debba dialogare con tutti i musulmani che, in partenza, condividono i diritti fondamentali della persona senza se e senza ma e perseguono il traguardo di una comune civiltà dell’uomo. L’errore in cui si incorre è di immaginare che i musulmani, quali persone, sarebbero dei cloni che incarnano in modo automatico e acritico i dogmi dell’islam. Sono, come tutte le persone, una realtà singolare e complessa in cui la dimensione religiosa, che assume dei connotati diversi, si confronta con quella che è l’esperienza personale frutto di uno specifico contesto familiare, psicologico, sociale, culturale, economico e politico.
Caro direttore, tu sai bene che il Corriere si è sempre speso per valorizzare la posizione dei musulmani moderati. Io stesso sono orgoglioso di essere stato nell’ultimo decennio il musulmano che più di altri si è speso per affermare in Italia un islam della fede e della ragione. Ricordo con orgoglio come il 10 settembre 2004 fui l’artefice della prima visita nella storia d’Italia di una delegazione di musulmani moderati al Quirinale, accolti dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, dopo la pubblicazione, il 2 settembre 2004 sul Corriere, di un “Manifesto contro il terrorismo e per la vita” da me redatto e fatto sottoscrivere a una trentina di musulmani che presumevo fossero moderati. Poi mi sono dovuto ricredere. Perché nel momento in cui devono confrontarsi con i dogmi e con i precetti dell’islam, qual è il caso della mia conversione al cattolicesimo, la loro moderazione viene del tutto meno. Non è forse singolare che i più accaniti critici della mia conversione siano proprio i cosiddetti moderati, a cominciare dai sedicenti 138 “saggi” dell’islam che hanno proposto un dialogo con il Vaticano sulla base di versetti coranici, estrapolati dal loro contesto, sull’unicità di Dio e l’amore per il prossimo? Ormai la millenaria esperienza con l’islam deve insegnarci che il dialogo è possibile solo con quei musulmani che accettano di assumere incondizionatamente, a prescindere da ciò che dice o non dice il Corano, rivolgendosi nella propria lingua alla loro gente, una chiara e ferma posizione sulle questioni concrete, tra cui oggi certamente figurano il massacro e la persecuzione dei cristiani, la negazione del diritto all’esistenza di Israele, la condanna a morte dei musulmani convertiti in quanto apostati, la legittimazione del terrorismo palestinese ed islamico, la discriminazione e la violenza nei confronti della donna e, più in generale, la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
Denunciare tutto ciò nella mia lettera che il Corriere ha pubblicato nel Giorno di Pasqua e della mia conversione al cattolicesimo, non significa in alcun modo voler “dettare la linea” al Papa o politicizzare il mio battesimo. Sono cose che io ho sempre detto da lunghi anni e sarebbe stato veramente singolare che, di punto in bianco, le avessi ignorate. Magdi Cristiano resterà sempre il Magdi che ha difeso dei valori inalienabili e inviolabili, con la sostanziale differenza che oggi questi valori convivono in modo del tutto armonico nel contesto della religione e della cultura cattolica. Ti ringrazio per l’attenzione e la correttezza con cui hai seguito questa mia vicenda personale di fede e di vita e ti comunico che con questo mio intervento ritengo di aver detto tutto ciò che ho ritenuto opportuno che i nostri lettori sapessero. Cordiali saluti e i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam
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domenica, 24 febbraio 2008
Non si diventa cristiani da soli
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 Per prima cosa mi sembra importante rilevare che la chiesa non concepisce il processo del divenire cristiani come risultato di un processo di insegnamenti o di un itinerario pedagogico, ma come sacramento. Ciò vuol dire che nessuno diventa cristiano grazie sol­tanto alla sua opera personale. Non ci si può fare cristiani da se stessi. Non è affare e capacità dell'uomo modellarsi, per così dire, prima in gentiluomo e, infine, in cristiano. Al contrario, si incomincia a diventare cristiani solo quando si abbandona l'illusione della autarchia e dell'autosufficienza, quando si capisce che l'uomo non può creare se stesso e non può da solo provvedere a se stesso, ma deve aprirsi, lasciarsi guidare. In tal modo, essere cristiani significa prima di tutto che noi riconosciamo la nostra insufficienza, che noi lasciamo agire Lui in noi, il Dio diverso da noi. Louis Evely un giorno ha osservato molto giustamente che il peccato di Adamo non consistette propriamente nel fatto che egli volle essere simile a Dio: questa infatti è la voca­zione dell'uomo, datagli dal suo stesso creatore. La sua colpa va vista, piuttosto, nel modo sbagliato con cui egli cercava una somi­glianza con Dio e nella meschina immagine di Dio che lo guidava in questo proposito; nel pensare che sarebbe divenuto come Dio, se fosse riuscito a sussistere con potere proprio, a dare in modo auto­nomo ed autosufficiente a se stesso la vita. In realtà, un simile con­cetto errato di una immaginaria divinità conduce all'autodistruzione, perché Dio stesso, come ce lo rappresenta una fede cristiana, non è un autarchico indipendente, ma colui che è completamente divino solo nel dialogo dell'amore, infinitamente richiedendo e ricevendo, donando se stesso. L'uomo diviene simile a Dio solo quando entra in questa dinamica; quando desiste dal voler creare se stesso e si lascia creare da Lui. Infatti è tuttora vero che l'uomo non è la creatura dell'uomo, ma egli può essere creato e dato a se stesso soltanto da Dio.
Forse, queste affermazioni ci sembrano un po' antiquate. Ma io credo che, proprio in questo nostro tempo, potremmo riscoprire la verità di questo concetto ed accorgerci come ciò che qui è stato detto, soprattutto del singolo, valga anche per l'umanità nella sua totalità. Oggi, quest'umanità pone se stessa come il tutto più grande di ogni realtà, vuole trasformare se stessa nell'umanità totale e non desidera più confidare in nessun altro aiuto che non sia quello che essa stessa si dà. Ma, proprio così facendo, si distrugge nella sua stessa umanità. Proprio mentre annuncia l'umanità totale e pura, essa dissolve - lo sperimentiamo da ogni parte - l'umanità vera dell'uomo. Anche l'umanità, nella sua totalità, non è autar­chica, ma rimanda oltre se stessa.
Sia cristiani che uomini non si diventa da se stessi, per con­quista propria. Per quanto strano ancor oggi ci possa sembrare, noi abbiamo necessità di aprirci nella fede all'azione di Dio.
Non si diventa cristiani da soli. Ciò significa che lo si può divenire soltanto nella comunità dei credenti, nella stretta reciprocità della fede comune e della preghiera. Certo, come abbiamo udito proprio nel vangelo di oggi, per essere cristiani è necessaria anche la «tranquilla cameretta», la solitudine di chi lotta e crede da solo con se stesso, di chi si pone dinanzi al volto di Dio. Ma non solo questo. Si esige anche l'essere insieme. Dio viene agli uomini solo per mezzo di uomini. Anche nell'ambito spirituale l'uomo è un essere aperto; anche nell'ambito spirituale è vero che noi uomini possiamo sussistere solo nella dipendenza reciproca e nell'essere gli uni per gli altri. Penso che dovremmo finalmente arrivare a superare la mo­derna illusione che la religione rappresenti il momento più intimo, che noi viviamo da soli con noi stessi e che non può entrare nella sfera pubblica. Volendo così mettere al sicuro la fede in una spiri­tualità irreale, la svuotiamo e con ciò stesso togliamo alla convivenza umana il suo elemento più prezioso. Nascono allora il puro collettivo da una parte, il puro individuo dall'altra. Una comunità, nella quale il singolo rimane se stesso, e dove, contemporaneamente, avviene un incontro con ciò che vi è di veramente umano nell'altro, una siffatta comunità non si forma dove l'uomo riserba solamente a sé quello che egli ha di più profondo. Eppure, per poter essere se stesso, l'uomo ha bisogno di una comunità del genere. Diventa compito nostro allora manifestare il nostro intimo, portando in ma­niera pregnante nel mondo attorno a noi. Spetta a noi non permet­tere che il mondo rimanga senza Dio, e comunicare ad esso Dio mediante la nostra fede.
Joseph Ratzinger Tratta da: Dogma e predicazione
                                                                                                 a M.

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venerdì, 20 luglio 2007

IL DIO DI JACK KEROUAC
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 Da: © La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139         quaderno 3758

I diari di uno «strano solitario pazzo mistico cattolico»
ANTONIO SPADARO S.I.
«Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio. Non riesco a scorgere il tuo volto in questa storia» (1): è la preghiera dello scrittore Jack Kerouac ventiseienne. Riecheggiano le parole del Salmo: «Non nascondermi il tuo volto…», che ritorneranno ancora, in interviste e saggi. Così dieci anni dopo: «Cosa sta cercando? mi chiedevano. Rispondevo che aspettavo che Dio mi rivelasse il suo volto» (2).
«Salmi» è il titolo di una sezione dei diari di Jean-Louis Lebris de Kerouac (1922-69), conosciuto come Jack Kerouac, una delle icone di culto della letteratura (3). Egli tenne nota delle sue vicende e dei suoi pensieri sin dal 1936, quando era ancora adolescente. Un mondo battuto dal vento raccoglie le pagine scritte tra il giugno del 1947 e il febbraio del 1954, cioè tra i 25 e i 32 anni, la fase più dinamicamente creativa della sua esistenza, che si concluderà a soli 47 anni. Questi diari sono stati pubblicati negli Stati Uniti nel 2004 ed escono adesso anche in Italia.
Il volume si divide in due parti: la prima è dedicata agli sforzi compiuti da Kerouac per scrivere e far pubblicare il suo primo romanzo La città e le metropoli; la seconda riguarda i diari intimi e di viaggio scritti nel corso della stesura di On the road. Non intendiamo qui illustrare la ricchezza di contenuti e suggestioni di cui i diari di Kerouac abbondano. Ci soffermiamo esclusivamente sui passaggi che meglio mettono a fuoco la radice religiosa fino a vette di espressione orante. Approfondiremo la riflessione con riferimento a interviste e ad altre fonti.
Il diario di un uomo in cammino
Kerouac è ormai ampiamente conosciuto, e le sue opere più note sono lette da un vasto pubblico, soprattutto il romanzo Sulla strada. Non sarà nostro compito riassumere la sua esperienza letteraria completa: la presentazione, infatti, prenderebbe necessariamente tutto lo spazio a nostra disposizione (4). Il nostro obiettivo è più semplice e limitato: dare un’idea della profonda sensibilità cattolica dello scrittore così come essa emerge a partire dai diari, allo scopo di far notare come essa sia viva, pulsante e ben presente alle radici della sua ispirazione. E questo è vero nonostante il carattere moralmente trasgressivo che caratterizza la sua produzione più nota.
Il percorso umano, artistico e religioso di Kerouac è, in realtà, complesso e dialettico. Non saremo qui alla ricerca di coerenze o di logiche troppo stringenti. Ma proprio attraverso le contraddizioni si potrà valutare in lui la forte permanenza dell’ispirazione e dell’immaginario cattolico, che gli deriva dalle sue stesse radici familiari e che lo accompagnerà fino alla fine. Addentrarsi nelle pagine dei suoi diari è un’esperienza viva e pulsante, capace di dare un contributo decisivo per comprendere meglio la sua opera e smontare eventuali falsi cliché accumulatisi nel tempo sullo scrittore. Tutto il cattolicesimo implicito ed esplicito presente nella sua opera trova nei diari espressione e forma, sia essa ortodossa sia essa inusuale e «selvaggia». Commenta il curatore, Douglas Brinkley: «È una ricerca religiosa senza tregua» (5). Senza di essa l’opera di Kerouac non sarebbe pienamente comprensibile.
La porzione di diario che va sotto il nome di Un mondo battuto dal vento è composta durante la stesura di La città e la metropoli e lascia trasparire tutto il suo desiderio di dare a questo romanzo-fiume un’impronta religiosa. Egli stesso scrive di tenere il Nuovo Testamento sempre con sé e di pregare prima di ogni sessione di lavoro. Qualcuno ha notato che gli eroi della cultura popolare americana, i maestri del buddismo zen, i personaggi «battuti e beati» descritti in tutta la sua opera vivono sullo stesso terreno dei santi cattolici. Un esempio: Neal Cassady, il suo buddy, l’amico fraterno, compagno di avventure e di sogni, di sregolatezze e di intuizioni, fonte di energia a getto continuo, che poi diventerà il personaggio Dean Moriarty in On the road, non è forse un misto tra il cowboy televisivo Hopalong Cassidy e san Francesco (6)? O meglio ancora, come Kerouac disse in una celebre intervista, egli «è l’uomo più intelligente che abbia mai incontrato nella mia vita. Neal Cassady. È un gesuita» (7). Anche Neal era di origini cattoliche e da bambino cantava nel coro della sua chiesa di Denver. Nella stessa intervista egli stesso si auto-definisce «Everardo Mercuriano, Generale dell’esercito dei gesuiti (General of the Jesuit Army)» (8). Kerouac è stato alunno della scuola dei gesuiti di Lowell, nel Massachusset, il paese in cui era nato. In un’autopresentazione nel 1960 egli riconosceva di aver ricevuto una «buona istruzione» (9). Ed essa deve aver lasciato anche una traccia significativa su di lui se gli ha permesso di ricordare persino il nome di colui che fu il quarto Generale dell’Ordine di sant’Ignazio, tra il 1573 e il 1580!
In ogni caso i suoi personaggi sono una parata di fuorilegge divini, angeli solitari, santi folli — un po’ «francescani» o un po’ «gesuiti» —, profeti sotterranei. Attraverso figure simili lo scrittore affrontò una delle questioni centrali della letteratura occidentale del dopoguerra, che riassunse in questa domanda, espressa in un linguaggio arcaico di stampo biblico-liturgico: Whither goest thou, America, in thy shiny car in the night? (Dove vai, tu, America, la notte, nella tua piccola macchina scintillante?) (10). Una sensibilità cattolica non può non riconoscere in questa domanda un appello di salvezza e «giustificazione» espressa in termini coerenti alla sensibilità e all’immaginario statunitensi. E proprio in quegli anni la grande scrittrice cattolica Flannery O’Connor ironicamente metteva in bocca al protagonista del romanzo La saggezza nel sangue l’espressione: Nobody with a good car needs to be justified, cioè «Nessuno con una buona macchina ha bisogno di essere giustificato». La simbolica della macchina e della strada è una simbolica di dannazione e redenzione che attraversa fino ad oggi l’ispirazione artistica statunitense, dalla musica di Bruce Springsteen al cinema di Terrence Malick. Ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
«Gesù siede alla mia scrivania»
Dall’infanzia sino alla morte Kerouac scrisse lettere a Dio, preghiere rivolte a Gesù, poesie dedicate a san Paolo e invocazioni per la propria salvezza (11). «[…] se Gesù sedesse alla mia scrivania questa notte, guardando fuori dalla finestra, tutta quella gente che ride felice per l’inizio delle vacanze estive, forse sorriderebbe e ringrazierebbe suo Padre. Non lo so. La gente deve “vivere”, eppure so che soltanto Gesù conosce la risposta definitiva» (Mv, 62), scrive il 26 giugno del ’47. Il suo è un Gesù vicino, presente lì dove lo scrittore vive e scrive; è colui che guarda dalla finestra e che ha the only answer, la risposta, la chiave. Per Kerouac questa risposta non è opzionale: è fondante e coinvolge la stessa espressione artistica. L’opera d’arte infatti vive, come l’essere umano, di queste domande: «Che cos’è, da dove viene, dove sta andando, perché e quando e chi la conoscerà?» (ivi, 63). Lo spirito di Kerouac in questi anni è affine a quello di Pascal, autore che egli ha letto con interesse, prendendo appunti (12). L’inquietudine della domanda lo agita profondamente a livello intimo: «Interi universi di nuove idee vanno a sbattere contro i miei sentimenti (crashing into my feelings) senza fine. Perché penso?» (ivi, 65 s).
La persona di Gesù, con tutta la spinta ideale, si innesta per Kerouac in questo terreno di domande. Egli è the only soul, l’unica anima a cui far riferimento, e the only answer, cioè l’unica risposta (13): «Gli insegnamenti di Gesù Cristo sono stati una svolta, un modo per confrontarsi con il terribile enigma della vita umana e confondersi di fronte ad esso. Che cosa miracolosa! Quali pensieri deve aver avuto Gesù prima di “aprire la sua bocca” e iniziare il Discorso della montagna. Che pensieri profondi, oscuri e silenziosi (long dark silent thoughts)!» (ivi, 66). Così anche nelle «profondità desolate (desolate deeps)» brillano le stelle, «alte e luccicanti in un firmamento spirituale (high and sparkling in a spiritual firmament)» (ivi, 79). «Come mai non hai mai scritto di Gesù?» chiede Ted Berrigan a Kerouac in un’intervista realizzata un anno prima della sua morte. E Kerouac risponde ironicamente: «Io non avrei scritto nulla di Gesù? Non venirtene a casa mia a fare il pazzo bugiardo… e… tutto ciò su cui scrivo è Gesù» (14).
«Gesù, la tua è l’unica risposta per tutti gli esseri viventi!» (ivi, 71), esclama. Ancora una volta Gesù è the only answer, la sola risposta ai dilemmi e agli «impulsi» interiori, al desiderio di vita. L’anno successivo scriverà, e in maniera più concitata e visionaria, «Abbiamo bisogno di Gesù? Si sta avvicinando quel momento? E questo Agnello di Dio rivelerà (will reveal)? Rivelerà i segreti della gioia sulla terra e nella morte?» (ivi, 252). Qual è questa risposta? Cosa Cristo rivelerà? Perché Cristo è la risposta? Perché «Cristo è il primo uomo a essersi reso conto che l’amore è il principio della vita umana. Lui ora risplende sopra di noi più grande che mai e io sarei pronto a scommettere che nel prossimo secolo Cristo (e i pochi altri grandi uomini come lui) riempiranno le menti della gente come mai prima» (ivi, 197).
Il 2 giugno del 1949 nota che la sera precedente era andato a dormire leggendo il Nuovo Testamento. Annota: «Ben presto scriverò la mia personale interpretazione di Gesù Cristo». Quale il nucleo della sua visione? Essenzialmente che Gesù «è stato il primo, e forse l’ultimo, a riconoscere che affrontare il mistero ultimo della vita è l’unica attività importante a questo mondo». Ecco che cosa cattura l’attenzione di Kerouac: il mistero ultimo della vita intesa come una questione seria che richiede una vera e propria «resa dei conti». Egli fa appello a «un mondo che rispecchi fedelmente il Cristo. Il Re mite, che giunge in groppa a un Mulo» (ivi, 265). Troviamo qui tutto il senso di un atteggiamento umile nei confronti dell’esistenza, che spesso invece sarà in seguito storpiato in forme vanamente ribellistiche dai suoi emulatori.
Modello di scrittore e fratello di anima è allora Dostoevskij, vero scrittore proprio perché anima religiosa: «Dostoevskij è davvero un ambasciatore di Cristo e per me la sua opera è il moderno Vangelo. Il suo fervore religioso vede attraverso i fatti e i dettagli della nostra vita quotidiana, cosicché non deve concentrare la sua attenzione sui fiori e gli uccelli, come san Francesco, o sulle finanze, come Balzac, ma su qualsiasi dettaglio… sulle cose più ordinarie» (ivi, 346). Da qui maturerà la sua definizione preferita di letteratura e di romanzo, sconvolgente nella sua semplicità e originalità che leggiamo in Satori a Parigi (1966): una «storia raccontata per amicizia e per insegnare un che di religioso, di riverenza religiosa verso la vita reale, in questo mondo reale che la letteratura dovrebbe riflettere» (15).
La vita non è abbastanza
Riflettendo liberamente sulle parole di Cristo «Il mio regno non è di questo mondo», Kerouac scopre in sé un dualismo tra ciò che egli avverte come rigido (e tra questo anche una religione intesa come moralismo) e un ampio slancio vitale: «Il mondo si schiude di fronte a me come un luogo di cose potenti che mi danno nutrimento; i pensieri morali restrittivi svaniscono in un impeto ottobrino di eccitazione, fame, gioia ed entusiasmo, il disgusto di sé che proviene dall’introspezione solitaria si trasforma in desiderio di socievolezza e affabilità, un carburante così necessario per spingerci a partecipare alla vita» (Mv, 130). Lo scrittore si rende conto che la chiave della vita non è nella lonely introspection, che poi è la sterile introversione egocentrica e consolatoria, capace di generare in letteratura solamente «brodaglia psicotica (psychotic sloppiness)» (16). L’autoconoscenza per lui «è vanità» (ivi, 121). Invece vivere significa esporsi alle powerful things, al mondo e alla realtà che ha una potenza di apertura alla vita, e scrivere è «un’esplosione di interesse (explosion of interest)» (ivi, 130). Questa è per lui «scrittura sana (sane writing)».
Quando questa apertura, seppur di rado, si coniuga con una tensione orante, allora egli guadagna l’espressione di una radicale fiducia, di una confidenza estrema: «Sarò forte come l’acciaio, mio Signore, diventerò sempre più forte, il fuoco mi forgerà, mi renderà più deciso, più saldo, migliore, secondo la tua volontà o Dio perduto, secondo i tuoi comandamenti. Ora lascia che io Ti trovi, come una nuova gioia che invade la terra all’inizio del nuovo giorno, come il cavallo che, nel suo campo, al mattino, vede il padrone giungere verso di lui attraverso l’erba. Ora sono come l’acciaio, mio Signore, tu mi hai reso forte e pieno di speranza. Colpiscimi e risuonerò come una campana!» (ivi, 220).
Introspezione ed esuberanza, rigidezza e slancio, «non smetteranno mai di agitarsi dentro di me — riconosce Kerouac —, il che rappresenta un grande stimolo per farmi continuare a girovagare» (ivi, 68). Vive proprio di queste tensioni, in fondo, il celeberrimo romanzo On the road, di cui l’autore descrive le prime intuizioni nell’agosto del ’48: «Ho in mente un altro romanzo — Sulla strada — a cui continuo a pensare: parla di due ragazzi che fanno l’autostop fino in California, in cerca di qualcosa che non riescono a trovare veramente e si perdono lungo il cammino per poi tornare indietro sperando in qualcos’altro» (ivi, 186). Lo slancio fa sentire la vita come esplorazione, un’«avventura del cuore, della mente, dell’anima» (17) tesa tra «l’immortalità e i singoli istanti inconoscibili e a frantumi» (ivi, 166), proiettata verso qualcos’altro. Kerouac descrive giovani assetati di esperienza, ma questa esperienza non è fine a se stessa, non è puro «esperimento», ma una via per ottenere una nuova visione della vita, forse qualcosa d’altro ancora.
Life is not enough, annota Kerouac nell’agosto del ’49: «La vita non è abbastanza». Il clima rovente delle sue meditazioni lo conduce ad avvertire una forza centrifuga senza confini se non quello dell’eternità: «Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai, in nessuna oscura esistenza o qualunque altra cosa accada. E qual è questa decisione? Un qualche tipo di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà oltre, trascenderà questa vita verso nuove esistenze, una visione seria, finale e immutabile dell’universo. Questo è ciò che intendo quando dico che “voglio degli Occhi”. […] Perché dovrei volere tutto questo? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare» (ivi, 275). I confini del viaggio sono infranti.
Kerouac è teso alla «comunione finale fra tutte le cose, l’unione elettrica della vera eternità. È l’altro mondo, menzionato in principio come la Parola di Dio nelle Scritture e illustrato dal grande san Tommaso d’Aquino come un concetto che va oltre la nostra ragione ed è necessario per l’umanità. La prospettiva di quest’altro mondo, questa forma di comprensione che non abbiamo mai immaginato, va al di là della mia capacità di capire, ma sospetto che sia molto strana e che quando finalmente ci arriveremo, diremo tutti: “Certo, certo, sì, sì!”» (ivi, 277). Così anche, quando con la morte entreremo stupiti nell’aldilà grideremo con la nostra carne morente: «“Allora è questo ciò per cui sono stato creato! Gloria a Dio”» (ivi, 229). Questa conoscenza della vita e dell’eternità non è una follia (foolishness), protesta Kerouac, «è solo quel caro e intenso amore (warm dear love) che proviamo verso la nostra difficile condizione. Con la grazia di Dio Misterioso, alla fine dei tempi, forse soltanto in quel giorno essa verrà risolta e chiarita per tutti noi». E conclude drammaticamente e perentoriamente: «Altrimenti non posso vivere» (ivi). Senza eternità non si può vivere.
Scrivere dunque per Kerouac significa anche, in qualche modo, impegnarsi in una «personale salvezza attraverso le mie opere (my own personal salvation in works)» (ivi, 291). L’opera letteraria, come accade per tutti i grandi scrittori, qui non è gioco, intrattenimento ludico o di puro «gusto». Ha a che fare con la salvezza, in un modo o nell’altro. Quando la scrittura assorbe queste tensioni vitali, allora essa stessa diventa un dono ricevuto, come scrive dopo la composizione de La città e le metropoli: «Il lavoro del 1948 su C & M è stato un Dono di Dio, poiché prima di questo lavoro ero stato a lungo in ginocchio, come Haendel prima di comporre il Messia, e poi l’avevo Ricevuto. Ma grazie, Dio, di tutto. L’altra notte l’ho capito» (Mv, 266). Scrivere è rispondere a un dono, a una chiamata. E allora ecco la gratitudine profonda espressa in preghiera: «Grazie per le Visioni che Tu mi hai dato, per Te; e tutto è per Te; grazie, o mio Signore, per questo mondo e per Te. Riempi il mio cuore del calore del Tuo spirito per sempre» (ivi, 241).
Cattolico perché peccatore
A questo punto le alternative sono chiare. La prima è considerare le radici cattoliche di Kerouac una sovrastruttura pesante e bigotta, un retaggio faticoso da eliminare e di cui egli avrebbe voluto disfarsi. La seconda possibilità è comprendere come invece il cattolicesimo di Kerouac sia una delle fonti vive della sua ispirazione. Insomma: rimozione o ispirazione. Qui la critica si divide. Noi riteniamo, anche alla luce di ciò che leggiamo nei diari, che la seconda alternativa, quella che riconosce in un cristianesimo inquieto e dialettico una fonte vivace di intuizione creativa, sia quella che meglio rende giustizia alla personalità letteraria di Kerouac e ai percorsi della sua precarietà esistenziale e artistica.
Steve Turner, nella sua bella biografia illustrata dal titolo L’angelo caduto, ha potuto scrivere: «Il lato di Kerouac che più mi ha interessato è quello spirituale, che per anni è stato ignorato. Ma adesso i critici hanno finalmente riconosciuto quanto spazio abbia avuto la religione nella sua vita. Era questa, senza dubbio, la strada che aveva scelto di percorrere». Riconosce pure però che «le droghe e la ribellione sono da sempre un argomento per i giornali» (18) e che dunque hanno prevalso nella percezione comune della sua opera. E abbiamo ragione di credere che lo sia ancora anche per una parte della critica letteraria italiana su questo autore. A dire il vero, però, nessuno nega la «spiritualità» di Kerouac. Molti però riducono il suo cristianesimo a uno stantio bigottismo e ne mettono in evidenza o la diluizione o la radicale trasformazione nel buddismo Mahayana, col quale Kerouac venne decisamente a contatto intorno al 1953.
Perché Kerouac si è accostato al buddismo? Ce lo racconta in una intervista: dopo che si era conclusa una storia d’amore, descritta poi ne I sotterranei, lo scrittore stava male per il dolore della perdita. In quel tempo si trovò a leggere una biografia del Buddha, il quale — scrive Kerouac — «scoprì che la causa della sofferenza, del dolore, del decadimento e della morte è semplicemente il fatto di essere nati. Così scoprì anche che il mondo in realtà non esiste» (19). Il Kerouac buddista è convinto che noi soffriamo a causa di un «desiderio ignorante» e ci sentiamo soli perché non accettiamo il fatto che la realtà non esista. Così egli impara a meditare e si astiene dall’alcool e dal sesso, parte integrante della sua turbolenta vita affettiva, nel tentativo di rompere il legame della mente con l’«illusione». Questo è il suo buddismo.
Come giudicare questa fase? Kerouac era diventato veramente buddista? A suggerirci la risposta è la biografia dello scrittore, quella che poi si riflette nei suoi scritti. Noi crediamo che la fase buddista, in realtà, sia stata una vicenda dialetticamente interna al suo stesso cattolicesimo. Il cristianesimo gli diceva che c’è un mondo reale, fatto anche di santità e di peccato; il buddismo, così come da lui era percepito e vissuto, gli diceva che il mondo non era poi così «reale». Il Kerouac «cattolico» è ora gioioso ora triste; ora in preghiera, ora assorbito dal sesso; ora legato agli affetti familiari, ora spinto da una tensione alla fuga. È un Kerouac, per dirla cedendo ai cliché, «santo» e «peccatore», capace di vivere sulla propria pelle il piacere illusorio della trasgressione, ma anche la ferita del bisogno d’amore e dell’abbandono. Il Kerouac «buddista» è invece alla ricerca di un equilibrio stabile e neutro, temporaneamente astemio e casto, perso nelle suggestioni della «Mente Interna Trascendentale» (20), teso alla cancellazione del dolore e della realtà.
Ad allontanare di fatto Kerouac dal buddismo fu, paradossalmente, proprio l’esperienza della vita dissipata e sregolata: il «peccato», quel «diavolo» che, secondo la sua contemporanea Flannery O’Connor, spesso «getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace» (21). Nel 1956 comincia a scrivere Angeli della desolazione, opera che è specchio, nella sua seconda parte, della vita «selvaggia» di Kerouac: egli «non era più il buddista astemio, adesso era il cattolico preso in una catena di peccati e pentimenti» (22), commenta Turner. E così, fra l’altro, in un viaggio del 1957 sulle coste del Nord Africa, vediamo lo scrittore diviso tra la lettura del Nuovo Testamento e le facili prostitute di Tangeri.
Insomma, come racconta Philip Whalen in una testimonianza raccolta nella celebre biografia a più voci Jack’s Book, «il suo interesse per il buddismo era abbastanza letterario». E circa Gary Snyder, il suo amico poeta più radicalmente buddista, prosegue Whalen: «Lo sfiorava semplicemente e poi diceva: “Ah, bene. È fantastico, ma io in realtà credo nel dolce bambin Gesù”, oppure nell’“Agnello di Dio”» (23). Nello stesso volume John Clellon Holmes usa espressioni come: «Il terreno di Jack è sempre stato il cattolicesimo – il cristianesimo, cioè». Per quanto abbia «provato come un matto il buddismo», Jack «era ed è rimasto fino alla fine un cattolico – dal punto di vista dell’idea più alta della visione cattolica del mondo» (24). Giunto a Parigi, nel 1966, alla ricerca delle sue radici, lo stesso Kerouac non lascerà più dubbi scrivendo nel suo (purtroppo ormai introvabile in italiano) Satori a Parigi: «Ma io non sono un buddista, sono un cattolico che rivisita la terra ancestrale che ha lottato per difendere il cattolicesimo contro difficoltà insormontabili, e che eppure alla fine ha vinto» (25).
Certamente il cattolicesimo di Kerouac era debole, mal evoluto, forse infantile e fin troppo tormentato e dialettico. Tuttavia la spiritualità buddista mal si combinava con il suo approccio insieme esuberante e introverso alla vita. Certo, la visione del mondo espressa in On the Road sembrava superata da quella buddista, quando egli provò a eliminare le domande e ad agire come se nulla avesse importanza. Le «cose», invece, per lui avevano importanza, e «in seguito egli lasciò perdere il budddismo perché erano “solo parole”» (26). Nelle sue reazioni Kerouac era istintivamente cattolico. Anche il suo rigetto del materialismo e del liberalismo della classe media americana era emotivamente formato da una sensibilità cattolica (27). Egli stesso, in fondo, in una sua auto-presentazione scriveva di essere «non un “beat” ma uno strano solitario pazzo mistico cattolico (a strange solitary crazy Catholic mystic)» (28).
Il vero «beat»
Una migliore comprensione della visione della vita di Kerouac ci viene da alcune considerazioni sul termine beat, parola che individua un fenomeno generazionale di cui egli è capostipite e padre. Di per sé il termine ha molti significati: è la prima parte della parola beatitude, ma beaten significa anche abbattuto, scoraggiato, alla deriva. Beat è anche battito, ritmo, nel senso della musica jazz. I beat, o beatniks (come verranno chiamati coniugando le parole beat e sputnik) rinunciano al progetto di una vita tranquilla, dedita alla produzione e al consumo, rifiutano la fissa dimora e vivono, da soli o in gruppo, in ristretti e spesso disagiati luoghi urbani. Il beat dunque individua uno stile di vita senza regole e inquieto, dominato dall’incertezza, dall’ansia e da una certa tensione sempre insoddisfatta, che in seguito ha condotto ad atteggiamenti ribellistici e contestatari connotati politicamente.
A coniare il termine fu proprio Kerouac, che però ebbe qualcosa da dire e da ridire sul suo significato, ricordando le sue vere origini. L’origine della parola beat ci chiarisce il tipo di illuminazione e di rivelazione al quale lo scrittore tendeva veramente: «Fu da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato… È domenica mattina e il prete sta facendo la predica, quando all’improvviso da una porta laterale della chiesa arriva un gruppo di personaggi della Beat Generation che indossano impermeabili legati con cinture come quelli dell’I.R.A. e vengono avanti in silenzio per “capire” (to dig) la religione… In quel momento mi fu chiaro» (29).
Beat è dunque una parola dalle radici religiose, compresa pienamente in una chiesa durante un momento di raccoglimento: quanto di più distante da un contesto fragorosamente ribellistico e contestatario. Kerouac dovrà però tristemente constatare il fatto che «un sacco di opportunisti, profittatori, comunisti saltarono sul carro. Ferlinghetti saltò sul carro e trasformò l’immagine della Beat Generation che originariamente rappresentava persone che amavano la vita e la dolcezza. Ai giornali parlò di ribellione beat, di insurrezione beat, parole che io non ho mai usato, essendo cattolico (being a Catholic)» (30). Conseguentemente, poco prima della sua morte, in un’intervista rilasciata al New York Times, egli così giungerà a concludere: I’m not a beatnik. I’m a Catholic: non sono un beatnik, sono un cattolico (31). Non è certo, questa frase, un rinnegamento del senso della propria parabola culturale, come potrebbe apparire superficialmente. Al contrario, forse questa dichiarazione è stata un’estrema lucida intuizione a difesa della propria identità artistica e umana, cioè quella mistica — cattolica sebbene «strana solitaria e pazza» — che ha nutrito la sua estetica.
Questa radice religiosa — ribadita dalle espressioni it was as a Catholic… being a Catholic… I’m a Catholic — non è affatto puramente occasionale o momentanea. Anzi, è addirittura monastica. In un articolo apparso nel 1957 Kerouac non fa mistero del fatto che i fenomeni come quello beat «esprimono una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), “in alto”, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta» (32). Dopo aver dipinto questa immagine solenne, l’anno successivo ripeté: «Non ho mai sentito parlare più di Dio, delle Ultime Cose, dell’anima, del dove-stiamo-andando, se non fra i giovani della mia generazione: e non solo i ragazzi più intellettuali, ma tutti» (33).
***
Come riassumere il senso della parabola di Kerouac? Probabilmente tenendo insieme, per quanto in maniera sempre instabile, due poli: una radice che desidera senza sosta accedere a tutti i nutrimenti terreni, e una forte tensione a ciò che è, come si è detto, soul, eternity, salvation. Insomma: la «carne» e l’«infinito». Mai l’una senza l’altro. Ringraziando Dio per la composizione del suo primo romanzo, nel 1950 Kerouac scrisse nei suoi diari un ultimo «salmo», di un’intensità straordinaria, che sembra riassumere in forma orante la sensibilità dello scrittore, svelandone l’anima inquieta e vagabonda: «Grazie, Signore, Dio degli Eserciti, Angelo dell’universo, Re della Luce e Creatore delle Tenebre per le Tue vie, le quali, se non fossero percorse, trasformerebbero gli uomini in ottusi danzatori di carne senza dolore, menti senza anima, dita senza nervi e piedi senza polvere». E infine però, folgorante, la richiesta: «Mantieni la mia carne nella Tua eternità» (Mv, 241) (34).

1 J. KEROUAC, Un mondo battuto dal vento. I diari di Jack Kerouack [sic!]: 1947-1954, Milano, Mondadori, 2006, 219. I testi citati sono tratti da questa edizione, ma in alcuni punti abbiamo preferito usare una nostra traduzione.
2 Id., «Agnello non leone (1958)», in Id., «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, Milano, Mondadori, 1996, 50. Cfr anche S. TURNER, L’angelo caduto. Vita di Jack Kerouac, Roma, Fazi, 1997, 173.
3 Il nome «Jack» nasce dall’errore di un sacerdote della sua parrocchia, la chiesa di Santa Giovanna d’Arco.
4 La nostra rivista si è già occupata della sua opera in generale con F. CASTELLI, «La desolata corsa di Jack Kerouac verso la morte», in Civ. Catt. 1971 I 34-47. Rinviamo a quell’articolo per un’analisi centrata sulla sua opera narrativa. Diamo qui solamente qualche rapido cenno biografico. Jack Kerouac nasce il 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts, da una famiglia franco-canadese di origine bretone. A undici anni scrive il suo primo racconto (The cop on the beat) e a 14 comincia a scrivere un diario. Al liceo si distingue per le sue doti di sportivo, che gli consentono di vincere una borsa di studio. Si iscrive alla Columbia University di New York. La stagione newyorkese della seconda metà degli anni Quaranta è una di quelle fortunate. Kerouac però non conclude gli studi: ha voglia di assaporare il mondo e la vita, un desiderio incontenibile che lo porta a scontrarsi con le realtà più dure. Si mantiene lavorando come muratore e apprendista metallurgico fino a quando nel 1942 decide di arruolarsi in marina. Viene presto congedato, ma il mare lo affascina, e decide di trascorrere qualche anno da marinaio su un cargo mercantile. Nel 1944, coinvolto in una vicenda di omicidio, viene arrestato e rinchiuso in carcere per favoreggiamento. Mentre si trova in galera sposa Edie Parker, che poco dopo pagherà la cauzione per lui. La coppia si scioglie pochi mesi dopo la libertà conquistata. Tra un viaggio e l’altro Kerouac frequenta William Burroughs, che gli presenta Allen Ginsberg, e fra i due nasce una profonda amicizia, che sarà l’inizio della cosiddetta beat generation. Kerouac si cimenta anche nella critica musicale e scrive alcuni articoli sul jazz, pubblicati sul giornale della Columbia University. In seguito legge in pubblico i suoi scritti con accompagnamento jazz, ispirando un grande interesse nelle collaborazioni jazz-poesia. Nel 1945 inizia a scrivere il suo primo romanzo La città e la metropoli, pubblicato nel 1950, mentre un anno dopo incontra Neal Cassady, che diventerà il suo più grande amico e il personaggio di molti suoi romanzi. Nel 1947 Kerouac inizia in autobus e autostop il viaggio coast to coast attraverso gli Stati Uniti. Nel 1951 scrive su un rotolo di carta da telescrivente Sulla strada. Kerouac continua a scrivere alternando la sua attività con lunghe pause a San Francisco, dove incontra i massimi esponenti della cosiddetta San Francisco Renaissance e scrive la sua prima raccolta di poesie. Muore il 21 ottobre 1969 per una emorragia epatica.
5 D. BRINKLEY, «Introduzione», in J. KEROUAC, Un mondo battuto..., cit., 16. D’ora in poi citeremo l’opera con la sigla Mv. L’edizione in lingua originale più recente è Windblown world. The Journals of Jack Kerouac: 1947-1954, London, Penguin, 2006.
6 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione», cit., 26.
7 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», in Paris Review, n. 43, Summer 1968, 19.
8 Ivi, 28.
9 «Presentazione di Jack Kerouac», in J. KEROUAC, Romanzi, cit., 1.520.
10 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione»…, cit., 26.
11 Ivi.
12 I’m reading Blaise Pascal and taking notes on religion (J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 46).
13 Del resto, che cosa resterà del mondo, della «luccicante Babilonia che fuma sotto il sole»?, si chiede Kerouac. Soltanto «le cose plasmate dalle mani di Dio». Tutto a lui è chiamato a ritornare (Mv, 64).
14 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 28. E qui fa venire in mente Giovanni Testori quando afferma che «il luogo del teatro è il corpo di Cristo» (G. TESTORI, La maestà della vita e altri scritti, Milano, Rizzoli, 1998, 149).
15 Id., Satori in Paris and Pic. Two Novels, New York, Grove Press, 1985, 10.
16 È tanto vero questo sentimento che lo ritroviamo più in là come criterio di valutazione di un’opera letteraria, in questo caso quella di James Joyce. Scrive Kerouac: «Credo nella scrittura sana anziché nella brodaglia psicotica di Joyce. Joyce è un uomo che ha semplicemente smesso di comunicare con gli altri esseri umani. Lo faccio anch’io quando sono tormentato e ubriaco di stanchezza, perciò so che non è così onesto, anzi è addirittura crudele uscirsene con associazioni di idee senza l’autentico sforzo umano di trovare e dare ai propri discorsi un’intelligenza significativa. È un tipo di idiozia sdegnosa» (Mv, 101). E su D. H. Lawrence il giudizio non cade più misericordioso: «È una pura masturbazione dell’io» (ivi, 346).
17 Mv, 86. Ma, in realtà, nulla di ciò ha a che fare con la reale dimensione faustiana del desiderio di vita e di conoscenza. Ciò è reso evidente dal giudizio sprezzante, quanto spiazzante, che egli dà nell’aprile del 1948 circa la vicinanza con amici quali Ginsberg e Burroughs: «Sono stanco di scrivere la satira di nevrotici senza importanza, ecco tutto ciò che è rimasto dei miei rapporti con loro. Vado a trovarli in uno stato d’animo felice e affettuoso e me ne vado via ogni volta confuso e disgustato. Questo non succede con gli altri miei amici, perciò dovrei seguire l’istinto e restar fedele ai miei simili. “Niente più urrà alla tolleranza”. Sono stanco di indagare su tutto quanto e di essere un folle “faustiano”, alla ricerca della “conoscenza assoluta”» (ivi, 124).
18 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11. La versione originale di questa biografia è Angelheaded Hipster. A Life of Jack Kerouac, New York, Viking, 1996.
19 Intervista riportata in E. BEVILACQUA, Guida alla beat generation, Roma - Napoli, Theoria, 1994, 52.
20 J. KEROUAC, Mexico City Blues. Il manifesto poetico del padre della Beat Generation, Roma, Newton Compton, 1993, 167.
21 F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma - Napoli, Theoria, 1993, 80.
22 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11 e 165.
23 B. GIFFORD - L. LEE, Jack’s Book. Una biografia narrata di Jack Kerouac, Roma, Fandango, 2001, 225 s.
24 Ivi, 227 s. «Quando la situazione si faceva difficile quello a cui lui si aggrappava veramente era il Piccolo Fiore di Gesù, Santa Teresa di Lisieux, e vari altri santi cattolici, e questo era quello in cui lui credeva veramente, quello da cui ricavava il massimo e quello a cui tornava sempre» (ivi, 225).
25 Id., Satori in Paris and Pic…, cit., 69.
26 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 216.
27 Cfr M. FELLOWS, «The Apocalypse of Jack Kerouac: Meditations on the 30th Anniversary of his Death», in Culture Wars, November 1999
(letto in http://www.culturewars.com/CultureWars/1999/kerouac.html).
28 J. KEROUAC, «Presentazione di Kerouac», cit., 1.522. Per un confronto col «fratello maggiore» Thomas Merton cfr A. STUART, «Vision of Tom - Jack Kerouac’s monastic elder brother. A preliminar exploration», in
http://www.thomasmertonsociety.org/kerouac.htm
29 Id., «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop…, cit., 68. Il verbo to dig nello slang beat significa gustare, apprezzare più che «capire» in maniera puramente intellettuale.
30 L’intervista, l’ultima prima della morte dello scrittore, realizzata da William F. Buckley all’interno del Firing Line Show nel 1968, si può seguire in What Happened to Kerouac?, cit.
31 J. LELYVELD, «Jack Kerouac, Novelist, Dead; Father of the Beat Generation», in The New York Times, 22 october 1969.
32 J. KEROUAC, «Sulla Beat Generation (1957)», in Scrivere bop… cit., 46.
33 Id., «Agnello, non leone (1958)», ivi, 50.
34 Keep my flesh in Thee everlasting.
© La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139         quaderno 3758

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cattolico, kerouac, senso religioso

KEROUAC
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Fonte: “Libero” 17 luglio 2007                           www.antoniosocci.it
GIU’ LE MANI DA KEROUAC. “CATTOLICO PERCHE’ PECCATORE” !!! E SULLA “BEAT GENERATION” DICEVA….

Era un 17 luglio, ma del 1947. A New York, 60 anni fa, un giovanotto bruno, dagli occhi inquieti, prese la metropolitana a Liberty Avenue, scese a Brooklyn e si diresse verso Manhattan. Poi avrebbe raggiunto la periferia e in autostop sarebbe andato verso l’Ovest, da costa a costa.

Se domenica scorsa sul “New York Times” hanno ricostruito le prime tappe newyorkesi del suo itinerario è perché quel viaggio è diventato uno dei più celebri della letteratura mondiale. Infatti dieci anni dopo, cioè 50 anni fa, uscì il romanzo dove Jack Kerouac narrò quell’avventura, “On the Road” (Sulla strada), e fu subito un mito. Oggi l’anniversario è il grande evento letterario dell’anno per gli Usa.

Fernanda Pivano, lanciandone l’edizione italiana nel 1958, già ne descriveva l’enorme successo oltreoceano: “Un’intera generazione, la beat generation, acclamò in Kerouac il suo portavoce e il suo interprete”. Giornali, tv e radio lo assediavano. Kerouac diventò un’icona della trasgressione, un simbolo degli “hippies” e della rivolta giovanile. Ma lo fu davvero? C’è qualcosa di lui che ha sempre imbarazzato: il suo cattolicesimo. In un’intervista televisiva, all’uscita del suo libro, gli fu chiesto: “Si è detto che la beat generation è una generazione alla ricerca di qualcosa. Che cosa state cercando?”. Kerouac rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”.

La Pivano citava con perplessa fugacità queste parole strane. E l’imbarazzo continua anche oggi. E’ invece “La Civiltà Cattolica” a rendergli giustizia. L’autorevole rivista dei gesuiti, le cui bozze, si dice, sono riviste Oltretevere, ha pubblicato all’inizio di quest’anno un saggio sorprendente che si potrebbe titolare così: “I gesuiti: giù le mani dal nostro Kerouac”.

In effetti Jean-Louis Lebris de Kerouac (1922-1969), diventato celebre come Jack Kerouac (il nome Jean-Louis diventò “Jack” per l’errore di un sacerdote della sua parrocchia) era stato alunno della scuola dei gesuiti di Lowell, nel Massachusset, dove – disse – aveva ricevuto “una buona istruzione”. E oggi padre Antonio Spadaro sj “difende” il cattolicesimo del loro antico allievo. Lo fa anche in forza degli straordinari
diari di Kerouac che sono stati pubblicati negli Stati Uniti solo nel 2004 e che in Italia sono usciti pochi mesi fa (che ritardo!). Riassumo il geniale saggio della rivista.

Padre Spadaro innanzitutto fa giustizia di una troppo banale identificazione con la “beat generation” di cui egli è il capostipite. “Beat” è battito, ritmo, richiamo al jazz, “Beaten” significa pure “abbattuto, alla deriva”.
Il “beat” identifica “uno stile di vita senza regole e inquieto… che ha condotto ad atteggiamenti ribellistici e contestatari connotati politicamente”.

Ma Kerouac, che coniò il termine, dette poi un altro significato alla parola: “
Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’, la visione che la parola Beat significava beato…”. In un articolo del 1957 Kerouac affermerà che il fenomeno beat esprime “una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), ‘in alto’, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta”. L’anno successivo ripete: “Non ho mai sentito parlare più di Dio, delle Ultime Cose, dell’anima, del dove-stiamo-andando, se non fra i giovani della mia generazione: e non solo i ragazzi più intellettuali, ma tutti”.

Dunque siamo ben lontani, sottolinea il gesuita, “da un contesto fragorosamente ribellistico e contestatario”. Tuttavia Kerouac si troverà a constatare che “
un sacco di opportunisti, profittatori, comunisti saltarono sul carro. Ferlinghetti saltò sul carro e trasformò l’immagine della Beat Generation che originariamente rappresentava persone che amavano la vita e la dolcezza. Ai giornali parlò di ribellione beat, di insurrezione beat, parole che io non ho mai usato, essendo cattolico (being a Catholic)”. Volle ripetere questa espressione – che nel mondo angloamericano è quanto di più trasgressivo e provocatorio – alla vigilia della sua morte, in un’intervista al New York Times che concluse così: “I’m not a beatnik. I’m a Catholic” (non sono un beatnik, sono un cattolico).

Per padre Spadaro questo “non è rinnegamento della propria parabola culturale”, ma “un’estrema lucida intuizione a difesa della propria identità artistica e umana, cioè quella mistica — cattolica sebbene ‘strana solitaria e pazza’ — che ha nutrito la sua estetica”.

Naturalmente c’è chi considera “le radici cattoliche di Kerouac una sovrastruttura pesante e bigotta, un retaggio faticoso da eliminare e di cui egli avrebbe voluto disfarsi”. Lo studioso gesuita indica invece “il cattolicesimo di Kerouac” come “una delle fonti vive della sua ispirazione”. Come mostrano i suoi diari. Si tratta di “un cristianesimo inquieto e dialettico una fonte vivace di intuizione creativa”. Che però coglie anche il cuore vero della fede: l’essere mendicanti della grazia.

Anche il suo sbandamento buddista – dovuto alla sofferenza di una delusione d’amore – fu solo un episodico tentativo di fuga dalla sofferenza, alla fine “una vicenda dialetticamente interna al suo stesso cattolicesimo”. A cui lo riporterà il suo amore alla vita, la sua stessa carnalità. Infatti il gesuita definisce Kerouac “cattolico perché peccatore”.
Diviso tra la “carne” e l’infinito”, egli cerca il punto di incontro fra cielo e terra, fra eterno e tempo, fra Dio e la carne. Quel punto ha un nome solo: Gesù. E’ lui per Kerouac “the only answer”, l’unica risposta. Prega così: “Mantieni la mia carne nella Tua eternità”.

I Diari ci restituiscono il potente grido verso di lui: “
Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio. Non riesco a scorgere il tuo volto in questa storia”.

Proprio questo mendicare la Grazia di vedere quel volto dice la “profonda sensibilità cattolica dello scrittore” che – spiega padre Spadaro - è vera “nonostante il carattere moralmente trasgressivo che caratterizza la sua produzione più nota”.
Un appunto dell’agosto 1949: “La vita non è abbastanza…Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai… qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare”.

Questa sete di infinito lo porta a desiderare la “comunione finale fra tutte le cose… È l’altro mondo, menzionato in principio come la Parola di Dio nelle Scritture e illustrato dal grande san Tommaso d’Aquino... La prospettiva di quest’altro mondo, questa forma di comprensione che non abbiamo mai immaginato, va al di là della mia capacità di capire, ma sospetto che sia molto strana e che quando finalmente ci arriveremo, diremo tutti: ‘Certo, certo, sì, sì!’ … ‘Allora è questo ciò per cui sono stato creato! Gloria a Dio’ ”.

Tutto questo non è una follia (foolishness), afferma Kerouac, “è solo quel caro e intenso amore (warm dear love) che proviamo verso la nostra difficile condizione. Con la grazia di Dio Misterioso, alla fine dei tempi, forse soltanto in quel giorno essa verrà risolta e chiarita per tutti noi… Altrimenti non posso vivere”. Senza l’eternità la vita è assurda.



Fonte: “Libero” 17 luglio 2007



Postato da: giacabi a 15:31 | link | commenti (1)
cattolico, kerouac

domenica, 29 ottobre 2006
Giovanni Lindo Ferretti
da Lotta Continua
alla Chiesa Cattolica:
Giovanni Lindo Ferretti ora è neo-con e tifa Ratzinger
by da La Stampa Sunday, Oct. 22, 2006 at 7:01 PM


Da Lotta Continua alla Chiesa Cattolica: la parabola di Giovanni Lindo Ferretti, "cantautore atipico"? Diciamo piuttosto: buffone telecomandato. "Punk può essere tutto e lo è/allo stesso tempo è niente e lo è/è il nostro punto di partenza e di arrivo/NO FUTURE", scrivevano i CCCP in un vecchio volantino che giocava a provocare con le contraddizioni. Che il nostro stia continuando a giocare? Buon divertimento, dunque! Ma alla Sua età, signor Ferretti, abbandonato o no che sia ogni tentativo di coerenza, almeno un minimo di serietà in più sarebbe richiesta. Smaltita la sbornia del punk filosovietico e la visione di un'Europa che passa attraverso l’Islam, in tempi più recenti (fine 2004) il nostro, alla domanda "Che fine ha fatto l'impegno politico?", rispondeva a Liberazione: "Politicamente sono un orfano. La sinistra a cui appartenevo è morta." Dopodichè, quale logica conseguenza, è passato a destra, seguendo le orme della Fallaci. A Kataweb ha dichiarato: "Io credo che il passaggio del millennio, l'11 settembre, abbia decretato un cambiamento nelle nostre vite che probabilmente noi non avremo mai nemmeno la capacità di spiegarci ma che è percepibile a un minimo di attenzione. Io percepisco molto forte nell'aria un cambiamento in atto ma non faccio il filosofo, lo storico o il politico, non so fare altro che trasformarlo in una sensazione che viaggia su delle parole e una struttura musicale. Credo che fare i musicisti sia un po' essere dei barometri del tempo, percepire le leggere o le profonde mutazioni che sono in atto, ma senza esserne consapevoli fino in fondo." Insomma, tanto parlare e tanto provocare, ma consapevolezza zero. In realtà, dunque, non c'è stato alcuno sviluppo, alcuna mutazione: Ferretti è sempre stato e tuttora rimane il "povero stupido" che si autodescrive in "A tratti": "Sono un povero stupido so solo che/chi è stato è stato e chi è stato non è/chi c'è c'è e chi non c'è non c'è/cosa fare non fare non lo so/quando dove perché/riguarda solo me". Questioni sociali? Macchè: solo questioni personali.
Giovanni Lindo Ferre...

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da La Stampa di Sabato 21/10/2006

Lindo Ferretti, il cantautore punk ora è neo-con e tifa Ratzinger

Sta per uscire l'autobiografia "Reduce" sulla sua conversione

Fondò a Berlino i CCCP - Fedeli alla Linea dove cantava "Spara Yuri Spara" - Oggi prega a modo suo "Che il cielo mi conceda un tocco d'hashish non transgenico"


di Marinella Venegoni
MILANO
Dopo i trascorsi punk di una spensierata quanto arrabbiata gioventù, Giovanni Lindo Ferretti è diventato una sorta di mistico laico della musica alternativa italiana, una figura carismatica che di severità e asciuttezza ha saputo far spettacolo. Ora è pure scrittore. Sta per uscire con Mondadori [...ma complimenti! NdR] "Reduce", una originale autobiografia d'incedere gregoriano fra memorie d'infanzia, appunti di viaggio, preghiere, poesie e anatemi alla società contemporanea. I suoi appassionati riconosceranno subito la stessa scrittura spoglia e allitterata di certi suoi dischi, la stessa austerità dei concerti, e l'intuito infallibile nel costruire un ritmo intimo del fraseggio, fra pensieri, ricordi e provocazioni. Leggendo, sembra di sentirlo cantare.
Ma, dalle alture dell'Appennino Tosco-Emiliano, dov'è nato e dove è tornato a vivere nella casa paterna con quattro cavalli, dopo le innumerevoli diaspore dai suoi fratelli di musica, Ferretti si mostra a 53 anni un uomo del tutto diverso. Per i fan sarà uno choc la rivelazione - che solo ora con il libro si compie interamente in pubblico - di una decisa inversione di rotta politico/filosofico/religiosa. Insomma, il
Ferretti punk decadente che fondò a Berlino nel 1982 i CCCP - Fedeli alla Linea dove cantava "Spara Yuri spara"; il Ferretti che nel 1992 converte la band in "CSI", accogliendo i bravissimi transfughi dei Litfiba; il Ferretti che infine nel 2002 rielabora il gruppo e, scarnificandone le sonorità, lo battezza PGR ("per grazia ricevuta", e già qui un po' si poteva cominciare a sospettare) è diventato un neo-con, e pro-Ratzinger. Ed è la prima conversione manifesta nella musica italiana d'autore.
La notizia è già più che nota nel mondo dei bloggers. Fra scoramenti e insulti, il dibattito va avanti da un anno, dopo che Ferretti aveva scritto al Foglio pronunciandosi contro il referendum sulla procreazione assistita. Per riassumere quel che si dice in giro, un post piuttosto forte su indiessolvenza.blogspot.com: "La meglio gioventù ha prodotto semplicemente adulti di merda. Non ci credevano realmente...si limitavano a seguire la moda. E oggi che sono di moda i papaboys, si adeguano". Ma se lo zoccolo duro dei fan pensasse di abbandonarlo, nuovi accoliti e nuovi intervistatori si fanno avanti. Antonio Socci, che è andato da poco a trovarlo per Libero, ha scritto: "Oggi, abbandonati Repubblica e Manifesto, è abbonato all'Osservatore Romano", e ha aggiunto: "Per lui, votare centrodestra alle ultime elezioni è stata "una rivoluzione" che l'ha divertito parecchio".
Meno divertiti saranno i suoi appassionati tradizionali, quando a pagina 78 di "Reduce" leggeranno: "Dio benedica sua Santità Papa Benedetto XVI che ancora Cardinale scrisse, per me illuminante, Liturgia, e prego lo Spirito Santo che lo fortifichi e lo sostenga". L'inno è a corredo del racconto di una Messa in inglese cui ha assistito in Medio Oriente, con chitarre pop: "Non posso non pregare, con tutto il cuore, perchè si ponga termine a tale decadenza senza limite".
Forse il senso del titolo dell'autobiografia sta proprio nella conversione totale; ma Ferretti - nella fascinazione piana che accompagna i vari piani di narrazione - mostra di non rinnegare il passato e certe abitudini, quando prega a modo suo: "Il cielo mi conceda a Capodanno un tocco d'hascish non transgenico, ma saporito e grasso che si sbriciola al tatto".

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Lettera al Foglio (10 Agosto 2006) a proposito del dolore e della sua conversione al Cattolicesimo:
"
Per cio' che riguarda la difesa della Chiesa, delle sue posizioni, della necessità di ponderazione nel suo operare, rifuggo ogni polemica. Per troppo tempo sono stato succube, seppur volontario, di una falsificazione della Storia che la identifica come controparte reazionaria alla libertà umana. Quel tempo è finito, Dio sia lodato, non lascio ai suoi nemici dichiarati, occulti, anche compartecipi e ben posizionati, l'ordine del giorno dei miei interessi, del mio impegno, delle mie priorita'. Sono ogni giorno più cattolico, cattolico bambino, felice di addormentarmi stanco e nell'aprire gli occhi contento di questo dono che e' vivere. Un dono vero, non facile, non ovvio, sempre a rischio e sorprendente. Sono così bambino nel mio essere cattolico da essere fermo, inchiodato nel mistero dell'Incarnazione. Forse perche', generazione su generazione, figlio di pastori, e c'erano pastori in quella capanna grotta stalla sotto una stella nel regno di Giuda in terra d'Israele al tempo dell'Imperatore Augusto in Roma quando da una giovane Madre, Immacolata in eterno, è nato il Salvatore del mondo, l'Incarnato.
Mistero che si puo' solo sfiorare ma fa vibrare nuova tutta l'umanità."

http://www.margheritasangiustino.it/index.php?op=Default&Date=20060812&blogId=1

L'intervista rilasciata al simpaticissimo Antonio Socci per il quotidiano Libero:
c'era una volta Lindo Ferretti...
http://italy.indymedia.org/news/2006/09/1146479.php

La stomachevole lettera con cui Ferretti dichiarò al Foglio la sua astensione al referendum del 12 e 13 giugno contro la legge 40:
Il triste Lindo Ferretti
http://italy.indymedia.org/news/2005/06/817041.php
lettera di lindo ferretti (ex cccp) al foglio
http://italy.indymedia.org/news/2005/06/812230.php
ASTENSIONE ROSSA
http://italy.indymedia.org/news/2005/06/808477.php

E per finire... Ferretti come Renato Zero!
La bottega di musica e comunicazione di Giovanni Lindo Ferretti
http://web.dsc.unibo.it/~blardone/ig/
dal quotidiano libero.


Dalla musica punk filosovietica a papa Ratzinger, storia di
un figlio del Sessantotto che ha cambiato idea su (quasi) tutto. E
per settembre è attesa la sua autobiografia REGGIO EMILIA Sulla scrivania di Giovanni Lindo Ferretti c'è un piccolo leggio di legno con un libro antico, del  1813. è una raccolta di sermoni di Alfonso Maria De Liguori, un sacerdote del XIX secolo. Ferretti lo tiene aperto sulla predica che condanna l'ira: "Mi serve soprattutto quando penso alla politica.
Dopo aver visto D'Alema a braccetto con l'hezbollah, per esempio, ho dovuto leggerlo avidamente". Giovanni Lindo Ferretti era la voce dei Cccp. Il gruppo filosovietico che sotto la sua guida ha portato in italia la musica punk "emilianizzandola" e "comunistizzandola" [con buona pace dei Clash, n.d. emi.] ("Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio un piano
quinquennale, la stabilità", recita un testo dei Cccp).
"Non rinnego i miei errori" Oggi, abbandonati Repubblica e Il Manifesto, è abbonato all'Osservatore Romano. Vive nella casa di famiglia in un paese che non arriva a 100 anime, sull'Appennino emiliano a pochi chilometri dalla Toscana. Studia, canta, scrive. (A settembre Mondadori pubblica il suo autobiografico "Reduce"). E legge. Soprattutto Ratzinger: "Credo di aver
letto tutto quello che ha pubblicato, tolti i testi più
"tecnici".
Mi ero stufato, qualche anno fa di leggerne su Repubblica tutto il male possibile. Sono andato in libreria e ho chiesto se questo Ratzinger avesse scritto qualcosa. Mi hanno indicato una pila di libri. Da lì ho scoperto un genio prima che diventasse Papa". E poi Simone Weil, Hannah Arendt, Don Giussani, Dante. A 53 anni Ferretti continua a "campare di parole". Vincendo la sua ritrosia per i giornalisti, a Libero racconta un pezzetto del suo cammino, che l'ha portato da "Spara Yuri" agli inni alla Madonna, rintracciati e rielaborati pescandoli dalle tradizioni popolari di mezza Italia. "Certo, sono cambiato, ma per me è stato consequenziale. Sono stato educato da mia nonna e dai miei genitori, da cattolico. Ma sono stato anche figlio del Sessantotto e ho volontariamente aderito al
comunismo, questa pestilenza dell'animo che si è rubata i
figli migliori delle nostre famiglie. In un certo senso, sono tornato a casa. Ma non sopporto l'idea di essere anticomunista con lo stesso livore stupido di come sono stato ateo e bestemmiatore per anni. Voglio un po' più di dignità". La 'conversione' dell'uomo che cantava (e canta ancora) "Emilia Paranoica" non è improvvisa. Nessuna caduta da cavallo. "Negli anni novanta mi interessava moltissimo L'islam. Le tragedie dell'Algeria e della Jugoslavia mi hanno portato ad avvicinarmi a questo mondo. Ma la concezione della donna di quel mondo mi ha fatto capire che non faceva per me. Sono passato dal confucianesimo, dal buddismo. Ho
capito che per anni avevo convissuto con pensieri insignificanti rispetto
alla comprensione del mondo. Aveva ragione Wojtyla: anche per me
è stato un male necessario. E qui ho riscoperto il cristianesimo". Semplice
come le preghiere che gli aveva insegnato la nonna, affascinante
come il pensiero di Ratzinger, che ha colpito Ferretti "per il richiamo che fa
all'esigenza dell'attaccamento alla tradizione musicale. In chiesa sento certi canti...". I cliché del convertito, però, su Ferretti non fanno presa. "Se
c'è da cantare "Fedeli alla linea" la canto. Non abiuro i miei errori,
sarebbe troppo comodo. La mia storia è questa e chi mi ascolta oggi la
conosce benissimo. Del resto, le cose non sono mai scontate. Al tempo
dei Cccp un ragazzo, fan sfegatato, insiste per offrirmi un caffè e mi
dice sottovoce di essere un missino. Uno choc! Ne ho conosciuto un altro,
entrato in un convento monastico, che ha chiesto al suo superiore di
portarsi in cella "Affinità e divergente tra il compagno Togliatti e noi
(uno dei dischi più noti dei Cccp, ndr). Quando ho fatto una canzone su
Sarajevo attaccando il pacifismo, c'è chi l'ha usata come inno pacifista. IO offro la sincerità del mio percorso, del
resto mi importa poco
".
E i fan "traditi"? C'è già qualcuno che ha provveduto a
scomunicarlo, quando l'estate scorsa ha fatto sapere di condividere la posizione della Cei sul referendum di bioetica. Altri lo accusano di opportunismo. Lui non se la prende, parla con rispetto degli ex compagni di band ("Ma oggi siamo su mondi diversi"). I Cccp sono diventati Csi (Consorzio
Suonatori Indipendenti) dopo la caduta del Muro, poi Pgr
(Per Grazia Ricevuta). Neocon e Dossetti a braccetto Oggi Ferretti lavora soprattutto sulla musica sperimentale e sacra. Tiene letture di Dante. È probabilmente
l'unico neoconservatore dossettiano del panorama mondiale:
"il pensiero neocon mi ha stupito e interessato. Si definiscono liberal assaliti dalla realtà o comunisti venuti dal freddo: e io mi ci
ritrovo benissimo. Per mezzo mondo oggi "neocon2 è un insulto, così come lo è "dossettiano" per l'altra metà. Ma Dossetti qui da noi è stato un baluardo dei cattolici contro i comunisti per tanti anni. Per me è un santo, un santo che non capiva niente di politica". E la politica è la cosa che fa più arrabbiare Ferretti oggi. A un tiro di schioppo dal suo paese c'è quello dove Sandro Bondi fu sindaco del Pci. Oggi ce l'ha con la sinistra, piena di "comunisti stemperati" che "fanno i liberali ma non lo sono". Per lui votare centrodestra alleultime elezioni è stata "una rivoluzione" che l'ha divertito parecchio. Entrando nella sua stanza c'è una bandiera di Israele attaccata a una trave. Venticinque anni o giù di
lì cantava "Bombardieri su Beirut". I bombardieri adesso ci sono di nuovo e lui soffre per la "perdita di senso della realtà" dei
governanti italiani, per D'Alema e per l'Onu. Mentre si accende e fuma una delle 50 sigarette quotidiane (dopo che gli è stato asportato un cancro al polmone)
Ferretti parla di dolore: "Nella mia vita l'ho conosciuto.
Sono stato operato sette volte, ho avuto malattie gravi. Il nostro mondo ha prima abolito lamorte, nascondendola ai bambini, confinandola più lontano possibile, abolendo le veglie, i funerali. Adesso cerca di abolire il dolore: ma è un atto di una violenza terribile, la stessa che portava il comunismo a voler costruire il paradiso in terra. Avvicinandosi all'inferno". In pellegrinaggio a cavallo Una delle canzoni più riuscite e amate dei Cccp è un inno nichilista, "Io sto bene": ""non studio non lavoro non guardo la TV / non vado al cinema non faccio sport
". Ferretti ha cambiato solo le prime due cose (per esempio, non sa nulla della musica leggera contemporanea degli ultimi 10 anni) ma le ha cambiate del tutto. Di sera va
a dar da mangiare e a strigliare i suoi quattro amatissimi
cavalli. Li deve ferrare e tirare a lucido perchè questo weekend andrà con gli amici, in sella, in pellegrinaggio alla Madonna della
Guardia, sui colli toscani. I vecchi del paese arriveranno in pullman.

Antonio Socci

Postato da: giacabi a 17:21 | link | commenti
comunismo, cattolico, ferretti

venerdì, 08 settembre 2006
Da. www.ilgiornale.it
n. 212 del 08-09-06 pagina 13
Il segreto di Frère Roger
 Da 33 anni convertito alla religione cattolica
di Redazione
Il frate della comunità protestante, ucciso un anno fa, aveva mantenuto il riserbo per non turbare i suoi fedeli
da Parigi

Un segreto custodito gelosamente per 33 lunghi anni, per non distruggere la missione di una vita: Frère Roger, il fondatore della Comunità ecumenica di Taizè, aveva abbandonato la confessione protestante per aderire al cattolicesimo nel 1972. Ma non aveva mai potuto o voluto dirlo pubblicamente, per timore della reazione di parte delle chiese impegnate nel suo progetto: troppo forte sarebbe stato il contraccolpo ad una scelta di campo così netta. In Vaticano la storia circolava già da tempo e trovò una quasi conferma il giorno dei funerali di Wojtyla, quando il frate protestante ha ricevuto la comunione dall’allora cardinale Ratzinger. Il motivo era lo stesso: non complicare il processo di dialogo tra i fratelli separati che il Concilio Vaticano II aveva indicato come una delle grandi sfide del cattolicesimo del terzo millennio.
A rivelare, o almeno a confermare ufficialmente, la conversione del frate svizzero è stato l'ex arcivescovo di Autun, la città francese nella cui diocesi si trova Taizè e nella quale Frère Roger ha operato per molti decenni. Frère Roger Schutz nel 1972 aveva 58 anni, e dal 1940 guidava la sua comunità che professava la pace e il dialogo in un'Europa che si dilaniava nella guerra. Dopo la professione di fede si scelse di mantenere il silenzio, nel più classico nicodemismo. Il segreto è stato custodito dal diretto interessato fino all'ultimo momento della vita, quando una pugnalata di una seguace con sospette turbe mentali pose fine ai suoi giorni terreni.

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