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domenica 5 febbraio 2012

chiesa, 3

La fede cristiana è una grande cattedrale da ammirare stando dentro
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«Gli amici uscirono dalla chiesa e guardando in su, dall'esterno, alla finestra che avevano ammirato da dentro, non vedevano nient'altro che il semplice contorno di un'ombra tetra. Niente poteva più essere distinto, né il singolo ritratto di un santo, di un angelo o del Salvatore, né tanto meno lo schema complessivo e il significato del disegno. "Tutto questo", pensò lo scultore, "è il più sconvolgente emblema di quanto sia diverso l'aspetto di una verità religiosa o di una storia sacra quando è visto dall'interno della fede oppure dal suo freddo e cupo esterno. La fede cristiana è una grande cattedrale, con vetrate divinamente dipinte. Stando fuori, tu non vedi alcuna gloria, né riesci a immaginarne una; stando dentro, ogni raggio di luce rivela un'armonia di ineffabili splendori"».                    Nathaniel Hawthorne    da:Il fauno di marmo

Postato da: giacabi a 19:53 | link | commenti (3)
chiesa, chesterton

domenica, 27 aprile 2008
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"La cinta esterna del Cristianesimo è un rigido presidio di abnegazioni etiche e di preti professionali; ma dentro questo presidio inumano troverete la vecchia vita umana che danza come i fanciulli e beve vino come gli uomini. (…) Nella filosofia moderna avviene il contrario: la cinta esterna è innegabilmente artistica ed emancipata: la sua disperazione sta dentro".                                                                  G. K. Chesterton, da Ortodossia

Postato da: giacabi a 15:18 | link | commenti
chiesa, chesterton

venerdì, 18 aprile 2008
La Chiesa è fondata su un’uomo debole
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 Il signor Shaw non riesce a capire che ciò che è prezioso e degno d’amore ai nostri occhi è l’uomo, il vecchio bevitore di birra, creatore di fedi, combattivo, fallace, sensuale e rispettabile. E le cose fondate su questa creatura restano in perpetuo; le cose fondate sulla fantasia del Superuomo sono morte con le civiltà morenti che sole le hanno partorite. Quando, in un momen­to simbolico, stava ponendo le basi della Sua grande società, Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codar­do: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edi­ficato la Sua Chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno pre­valso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fon­dati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole.”
Chesterton  in Eretici" (1905)


Postato da: giacabi a 21:20 | link | commenti (2)
chiesa, chesterton

sabato, 15 marzo 2008
Ciò che fa vincere la passività
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« L'attualità piena di ciò che siamo è possibile solo in vista di un'altra presenza, di un altro essere che ha la virtù di porci in esercizio, in atto... E come sarebbe possibile uscire da se... a meno di non essere irresistibilmente  innamorati»
Maria Zambrano


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chiesa, amicizia, gesù, zambrano

martedì, 11 marzo 2008

Egli abita inseparabilmente il suo tempio, che è la Chiesa.

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Carissimi, il Figlio di Dio ha assunto la natura umana con una unione così intima da essere l’unico ed identico Cristo non soltanto in colui, che è il primogenito di ogni creatura, ma anche in tutti i suoi santi. E come non si può separare il Capo dalle membra, così le membra non si possono separare dal Capo. E se è vero che, non è proprio di questa vita, ma di quella eterna, che Dio sia tutto in tutti, è anche vero che fin d’ora egli abita inseparabilmente il suo tempio, che è la Chiesa. Lo promise con le parole: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28, 20). Tutto questo dunque che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sua azioni passate, ma lo sentiamo anche nell’efficacia di ciò che egli compie al presente. E` lui che, come è nato per opera dello Spirito Santo da una vergine madre, così rende feconda la Chiesa, sua Sposa illibata, con il soffio vitale dello stesso Spirito, perché mediante la rinascita del battesimo, venga generata una moltitudine innumerevole di figli di Dio. Di costoro è scritto: "Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv 1, 13).

san Leone Magno, papa (Disc. 12 sulla passione,
 

Postato da: giacabi a 19:19 | link | commenti
chiesa

sabato, 01 marzo 2008

Madeleine Delbrêl (1904-1964)

 ***
LITURGIA LAICA
Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome "chiaro di luna".
Volevi esserci Tu, in noi,
per qualche ora, stanotte.
Tu avevi voglia di incontrare,
attraverso le nostre povere sembianze,
attraverso il nostro miope sguardo,
attraverso i nostri cuori che non sanno amare,
tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo
.

E poiché i tuoi occhi si svegliano nei nostri,
il tuo cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore
aprirsi in noi come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi
.

Allora il bar non è più un luogo profano,
quell'angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle.
Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati
la cerniera di carne,
la cerniera di grazia,
che lo costringe a ruotare su di sé ,
a orientarsi suo malgrado,
e in piena notte,
verso il Padre di ogni vita
.

In noi si realizza il sacramento del tuo amore.
Ci leghiamo a Te
con tutta la forza della nostra fede oscura,
ci leghiamo a loro
con la forza di questo cuore che batte per Te,
Ti amiamo,
li amiamo,
perché si faccia di noi tutti una cosa sola.


In noi, attira tutto a Te…
Attira il vecchio pianista,
dimentico del posto in cui si trova
e suona soltanto per la gioia di suonare bene;
la violinista che ci disprezza e offre in vendita
ogni colpo d'archetto,
il chitarrista e quello che suona la fisarmonica
che fan della musica senza saperci amare.
Attira quest'uomo triste, che ci racconta storie
cosiddette gaie;
attira il bevitore che scende barcollando
la scala del primo piano;
attira questi esseri accasciati, isolati dietro un tavolo
e che sono qui soltanto per non essere altrove;
attirali in noi perché incontrino Te,

Tu, il solo che ha diritto di avere pietà.
Dilataci il cuore, perché vi stiano tutti;
incidili in questo cuore,
perché vi rimangano iscritti per sempre.


Tu fra poco ci condurrai
Sulla piazza ingombra di baracconi da fiera.
Sarà mezzanotte o più tardi.
Soli resteranno sul marciapiede
Quelli per cui la strada è il focolare,
quelli per cui la strada è la bottega
.
Che i sussulti del Tuo cuore affondino i nostri
Più a fondo dei marciapiedi,
perché i loro tristi passi
camminino sul nostro amore
e il nostro amore
gl'impedisca di sprofondare più a fondo
nello spessore del male.


Resteranno, intorno alla piazza,
tutti i mercanti di illusioni,
venditori di false paure, di falsi sports,
di fase acrobazie, di false mostruosità.
Venderanno i loro falsi mezzi di uccidere la noia,
quella vera, che rende simili tutti i volti scuri.
Facci esultare nella Tua verità e sorridere loro
Un sorriso sincero di carità.
Più tardi saliremo sull'ultimo metrò.
Delle persone vi dormiranno.
Porteranno impresso su di sé
Un mistero di pena e di peccato.
Sulle banchine delle stazioni quasi deserte,
anziani operai,
deboli, disfatti, aspetteranno che i treni si fermino
per lavorare e riparare le vie sotterranee.

E i nostri cuori andranno sempre dilatandosi,
sempre più pesanti
del peso di molteplici incontri,
sempre più grevi del Tuo amore,
impastati di Te,
popolati dai nostri fratelli, gli uomini
.
Perché il mondo
Non sempre è un ostacolo a pregare per il mondo.
Se certuni lo devono lasciare per trovarlo
E sollevarlo verso il cielo,
altri visi devono immergere
per levarsi
con lui
verso il medesimo cielo.
Nel cavo dei peccati del mondo
Tu fissi loro un appuntamento:
incollati al peccato,
con Te essi vivono
un cielo che li respinge e li attira.
Mentre Tu continui
A visitare in loro la nostra scura terra,
con Te essi scalano il cielo,
votati a un'assunzione pesante,
inguaiati nel fango, bruciati dal Tuo spirito,
legati a tutti,
legati a Te,
incaricati di respirare nella vita eterna,
come alberi con radici che affondano
.

Postato da: giacabi a 16:29 | link | commenti
chiesa, delbrel

martedì, 26 febbraio 2008
La Chiesa: l’unità nella carità
***
«Bisogna pensare che, quando decidiamo la conversione, ingaggiammo una lotta contro il diavolo:  Ma nulla egli teme quanto l’unità nella carità. Perché se per Dio distribuiamo quanta possediamo, questo il diavolo non lo teme, perche egli stesso non possiede nulla. Se digiuniamo, di questo non ha paura, perche non prende cibo. E se vegliamo non ha terrore, perche non dorme. Ma se siamo uniti nella carità, di questo si spaventa, e molto, perche noi custodiamo in terra ciò che egli in cielo sdegnò di conservare. Perciò la Santa Chiesa è descritta terribile, come un esercito ordinatamente schierato; perchè come i nemici temono quando vedono le schiere di un esercito ben ordinate e congiunte per la guerra, così evidentemente il diavolo si spaventa quando vede che uomini spirituali, attrezzati con le armi della virtù, vivono in unità concorde».
Ugo di San Vittore

Postato da: giacabi a 18:55 | link | commenti
chiesa

La Chiesa è comunione
***
«Tutta la debolezza crescente della Chiesa nel mondo moderno deriva dal fatto che non è rimasta quella che era: una comunione. È questa una delle  ragioni per cui i moderni non capiscono niente di cristianesimo, del vero, del reale cristianesimo, della storia reale del cristianesimo: la Chiesa nel mondo moderno non è più popolo, un popolo, un immenso popolo»
C. Peguy

Postato da: giacabi a 18:23 | link | commenti
chiesa, peguy

domenica, 24 febbraio 2008
Non si diventa cristiani da soli
***
 Per prima cosa mi sembra importante rilevare che la chiesa non concepisce il processo del divenire cristiani come risultato di un processo di insegnamenti o di un itinerario pedagogico, ma come sacramento. Ciò vuol dire che nessuno diventa cristiano grazie sol­tanto alla sua opera personale. Non ci si può fare cristiani da se stessi. Non è affare e capacità dell'uomo modellarsi, per così dire, prima in gentiluomo e, infine, in cristiano. Al contrario, si incomincia a diventare cristiani solo quando si abbandona l'illusione della autarchia e dell'autosufficienza, quando si capisce che l'uomo non può creare se stesso e non può da solo provvedere a se stesso, ma deve aprirsi, lasciarsi guidare. In tal modo, essere cristiani significa prima di tutto che noi riconosciamo la nostra insufficienza, che noi lasciamo agire Lui in noi, il Dio diverso da noi. Louis Evely un giorno ha osservato molto giustamente che il peccato di Adamo non consistette propriamente nel fatto che egli volle essere simile a Dio: questa infatti è la voca­zione dell'uomo, datagli dal suo stesso creatore. La sua colpa va vista, piuttosto, nel modo sbagliato con cui egli cercava una somi­glianza con Dio e nella meschina immagine di Dio che lo guidava in questo proposito; nel pensare che sarebbe divenuto come Dio, se fosse riuscito a sussistere con potere proprio, a dare in modo auto­nomo ed autosufficiente a se stesso la vita. In realtà, un simile con­cetto errato di una immaginaria divinità conduce all'autodistruzione, perché Dio stesso, come ce lo rappresenta una fede cristiana, non è un autarchico indipendente, ma colui che è completamente divino solo nel dialogo dell'amore, infinitamente richiedendo e ricevendo, donando se stesso. L'uomo diviene simile a Dio solo quando entra in questa dinamica; quando desiste dal voler creare se stesso e si lascia creare da Lui. Infatti è tuttora vero che l'uomo non è la creatura dell'uomo, ma egli può essere creato e dato a se stesso soltanto da Dio.
Forse, queste affermazioni ci sembrano un po' antiquate. Ma io credo che, proprio in questo nostro tempo, potremmo riscoprire la verità di questo concetto ed accorgerci come ciò che qui è stato detto, soprattutto del singolo, valga anche per l'umanità nella sua totalità. Oggi, quest'umanità pone se stessa come il tutto più grande di ogni realtà, vuole trasformare se stessa nell'umanità totale e non desidera più confidare in nessun altro aiuto che non sia quello che essa stessa si dà. Ma, proprio così facendo, si distrugge nella sua stessa umanità. Proprio mentre annuncia l'umanità totale e pura, essa dissolve - lo sperimentiamo da ogni parte - l'umanità vera dell'uomo. Anche l'umanità, nella sua totalità, non è autar­chica, ma rimanda oltre se stessa.
Sia cristiani che uomini non si diventa da se stessi, per con­quista propria. Per quanto strano ancor oggi ci possa sembrare, noi abbiamo necessità di aprirci nella fede all'azione di Dio.
Non si diventa cristiani da soli. Ciò significa che lo si può divenire soltanto nella comunità dei credenti, nella stretta reciprocità della fede comune e della preghiera. Certo, come abbiamo udito proprio nel vangelo di oggi, per essere cristiani è necessaria anche la «tranquilla cameretta», la solitudine di chi lotta e crede da solo con se stesso, di chi si pone dinanzi al volto di Dio. Ma non solo questo. Si esige anche l'essere insieme. Dio viene agli uomini solo per mezzo di uomini. Anche nell'ambito spirituale l'uomo è un essere aperto; anche nell'ambito spirituale è vero che noi uomini possiamo sussistere solo nella dipendenza reciproca e nell'essere gli uni per gli altri. Penso che dovremmo finalmente arrivare a superare la mo­derna illusione che la religione rappresenti il momento più intimo, che noi viviamo da soli con noi stessi e che non può entrare nella sfera pubblica. Volendo così mettere al sicuro la fede in una spiri­tualità irreale, la svuotiamo e con ciò stesso togliamo alla convivenza umana il suo elemento più prezioso. Nascono allora il puro collettivo da una parte, il puro individuo dall'altra. Una comunità, nella quale il singolo rimane se stesso, e dove, contemporaneamente, avviene un incontro con ciò che vi è di veramente umano nell'altro, una siffatta comunità non si forma dove l'uomo riserba solamente a sé quello che egli ha di più profondo. Eppure, per poter essere se stesso, l'uomo ha bisogno di una comunità del genere. Diventa compito nostro allora manifestare il nostro intimo, portando in ma­niera pregnante nel mondo attorno a noi. Spetta a noi non permet­tere che il mondo rimanga senza Dio, e comunicare ad esso Dio mediante la nostra fede.
Joseph Ratzinger Tratta da: Dogma e predicazione
                                                                                                 a M.

Postato da: giacabi a 15:11 | link | commenti
chiesa, cattolico, benedettoxvi

Non c'è fede senza ragione

***


Rodney Stark difende il Medioevo e spiega l'Inquisizione. Perché sono i cattolici i più galileiani di tutti, «come dimostra oggi Benedetto XVI»


di Persico Roberto

Tratto da Tempi del 24 gennaio 2008

Nel suo ufficio alla Baylor University nel Texas le notizie da Roma non sono arrivate. Ma quando gli raccontiamo quel che è successo settimana scorsa alla Sapienza parte in quarta:

«La gente pensa che scienza e fede siano antagoniste, ma in realtà non sa di che cosa sta parlando. L'intera questione del legame religione-scienza è un errore e questo perché sempre più gente che non capisce nulla di scienza, non sa che cos'è la scienza. Prendiamo per esempio la questione dell'evoluzionismo, giusto per prendere uno dei dati di fatto più controversi. Supponiamo che qualcuno creasse un'ottima teoria dell'evoluzione, che spiegasse completamente l'origine delle specie: è una prova che non esiste Dio? Assolutamente no. Il problema da dove è venuto il mondo, da cosa ha avuto inizio, rimarrebbe tale e quale. Questo è qualcosa di cui possono parlare gli uomini di Chiesa, e di cui non possono parlare gli uomini di scienza. I grandi scienziati del sedicesimo e diciassettesimo secolo, gente come Newton, facevano il loro lavoro partendo dal presupposto dell'esistenza di un Dio razionale che ha creato l'universo. Gli scienziati cercano le leggi che funzionano all'interno del mondo, non affrontano la domanda riguardo le origini del mondo».

E Rodney Stark sa bene di cosa sta parlando. Ha dedicato infatti gli ultimi anni di lavoro e gli ultimi libri - La vittoria della ragione, tradotto in Italia l'anno passato, e For the glory of God, che attende ancora un'edizione nel nostro paese - allo studio della cultura occidentale, scoprendo che tutte le grandi conquiste culturali e sociali di cui andiamo fieri - la scienza, la democrazia, il libero mercato - affondano in realtà le loro radici nel cattolicesimo e nella visione del mondo che la Chiesa ha diffuso in Europa prima e in America poi.

Eppure sono in pochi a condividere questa visione. Anche lei, del resto, ha scritto, nella prefazione a For the glory of God, che non si immaginava lontanamente quanti pregiudizi anticattolici si trovassero nelle opere degli storici.
. È impressionante constatare come lo studio del passato sia completamente di-storto dall'odio verso la Chiesa cattolica. Nella scia di Voltaire, sembra che gli storici facciano a gara per mostrare la Chiesa cattolica nella luce peggiore possibile. Molti storici anglosassoni sono completamente suscettibili a questo atteggiamento. Prendiamo per esempio la cosiddetta "età oscura", il medioevo: quando mi è stata insegnata a scuola l'"età oscura" mi è stato raccontato che non ci fu praticamente niente in Europa, per colpa del Papa, fino al quindicesimo secolo; oggi noi sappiamo che invece ci furono enormi progressi in quei mille anni. La Chiesa cattolica dovette combattere una durissima battaglia contro lo gnosticismo, che affermava che la materia è male, è irrazionale, è opera di un Dio cattivo; ci vollero secoli perché nelle coscienze si affermasse invece l'idea che il mondo è buono e razionale perché è creato da un Dio buono e razionale e non, come pensano gli gnostici, da un demone malvagio. Per questo forse si è dovuti arrivare fino al quindicesimo secolo prima che la razionalità del mondo insegnata dalla Chiesa si affermasse apertamente. È sostanzialmente una fiction, un'incredibile fiction quella che vede la Chiesa come un insieme di misteri sacri, è un totale non-sense, un'affermazione molto stupida.

Lei fa questo genere di affermazioni, ma se non sbaglio non è cattolico.
Sono cresciuto nel credo luterano.

Ed è abbastanza insolito che un luterano abbia una posizione così aperta nei confronti della Chiesa cattolica. Come è arrivato a maturarla?
Si cresce e se si è fortunati ci si forma e si conoscono dei buoni cattolici, capendo che sono persone serie e brillanti, oggi e nel passato. Prendiamo per esempio la questione dell'Inquisizione, di cui si continua a ripetere che ha ucciso centinaia di migliaia di persone. Sono tutte bugie: se c'è una forza che si è opposta alla caccia alle streghe in Europa, e che è riuscita in Italia e in Spagna a fermarla quasi del tutto, è stata la Chiesa cattolica. È del tutto falso che la Chiesa prendesse e bruciasse chiunque fosse in odore di stregoneria.

Siamo tornati a parlare di storia. Ma lei è nato come sociologo: vuol raccontare ai nostri lettori come è passato dalla sociologia alla storia?
Ho cominciato studiando la società americana contemporanea, e mi sono accorto che molti dei suoi tratti fondamentali dipendono dalla forte connotazione religiosa degli americani, e allora ho cominciato a studiare le origini di questa tradizione. È stato così che ho scoperto, come abbiamo già detto, con stupore, l'importanza della tradizione cattolica e i pregiudizi che la accompagnano. Ed è stato curioso scoprire anche come la religione si comporti nello stesso modo nelle diverse epoche: ho scoperto che si possono applicare le teorie della sociologia della religione alle epoche più disparate. Forse perché la dimensione religiosa svolge un ruolo determinante nella vita degli uomini, oggi come nell'Egitto del 2000 avanti Cristo. Così ho potuto applicare i metodi della sociologia anche allo studio della storia, che amo molto.

Lei ama la storia; molti intellettuali europei pensano invece che dovremmo fare piazza pulita del nostro passato. Che prospettive ha la nostra cultura in questa direzione?
Penso che ci sia gente che continua a ripetere idiozie perché non è in grado di dire cose più intelligenti. Essere ignoranti della propria storia non vuole dire essersene liberati, vuol dire semplicemente non conoscerla. Solo perché il Ventesimo secolo è stato insanguinato da tante guerre non bisogna pensare che la civilizzazione occidentale non sia un bene superiore e assoluto. Ovviamente nel Ventesimo secolo ci sono state un sacco di cose orrende ma la storia è storia, bisogna trarne insegnamento, capirla.
I soggetti che hanno scatenato le tragedie del Ventesimo secolo sono state forze empie, anti-religiose; mentre sono state la Chiesa cattolica e gli ortodossi a sostenere la resistenza al totalitarismo e poi la rinascita dagli anni Settanta agli anni Novanta del Novecento. Ci sono sempre cose e persone degne di nota e merito anche in tempi difficili e sostanzialmente brutti.

Torniamo al punto di partenza: che influsso pensa possa avere il magistero di questo Papa nell'opera di recupero del rapporto fra fede e ragione?
È evidente che questo Papa è un uomo molto brillante e ottimamente preparato a livello culturale. Ha capito alcuni punti fondamentali come ad esempio il fatto che non ci sia conflitto tra religione e scienza. La ragione ha una straordinaria importanza per la fede. I primi padri della Chiesa celebravano la ragione e dicevano che se la loro fede non fosse stata ragionevole ci sarebbe stato da preoccuparsi, perché Dio era ragionevole, era forse la cosa più vicina alla ragione di cui poter parlare. «La ragione è cosa di Dio, poiché non c'è nulla che Dio, creatore di tutte le cose, non abbia disposto, previsto, ordinato secondo ragione, nulla che non voglia doversi trattare e capire secondo ragione», scrive Tertulliano. «Queste cose devono essere anche asserite dalla ragione - rincara Clemente Alessandrino -. Infatti non è sicuro affidare queste cose alla mera fede senza ragione, è certo che la verità non sussiste senza ragione». Così questo Papa non fa che recuperare una tradizione antica e solida nella Chiesa.

Viceversa il rapporto tra fede e ragione si pone in termini molto diversi nel mondo i-slamico.
È un vero peccato che l'aspetto che si impone del mondo islamico sia quello dei fanatici. Il problema è che la maggioranza dei musulmani restano in silenzio, si accodano al carro del fanatismo magari non credendoci. Ci sono buoni musulmani, sinceramente religiosi, che però non compaiono nell'immagine dell'islam che viene rimandata all'esterno, gente che non accetta gli errori e le scelte delle proprie leadership e che non accetta nemmeno i kamikaze, ma che non parla, non emerge

Postato da: giacabi a 15:02 | link | commenti
chiesa, cristianesimo, stark

mercoledì, 13 febbraio 2008
La Chiesa cattolica
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"Nella Chiesa inglese un uomo ottiene successo non per la sua capacità di credere, ma per la sua capacità di non credere. La nostra è l'unica Chiesa dove lo Scettico sta sull'altare e dove
San Tomaso è visto come l'apostolo ideale
Oscar Wilde

Postato da: giacabi a 19:32 | link | commenti
chiesa, wilde


La Chiesa cattolica
                ***
 «La Chiesa cattolica è soltanto per i santi e i peccatori. Per le persone rispettabili va benissimo quella anglicana»
 Oscar Wilde

Postato da: giacabi a 15:22 | link | commenti
chiesa, wilde


La Santa chiesa cattolica
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 «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L'aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al piú presto»
 Oscar Wilde Tre settimane prima di morire ad un corrispondente del Daily Chronicle,morì da cattolico

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chiesa, wilde

sabato, 02 febbraio 2008

CRISTO NELLA CHIESA
***
Perché, mentre i Protestanti trovano nella vita di Gesù Cristo esposta nei Vangeli la testimonianza di tutti i suoi atti, e nelle sue parole «È consumato» una prova che la rivelazione è conclusa e la redenzione si è compiuta, i Cattolici credono che in un certo senso quella conclusione non sia che un principio, l'inizio dunque più che la fine. Perciò, mentre i Protestanti ritengono che non vi è necessità vitale di una Chiesa, a meno che una società umana sia conveniente e anche necessaria per l'indirizzo e l'organizzazione delle energie individuali, i Cattolici credono che la Chiesa è veramente il Corpo di Cristo, e che nella Chiesa Egli vive, parla, agisce realmente (benché in altro senso e in altre condizioni) come visse, parlò, agì in Galilea e a Gerusalemme. In altre parole: abbiamo ora visto che tutti i Cristiani si accordano nel ritenere che Dio assunse in unione con Se, nell'incarnazione, umana natura creata, per compiere l'opera sua e che Egli prese da Maria la sostanza creata nella quale Egli visse e per la quale agì. Benissimo. I Cattolici poi,  un passo in certo modo parallelo, benché non identico-fanno un passo avanti  all'atto della incarnazione – e credono inoltre che Egli si unisce alla umana natura dei suoi discepoli, e, in questo Corpo così formato, agisce, vive, parla. Riassumendo: i Cattolici credono che come Gesù Cristo visse la sua vita naturale sulla terra duemila anni fa in un corpo ricevuto da Maria, così Egli vive la sua vita mistica oggi in un corpo uscito dalla stirpe umana in generale  chiamato la Chiesa Cattolica  credono che le parole, le azioni della Chiesa sono le sue, la vita della Chiesa è la sua vita (con certe restrizioni ed eccezioni) come sue furono parole, azioni, vita a Lui attribuite dai Vangeli: per questa ragione essi danno alla Chiesa l'assenso della loro fede, persuasi in tal modo di darlo a Dio stesso. Essa non è soltanto luogotenente, rappresentante di Dio sulla terra, non soltanto sua Sposa; in certo senso essa è Gesù Cristo stesso. In tal modo, come in altro del quale ora non trattiamo, Egli adempie la sua promessa di rimanere con i suoi discepoli fino alla fine del mondo. Per illuminare ancora una volta sotto un altro aspetto questa posizione, che mi propongo di illustrare poi con maggiore ampiezza, si può dire che Dio si manifesta in una vita singola nei Vangeli, in una vita collettiva nella Chiesa.                                                                                     ROBERT HUGH BENSON  da: CRISTO NELLA CHIESA




Postato da: giacabi a 13:37 | link | commenti
chiesa, benson, gesù

CRISTO NELLA CHIESA
***

«Iniziai a capire cheil Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”; che se ha scelto la sostanza creata di una Vergine per costituirsi come corpo naturale, allora può anche utilizzare la sostanza creata degli uomini per formare per sé quel corpo mistico attraverso cui Egli si rende presente a noi sempre.       Ma allora il cattolicesimo è materialistico? Certo, e lo è come la Creazione e l’Incarnazione, né più né meno».

ROBERT HUGH BENSON 

 figlio dell’arcivescovo anglicano di Canterbury 1871-1914


Postato da: giacabi a 08:18 | link | commenti
chiesa, benson, gesù

sabato, 19 gennaio 2008
All'origine della pretesa cristiana
 ***
il discorso integrale del card. Caffarra a cui sono più affezionato

>
Alcune settimane orsono uno dei miei parroci mi chiese: "che cosa oggi è più importante, quale è la prima esigenza cui attendere?". Ho risposto: "Rimettere Gesù Cristo al suo posto". Leggendo, o meglio rileggendo il libro di L.Giussani, All’origine della pretesa cristiana, ho trovato la conferma della mia risposta. Il problema delle comunità cristiane, e quindi delle società civili occidentali è e rimane Gesù Cristo.
Se non vado errato il libro indica la strada adeguata, il metodo [parola molto cara al genio educativo di don Giussani] che la persona umana deve seguire se vuole incontrare Gesù Cristo, e le ragioni per cui l’uomo può e deve intraprendere questa via. In sintesi: "le modalità secondo le quali si può aderire coscientemente e ragionevolmente al cristianesimo" [pag. VI].
Esiste tuttavia una questione preliminare, una questione che vedo oggi sempre più incombente e spiritualmente devastante. Espressa in termini brutali: e perché dovrei intraprendere questa strada? Chi me lo fa fare? Non la ragionevolezza del credere, ma la ragionevolezza di compiere l’atto dello stesso interrogarsi sulla ragionevolezza del credere. L’insidia, già descritta da Leopardi, di rifiutarsi alla propria umanità, di abdicare a se stesso: "O greggia mia che posi, oh te beata / Che la miseria tua, credo, non sai! / Quanta invidia ti porto!" [Canto notturno di un pastore errante dell’Asia]. Il libro non ignora questa sfida o provocazione; anzi in qualche modo inizia da essa. Anch’io vorrei dunque presentare le mie riflessioni iniziando da questa condizione spirituale, per passare poi ad alcune considerazioni su quello che ho sinteticamente chiamato il metodo, la via per incontrare Gesù Cristo e concludere con alcune riflessioni sulla situazione contemporanea vista alla luce di queste pagine.
1. [La questione preliminare]. Pascal scrive profondamente che gli uomini si possono dividere in tre classi: uomini che cercano e trovano, uomini che cercano e non trovano, uomini che né cercano né trovano. I primi sono ragionevoli e felici, i secondi sono ragionevoli ma infelici, i terzi non sono né ragionevoli né felici. A quali di queste tre categorie appartiene l’uomo occidentale di oggi? Mi sembra alla terza: né cerca né trova; irragionevole ed infelice. Un uomo che si accontenta di navigare a vista, di ridursi dentro la misura del provvisorio. Nega alla propria ragione ogni audacia nell’andare oltre il "frammento" per cogliere il senso dell’intero; nega alla propria libertà ogni audacia nella scelta di un definitivo che dia pienezza di gusto ad ogni provvisorio. La debolezza del pensare genera sempre una debolezza nella libertà, capace ormai solo o di omologazione o di ribellione. Ma sia chi si omologa sia chi si ribella è uno schiavo; l’uomo libero né si omologa né si ribella. Irragionevole ed infelice.
Che cosa è veramente accaduto dentro a questa nostra cultura occidentale? L’uomo ha perduto se stesso: questo non era mai accaduto, e mai come oggi le parole di Gesù risuonano nella loro bruciante verità: "che cosa vale per l’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?". Ma in che cosa consiste questa perdita di se stesso da parte dell’uomo?
Siamo costitutivamente orientati alla Verità, alla Bontà, alla Bellezza: siamo costruiti per il Vero, il Bene, il Bello. E’ questa la nostra dignità incomparabile! E’ questo che significa essere persona! In forza di questo orientamento, infatti, ciascuno di noi emerge, sporge per così dire su ogni realtà che incontra. E’ capace di prendere le distanze, di giudicarla. Pone cioè se stesso come soggetto libero, capace non solo di re-agire alle varie situazione in cui viene a trovarsi (anche gli animali e perfino le piante re-agiscono!), ma è capace di agire. E’ questa la libertà: questa capacità di compiere azioni di cui ciascuno di noi è causa e quindi responsabile; questa capacità che dà il diritto di dire "io" con tutta la forza possibile. La persona è passata all’atto: è persona in atto.
Ma se noi, per così dire, accorciamo la misura del nostro desiderio di Verità, di Bontà, di Bellezza costringendolo dentro all’orizzonte delle varie realtà che incontriamo, noi restiamo come rinchiusi dentro alla loro finitezza. E’ come se uno prendesse una barca, scendesse in mare e cominciasse a navigare senza avere nessuna meta prevista e voluta: appena si stancherà di remare, non gli resterà che lasciarsi trascinare dalle onde, dal momento che "siamo imbarcati" (B. Pascal, Pensieri 451; Rusconi libri, Milano 1993, pag. 248). La nostra persona, occupata dalla dittatura degli stimoli, perderà la sua libertà: e con la libertà perderà se stessa. Quando una persona ha rinunciato al suo legame con Vero, col Bene, col Bello, ha rinunciato all’unica difesa valida contro la sostituzione della Verità coll’opinione della maggioranza, contro la riduzione della Bontà all’utilità dei potenti, contro la confusione della Bellezza col piacere.
Un grande credente, che visse quando questa tragica perdita di se stesso da parte dell’uomo era ancora agli inizi, descrive così la condizione umana: "Noi vaghiamo in uno spazio ampio, sempre incerti e sballottati, sospinti da un’estremità all’altra. Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci, oscilla e ci lascia andare; e se lo seguiamo, sfugge alla nostra presa e fugge in una eterna fuga. Nulla si ferma per noi. E’ la nostra condizione naturale, e tuttavia la cosa più contraria alla nostra inclinazione; noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile … ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi" (B. Pascal, op. cit. pag. 69 [trad. A. Bausola]).
Certamente, il possesso di tante cose può dare l’illusione di esistere ancora: in realtà la persona è morta! Gesù non ci ha forse detto che dobbiamo temere non tanto la morte del corpo, ma quella dell’anima? (cfr. Mt 10,28).
E’ questa la tragedia che oggi è capitata a tante persone: la perdita di se stessi. E’ avvenuto nel cuore di tanti come una sorta di "collasso spirituale": la tensione della ragione e della volontà è caduta a picco.
La ragione ha subito un collasso di tensione, perché ha rinunciato a cercare una risposta ultima e definitiva alle domande sul significato della vita. La volontà ha subito un collasso di tensione, perché si è tolta ogni capacità di tendere ad un Bene che valga in sé e per sé.
Lo scacco che il giovane Agostino ha subito nel suo desiderio di vivere la bontà e la bellezza di una vera amicizia, a causa della morte dell’amico, non lo ha chiuso in se stesso (Cfr. Confessioni IV, 9). Egli ha capito quale era la vera domanda circa l’uomo (magna quaestio!): da chi/da che cosa dipendo? a chi/a che cosa appartengo? il mio esserci è dovuto al fortuito incrociarsi di un gioco di probabilità, di cui non so chi ha stabilito le regole?
Il desiderio illimitato di Verità, di Bontà, di Bellezza, in una parola di Vita, che abita nel cuore di ciascuno di noi, è il "segnale stradale" che ci indica la direzione della ricerca del Mistero da cui dipendiamo ed a cui apparteniamo. È come il monte Nebo dal quale Mosè ha potuto vedere la terra promessa (cfr. Eb 11,13-16).
La riflessione di don Giussani inizia precisamente da questa domanda: "Nell’affrontare il tema dell’ipotesi di una rivelazione e della rivelazione cristiana, nulla è più importante della domanda sulla reale situazione dell’uomo. Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo:… Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome" [pag. 3]. Chi abdica a cercare Gesù Cristo, ha già abdicato in buona parte a se stesso. In una pagina teoreticamente tra le più ardite del pensiero cristiano, Tommaso radica la necessità per l’uomo di vedere Dio nella ragionevolezza dell’uomo stesso, e reciprocamente è il desiderio stesso che definisce la ragione umana ad avere la tensione verso la visione di Dio [cfr. 1,2.q.3,a.8]. Il rifiuto di porre semplicemente la domanda su Cristo può nascere solo dal precedente rifiuto di "andare fino in fondo" alla realtà: dal rifiuto di fare un uso spregiudicato della propria ragione. Semplicemente dal rifiuto di essere ragionevoli.
L’insistenza sull’"evidenza della ragionevolezza con cui ci si attacca a Gesù Cristo" [pag. VI], che caratterizza il carisma di don Giussani, è la risposta adeguata alla più grande malattia dell’uomo occidentale: il rifiuto di ragionare.
2. [Il metodo e l’incontro]. Ho letto il libro in questa prospettiva, ponendomi da questo punto di vista. Sono sempre più convinto che esso dia l’unica risposta adeguata perché vera. Il libro mi ha fatto continuamente ricordare una pagina del Vangelo di Luca [24, 13-35]: l’incontro di Cristo coi discepoli di Emmaus.
I due uomini sanno ciò che Gesù Nazareno ha detto e ha fatto: ne conoscono perfettamente vita, opere e discorsi. Anzi si meravigliano che ci possa essere qualcuno che non abbia questa conoscenza. Tuttavia questi uomini hanno "il volto triste" e sono senza speranza: esiste una conoscenza dell’opera e della dottrina di Cristo che lascia l’uomo prigioniero della sua tristezza e privo di speranza. La tristezza, dice colla sua solita profonda semplicità, S. Tommaso, è l’attesa di un bene assente. La speranza è la tensione verso un bene futuro ritenuto raggiungibile. La scomparsa della speranza genera sempre la tristezza: ed essi sapevano che cosa Gesù aveva fatto e detto.
Non passa neppure per la loro mente l’idea che comunque Cristo aveva lanciato un messaggio che valeva la pena di proseguire; aveva dato un esempio che dovevano loro, i suoi amici, imitare e tenerne così viva la memoria. Essi non avevano bisogno del suo "messaggio", non avevano bisogno del suo "esempio": avevano bisogno di Lui, della sua presenza non del suo ricordo. Cristo apparteneva al passato e quindi non li riguardava più. La più grande mascalzonata fatta all’uomo è stata quella di fargli credere che la dottrina e la morale insegnata da Cristo valevano più della sua Persona e quindi Lui non era più necessario. Mi sono ricordato di quanto don Giussani aveva detto al Sinodo dei Vescovi dell’87: "Ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale dell’annuncio quanto l’esperienza di un incontro". Esattamente l’esperienza dei due discepoli di Emmaus.
Scrive don Giussani: "E’ la grande inversione di metodo che segna il passaggio dal senso religioso alla fede: …la sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini… Questa è la condizione senza la quale non si può neppure parlare di Gesù Cristo" [pag. VI]. L’affermazione è teologicamente e pedagogicamente assai forte.
Teologicamente. E’ la stessa intuizione teologica espressa da U. von Balthasar: "Ogni promulgazione ecclesiale trae la sua forza di persuasione dal comando emanato non dalla Chiesa ma dal solo Cristo e che consiste nel portare in tutti i tempi e in tutti i luoghi la sua parola, la sua opera, la sua realtà" [Gloria, vol.I, pag.520].
È importante sottolineare che le proprietà fondamentali di questa esperienza, qui chiamata "sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini", quali emergono dalle pagine di questo libro, sono le seguenti: l’oggettività, il movimento, la partecipazione, la globalità. [desumo questa terminologia da G. Meiattini, Sentire cum Christo. La teologia dell’esperienza cristiana nell’opera di H. U. von Balthasar, ed. PUG Roma 1998, pag. 392].
L’oggettività: l’uomo non scopre semplicemente ciò che inconsapevolmente già era e già aveva in occasione dell’incontro con Cristo; egli si imbatte in una realtà ("sorpresa di un fatto") che è totalmente donata. Tutto Zaccheo poteva aspettarsi meno che avere Cristo suo ospite.
Il movimento: il carattere oggettivo conferisce una struttura dinamica all’incontro, liberandolo da una asfittica chiusura nella propria autocoscienza. Nel libro don Giussani insiste molto su questo "cammino dentro all’oggetto".
La partecipazione: non si sta semplicemente di fronte all’oggetto: alla persona di Cristo. Si entra in un rapporto di amicizia sempre più profonda: di comunione e di affezione nell’amore.
La globalità: è tutta la persona (ragione, libertà, affettività, corporeità) che è coinvolta.
Pedagogicamente. Essa indica ciò a cui mira tutto l’impegno della Chiesa: far vivere all’uomo l’esperienza di un incontro. L’esperienza vissuta da Andrea, Simone, Filippo, Maddalena… narrata nei vangeli è un esperienza archetipa. La vera cura, l’interesse supremo che la Chiesa ha per l’uomo è di essere il luogo in cui quell’esperienza può accadere oggi, perché essa è l’unica salvezza dell’uomo. La categoria teologica e pedagogica centrale è quella dell’incontro, poiché questa è l’unica modalità per rapportarsi ad una persona vivente. Tommaso scrive: Actus credentis terminatur ad rem, non ad enuntiabile.
Ma vorrei soffermarmi brevemente su questo tema centrale del libro in quanto corretta risposta, mi sembra, al problema oggi più che mai centrale del rapporto ragione-fede.
Ciò che apprezzo in questa posizione è che la "inevitabile esigenza" per l’uomo "di cercare quale sia il senso ultimo, definitivo, assoluto del suo punto contingente", è pensata e tematizzata in sede di riflessione filosofica e gnoseologica e non immediatamente in sede teologica e rivelata. E’ necessario dimostrare infatti in sede razionale, attraverso una ragione che non si impedisca nessuna domanda, sia l’esistenza del Mistero assoluto e trascendente, sia l’immortalità personale dell’uomo teso a "vedere Dio". Se così non si procede "si rischia di compiere un corto circuito teoretico e di saltare o di omettere, in modo teoreticamente imperdonabile, dei passi e dei nodi essenziali nel discorso del rapporto filosofia-teologia, cadendo in ingenui e frettolosi fideismi, che non convincono nessuno e che perciò non vanno proposti a nessuno" [A.Marchesi, Filosofia e Teologia. Quale rapporto?, Franco Angeli ed., Milano 1999, pag. 201-202].
In quest’opera si ha un concetto preciso di ragione e quindi di ragionevolezza di un atto, l’atto descritto come incontro con Cristo. L’intrinseca ragionevolezza consiste nella corrispondenza fra le esigenze strutturali della persona umana e la persona di Cristo: Cristo può essere creduto perché corrisponde adeguatamente alle esigenze della persona. L’intrinseca bontà della scelta di seguirlo quindi consiste nella percezione del compimento della persona [plenitudo essendi: Tommaso]: Cristo deve essere creduto perché è l’unico vero compimento della mia persona. E’ il grande magistero di Giovanni Paolo II: al contempo Cristo e l’uomo sono la via fondamentale della Chiesa.
3. [Nel contesto attuale]. In questa terza ed ultima parte della mia riflessione vorrei, per così dire, contestualizzare questa proposta: considerarla cioè nell’attuale momento che sta vivendo la comunità cristiana e la comunità civile. Mi limito a due ordini di riflessione.
Per quanto attiene alle comunità cristiane, mi viene spesso da pensare che in esse molti cristiani si trovino nella condizione dei discepoli di Emmaus. Hanno sentito parlare di Cristo; soprattutto ne conoscono la dottrina morale. Ma ciò di cui oggi hanno bisogno è di vivere la stessa esperienza dei discepoli di Emmaus: l’incontro con Cristo vivente. Incontro "in cui non innanzi tutto la verità su Gesù Cristo ma la sua realtà corporalmente presente è riconosciuta come reale risposta all’attesa più o meno consapevole del cuore" [in Ciò che conta è lo stupore, San Paolo ed., Milano 2001, pag.28].
A questa fondamentale esigenza, si è cercato di ovviare con alcuni surrogati. I più frequenti sono liturgie sempre più chiassose, un indebita e sproporzionata sottolineatura del comandamento a spese della grazia, uno spesso inconsapevole tentativo di "andare oltre" Gesù in una sorta di religione trascendente tutte le religioni.
Per quanto attiene alla società civile, di cui il vero cristiano non può non sentirsi pienamente partecipe e responsabile, sono sempre più convinto che essa ha oggi soprattutto bisogno di persone veramente libere e liberamente vere. L’affermazione di una libertà senza la consapevolezza di una verità dell’uomo [uno "zoccolo duro di umanità"] diventa la più liberticida delle affermazioni. L’affermazione di una verità che non sia continuamente proposta e provocazione di libertà diventa ideologia al servizio di un potere illimitato. La storia della Chiesa dimostra che il sorgere di persone libere e vere ha impedito che la società civile si corrompesse: persone che hanno incontrato Cristo.
Conclusione
Voglio concludere con una poesia di K. Woitila: è la sintesi di tutto ciò che ho detto.
"Questa luce scavava lentamente gli eventi d’ogni giorno,
a cui fin dall’infanzia si abituano occhi e mani di donna –
Lentamente, in questi eventi, si scoprì così sconfinato chiarore
che le mani da sole si congiunsero quando la parola perse la sua dimensione.
Figlio mio – nel villaggio dove tutti ci conoscevano entrambi
mi dicevi "Mamma" - e nessuno scrutò fino in fondo
gli eventi incredibili che tutti ogni giorno sfioravano –
e la Tua vita si confuse con la vita dei poveri
a cui volesti appartenere nella fatica quotidiana delle braccia.
Ma io sapevo: la luce che si snoda in questi eventi
come fibra di una scintilla nascosta sotto la scorza dei giorni
sei Tu.
Non io l’irradiavo –
pure fosti più mio in quel bagliore, in quel silenzio
che come frutto della mia carne e del mio sangue
.
[Stupore davanti all’Unigenito, in Tutte le opere letterarie, ed. Bompiani, Milano 2001, pag. 139-140].
"In questi eventi, si scoprì così, sconfinato chiarore": nell’evento di una compagnia, di una vita umana fatta di "eventi di ogni giorno", Andrea, Giovanni… scoprirono "sconfinato chiarore".
Ciò che costituisce il vero miracolo anche oggi è che ci siano uomini e donne che negli eventi di ogni giorno, nella compagnia con Cristo che è la Chiesa, scoprano "sconfinato chiarore".
card.Carlo Caffarra 
Auditorium di Milano
4 dicembre 2001

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venerdì, 18 gennaio 2008
La Sua presenza genera un'umanità diversa
 ***

“Dove due o tre si riuniranno nel Tuo nome: Ti riconosciamo presente, o Signore, perdonandoci a vicenda c soccorrendo al bisogno di tutti. Ascoltiamo la Parola e insieme spezziamo il Pane. (...) Ci scambiamo la pace che ci hai dato: perché (...) l'umanità sani le divisioni e costruisca il mondo nuovo". Ora, noi che cosa desideriamo, con l'impegno del movimento, se non che questo si realizzi? Quando poi cantiamo insieme un Inno come quello di questa mattina", non è possibile che siamo così totalmente distratti da non provarne un'emozione grande, perché questa è proprio, fin nel dettaglio, la descrizione di quello che vorremmo accadesse, che preghiamo accada, meglio ancora, che supplichiamo si manifesti: là dove due o tre si riuniscono Ti riconosciamo presente, e la Sua presenza genera un'umanità diversa.
Non so quale altra pagina possa descrivere un'umanità diversa in modo cosi suggestivo come l'inno di questa mattina: "La Vita ha distrutto la morte... Cristo, splendore di gloria [risorto], illumina il nostro mattino". Questo è il principio e questo è tutto.
"Con l'anima piena di gioia", allora. riprendendo la vita al mattino, "in Lui ci scopriamo fratelli. A [ognuno di noi...] Cristo risotto si sveli; c'incontri e ci chiami per nome": diventi realtà personale quello che e accaduto: la presenza Sua. che continuamente accade, diventi me stesso, la mia realtà personale. "Ritorni sul nostro cammino e la Sua Parola c'infiammi": sia la Sua presenza ciò che ci infiamma - ciò che infiamma la vita dell'uomo, infatti, è il movente, il motivo, la ragione del vivere -. "Di nuovo, nel Pane spezzalo, vedremo il Suo volto risorto": di nuovo, in certi gesti, come nella santa comunione, è come se toccassimo il Suo volto risorto. Che cos'è la vita di un'amicizia come la nostra, se non un'Eucarestia che continua nel giorno, letteralmente una comunione che continua, che investe la giornata?
Lì noi vediamo il Suo volto risorto! Allora, ogni volta che ci raduniamo, "al nostro raduno concorde un Ospite nuovo s'aggiunga": è una novità ogni istante il prendere coscienza della Sua presenza che accade, di questa presenza che accade per tutta la storia. "Confermi la debole fede": non c'è bisogno che siamo diversi per diventare diversi per l'energia del Suo Spirito. Siamo deboli, ed è questa debolezza che Egli ha già vinto, e la Sua vittoria sarà manifesta, si manifesterà. "Confermi la debole fede mostrando le piaghe gloriose", mostrando tutta la storia, la storia in cui Egli si è incarnato e rivelato e comunicato. "In questa letizia pasquale...": la letizia è solo l'annuncio che "la Vita ha distrutto la morte, l'Amore ha lavato il peccato", che "Cristo, splendore di gloria, illumina il nostro mattino"; la letizia è qui e basta, non cerchiamola altrove, perché non esiste radice di letizia, se non qui. "In questa letizia pasquale, rifatti di nuovo innocenti": nella letizia dell'annuncio di Cristo risorto, continuamente siamo rifatti innocenti. Ogni volta che prendiamo coscienza di ciò che Lui è, di questa Presenza che accade continuamente oramai, siamo investiti da una purità, perché la purità è lì, nella fede.
don Giussani da: I primi esercizi della Fraternità di CL -  maggio 1982

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giovedì, 17 gennaio 2008
Cristo rimane nella storia, nella vita
dell'uomo personalmente, realmente, con il
volto storico, vivo, della comunità
cristiana, della Chiesa
***
  La Chiesa si pone nella storia anzitutto come rapporto con il Cristo vivo. Ogni altra riflessione, ogni altra considerazione consegue a questo originario atteggiamento. Luca, negli Atti degli Apostoli traccia il quadro di un gruppo di persone che ha continuato a sussistere come comunità dai giorni della vita terrena di Gesù nel periodo post-pasquale. Ci sarebbero state invece tutte le ragioni per un dissolvimento di quella aggregazione, nata al seguito di un uomo eccezionale. Morto Lui, se fosse stata distrutta quella presenza attorno alla quale ruotava il loro stare insieme, sarebbe stata anche comprensibile una definitiva dispersione del gruppo dei discepoli.
«Nell'anno 29 o 30 della nostra era, in coincidenza con la pasqua dei giudei tre croci furono innalzate alle porte di Gerusalemme. Su due di esse morirono dei criminali per diritto comune. La terza era invece stata riservata ad un agitatore politico, stando almeno alla scritta che portava il nome del condannato e la motivazione del suo supplizio: "Gesù di Nazareth, re dei Giudei". Esecuzioni del genere erano allora frequenti e non vi si prestava attenzione. Storici e cronografi avevano ben altro da fare perché sentissero il dovere di registrare fatti e gesta di poveracci i quali, spesso per motivi futili, venivano condannati alla morte di croce. L'esecuzione di Gesù sarebbe quindi passata inosservata se, due giorni dopo, alcuni amici e discepoli, non avessero visto apparire, pieno di vita, colui del quale avevano rispettosamente deposto il corpo in un sepolcro nuovo» (Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, Milano 1975, p. 184).

È questa pienezza di vita, cui accenna la efficace descrizione del Bardy, la chiave di quell'enigmatico periodo che seguì la scomparsa di Cristo. È il motivo per cui la morte di quell'uomo, che era stato per tre anni la loro ragione di vita, ha scosso i discepoli, li ha disorientati e confusi — così come Gesù stesso aveva predetto poco prima di morire: «Tutti rimarrete scandalizzati poiché sta scritto: percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (Mc 14,27) —, ma non li ha distrutti, non li ha dispersi senza possibilità di ritrovarsi. Anzi dopo il primo attimo di smarrimento, cominciarono a riunirsi forse più di prima, incominciarono poi addirittura ad aggregare qualcun altro. Pur nel dolore, nella paura per le conseguenze di quella esecuzione, il quadro che si può ricavare dai documenti è di un gruppo che si rafforza, si stabilisce. La percezione confusa di quella vita, cui poi si sono trovati di fronte quando Gesù è apparso loro risorto, sotterraneamente era nell'orizzonte delle loro convinzioni. Qualcosa che avrà fatto pensare qualcuno di loro: «Ma, è davvero tutto finito con la sua morte»? Un devoto ricordo, però, non avrebbe potuto tenere insieme quel gruppo in condizioni così difficili, ostili, neppure se fosse stato sorretto dal desiderio di diffondere l'insegnamento del Maestro. Per quegli uomini l'unico insegnamento che non poteva essere messo in discussione era il Maestro presente, Gesù vivo. Ed è esattamente questo che hanno trasmesso: la testimonianza di un Uomo presente, vivo.
L'inizio della Chiesa è proprio questo insieme di discepoli questo gruppetto di amici che dopo la morte di Cristo sta insieme ugualmente. Perché? Perché il Cristo risorto si rende presente in mezzo a loro.


Quell'uomo di cui gradualmente, lentamente, i discepoli avevano imparato a riconoscere il mistero divino, in un cammino di progressiva certezza cui Egli stesso, come abbiamo visto, li aveva condotti
, essi insieme, ce lo testimoniano vivo e presente. Ci avvertono che Dio non è venuto nel mondo, non si è stabilito come uomo nella storia in un momento senza nessi, per essere ricordato vanamente in una memoria astratta del tempo: Cristo rimane nella storia, nella vita dell'uomo personalmente, realmente, con il volto storico, vivo, della comunità cristiana, della Chiesa. Con la loro esistenza e con la loro testimonianza quei primi discepoli, quel gruppetto di amici, ci trasmettono che Dio non è sceso sulla terra un istante come punto nella storia inafferrabile per coloro che sarebbero venuti dopo l'epoca in cui Egli fu in Galilea e in Giudea. Dio è venuto nel mondo per rimanere nel mondo: Cristo è l'Emmanuel, il Dio con noi.

È certamente la convinzione di questa presenza con cui si viene a contatto leggendo gli inizi degli Atti degli Apostoli. Subito ci viene detto che «Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). E si specifica che queste apparizioni non erano immaginazioni ma quei colloqui avvenivano, per esempio, «mentre era a tavola con loro...». Ed è lo stesso tenore di osservazioni che accompagna particolari racconti di tali apparizioni, come il racconto di Matteo che riferisce il terrore comprensibile di due donne che avevano seguito Gesù di fronte al sepolcro vuoto e all'apparizione di un angelo, e nota che Gesù familiarmente va loro incontro e le interpella «Salute a voi» (Mt 28,1-10); o come alla fine del vangelo di Marco si osserva che Gesù dopo essere apparso a varie persone si fa vedere da tutti gli undici discepoli mentre sono insieme a mangiare, e li rimprovera per non aver creduto al racconto di quelli che lo avevano visto risuscitato (Mc 16, 14); o come l'apparizione narrata da Giovanni (Gv 21), quando Gesù sulla riva del lago di Tiberiade prepara la brace per cuocere il pesce appena miracolosamente pescato; o quella riportata da Luca della riunione di discepoli in cui Gesù compare (Lc 24,36-43), e di fronte al loro spavento non fa che rassicurarli invitandoli a toccarlo, a rendersi conto che è proprio lui finché per convincerli chiede qualcosa da mangiare.
Sono annotazioni che non hanno niente di solenne, di teatrale: testimoniano semplicemente una presenza familiare che continua, sono la traduzione in fatti dell'espressione «Dio con noi».

C'è perciò una continuità proprio fisiologica tra il Cristo e questo primo nucleo di Chiesa, ed è così che questo gruppetto di persone inizia il suo cammino nel mondo: come continuità della vita dell'uomo Cristo presente e attivo tra loro.
La realtà di questa presenza nella convinzione che quei primi hanno voluto trasmetterci è del resto ancora più evidente, se si continua a leggere gli Atti degli Apostoli, nell'episodio che viene subito narrato, sempre nel primo capitolo: «Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). [...]

È visibile in questo racconto la coscienza che quella prima comunità ci ha voluto comunicare di essere la continuità di Cristo: la loro assiduità e concordia nella preghiera poteva fondarsi sulla drammaticità sconvolgente dei fatti appena accaduti? La passione del Signore più logicamente avrebbe potuto portare scetticismo e divisione, come nella storia accade ogni volta che scompare il capo di un gruppo, il fondatore di una realtà! La assiduità e la concordia nella preghiera si radicavano nella fiducia e nella esperienza del Maestro presente. E la premura di ripristinare il gruppetto dei dodici che Gesù aveva scelto, sostituendo Giuda, rivela la convinzione di essere portatori di un mandato, testimoni di un evento senza pari custodi dell'attesa di un fatto, secondo la promessa di Gesù, che avrebbe dato loro forza, «tra non molti giorni» (At 1,1-8).

Non è questo il ritratto di un gruppo che ha saputo abilmente riorganizzarsi dopo i colpi di un'avversa fortuna, ma che non si è mai sciolto, perché il motivo della loro unione non li ha mai abbandonati.

Per loro Gesù non è qualcuno da ricordare, magari in un tentativo di fedeltà alle sue parole, è qualcuno da testimoniare ancora presente ed operante; secondo le parole di Pietro, sempre riportate dagli Atti degli Apostoli: «Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» (At 10, 40-43).
Nulla è cambiato, per un verso, da quando camminava per le strade di Galilea operando miracoli e rimettendo i peccati, scandalizzando i dottori della legge, Egli è operante come prima. Sorge, però, il problema: il problema della natura della sua continuità nella storia. Sorge in tal senso il problema della Chiesa che si lega al problema stesso di Cristo.
Il problema della Chiesa, prima di essere affrontato criticamente per valutarne la proposta, va visto nella sua radice di continuità di Cristo, così come si è posto ai primi che lo hanno vissuto, così come Gesù stesso lo ha posto dopo che tutta la sua missione in questo mondo era di rendere presente il Padre attraverso di sé. [...]

Ed è il Signore presente che ancor oggi definisce il problema della Chiesa. Perciò, prima di affrontarlo più dettagliatamente nei suoi fattori costitutivi è opportuno ribadire la coscienza del fatto che ci si propone attraverso il suo primo sorgere nella storia: la Chiesa sente se stessa come la comunità di Gesù, il Messia, ma non solo per una adesione dei discepoli agli ideali da lui predicati, che ancora certo non afferravano del tutto, bensì per un abbandono a Lui vivo e presente tra loro, come aveva promesso: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). E in ciò erano veramente aderenti a quanto da Lui insegnato, e cioè che la sua opera non era una dottrina, non un'ispirazione per una vita più giusta, ma Egli stesso mandato dal Padre come compagnia al cammino dell'uomo.
Concludendo, potremmo dire che il
contenuto della autocoscienza della Chiesa delle origini sta nel fatto che essa è la continuità di Cristo nella storia. Perciò ogni dettaglio analitico, ogni passo per addentrarci in questo problema dovrà portarci alla verifica di questa radice.
«
Il cristiano è prima di tutto colui che crede alla risurrezione di Cristo, la qual cosa significa che Cristo è vincitore vivente, che noi possiamo unirci a lui attualmente vivente, e che questa unione è lo scopo della nostra vita. La risurrezione di Cristo significa ancora che Gesù Cristo non è solamente il fondatore della Chiesa, ma che ne rimane il capo invisibile, ma attivo»
(Jacques Leclercq, La vita di Cristo nella sua Chiesa, Edizioni Paoline, Alba 1953, p. 238).
Le prime comunità esprimevano ciò che dava loro consistenza e le teneva unite in formule che gli studiosi chiamano confessioni di fede.
                                                                                                        Luigi GIUSSANI, Perché la Chiesa. Tomo 1: La pretesa permane, Jaca Book,

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mercoledì, 16 gennaio 2008
Come il “divino” si fa presente
 ***
“Benedetta lo dice in altri termini, parlando della situazione di confusione che tante volte vive: «In quei momenti in cui le cose non vanno come vorrei, nei momenti in cui nego tutto quello che è entrato nella mia vita [perché possiamo arrivare fino a questa irrazionalità], proprio lì il mio cuore mi costringe a cercare quei volti, quelle persone, quella realtà, e mi rendo conto che li cerco perché cedo al Suo riconoscimento».
Che «fatto» è accaduto? Lo stesso che è accaduto a Giovanni e Andrea e che ha coinvolto tanti altri dopo. Come a loro, è capitato anche a noi. Dice don Giussani, descrivendo l'incontro di Giovanni e Andrea con Gesù: «Il loro cuore, quel giorno, si era imbattuto in una presenza che corrispondeva inaspettatamente ed evidentemente al desiderio di verità, di bellezza, di giustizia che costituiva la loro umanità semplice e non presuntuosa. Da allora, seppur tradendolo e fraintendendo mille volte [come noi], non l'avrebbero più abbandonato, diventando "suoi'». L'hanno tradito e frainteso mille volte, ma non l'hanno mai abbandonato, perché erano «suoi», come noi. Perché «suoi»? Perché hanno avuto l'esperienza di quella corrispondenza unica che è un punto di non ritorno. È questa Presenza all'opera che loro hanno visto quando si sono coinvolti nella compagnia con Lui, quando sono diventati amici: l'hanno visto esplodere davanti ai loro occhi. Immaginiamoci come sono stati colpiti coloro che hanno accompagnato Gesù, vedendo continuamente quello che faceva. Basterebbe leggere il Vangelo con questi occhi.”

“«Tu lo sai bene -ha scritto Tarkovskij -, non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più, e ad un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno, uno sguardo umano, ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto e tutto diventa improvvisamente più semplice». Questa è la differenza che, senza sapere con chiarezza di che cosa si tratta, si indovina. Un genio come Tarkovskij la indovina: è il divino nascosto. La folla di cui parla il Vangelo la indovina: la gente semplice, vedendo all'opera quell'Uomo, pensava a Dio. «Solo il divino può "salvare" l'uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell'umana figura e del suo destino [sono salvate] solo da Colui che ne è il senso ultimo», Gesù.
Questa è l'origine della differenza che noi percepiamo: il divino nascosto, e per questo sperimentiamo quella corrispondenza che abbiamo chiamato altre volte «impossibile», tanto è rara.
 Sembrerebbe impossibile trovare qualcosa di veramente corrispondente, ma succede all'improwiso una cosa unica: è l'incontro con qualcosa di oggettivo -altro che pensieri o sentimenti -, «l'incontro con un fatto obiettivo, originalmente indipendente dalla persona che compie l'esperienza»
don Carron Che cosa cercate Quaderni Tracce Gennaio 2008

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chiesa, gesù

Il "caso Galileo"

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Autore: Gargantini, Mario  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele

Per una storia della scienza attraverso le figure più significative. Testi tratti da "Uomo di scienza. Uomo di fede" di Mario Gargantini
«È importante che i teatri tengano presente che, qualora la rappresentazione di questo dramma venga diretta principalmente contro la Chiesa cattolica, esso è destinato a perdere gran parte della sua efficacia... La Chiesa non ha il diritto di vedere occultate le debolezze umane dei suoi membri; ma il dramma non intende neppure gridare alla Chiesa: "giù le mani dalla scienza!"». Così scriveva niente meno che Berthold Brecht, in occasione della rappresentazione teatrale del suo «Vita di Galileo» nell'estate del 1947 in California. Sono affermazioni sistematicamente dimenticate in tutti i dibattiti che accompagnano ogni rinnovata versione del celebre dramma.
Soprattutto sono dimenticate nelle discussioni che puntualmente si innescano nelle aule scolastiche quando, in Storia, Filosofia, Scienze o Letteratura, ci si imbatte nell'«affare Galileo».
È opportuno perciò puntualizzare alcuni criteri utili per leggere adeguatamente questa vicenda.

L'opera di Galileo
Bisogna anzitutto comprendere il contenuto essenziale dell'opera di Galileo, riassumibile in tre risultati scientifici:
• la prima descrizione cinematica corretta del moto di caduta dei gravi e, conseguentemente, l'iniziale superamento della separazione aristotelica tra fisica terrestre e celeste (che sarà completato nella sintesi newtoniana un secolo dopo);
il primo impiego «scientifico» del telescopio che, a dispetto di quanto molti libri di testo continuano a ripetere, non è stata una sua invenzione: il merito di Galileo è stato quello di averlo utilizzato per tentare di controllare alcune ipotesi scientifiche sull'universo; il gesto veramente rivoluzionario è stato quello di puntare verso i cieli «l'occhiale» degli olandesi, di cui era venuto a conoscenza grazie ai mercanti veneziani;
la prima formulazione del principio di relatività dei moti, che resterà il punto di partenza, tre secoli più tardi, della imponente costruzione teorica rappresentata dalla relatività einsteiniana.
Tuttavia l'importanza scientifica del grande pisano sta altrove; prima e più che nei risultati conseguiti, è dal metodo che si dovrà valutare il suo decisivo apporto allo sviluppo della cultura occidentale moderna. Con Galileo si stabilisce una modalità nuova di fare scienza che, nelle sue linee portanti, continuerà fino ai giorni nostri.
Una modalità che è molto di più di una tecnica o di una serie di abilità conoscitive e pratiche: è un modo nuovo di porsi di fronte alla natura, un diverso approccio alla realtà, reso possibile dalle diverse domande di partenza affrontate da Galileo. E ciò non è comprensibile senza un riferimento al contesto storico e culturale: Galileo è un uomo del suo tempo, un tempo travagliato, in cui si andava affermando una nuova immagine di uomo e di cosmo, in cui si ponevano ovunque nuove domande, nuovi interrogativi, in cui nascevano nuove aspettative nei confronti del sapere.


Al di là dei miti

Si può ben capire, quindi, come siano riduttivi e mal impostati i dibattiti che riconducono tutta la questione al solo processo e ai rapporti tra Galileo e la Chiesa; anche perché la cultura contemporanea non è ancora riuscita a liberarsi da una serie di miti e deformazioni storiche che inquinano pesantemente l'opinione corrente e non mancano neppure nelle opere di studiosi e divulgatori.
Elenchiamone alcuni.
1. L'apporto di Galileo è stato decisivo per il sorgere della scienza moderna, ma non è stata una partenza da zero. La concezione aristotelica del moto si stava già sgretolando sotto i colpi di alcuni studiosi medioevali (Giordano Nemorario, Filopono, Buridano, Benedetti...); e anche circa il metodo c'era stato l'importante contributo della scuola di Oxford (Grossatesta e R. Bacone) dove si faceva già fisica sperimentale.
2. Galileo non ha codificato il metodo scientifico, non l'ha ridotto a un elenco di regole, ben consapevole che la conoscenza scientifica è un'avventura a più dimensioni, carica di tutta la drammaticità e l'imponderabilità di ogni altra impresa umana. Come pure l'attenzione galileiana per l'aspetto sperimentale non va confusa con quell'atteggiamento empiristico, diffusosi specie nei paesi anglosassoni nei secoli successivi.
3. Più difficile da rimuovere è il mito della subordinazione della scienza alla tecnica; anche perché in Italia ha ricevuto l'imprimatur di Ludovico Geymonat.
L'esempio del cannocchiale è emblematico. Per Geymonat la scienza moderna non si sarebbe evoluta senza le nuove tecniche osservative; viceversa bisogna dire che il cannocchiale non sarebbe entrato nella storia del sapere se Galileo non avesse «osato» puntarlo verso il cielo: un gesto non necessitato dall'esistenza dello strumento bensì dalla pressione di idee e teorie da verificare.
4. Il metodo scientifico non rende immuni da errori. Lo stesso Galileo aveva poggiato la sua difesa di Copernico su un modello teorico delle maree, rivelatosi completamente sbagliato (e il Dialogo dei massimi sistemi era nato proprio come Dialogo sulle maree).
5. In campo astronomico Galileo non ha potuto applicare il suo metodo così bene come in meccanica; diversamente da quanto riportato in non molti affrettati giudizi, nelle sue opere non c'è la dimostra-zione dell'ipotesi copernicana. E non poteva esserci in quanto Galileo:
— non ha saputo cogliere l'aspetto dinamico del problema
— non ha considerato le leggi di Keplero;
non ha ammesso che il moto circolare non poteva essere inerziale;
— non ha distinto tra massa e peso.
Il suo è stato un ottimo lavoro di osservazione e di raccolta di prove non tanto pro-Copernico quanto contro il modello tolemaico; basterà citare: le macchie solari, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, gli
anelli di Saturno. Da notare che, secondo recenti riletture del Dialogo, Galileo non avrebbe mai dichiarato di aver «dimostrato» il modello copernicano: se la dichiarazione non c'è mai stata, cade allora ,la tesi che l'abiura sia stata uno spergiuro...
6. È da rivedere anche l'immagine della situazione di allora come dominata da due schieramenti contrapposti: Galileo e i progressisti da un lato, la Chiesa e i conservatori dall'altro. Le nuove idee scientifiche erano stimate da molti ecclesiastici e dallo stesso Papa Urbano VIII. Le ricerche di W. Wallace hanno rimesso in luce il debito di Galileo verso i gesuiti del Collegio romano, solitamente visti come i suoi più accaniti oppositori. E il verdetto del processo non è stato all'unanimità: mancavano 3 firme su 10, compresa quella del card. Barberini, nipote del Papa.
7. Infine non è affatto vero che la condanna di Galileo abbia frenato la scienza. Le ricerche sono continuate ininterrotte secondo l'impostazione del nuovo metodo sperimentale e, in campo astronomico, il modello eliocentrico si è gradatamente affermato (anche se si dovrà attendere un secolo per inquadrarlo in una coerente teoria, la gravitazione newtoniana, e ancor di più per avere delle «prove» risolutive).
Bisogna inoltre guardarsi dall'interpretare i fatti col filtro dell'attuale società dell'informazione: all'epoca il caso Galileo non fu affatto un «caso». Il processo ebbe scarsa risonanza, anche negli ambienti culturali, e all'interno dell'Inquisizione stessa la sua collocazione era nella terza classe, cioè tra quelli non particolarmente importanti. Il suo innalzamento a caso emblematico è di molto posteriore: è l'ingombrante eredità del secolo dei lumi e del positivismo ottocentesco, abituati a vedere la Chiesa come rivale e ostacolo al progresso della scienza e dell'umana razionalità; un'abitudine «irrazionale» in quanto contraria alle evidenze della storia.

Il processo

Ancora una volta è necessario cercare di esaminare i fatti tenendo debito conto del contesto.
Siamo nei primi decenni del 1600: di fronte alla Chiesa, impegnata nell'opera di Riforma partita col Concilio di Trento, c'era una gravissima situazione dell'Europa, scossa dalla guerra dei 30 anni; nello stesso tempo si assisteva a un prorompente sviluppo delle arti, della filosofia e delle scienze.
Iniziava a diffondersi, forse senza che i protagonisti ne avessero completa consapevolezza, una diversa modalità di rapporto tra i fedeli e l'autorità: l'obbedienza diventava limite e vincolo all'esprimersi dell'autonomia dell'individuo e non più aiuto per una crescita pienamente umana.
Il caso Galileo si colloca nelle pieghe di questo dramma: di un'incapacità, da entrambe le parti, a condurre quel sereno e fecondo dialogo, rispettoso delle reciproche competenze e funzioni, che resta l'unica via per comporre qualunque dissidio.
Più di uno storico concorda nel giudizio che senza le intemperanze nel comportamento dello scienziato, le cose forse avrebbero seguito un altro corso. La procedura seguita per ottenere l' «imprimatur», l'affrettata stampa a Firenze senza che il censore padre Riccardi potesse rileggere il testo, e l'atteggiamento nei confronti dell'ex-amico Urbano VIII, costituiscono una serie di errori evitabili e che nulla hanno a che vedere con la verità scientifica. I
II più autorevole traduttore inglese di Galileo, lo storico Stillman Drake, giudica il Dialogo «ironico fino al cinismo e cinico fino all'ipocrisia» e si meraviglia di «come il libro potesse aver ottenuto una. licenza di stampa anche da parte del più disattento teologo cattolico del tempo».
Al di là dei problemi di temperamento, tutto il rapporto tra Galileo e le autorità romane può essere letto come manifestazione di quella pretesa autosufficienza e assolutezza del sapere scientifico, presente soltanto in germe nel suo pensiero, ma destinata a imporsi in seguito. Una pretesa riassorbita nel gesto finale di sottomissione, difficile da giudicare, ma probabilmente meno forzato o dettato da semplice paura di quanto spesso lo si presenti. Peraltro, durante il dibattimento e dopo, Galileo fu sempre trattato con la massima cortesia: non fu mai rinchiuso in carcere né subì torture. Se la tortura fu minacciata, era per ottemperare a una formula rituale, tipica di quei processi e, in ogni caso, gli fu rivolta alla fine del procedimento, quando egli aveva già accettato l'abiura.
Dal canto suo anche la Chiesa ha molto da obiettare circa l'operato di molti suoi esponenti di quel tempo, tanto da giustificare le parole di Giovanni Paolo II: «Galileo [...] ebbe molto a soffrire — non possiamo nasconderlo — da parte di uomini e organismi di Chiesa», e l'invito affinché «si approfondisca l'esame del caso Galileo, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano».


«Ex suppositione...»
In realtà la Chiesa stava iniziando a considerare in modo più aperto ;e conquiste del sapere scientifico. La messa all'indice, nel 1616, del libro di Copernico va strettamente connesso all'«ardore polemico con cui Galileo si segnalò nei cenacoli colti della Roma patrizia ed ecclesiastica». Il Concilio di Trento invece non aveva condannato l'eliocentrismo, anzi c'era stato un invito a esaminare le teorie copernicane, considerandole come «ipotesi» interessanti.
Molti epistemologi non esitano a definire «moderna» la posizione del card. Bellarmino che avrebbe chiesto a Galileo di trattare il modello copernicano «ex suppositione e non assolutamente»: una posizione che richiama il carattere circoscritto e rivedibile del sapere scientifico, oggi riconosciuto da tutti.
Prevalsero però le faziosità di alcuni e «l'istruttoria processuale fu sintetizzata in alcune pagine tanto piene di errori e di inesattezze da attenuare la colpa di Urbano VIII e dei cardinali del sant'Uffizio se essi si servirono di quell'infelice riassunto per decidere la sorte dell'imputato».
Gli studi riaperti qualche anno fa, dopo lo storico discorso del Papa, in occasione del 350es'mo del processo, hanno contribuito a inquadrare meglio l'intera vicenda nel suo tempo e in riferimento all'oggi, e non si può certo condividere l'opinione di chi consigliava la Chiesa a «mettere una grossa pietra sul passato [...] lasciando questi capitoli infausti consegnati alla storia»."


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martedì, 15 gennaio 2008

Il Sant’Ufficio ha sbagliato nel condannare.

Galileo ha sbagliato nel far passare una teoria per certezza senza avere le prove

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“Se ci fosse una prova reale che il sole è al centro dell'universo, che la terra è nel terzo cielo, e che il sole non va intorno alla terra, ma che è la terra che va intorno al sole, allora dovremmo procedere con grande circospezione nello spiegare alcuni passi della Bibbia che sembrano insegnare il contrario, e dovremmo piuttosto ammettere che non li avevamo capiti, che dichiarare falsa un'opinione che è dimostrata vera. Ma quanto a me, non crederò che tali prove vi siano, fino a quando non mi saranno state mostrate.”

Roberto Bellarmino

 

da: T.Woods  Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale     Cantagalli

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Sfida al nichilismo

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Autore: Corradi, Marina  Curatore: Buggio, Nerella
Fonte: Avvenire, 21.02.2006
Carròn: non orfani di Giussani. Niente meno di Dio basta all'uomo


Un anno dopo la morte di don Giussani. «È stato padre di molti», aveva detto l'allora cardinale Ratzinger nell'omelia dei funerali in Duomo, celebrati insieme all'arcivescovo Tettamanzi. Ma: «Non ci siamo sentiti orfani», scrive in una lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrón, successore di Giussani alla guida del Movimento. Ripensi a quanta gente gremiva il Duomo quel giorno di un anno fa, e quanto commossa. Eppure, quell'affermazione quasi fiera: non siamo orfani, «un'eredità presente continua a sfidarci».

Oltre la morte - che spesso invece lascia solo meste commemorazioni. Dov'è per voi ora, don Carrón, la presenza di Giussani?
Lo stesso Ratzinger in quell'omelia aveva detto che Giussani non ha legato le persone a sé, ma a Cristo, e così ha legato i cuori. È questa presenza di Cristo che noi vediamo all'opera tra di noi in quest'anno, in un modo che ci stupisce: per la nostra unità, per l'intensità della vita fra noi, per ciò che continua a accadere. L'eredità di Giussani è viva, la sua presenza permane.

Lei si è detto grato a Giussani di averla resa consapevole di tutta la profondità del desiderio dell'uomo. È l'ampiezza di questo desiderio, ciò che dell'insegnamento di Giussani continua a attrarre i giovani?
Sì, perché i ragazzi hanno ancora vivo tutto il desiderio nel cuore. Questo richiede che si sia all'altezza di tale desiderio. È difficile, ormai, incontrare un adulto che a 40 anni non sia scettico. I ragazzi stanno a guardare, e quando vedono che una dopo l'altra tutte le loro aspettative di felicità non hanno compimento pensano che, forse, non c'è una risposta, e si rassegnano. Trovare una persona che vuole vivere con intensità per tutta la vita non lascia indifferente chi abbia a cuore la propria felicità: Giussani è stato questo.

Riprendendo un tema a lui caro, lei ha scritto recentemente che viviamo in una cultura che ha dimenticato il Mistero, e ha ridotto la realtà alla sua apparenza. In un nichilismo senza inquietudine. Come è possibile reagire?
Solo qualcosa di reale e presente, in grado di trascinare il cuore, può sfidare il nichilismo. La gente è sempre più apatica, perché mancano proposte che affascinino l'Io. Ma è solo quando il Mistero rivela il suo volto che l'uomo trova la chiarezza e l'energia per aderire.

Abbiamo bisogno del Mistero presente, di una presenza viva di cui innamorarci. Ci vuole un'attrazione carnale, come quella del bambino per la madre. Niente di meno basta all'uomo.

E come è possibile innamorarsi di Cristo in questo modo?
Ci occorre la presenza di un altro uomo. Occorre che il Mistero sia diventato carne. Questo è il cristianesimo, come ha detto Benedetto XVI nella Deus caritas est: i concetti che erano astratti, in Cristo si sono fatti carne e sangue. Questo realismo inaudito, questo coinvolgimento con il Mistero è la sola possibilità di essere salvati. Nessuna riduzione del cristianesimo a spiritualismo o etica è in grado di ridestare gli uomini. Giussani ha ripetuto mille volte una frase di Giovanni Paolo II: «Noi crediamo in Cristo morto e risorto, presente qui e ora». Il "qui e ora" è la contemporaneità a ogni uomo. E, come afferma la Veritatis splendor, la contemporaneità di Cristo all'uomo si chiama Chiesa. Il suo Corpo è segno tangibile e storico, che porta nel grembo il Mistero.

Eppure, anche fra noi cristiani c'è spesso malinconia e quasi senso di sconfitta, come se la pienezza promessa sfuggisse sempre.
Proprio per questo ci occorrono degli uomini che testimonino questa pienezza per tutta la vita. Ci occorrono dei testimoni. Giovanni Paolo II lo è stato, Giussani fino alla fine ci ha mostrato che una pienezza di vita è possibile. Il cristianesimo è in grado di abbracciare tutto l'umano e portarlo a compimento, senza alcuna riduzione.

Non è il senso, quest'ultimo, della Deus caritas est?
Infatti: nell'enciclica il Papa dimostra come l'esperienza cristiana viva dialoghi con Nietzsche, e affronti l'eros, senza togliere niente all'intensità del desiderio dell'uomo. Ma è accaduto in passato che il cristianesimo fosse ridotto a morale o a poco di più di un discorso corretto. Come disse Giovanni Paolo II: abbiamo cambiato lo stupore del Vangelo con delle regole. E dunque leggendo questa enciclica, che ci riporta alla novità dell'inizio, ci stupiamo. Così come stupiva l'inizio. È lo stupore del Vangelo. Davanti alla capacità di Cristo di rispondere agli uomini, di perdonare, alla sua tenerezza non era possibile non dire: non abbiamo mai incontrato un uomo come questo.

Il contributo del Movimento - lei scrive - è mostrare la ragionevolezza della fede. In che modo affrontate oggi questa sfida?
Occorre intervenire su questa atrofia spirituale, per cui in molti hanno dimenticato il loro desiderio ultimo di felicità. È l'apatia che spesso gli insegnanti vedono negli studenti, quasi non capissero più la ragione di studiare; è la fatica nei matrimoni e in famiglia. È l'ora di mostrare un cristianesimo non ridotto nella sua natura. Ma il problema è di metodo: bisogna presentare la proposta cristiana rendendo possibile la verifica della sua verità, e mostrando la ragionevolezza dell'adesione.

Dunque è una questione che riguarda l'educazione.
L'educazione è per noi certamente l'emergenza più drammatica. Stiamo riproponendo ovunque Il rischio educativo di Giussani. Occorre tornare a educare, contro quello che Augusto Del Noce chiamava nichilismo gaio, e che è l'assenza del «cor inquietum» di S.Agostino. Solo qualcosa di presente e di reale può ridestarci. Questa è la battaglia.
Il Papa recentemente ha accostato nichilismo e fondamentalismo, quali comuni minacce per l'uomo. Come guarda all'ondata di violenza anti-cristiana in alcuni Paesi islamici?
La prima cosa è non sottovalutare il pericolo di questa minaccia. In ogni caso, quanto sta accadendo è occasione per approfondire la coscienza della nostra identità, nella consapevolezza che questo è l'unico modo per vivere la testimonianza cristiana, come ha ricordato il Papa dopo la morte di don Santoro: «Il Signore faccia sì che il sacrificio della sua vita contribuisca alla causa del dialogo fra le religioni e della pace tra i popoli». Questo non toglie che si facciano tutti gli sforzi per evitare il dilagare della violenza, e che si debba essere attenti alla tutela della libertà religiosa da parte delle autorità dei singoli Paesi e delle istituzioni internazionali.

Come guarda all'Italia nell'imminenza delle prossime elezioni?
Rispetto alla crisi profonda di cui ho detto, non ci aspettiamo dalla politica la risposta, ma speriamo in una politica che dia spazio a quei soggetti sociali che possano offrire un contributo nell'affrontare questo disagio. Una politica che non sia statalismo, che non tagli le gambe all'iniziativa della società.

Non teme che l'Italia possa affrontare un'offensiva laicista come quella della Spagna, il suo Paese?
Zapatero in Spagna ha incontrato poche resistenze. In Italia c'è una maggiore tenuta del corpo intermedio della società. Certo, se non si affronta l'emergenza educativa, il rischio c'è. C'è una spinta forte nella cultura dominante in Italia, ed è la pretesa di assoluta autonomia dell'uomo, come si è visto nel referendum sulla legge 40. In questo senso la sfida del Movimento è seguire la eredità che ci ha lasciato Giussani: educarci a sentirci figli, e dunque a convertirci continuamente. Che è anche il solo modo per non invecchiare.

Postato da: giacabi a 14:42 | link | commenti
chiesa, nichilismo, carron

lunedì, 14 gennaio 2008
LA COMPAGNIA
Questa compagnia è lo strumento che ti ha fatto sentire te stessa. La tua felicità è che la vita ha un suo destino ultimo ed è un cammino. La compagnia è l'insieme delle persone con cui tu cammini verso il destino, verso la meta. Se tu abbandoni questa compagnia, dimentichi il tuo destino, perché in te si sfoca l'immagine e il desiderio di esso. Senza compagnia, Cristo non sarebbe più conosciuto da nessuno: Lui, per farsi conoscere da te e da me, ha creato una compagnia; prima dodici persone, poi settanta, poi centinaia, poi migliaia e centinaia di migliaia. E ci ha raggiunti, ci raggiunge ora. Qui, tra noi, la presenza più imponente e grande, che nessuno può stracciare o diminuire noi tutti  potremmo morire ma questa presenza   è inesorabilmente imponente -è Cristo.
E una compagnia lunga duemila anni, una compagnia che durerà fino a quando tutto il mondo arriverà al suo destino, una compagnia lunga tutta la via della storia. Le forze dei nemici non prevarranno mai contro questa compagnia. Solo noi possiamo andare contro la compagnia, staccandocene. Ma tutto il mondo intero non ci può togliere la compagnia. Padre Kolbe nel bunker in cui è morto, solitario in questa coscienza che ha partecipato agli altri che erano con lui, era profondamente inserito nella grande compagnia, che l'avrebbe poi esaltato come santo.  La compagnia è uno strumento non per sostituirci, ma per sostenerci. La grazia più grande che avete avuto nella vita è questa compagnia, in cui avete scoperto parole che non sono solo parole, ma definiscono tutta la sostanza del vivere. Quando mia madre mi ha detto: «Dio è grande», ha dato la definizione della sostanza del vivere. E questo non me lo può strappare più nessuno. Togliere il destino,togliere  Cristo, togliere quel che dice la nostra compagnia e togliere la ragionevolezza della vIta.
Voglio leggere un brano scritto dal più grande teologo russo contemporaneo, Aleksandr Men',* massacrato a colpi di accetta per l’ odio politico, alcuni mesi fa; si tratta dell'ultima pagina che ha  scritto, ritrovata sul suo tavolo insieme alla premessa alla traduzione in russo de Il senso religioso. Dice, dunque, padre Men': «Il punto di forza del cristianesimo consiste proprio nel non negar nulla, ma nell'affermazione, nell'ampiezza, nella pienezza d'orizzonte che afferma tutto ». Una cosa, per essere vera, deve poter non escludere niente.
Quando viene posto come ideale l'individuo singolo che si sceglie le cose e i rapporti che vuole ed elimina il valore della compagnia come dimensione della persona, si dice una cosa non vera. La compagnia, infatti, è una dimensione della persona umana. Non può esserci un «io» senza un «noi»; l'io nasce da un noi. Senza un «tu» l'io si trova smarrito, inaridisce.
Il segno della verità è che con essa si afferma tutto, non si è costretti a negare niente. L'unica posizione della vita che afferma tutto, anche il particolare più piccolo, anche il sentimento che tu provi quando sei a letto e non sai come starai il giorno dopo, è quella di Cristo. Egli diceva: «Anche i capelli del vostro capo sono numerati» (MI IO, 30), e altrove: «Ha un valore eterno anche una parola detta per scherzo» (cfr. MI 12,36). Può dire cosi solo Cristo. E noi siamo insieme perché riconosciamo che la vita ha un destino e che questo destino si è fatto uomo e si chiama Cristo.
Con Cristo noi non perdiamo più niente. Anche gli errori non si perdono; diventano un bene, diventano un dolore, diventano un amore. Per questo la parola che abbraccia tutto quello che Dio è per l'uomo, la parola più grande da usare nella comunità, il segno più incisivo della verità della compagnia è la parola perdono o misericordia.
Perfino il male diventa bene, perfino la morte diventa vita, diventa il passaggio alla vita senza fine.
Dicevo ai miei primi alunni: «Ragazzi, vi dico che la verità c'è e questa verità è il destino cui siamo incamminati; o sono impostore io o dovete seguirmi»; e nessuno mi rispondeva; poi tanti mi hanno seguito. «Che interesse ho -soggiungevo -a dirvi questo? Uno solo: la passione per la vostra felicità, come ho passione per la mia felicità; non vi conosco, ma vi amo come me stesso ». Questa è l'umanità nuova che attraverso ognuno di noi deve espandersi nel. mondo. Ormai tanta gente, che ha partecipato a raduni come questo, è in America, in Russia, in Africa, in Scandinavia. Dobbiamo portare ovunque questa nuova umanità per cui l'uomo ama l'uomo. È menzogna amare se non si ama il destino dell'altro. E menzogna dire alla tua ragazza: «Ti voglio bene», se non desideri che si affermi il destino della tua ragazza. Ma se affermi il destino della tua ragazza, assumi subito verso di lei un atteggiamento di discrezione, di devozione, di ammirazione, di lasciatemi dire la parola -purità. Applicate questo anche allo studio, al rapporto con i genitori e con tutti i vostri compagni: è un'umanità nuova, più pura, è un'umanità più umana.
Intanto siamo in cammino, siamo sulla barca e remiamo con la grande e potente Presenza alle spalle, che ci sostiene e non ci permette di fermarci.
Vi raccomando una cosa sola: non lasciate mai la compagnia; anche se vi sta sullo stomaco, anche se vi stanca. Non lasciate mai questa compagnia e seguite chi la guida.
don Giussani :Realtà e giovinezza,  ed. SEI

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domenica, 13 gennaio 2008
Egli e' qui
*** 
Egli e' qui.
E' qui come il primo giorno.
E' qui tra di noi come il giorno della sua morte.
In eterno e' qui tra di noi proprio come il primo giorno.
In eterno tutti i giorni.
E' qui fra di noi in tutti i giorni della sua eternita'
E' la medesima storia, esattamente la stessa, eternamente la stessa, che e' accaduta in quel tempo e in quel paese e che accade tutti i giorni in tutti i giorni di ogni eternita'.
In tutte le parrocchie di tutta la cristianita'.
C.  Peguy Da "Il mistero della carita' di Giovanna d'Arco"


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venerdì, 11 gennaio 2008
Il genio del cattolicesimo è il Dio che si fa compagnia all'uomo in carne e ossa
***
La risposta è che il Dio dei miracoli, Colui che ha impresso fin dall'origine la sua immagine nella sua creatura, Colui che ha compiuto la rivelazione di questa immagine in Cristo ci raggiunge anche oggi continuamente, ci investe, si rivela a noi di continuo dentro la storia che ha fatto e va facendo per noi, ci educa sempre.
Perché il genio del cattolicesimo è il Dio che si fa compagnia all'uomo in carne e ossa, dentro le contingenze del tempo e dello spazio. «Dentro» nel senso più potente della parola, più letterale e metafisico, come ci insegna l'espressione del suo segno nel mondo: la Chiesa. Questo è proprio il genio del cattolicesimo, ed è al polo opposto di molto protestantesimo, il quale, illuminato di striscio dall'avvenimento cristiano, rappresenta il livello estremo dell'impegno umano verso il Divino attraverso la propria interpretazione e la propria forza di volontà, la propria emozione. Ciò che ha scandalizzato i farisei scandalizza gli intellettuali di tutti i tempi: il Dio incarnato, identificato come presenza nel tempo e nello spazio, e non come categorie metafisiche. Il mistero di Cristo, dunque, ci raggiunge attraverso una trama di fatti concreti con cui ci colpisce, ci richiama, ci riprende, ci costruisce. Cristo sarebbe lontano e perciò sarebbe vittima della nostra interpretazione se non vivesse nella Chiesa vivente; sarebbe totalmente soggettivato, in ultima analisi, come contenuto e come metodo, e sarebbe così per l'uomo inconoscibile se non ci si offrisse nel mistero del suo corpo presente nella Chiesa.
Cristo si fa conoscere, si rende accessibile e dunque ci dà il suo Spirito nella Chiesa attraverso la Sacra Scrittura, i sacramenti, la successione apostolica, ma soprattutto il suo Spirito ci percuote e ci invade attraverso tutta la vita della Chiesa. La Chiesa è l'universo raggiunto, ricreato e posseduto dal Cristo attraverso il suo Spirito. Cioè, la Chiesa è l'umanità in quanto resa vera, unificata dalla presenza di Cristo attraverso quella energia ri-creativa che è il mistero dello Spirito nella Pentecoste.
Così, subito dopo l'avvenimento della Pentecoste, fin dai primi tempi della storia cristiana, gli uomini che hanno desiderato vivere veramente l'annuncio che era stato loro fatto e ciò che avevano incontrato hanno inevitabilmente osservato tutti una modalità molto semplice, banale. Per realizzare questa loro volontà di serietà di fronte all'accaduto si sono messi insieme.
 Si sono formate così nel tempo non solo la Chiesa nelle sue istituzioni fondamentali tese a permetterci e a comunicare agli altri il rapporto con Cristo, ma anche gruppi, movimenti, e poi ordini e congregazioni religiose.
Tutto ciò costituisce un fattore di  ricchezza cui tutto il mondo cristiano deve essere grato, non solo perché tali realtà hanno affermato la libertà dello spirito, ma anche perché sono una delle espressioni fonda mentali dell'uomo assunte nel mistero cristiano.
L'associarsi, infatti, è da sempre il metodo con cui gli uomini hanno cercato di camminare verso il loro destino.
Così, all'interno del fatto cristiano, è attraverso questo unirsi, comunque e in qualsiasi modo, ma sempre con la tensione al destino, che il mistero tutto di Cristo e della Chiesa toccava e tocca gli occhi, la bocca, le mani, il corpo, quindi il cuore, l'anima, l'intelligenza e la libertà di ognuno.
don Giussani Alla ricerca del volto umano Rizzoli

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giovedì, 10 gennaio 2008
La liberazione
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Tempi num.21 del 24/05/2007
«Cristo vale più di mille lotte sociali».
Marcos Zerbini, ex leader catto-comunista racconta la Chiesa che ha rivoluzionato la sua vita. E il Papa che ha conquistato i suoi ragazzi

di Alberto Isabella

San Paolo (Brasile)
«Molti dei nostri giovani sono andati all'incontro con Benedetto XVI allo stadio di Pacaembu e sono rimasti molto colpiti dalla sua persona. Tutti i media dicevano che il Papa era un uomo chiuso e introverso, invece quella che tutti hanno visto è stata una persona piena di amabilità. Un padre impegnato a educare con chiarezza e fermezza, ma che allo stesso tempo non perde la dolcezza e l'amore per i figli». Marcos Zerbini commenta soddisfatto la visita di Benedetto XVI a San Paolo, la sua città natale, e non è il commento di uno qualunque. «
Per me il rapporto con questo Papa è un'esperienza molto nuova e interessante, perché io avevo certe idee sbagliate su di lui derivanti dalla mia originale formazione nella Chiesa, improntata alla teologia della liberazione. Oggi io vedo che il grande sbaglio della teologia della liberazione è ridurre Gesù Cristo a discussioni sui problemi politici e sociali. Ma Gesù Cristo è molto di più di questo». Attenzione, Marcos Zerbini non è un ex della Tdl come tanti. Siamo davanti a un vero leader popolare, che con la sua compagna Cleuza Ramos si è messo al servizio del popolo nelle Comunità di base negli anni Ottanta. Sotto il nome di Associazione dei lavoratori senza terra hanno iniziato un movimento popolare che ha permesso la costruzione di migliaia di case. Adottando un metodo di lotta diverso da quello allora dominante, delle occupazioni di terreni.
Così racconta la sua storia. «Nel 1986 il tema della "Campagna di fraternità" della Quaresima promossa dalla Conferenza episcopale brasiliana era "Terra di Dio, terra di fratelli". Nel libretto per la riflessione c'era scritto: "State già aiutando chi non ha la casa, o state solo pregando Dio di aiutarli?". Mi dissi: "Questo è per me, devo fare qualcosa". Al nostro primo raduno vennero 200 persone, due settimane dopo ci trovammo in duemila in una chiesa. Facevamo manifestazioni, raccoglievamo firme e le portavamo al Comune e al governo dello Stato. Creammo l'Asociação dos Trabalhadores sem terra, che all'inizio non diede risultati perché era incentrata solo sulla rivendicazione. Dopo i primi due anni vedevo molte persone la cui unica speranza era un'invasione di proprietà, e intanto abitavano in tuguri, in affitto, in casa della suocera. Allora abbiamo cambiato metodo: anziché aspettare la risposta delle istituzioni o di trovare un terreno da invadere, ci siamo mossi. Con un gruppo di 18 famiglie abbiamo comprato un grande terreno e lo abbiamo diviso in lotti per la costruzione delle case. Poi, sempre organizzandoci in gruppi collettivi, abbiamo comprato altre terre per insediare le famiglie. Per l'acqua, luce e gli altri servizi ci sono voluti anni. E appena insediati ci accorgemmo che erano più costose della terra stessa. Così cominciammo a sollecitare il Comune e questa è stata una lotta di anni. Poi fu la volta della scuola, un'altra lotta vinta. I lotti comprati sono diventati 27, quelli edificati 14 e ospitano 12.500 famiglie. Così il quartiere, anche se di periferia, era diventato bello, con la scuola, l'acqua, la luce e l'asfalto. Ma non eravamo contenti».
«
Si erano accorti che erano diventati molto bravi nel costruire case per la gente, ma che non riuscivano a costruire la cosa a cui tenevano di più: una comunità solidale, una vera amicizia fra le persone», racconta Vando Valentini, responsabile di Comunione e liberazione e della pastorale universitaria alla Pontificia università cattolica di San Paolo. «Fra i vicini delle loro case, come dentro allo stesso gruppo dirigente, una quarantina di persone, c'erano tensioni e conflitti che non riuscivano a risolvere. L'incontro con noi li ha richiamati all'origine della loro storia: l'appartenenza alla Chiesa. Hanno chiesto di fare Scuola di comunità (momento di catechesi di Cl, ndr) con noi».


22 mila poveri all'università
Dopo l'incontro con Cl Zerbini ha approfondito il suo impegno sociale e politico con una coscienza nuova. È rientrato in politica, dopo che aveva abbandonato il Pt del presidente Lula non apprezzandone più i metodi centralisti.
«La mia esperienza politica nelle istituzioni è cominciata sei anni fa, quando gli amici dell'Associazione hanno deciso che era importante avere una persona che potesse dialogare con il Comune. Sono entrato a far politica per poter servire di più il popolo.
Nel 2000 sono stato eletto consigliere comunale della città di San Paolo con 31.500 voti, nel 2004 sono stato rieletto per il mandato raccogliendo 41.500 voti e nel 2006 ho conquistato un posto di deputato dello stato di San Paolo con 94.082 voti».
Marcos ha continuato a lavorare anche nel sociale, dandosi l'obiettivo di favorire l'accesso all'università per i figli delle persone che si erano costruite la casa grazie all'impegno dell'Associazione. «In Brasile l'università pubblica è a numero chiuso e, dal momento che l'esame di ammissione è difficile, riescono a entrare solo quelli che hanno fatto buone scuole private. Il ragazzo povero ha come unica possibilità quella di pagarsi l'università privata. Allora abbiamo provato a organizzare un grande gruppo di giovani e negoziare con le università private di San Paolo che avevano molti posti liberi. Anche lì ci sono esami di ammissione e il numero chiuso, ma hanno anche meno richieste. Così siamo riusciti a firmare convenzioni con diversi atenei privati per cui ai ragazzi sono concessi sconti dal 30 al 60 per cento sulle rate mensili. In questo modo sono entrati all'università quasi 22 mila ragazzi».
«
La preoccupazione - spiega Zerbini - non è solo l'università, ma un processo di educazione della vita; perciò facciamo incontri con questi ragazzi per parlare dei problemi del quotidiano, cioè dei problemi dell'università ma anche di quelli della propria vita». Di qui alla proposta di un incontro mensile sul libro Il senso religioso di Luigi Giussani il passo è stato breve. L'adesione è stata abbondante. Per Marcos «è stata una sorpresa. Molti di questi giovani rimangano colpiti dalla discussione che facciamo in questo corso e iniziano a capire l'importanza di prendere sul serio la vita, di guardare la propria esperienza umana elementare e imparare da essa, cercando nella vita qualcosa di più grande. I loro racconti sono commoventi. Molti ammettono che l'incontro con l'Assoziazione ha fatto cambiare direzione alla loro vita».


Le aspettative intorno al Celam
Sono questi i ragazzi che sono andati a vedere Benedetto XVI. «Tornati dall'incontro del Papa con i giovani erano contentissimi e molto colpiti. Mi ha sorpreso e meravigliato come abbiano capito in modo profondo la questione dei rapporti uomo-donna che era stata richiamata da Papa Benedetto. Si pensa che per un giovane dare retta a chi parla di verginità sia assurdo, ma loro hanno veramente capito che non era una questione di sesso soltanto, ma di rispetto per la persona umana. Il Papa non era qui per dire che cosa è proibito, ma per affermare la persona umana, e questo l'hanno inteso perfettamente».
Le attese di Marcos Zerbini e dei suoi amici rispetto alla Conferenza organizzata dal Celam (in corso in questi giorni proprio ad Aparecida, in Brasile) recano l'impronta della loro esperienza. «Quando ci rendemmo conto che l'esperienza ecclesiale delle Comunità di base era stata ridotta all'attivismo politico-sociale, ci siamo allontanati della Chiesa e siamo stati guardati male dagli aderenti alla teologia della liberazione. Io penso che in questi ultimi anni la Chiesa sia maturata in Brasile e che stia maturando in tutta l'America Latina. Quello che ci attendiamo dalla Conferenza dei vescovi del continente si può riassumere così:
desideriamo che i nostri pastori non lascino da parte la preoccupazione più profonda del cuore umano con discussioni sui problemi politici e sociali. C'è una preoccupazione più grande, che è quella di annunciare Gesù Cristo a tutti. Perché la missione della Chiesa consiste esattamente nell'annunciare Gesù Cristo. È giusto e naturale che ci sia una preoccupazione per i più poveri, per chi si trova ai margini della società, ma noi non possiamo perdere la prospettiva che Gesù Cristo è per tutti, poveri e ricchi. È per tutti perché Lui è molto di più delle questioni sociali e politiche». Lo dice Marcos Zerbini, uno che a guidare lotte per la giustizia sociale ci ha passato una vita intera.

Postato da: giacabi a 20:44 | link | commenti (1)
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La Chiesa è Dio sulla terra
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«La Chiesa è Dio sulla terra, carica dei nostri peccati e della nostra carne. E una prostituta che Cristo risposa ogni giorno, come dicevano i Padri. Questo, cari amici, è lo stato del dossier.. .»
Maurice Clavel   

Roberto Righetto La conversione del filosofo maoista ed.Piemme

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La continuità di Gesù Cristo:
 radice della coscienza che la Chiesa ha di sé
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Fonte: Centro Culturale Rebora

.Per comprendere cosa sia la Chiesa dobbiamo partire dalla sua funzione principale e costitutiva, che è quella di essere la continuità fisica di Cristo dentro la storia. È questa la coscienza di sé con cui la Chiesa si presenta nel mondo.
La Chiesa infatti si pone nella storia anzitutto come rapporto con Cristo vivo.

Dopo la morte in croce di Cristo come si spiega quello che è successo al gruppo dei discepoli? Timorosi, braccati dalla polizia giudaica, distrutti nella loro speranza umana dall'annientamento di colui nel quale avevano posto tanta fiducia, privi di qualsiasi peso sul piano sociale, politico e religioso, come hanno potuto non solo continuare a stare insieme, ma moltiplicarsi con una azione missionaria travolgente?
Essi dichiarano che stanno insieme perché Cristo è risorto e si rende presente tra loro.
E bisogna ammettere che è l'unica spiegazione che tenga. Ciò che ci hanno trasmesso è esattamente la testimonianza di un Uomo presente, vivo: stanno insieme perché il Cristo risorto si rende presente in mezzo a loro. Ci avvertono che Dio non è venuto nel mondo per essere ricordato vagamente: Cristo rimane nella storia, nella vita dell'uomo personalmente, realmente, con il volto storico, vivo, della comunità cristiana, della Chiesa.
È certamente la convinzione di questa presenza che troviamo leggendo gli inizi degli Atti degli Apostoli:
Cristo rimane nella storia, nella vita dell'uomo personalmente, realmente, con il volto storico, vivo, della comunità cristiana, della Chiesa.
"Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio" (Atti 1,3).
O nei racconti delle apparizioni del Risorto:
- Lc 24: non fa che rassicurarli invitandoli a controllare che non è un fantasma fino a chiedere qualcosa da mangiare;
- Gv 21: sulla riva del lago prepara da mangiare.
È una presenza familiare che continua, "Dio con noi": una continuità fisiologica tra il Cristo e questo primo nucleo di Chiesa, continuità della vita dell'uomo Cristo presente e attivo tra loro.
Per loro Gesù non è qualcuno da ricordare, ma qualcuno da testimoniare ancora presente e operante
: "... testimoni prescelti da Dio, noi, che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice
..." (Atti 10,40ss).
Il problema della chiesa va visto nella sua continuità di Cristo: è il Signore presente che ancor oggi definisce la realtà della Chiesa.
Dopo di essere venuto, come avrebbe potuto sottrarsi all'uomo che lo aveva cercato e lo cerca per affidare la sua azione ad un semplice apparato, a qualunque cosa che non fosse lui, lui che era preoccupato di scartare quanto poteva nuocere al carattere personale delle sue relazioni coi discepoli?
La Chiesa sente se stessa come la comunità di Gesù per una adesione dei discepoli a Lui vivo e presente tra loro come aveva promesso: "Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).


In conclusione:
il contenuto dell'autocoscienza della Chiesa delle origini sta nel fatto che essa è la continuità di Cristo nella storia.

Postato da: giacabi a 18:50 | link | commenti
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mercoledì, 09 gennaio 2008
La comunità:
Il Dio con noi
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«Il superamento della solitudine nell'esperienza dello Spirito di Cristo non accosta l'uomo agli altri, lo spalanca ad essi fin dalle profondità del suo essere.
La vera vita dell'uomo, il senso dell'esistenza di ognuno è Cristo: una sola realtà è la vita e il senso di tutti. «Io sono la vite e voi i tralci»
Gv 15,5
. La comunità diventa essenziale alla vita stessa di ognuno. La solidarietà umana diventa Chiesa. Il «noi» diventa pienezza dell'«io», legge della realizzazione dell'«io». «Sappiamo, o fratelli, che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» scrive ai primi cristiani S. Giovanni 1 Gv 3,14.
Una unità tanto assolutamente imprevedibile quanto indissolubile fa della Chiesa la redenzione della comunità umana, l'ideale avverato della comunità. «Che tutti siano una cosa sola. Come Tu, Padre, sei in me ed io in Te, che anch'essi siano uno in Noi, affinchè il mondo creda che Tu mi hai mandato»
Don Giussani Tracce di un’esperienza cristiana
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C'è in natura un metodo che riesce a darci questa energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura del rischio. Per superare il baratro dei "ma" e dei "se" e dei "però" il metodo usato dalla natura è il fenomeno comunitario.
Un bambino corre per il corridoio, spalanca con le manine la porta sempre aperta di una stanza buia; impaurito, torna indietro. La mamma si fa avanti, lo prende per mano, con la mano nella mano di sua madre il bambino va in qualsiasi stanza buia di questo mondo. E solo la dimensione comunitaria che rende l'uomo sufficientemente capace di superare l'esperienza del rischio…..
La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione della energia e della decisione personale, ma la condizione dell'affermarsi di essa.
Se io metto un seme di faggio sul tavolo, anche dopo mille anni (posto che tutto rimanga tale e quale) non si svilupperà niente. Se io prendo questo seme e lo metto dentro la terra, esso diventa pianta. Non è l'humus che sostituisce l'energia irriducibile, la "personalità" incomunicabile del seme: l'humus è la condizione perché il seme cresca.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto…..
Il vero dramma del rapporto fra l'uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell'esperienza, non sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto il mondo è una grande ragione e non esiste sguardo umano sulla realtà che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a questa immensa evidenza. La drammaticità è definita da quello che io chiamo rischio. L'uomo subisce l'esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come se non si sentisse di muoversi, è come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e di volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la capacità di adesione all'essere.
Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l'individuo vive la sua dimensione comunitaria. In tal senso mira il paradosso di Chesterton: "Non è vero che uno più uno fa due; ma uno più uno fa duemila volte uno". Anche questo rivela il genio di Cristo che ha identificato la Sua esperienza religiosa con la Chiesa: "Là dove saranno due o tre riuniti in mio nome, io sarò con loro"
Don Giussani:  Il senso religioso

Postato da: giacabi a 19:24 | link | commenti
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sabato, 05 gennaio 2008
Cristo non ha mani

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Cristo non ha mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare il suo lavoro oggi.
Cristo non ha piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini sui suoi sentieri.
Cristo non ha labbra,
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di se’
agli uomini di oggi.
Cristo non ha mezzi,
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a se’.
Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora.
Siamo l’unico messaggio di Dio
scritto in opere e parole.

preghiera medioevale del XIV secolo

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