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domenica 5 febbraio 2012

CL

MARTA «Io amo tutto della mia vita»

12/10/2010
Una foto di Marta.
Una foto di Marta.
Marta, insegnante di sostegno in una scuola media, è morta venerdì scorso, a 27 anni, per un tumore. Negli ultimi mesi, costretta a letto dalla malattia, ha toccato la vita di tanti: «Attraverso il tuo sì, Dio ci ha presi per mano», come ha detto don Giuliano Renzi ai suoi funerali. Riportiamo un dialogo con il padre Giorgio nelle notti trascorse in ospedale, il suo saluto ai funerali e l'omelia del sacerdote


GIORGIO: Marta, chi è Gesù per te?
MARTA: Eccolo, smettila con i ragionamenti, smetti di ragionare. Gesù è "Io sono Tu che mi fai". La cosa più evidente è che siamo oggetto di un amore infinito, un Altro ti ha voluto e ti vuole bene. Guarda, guarda quello che hai! Vivi! Guarda la realtà tutta, non servono tanti ragionamenti, guarda, è come quando fai la piadina, hai l'impasto fra le mani.
Per essere felici occorre amare Lui più di tutto, sopra ogni cosa e questo ti fa amare tutto, più intensamente. Io amo tutto, tutto della mia vita, da quando sono nata fino ad adesso.
La vita è gioia e dolore ed è così perché l'ha fatta così Gesù, è per questo che dico sì alla mia malattia. Uno si lava, si veste bene, sceglie delle cose belle, ha cura di sé perché un Altro ha cura di lui.

Questo succede per grazia, lo devi chiedere tutti i giorni e chiedere che ti dia pace. La felicità la vivremo in Paradiso, qui possiamo chiedere che ci faccia vivere con pace.

GIORGIO: Tutte queste cose dove le hai imparate? Grazie agli amici?
MARTA: L'amico è come l'obbiettivo di una macchina fotografica, mette a fuoco, mette a fuoco, cioè ti aiuta a fare luce dove c'è il vero, ma tutto il rapporto è tuo e basta, tuo con Lui, basta, nessuno di diverso, non tu-l'amico-e-Lui, è tuo e basta, sei tu che domandi, sei tu che chiedi, sei tu che gridi, sei tu che gli chiedi: amami!

GIORGIO: E Lui ti risponde.
MARTA: Lui ti risponde nella realtà.
GIORGIO: Ad esempio, in questo caso con tutta la gente che ti si muove intorno.
MARTA: Guarda che roba, ma non solo: mi sta cambiando, sta cambiando me e intanto io aspetto la guarigione.

GIORGIO: Tutti l'aspettiamo. Preghiamo, lottiamo, domandiamo, chiediamo. Dicevi prima: «Io tengo a me perché c'è un Altro che tiene a me»? Dicevi così?
MARTA: Sì.

GIORGIO: Tutte queste cose come le hai imparate?
MARTA: Vivendo, vivendo in compagnia di amici grandi.

GIORGIO: E guardando?
MARTA: Sì, vivendo tutto appieno; ma come si fa a vivere tutto appieno? Ci vuole anche un metodo e una strada, e la strada e il metodo io l'ho imparato in università. Io Gesù l'ho incontrato in università.

GIORGIO: Be', l'avevi già incontrato prima, lì ti si è palesato di più.
MARTA: Il mio incontro io l'ho fatto in università, l'ho fatto con Francesco, e poi un fatto dietro l'altro.

GIORGIO: Bello quello che mi dici, bisogna che ne parliamo più spesso di queste cose.
MARTA: E no! È qui che dico io, non è un problema di parlare.

GIORGIO: Ma quando mi comunichi la tua esperienza a me aiuta, è un fatto quello che mi racconti.
MARTA: Però il problema non è stare al tavolino a parlare, il problema è che tu domani mattina ti alzi e vai davanti allo specchio e dici: «Io, Giorgio, sono Tu che mi fai», e tutta la giornata chiedi che Lui si faccia vedere da te, non è che ne parliamo io e te, capito? Non è quello il problema. Io Francesco in un anno quante volte l'ho visto, quante volte ci siamo messi al tavolino a parlare? Non è un problema di parlare: è il tuo rapporto personale con Gesù. In quello non ti può sostituire nessuno.
da:

Postato da: giacabi a 20:24 | link | commenti
amicizia, testimonianza, cl

mercoledì, 25 agosto 2010

Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore

***

SE UNO CI TIENE ALLA SUA VITA DOVREBBE ASCOLTARE QUESTO INTERVENTO

Postato da: giacabi a 16:42 | link | commenti
nietzsche, leopardi, giussani, carron, cl, senso religioso, milosz, judina

sabato, 21 agosto 2010
Per comprendere il Meeting
***
Questo intervento di don Giussani aiuta a comprendere la portata di una proposta che sfida la ragione e la libertà di chi – oggi – organizza e partecipa al Meeting.

Io vorrei che facessimo emergere i fattori determinanti il volto adulto di questo fenomeno che ha dato origine alla più grossa manifestazione che abbiamo fatto in trent’anni: il Meeting di Rimini. Più grande, non appena quantitativamente, ma anche dal punto di vista della incidenza sulla opinione pubblica.

a. Da una parte, gente appassionata alla vita del movimento. Cosa vuol dire appassionata alla vita? Un adulto non può non essere appassionato a una vita, altrimenti o è un vecchio, oppure è un bambino. L’adulto è serio nella vita: la serietà nella vita è la passione per il significato.

L’adulto è una persona per cui il movimento è veicolo, o luogo di incontro, con il significato del proprio esistere, della propria persona.

b. In secondo luogo, amici tra di loro per delle circostanze che l’hanno permesso. Allora, una passione per la vita che renda capaci di amicizia. E l’amicizia è affrontare «insieme» i bisogni.
Ora, qual è l’accento particolare che fa capire la maturità di queste persone? E’ che, vivendo in una determinata situazione (la Rimini estiva), hanno notato l’assoluta, totale mancanza di presenza dei cristiani. Quanti anni è che Rimini è centro balneare di quel tipo? E’ bellissimo e tragico che della gente si sia domandata a un certo punto, improvvisamente o finalmente: «Non esiste presenza cristiana qua dentro».

c. Terza questione: allora, l’ideale della vita che hanno dentro, reso organico dalla amicizia e perciò reso coraggioso dall’amicizia, si impegna, cambia. Non esiste vera percezione ideale se non diventa energia di cambiamento, cioè affezione, energia di mobilitazione del tempo, e dello spazio, della realtà, in funzione dell’ideale. Quindi, si sono mossi per realizzare questa presenza.

Questa è la storia dell’adulto. Serio nella vita, che riconosce l’ideale, e perciò eminentemente sociale come temperamento, come fisionomia. Questo è l’ideale che unisce: è la risposta al bisogno del vivere che unisce la gente, che crea la società. L’amicizia: compagnia guidata al destino, come io la definisco sempre con i ragazzi. Percezione di una situazione come assenza del proprio ideale, e quindi impegno, perché questo sia, perché la presenza dell’ideale avvenga.

Così l’avvenimento nuovo inizia, la generazione dell’adulto comincia, l’adulto genera. Hanno creato un luogo dove si incontrava un soggetto. La presenza è questo: un luogo. La generazione dell’adulto, che rende presente la propria vita fuori di sé, è un luogo dove si incontra un soggetto. Un soggetto, una persona, una umanità, che aveva qualcosa da dire; una umanità con un messaggio. Questo è il vero figlio! Un padre non è padre perché permette alla donna di buttare fuori un feto. E’ veramente padre se crea una persona che si può incontrare come luogo di un messaggio, quando crea una persona che ha un messaggio dentro.

Dopo queste cose si può fare tutto: si può pulir la chiesa, scopar la chiesa, spolverare le panche, si può servire, coprire tutti i ranghi della dottrina, si può organizzare i chierichetti, si può organizzare la S. Vincenzo e tutto il resto: dopo. Perché se non è espressione di questo, allora siamo finiti, anche se facciamo tante cose! Se facciamo tante cose, produciamo tutt’al più una resistenza, facciamo un vallo di resistenza all’onda in piena, una resistenza che viene inevitabilmente travolta.
Giussani 
prima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli si svolge a Rimini dal 23 al 31 agosto 1980.
da:http://www.meetingrimini.org

Postato da: giacabi a 10:09 | link | commenti
giussani, cl

domenica, 30 maggio 2010
Ciò che  manca oggi tra noi non è la Presenza

manca l’umano

 Cristo è risorto! Questo è l’annuncio che instancabilmente, da secoli,
la Chiesa ci rivolge. Questo è l’avvenimento che domina la storia, un
evento che nessuno sbaglio nostro o dei nostri fratelli può far fuori e
che tutto il male che possa capitare non può cancellare. Questo fatto è il
motivo della nostra speranza; è dunque questo fatto che deve dominare
in noi dal primo istante di questi giorni: la Sua presenza risorta. Non
sarebbe adeguato a tutti i fattori del reale, ora, uno sguardo sulla
nostra vita, sul sentimento di noi stessi, sul reale e sul mondo che non
cominciasse da questo riconoscimento; sarebbe menzognero, perché
mancherebbe il fattore decisivo di tutta la storia. Non c’è una novità più
grande, non c’è mai stata una novità più grande che il fatto che Cristo è
risorto.Per questo, nella misura in cui ci lasciamo invadere totalmente
da questa Presenza viva, ci lasciamo dominare da questa verità – che
è un fatto, non un pensiero creato da noi, ma un evento successo nella
storia –, noi vediamo cambiare il sentimento che abbiamo di noi stessi.
Ci ritroviamo insieme questi giorni per viverli sotto la pressione di
questa commozione, sotto l’onda tutta carica di questa commozione:
Cristo è morto e risorto per noi. Vi prego di lasciarGli spazio, cioè di
lasciarci trascinare da questo evento; non consentiamo che resti in noi
soltanto una parola. È successo: che luce, che respiro, che speranza
porta alla vita questo fatto! È il segno più evidente e più potente della
tenerezza del Mistero per ciascuno di noi, di questa carità sconfinata di
Dio per il nostro niente (compreso il nostro tradimento).
È la Sua presenza vittoriosa in mezzo a noi che ci spinge a continuare
il nostro percorso per cercare di superare sempre più la frattura tra il
sapere e il credere, affinché questo fatto riconosciuto dalla fede determini
la vita più di tutto il resto.Se invece questo fatto rimanesse soltanto a
livello pio o devoto, sarebbe come se non ci fosse stato, come se non
avesse tutta la densità di realtà per cambiare la vita, per incidere sulla
vita; e allora resteremmo determinati da tutto il resto, che ci travolge, che
ci confonde, che ci scoraggia, che ci impedisce di respirare, di vedere, di
toccare con mano la novità che Cristo risorto ha introdotto e introduce
nella nostra vita…
. La fede è il riconoscimento di questa Presenza eccezionale,
oggi resa carnalmente presente dai testimoni, dal popolo cristiano, dalla
Chiesa, che sarebbe impossibile se Lui non la generasse costantemente.
Ma l’anno scorso abbiamo approfondito che, malgrado tanti fatti
eccezionali che abbiamo visto, malgrado tanti testimoni che abbiamo
davanti, spesso dopo un istante ci sembra che tutto svanisca; e abbiamo
identificato la ragione in quella frattura tra il sapere e il credere che si
manifesta nella riduzione della fede a proiezione di un sentimento, a
un’etica o a una forma di religiosità estranea e opposta alla conoscenza.
La riduzione sta in ciò: la fede non viene più concepita e vissuta come
un percorso di conoscenza di una realtà presente, e questo ci rende
deboli e confusi come tutti. Una fede che non è conoscenza, che non è
il riconoscimento di una Presenza reale, non serve alla vita, non fonda
la speranza, non cambia il sentimento che noi abbiamo di noi stessi,
non introduce un respiro in ogni circostanza.E l’aspetto cruciale della
difficoltà l’avevamo identificato nella mancanza dell’umano: «Ciò che
manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da
testimoni!); manca l’umano.Se l’umanità non è in gioco, il cammino
della conoscenza si ferma.Amici, non manca la Presenza, manca
il percorso», il percorso introdotto dalla curiosità davanti a questa
Presenza, con la quale vogliamo entrare sempre di più in una conoscenza
approfondita….
Dopo un anno ci sono segni che rendono evidente che la frattura tra
sapere e credere non è ancora superata.
Il primo è che non si capisce il nesso tra l’avvenimento cristiano e
l’umano: si continua a percepirli come estrinseci l’uno all’altro. ……
non abbiamo capito il rapporto che c’è tra l’avvenimento cristiano e la messa
 in moto dell’io, non si capisce che il segno che ho fatto un incontro è che mi
metto al lavoro, perché il mio umano è ridestato. Il lavoro
 è il segno più evidente che il cristianesimo è un
avvenimento, cioè che avviene in me
qualcosa che mi ridesta.
Il secondo segno è che l’avvenimento cristiano non
 produce  una mentalità nuova. ………

È come se vedessimo su di noi gli effetti di quello che Charles Péguy
descrive in modo così suggestivo: «Per la prima volta, per la prima volta
dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi, noi stiamo per vedere
un nuovo mondo sorgere, se non una città; una società nuova formarsi,
se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una
società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) ingrandirsi, dopo
Gesù, senza Gesù. E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna
negarlo, è che ci sono riusciti. [...] È ciò che vi pone in una situazione
tragica, unica. Voi siete i primi. Voi siete i primi dei moderni».
Dopo Gesù, senza Gesù. Non si tratta soltanto di un progressivo
allontanamento da una pratica religiosa; il segno per eccellenza della
emarginazione di Cristo dalla vita è una mortificazione delle dimensioni
proprie dell’umano, una concezione ridotta della propria umanità, della
percezione di sé, un uso ridotto della ragione, dell’affezione, della
libertà, una censura della portata del desiderio. Giussani ha utilizzato
tanti anni fa la metafora dell’esplosione nucleare di Chernobyl, che ha
prodotto questa alterazione nell’animo degli uomini: «L’organismo,
strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso.
Vi è come un plagio fisiologico».
Per questo mi domandavo:il cristianesimo è in grado di colpire il
nocciolo duro della nostra mentalità oppure riesce soltanto ad aggiungere
qualcosa di decorativo, di pio, di moralistico, di organizzativo a un io
già perfettamente costituito, refrattario a qualsiasi ingerenza?…..
È possibile in questa nostra
situazione la creatura nuova, qualcosa di veramente nuovo? Questa,
secondo me, è la sfida più grande che il cristianesimo ha davanti a sé
adesso: se – nella modalità in cui ci ha persuasivamente raggiunto: il
movimento – è in grado di perforare la crosta del modo con cui ciascuno
sta nel realeo se è condannato a rimanere estraneo, in fondo un’aggiunta.
Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà,
vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che
l’avvenimento cristiano è rimasto esterno all’io. Anche per noi la fede
può essere una cosa fra le altre, appiccicata, giustapposta, che convive
con il modo di vedere e di sentire di tutti.……
Ciascuno di noi può giudicare il lavoro di quest’anno, e verificare in
che misura questa novità è entrata nella radice del proprio io. Che novità
ha portato? Non sono nostri pensieri, non è una questione di opinioni, di
interpretazioni: se Cristo è entrato come novità nella radice del nostro io
e determina tutto in un modo nuovo, ce lo portiamo addosso nel modo
di vivere il reale. …..
Ma prima dobbiamo guardare in faccia l’obiezione cui accennavo
prima: a noi avvenimento e lavoro sembrano sempre in contrasto. Questo
è un esempio della distanza che a volte percepisco tra l’intenzione
di seguire don Giussani e il seguirlo veramente. Guardate quel che
dice a tutti quelli che contrappongono cristianesimo e lavoro: «Gesù
Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano [questa
affermazione già basterebbe], all’umana libertà o per eliminare l’umana
prova – condizione esistenziale della libertà –. Egli è venuto nel mondo
per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura
fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che
l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano,
invece di sciogliersi, se non sono salvati determinati valori fondamentali.
Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza
della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della
conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle
cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore),
il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della
giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella
storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla
religiosità nel tentativo della propria soluzione (“Chi mi segue avrà la
vita eterna e il centuplo quaggiù”). Non è compito di Gesù risolvere i vari
problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente
può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa
fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel tentativo».
E ancora: «L’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere
dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole aiutare l’umano
nel cammino al suo destino. E l’umano è inesistente originalmente,
se non nel singolo, nella persona. Questa insistenza è tutto quanto il
richiamo di Gesù Cristo. Non si può pensare di cominciare a capire il
cristianesimo se non partendo dalla sua origine di passione alla singola
persona».
E qualora non fosse abbastanza chiaro, don Giussani osserva che
il compito della Chiesa è lo stesso: «La Chiesa, dunque, non ha come
compito diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli
incontra lungo il suo cammino.Abbiamo visto che la funzione che essa
dichiara sua nella storia è l’educazione al senso religioso dell’umanità
e abbiamo visto anche come ciò implichi il richiamo a un giusto
atteggiamento dell’uomo di fronte al reale e ai suoi interrogativi,
giusto atteggiamento che costituisce la condizione ottimale per trovare
più adeguate risposte a quegli interrogativi. Abbiamo anche appena
sottolineato che la gamma dei problemi umani non potrebbe essere
sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo, quasi che la Chiesa
dovesse dar loro una soluzione già confezionata».10
Per questo il migliore omaggio che possiamo offrire a don Giussani
nel quinto anniversario della sua scomparsa è la nostra sequela, non
soltanto intenzionale, ma reale. Potremo vedere così come cinque anni
dopo la sua morte egli continua a esserci padre più che mai e, se noi ci
rendiamo veramente disponibili, a generarci.


Carrón agli Esercizi spirituali della Fraternità di Cl (Rimini, 23-25 aprile 2010)

Postato da: giacabi a 06:13 | link | commenti
cristianesimo, giussani, carron, cl

martedì, 23 febbraio 2010

GIUSSANI/ 1. Scola:
 la convenienza umana del cristianesimo
***
lunedì 22 febbraio 2010
«Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova».
L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.
 Mi sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all’inizio degli anni Cinquanta: «Una situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».
 Quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.

Da dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un passato: «Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».
Ma questa dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.
In Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.
In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano.
Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre attenzione al frangente storico e culturale per comunicare un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà che è sempre drammaticamente situata.
Realtà (quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla. La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è comunicata.
 Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.
Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo: «Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».
Dell’autore Angelo Scola sta per uscire la nuova edizione del libro Un pensiero sorgivo. Luigi Giussani, Edizioni Marietti 1820.

Postato da: giacabi a 09:35 | link | commenti
scola, giussani, cl

giovedì, 21 gennaio 2010

 volantino haiti

Postato da: giacabi a 20:58 | link | commenti
cl

giovedì, 14 gennaio 2010

La povertà cristiana
***
Povertà è non sperare da un certo possesso: certo vuol dire fissato da noi, previsto da noi,scelto tra quello che è comodo a noi, scelto tra quello che più persuade noi, scelto tra quello che più ci dà ricchezza e quindi sicurezza economica.
La povertà si oppone alla speranza perché colloca la sicurezza nella felicità futura in un certo possesso, che può essere presente o futuro
……La nostra speranza non dipende da Cristo, dipende da un certo possesso dal possesso di una certa cosa.
…. Il fondamento della povertà sta nella certezza che Dio compie quello che ti fa desiderare.
Se Dio, Dio presente, Cristo – perché è in Cristo che Dio opera -, se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo dalle cose; nasce l’immagine della libertà, innanzitutto come libertà dalle cose. Non sei schiavo di niente, non sei incatenato a niente, non dipendi da niente: sei libero.
(…) non sei schiavo di quello che usi, perché sei schiavo solo di Colui che ti dà la certezza della tua felicità.
La povertà si rivela come povertà dalle cose in quanto è Dio che compie i desideri, non la certa cosa cui tu miri.
Non stiamo dicendo cose astratte, perchè la tale ragazza l’avere il tal partito è questione di vita e di morte, si strappa le vesti se pensa di non potere avere il tale ragazzo, lo fissa lei. E invece quel tale ragazzo se ne infischia e ne prende un’altra…..
Dalla libertà dalle cose, che la povertà porta con sé, nasce un sentimento che nessun altro ha se non chi è povero, cioè chi non fissa in determinate cose da lui scelte la speranza della sua vita. (…)

Da questa libertà dalle cose, che nasce dalla certezza che Dio compie tutto Lui, scaturisce un’altra caratteristica dell’animo povero che è la letizia,
L. Giussani, Si può vivere così?. Pp. 256-259). 
 


Postato da: giacabi a 10:40 | link | commenti
giussani, cl

lunedì, 14 dicembre 2009

Comunicato stampa di CL
***
Aggressione a Berlusconi in piazza Duomo a Milano

All’origine dell’aggressione al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al quale siamo vicini e auguriamo una pronta guarigione, c’è un clima di ostilità ideologica che sta demolendo la possibilità di una convivenza pacifica e ordinata: è il frutto di una lunga storia che ha reso mentalità normale l’atteggiamento dell’homo homini lupus, che giunge a utilizzare la violenza - verbale e fisica - come modalità dei rapporti, in famiglia, a scuola e al lavoro, fino alla politica.
La radice di questa violenza è in ciascuno di noi e si esprime come menzogna, odio e strumentalizzazione dell’altro per affermare la propria opinione e i propri interessi. La Chiesa chiama “peccato originale” questa presunzione.
L’esito è la grande confusione in cui siamo immersi e che semina dubbio e incertezza a riguardo di ciò che è vero, giusto e buono, riducendo ogni comportamento a reattività istintiva, come abbiamo visto in piazza Duomo a Milano domenica.
Il cristianesimo è nato precisamente per offrire una risposta a questa situazione da cui l’uomo non sa uscire con le sue forze, come ci ricorda il Natale che stiamo apprestandoci a vivere: una esaltazione del valore dell’io di ciascuno in quanto “mistero” che eccede ogni possibilità di strumentalizzazione; un riconoscimento che la propria vita implica l’esistenza dell’altro uomo, chiunque sia. Questo è il fondamento del rispetto verso tutti - cioè della democrazia e del dialogo -, senza del quale cresce la confusione e domina la violenza.
l’ufficio stampa di CL
Milano, 14 dicembre 2009

Postato da: giacabi a 21:25 | link | commenti (1)
cl

giovedì, 12 novembre 2009
A proposito della sentenza della Corte europea sui crocifissi
UNA PRESENZA IRRIDUCIBILE
  
***

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro i crocifissi nelle
aule scolastiche ha suscitato una vasta eco di proteste: giustamente quasi
tutti gli italiani - l’84% secondo un sondaggio del Corriere della Sera - si sono
scandalizzati della decisione.
«E voi chi dite che io sia?». Questa domanda di Gesù ai discepoli ci raggiunge dal passato e ci sfida ora.
Quel Cristo sul crocifisso non è un cimelio  della pietà popolare per il quale
si può nutrire, al massimo, un devoto ricordo.
Non è neppure un generico simbolo della nostra tradizione sociale e
culturale.
Cristo è un uomo vivo, che ha portato nel mondo un giudizio, una esperienza
nuova, che c’entra con tutto: con lo studio e il lavoro, con gli affetti
e i desideri, con la vita e la morte. Un’esperienza di umanità compiuta.
I crocifissi si possono togliere, ma non si può togliere dalla realtà un uomo vivo. Tranne che lo ammazzino, come è accaduto: ma allora è più vivo di prima!
Si illudono coloro che vogliono togliere i crocifissi, se pensano di contribuire
così a cancellare dallo “spazio pubblico” il cristianesimo come esperienza
e giudizio: se è in loro potere -ma è ancora tutto da verificare e noi
confidiamo che siano smentiti - abolire i crocifissi, non è nelle loro mani togliere
dei cristiani vivi dal reale.
Ma c’è un inconveniente: che noi cristiani possiamo non essere noi stessi,
dimenticando che cos’è il cristianesimo; allora difendere il crocifisso sarebbe
una battaglia persa, perché quell’uomo non direbbe più nulla alla nostra vita.
La sentenza europea è una sfida per la nostra fede. Per questo non possiamo
tornare con tranquillità alle cose solite, dopo avere protestato scandalizzati,
evitando la questione fondamentale: crocifisso sì, crocifisso no, dov’è
l’avvenimento di Cristo oggi?O, detto con le parole di Dostoevskij: «Un
uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».
Comunione e Liberazione
Novembre 2009. 

Postato da: giacabi a 18:21 | link | commenti
croce, cl

lunedì, 14 settembre 2009

«Cattolici e ortodossi, mai così vicini all'unità»
di Aldo Cazzullo ***

14/09/2009 - C’è un arcivescovo, a Mosca, che non dà interviste, non va in tv, non partecipa a polemiche. Ma svolge in silenzio una missione importante. Ripubblichiamo l'articolo che gli ha dedicato il Corriere della Sera

Mons. Pezzi davanti alla cattedrale cattolica di Mosca.La riunificazione tra cattolici e ortodossi, la fine dello storico scisma, la comunione spirituale della cristianità «potrebbe accadere presto, anche nel giro di qualche mese. In fondo siamo stati uniti per mille anni. Poi per altri mille siamo stati divisi. Ora il cammino di riavvicinamento è al culmine: il terzo millennio della Chiesa potrebbe cominciare all’insegna dell’unità. Ormai non ci sono più ostacoli formali; tutto dipende dal reale desiderio di comunione. Da parte nostra, della Chiesa cattolica, il desiderio è vivissimo».
C’è un arcivescovo, a Mosca, che non dà interviste, non va in tv, non partecipa a polemiche. Svolge in silenzio una missione importante.
«Ho una diocesi grande sette volte l’Italia, da Murmansk, a nord del circolo polare artico, all’enclave baltica di Kaliningrad» sorride.
Figlio del sindacalista dei facchini del porto di Ravenna. Cresciuto al fianco di don Giussani. Missionario in Siberia dopo il crollo del comunismo.
Uomo di Ratzinger. È Paolo Pezzi, 49 anni, «arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca» (le quattro diocesi cattoliche russe prendono il nome dalle chiese e non dalle città, per non urtare la sensibilità degli ortodossi).
La «Madre di Dio» è la cattedrale cattolica di Mosca, un’imponente chiesa neogotica di mattoni rossi. Dietro l’abside, dove c’era un’officina, oggi c’è l’arcivescovado. Vi fanno capo sacerdoti polacchi, slovacchi, tedeschi, ucraini, bielorussi, spagnoli, argentini, nordamericani, olandesi, francesi, portoghesi: un’avamposto della Chiesa di Roma. Poi ci sono otto italiani. E c’è lui, l’arcivescovo. Incaricato di vegliare su un milione e mezzo di cattolici russi, sparsi su un territorio sterminato. E di riannodare i rapporti con gli ortodossi. Che stanno conoscendo un’evoluzione inaspettata, per certi versi straordinaria.
Due mondi che si erano ignorati per secoli, racconta l’arcivescovo, sono stati avvicinati dalla storia. «Sotto il comunismo, ortodossi e cattolici hanno conosciuto gli stessi gulag, lo stesso destino ». Paolo VI incontrò il patriarca di Costantinopoli Atenagora.
Il Papa polacco aveva attenzione e passione per i rapporti con Mosca, dove però si avvertiva ancora il retaggio di antiche rivalità nazionali; tanto più che l’arcivescovo cattolico era un bielorusso di origine polacche, Tadeusz Kondrusiewicz, nominato da Benedetto XVI arcivescovo di Minsk al posto del leggendario cardinale quasi centenario Kazimierz Swiatek, una vita nei campi di Stalin. Ora a Mosca c’è un italiano; e per prima cosa monsignor Pezzi ha chiarito che la sua missione non è il proselitismo. Dall’altra parte, dopo la morte del patriarca Aleksej II, è stato eletto Kyrill. Cirillo, come il padre del cristianesimo russo. Già capo dipartimento del patriarcato di Mosca per i rapporti con l’esterno, ha incontrato più volte Ratzinger, conosce bene il Vaticano e il cattolicesimo.
Oggi, dice monsignor Pezzi, «non ci sono più ostacoli reali sul cammino verso la piena comunione», verso il ricongiungimento tra le due confessioni. Sui temi della modernità, cattolici e ortodossi la pensano allo stesso modo.
«Nulla ci divide su bioetica, famiglia, tutela della vita, limiti alla procreazione assistita». Ma anche la dottrina, spiega l’arcivescovo, è sostanzialmente la stessa. «C’è il punto dei tre dogmi proclamati dopo la separazione. Ma per due, l’Immacolata Concezione e l’Assunzione al cielo della Vergine, il problema è la formulazione, non il contenuto di fede. Resta la questione del primato del Papa. Se ne occuperà il prossimo incontro della commissione cattolici-ortodossi. E non mi pare impossibile arrivare a un’intesa».
La storia di monsignor Pezzi è nel nome del paese romagnolo dov’è nato: Russi. Il padre fondò la Cisl di Ravenna, organizzando i lavoratori del porto; melomane, a casa ha una grande collezione di dischi di musica classica. La madre è insegnante.
Lui studia da perito tecnico, ha già un lavoro alla Telecom quando incontra Cl, e don Giussani. «Avvertii tre forme di vocazione: a essere vergine, sacerdote e missionario». Entra nella Fraternità San Carlo, fondata da un altro sacerdote ciellino, Massimo Camisasca, che dopo la laurea in teologia e il dottorato alla Lateranense manda il giovane Pezzi in Russia. «Arrivai a Novosibirsk, Siberia, nel ’93. Ho incontrato i superstiti dei cattolici tedeschi deportati da Stalin negli Anni Trenta, e i loro discendenti. Uomini e donne che per decenni non avevano incontrato un prete se non qualche fuggiasco, non avevano avuto chiese, non potevano fare la comunione né sposarsi se non segretamente; eppure avevano conservato la fede. Le babushke , le nonne, mi mostravano i quaderni su cui avevano scritto le preghiere da insegnare alle figlie e alle nipoti. Lì compresi che il cristianesimo è come una pianta che cresce pure nelle zone più impervie e non può essere sradicata. Ebbi la conferma che con Gesù si vive meglio».
Benedetto XVI l’ha voluto rettore del seminario cattolico di San Pietroburgo, l’unico in tutta la Russia, e dal 2007 arcivescovo a Mosca. Ogni anno monsignor Pezzi è invitato alle celebrazioni di Natale e Pasqua: «L’ultima è durata quattro ore e mezza». Chissà che noia. «Al contrario. Il rito ortodosso è pieno di fascino, anche perché non ha nulla di statico, si è sempre in movimento. E alla fine, nella notte, si cena alla stessa mensa». Ha incontrato Putin – «non solo autoritarismo; anche autorità» – e il nuovo presidente Medvedev: «Putin sembra fare affidamento sulla forza, in particolare su Difesa e Interni, esercito e servizi segreti. Medvedev viene dagli studi di diritto e dalla pratica del business , e pare più attento all’Economia. Ma non ci sono reali divergenze tra i due». Però l’incontro che l’ha segnato di più è stato con una babushka siberiana. «Stalin le aveva ammazzato due figli. Le chiesi cosa pensasse di lui. Mi rispose: "Pensare? Cosa vuole che pensi? Stalin l’ho perdonato. Altrimenti non avrei potuto vivere". Io ero fermo all’idea, quella donna mi parlava della vita. Noi rischiamo di fermarci al pensiero, mentre le storie del cattolicesimo russo parlano al nostro cuore. E ci raccontano l’esperienza del martirio, del perdono, e ora la grande speranza della comunione di tutti i cristiani».
(dal Corriere della Sera, 14 settembre 2009)

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cl

domenica, 13 settembre 2009

Non ci basta
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Tracce N.8, Settembre 2009
EDITORIALE
A molti, magari, capiterà di farlo dopo aver sfogliato il giornale. E servirà tempo per andare a fondo in quella proposta, per non lasciarla scorrere via in fretta, presi dall’affanno dell’anno che riprende e del lavoro che incalza di nuovo. Ma se lo avete già fatto, se avete già aperto il libretto allegato a questo numero, e scorso almeno l’Introduzione di quell’Assemblea che il mese scorso ha raccolto a La Thuile quattrocento responsabili di Cl di tutto il mondo, è probabile che abbiate sentito almeno un’eco del contraccolpo subìto da chi c’era.
Diciamoci la verità: con quel primo «non ci basta» buttato in pista da don Julián Carrón di fronte alla confusione che viviamo, qualche familiarità ce l’avevamo già. «Non ci basta una ripetizione, pur giusta, di un discorso pulito e corretto». Il cristianesimo non è una faccenda di parole, o di principi da applicare alla vita per sostenerla. «E questo lo sappiamo anche noi», aggiungeva Carrón: «Abbiamo ripetuto tante volte la cosa giusta, ma questo non ci fa stare in piedi, non ci fa respirare». Non ci basta, appunto. «Abbiamo bisogno di vedere davanti a noi persone che nel loro porsi, nel loro modo di affrontare il reale (…) introducono una luce, una chiarezza in mezzo alla confusione nel modo in cui vivono gli affetti, il lavoro, le circostanze». Abbiamo bisogno di testimoni. La fede vive di questo. Chi ha seguito Tracce - e il lavoro educativo di cui cerca di rendere conto - nell’ultimo anno, sa bene di cosa stiamo parlando.

Subito dopo, però, è arrivato un altro affondo. «Ma il testimone non basta. Il testimone ci mostra una reale possibilità più umana di vivere nelle circostanze cui siamo chiamati, e per questo ci colpisce; ma non basta, perché ciascuno di noi (io, tu) ha bisogno che accada nella sua vita, nelle circostanze che è costretto ad affrontare, cioè ha bisogno di fare l’esperienza personale di ciò che il testimone mostra. Perché diventi mio!».
Ecco, lì in parecchi sono rimasti spiazzati. Meglio: provocati. Perché non si tratta di una sterzata, di un cambio di direzione. Non ci sono cesure in questo passaggio, non ci sono salti, come se l’insistenza sulla testimonianza fosse da archiviare per passare ad altre parole “di moda”: giudizio, esperienza… È un percorso da fare (e nelle pagine di quel libretto lo trovate tutto, passo per passo). Perché una cosa è chiara, se si guarda alle nostre vite: solo in quel «mio» c’è tutto. Certezza e speranza. E se non arrivo a dire «mio», non posso neanche dire «io». «Senza che questo diventi veramente esperienza noi non cresciamo nella certezza della fede».

Per molti, il Meeting di quest’anno è stato proprio una documentazione di questo percorso, come abbiamo cercato di spiegare nel “primo piano”. E le vacanze pure. Ma pensate che prospettiva si spalanca per chi riprende le occupazioni “normali” dell’anno con questo passo chiaro da compiere, con questo lavoro avviato di paragone continuo tra ciò che ci accade e il nostro cuore, con questo approfondimento di certezza della Sua Presenza nelle nostre vite. Pensate che cosa può essere delle battaglie che ci attendono a scuola, sul lavoro, in famiglia. O nel contesto sempre più confuso e per certi versi barbaro - lo testimoniano le vicende di questi ultimi giorni - della vita pubblica: media, politica, cultura… Pensate che cosa accade se lì dentro, non un briciolo prima - in astratto - o una frazione di secondo dopo - come etichetta da appiccicare -, ma dentro il reale iniziamo ad accorgerci davvero della presenza inestirpabile di Chi, essendo risorto, domina il reale. Qui e ora.
Diceva san Gregorio Nazianzeno, in quella frase tanto cara a don Giussani: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita». Ma se arriviamo a dire «mio»…
da: www.tracce.it


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cl

giovedì, 30 aprile 2009
Via Crucis a New York
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Radio Formigoni
per vedere il filmato riportare il 1° cursore all'inizio

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cristianesimo, cl

mercoledì, 08 aprile 2009
TERREMOTO ABRUZZO/
Il volantino di Comunione e Liberazione

Passione dell'uomo, passione di Cristo
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Ancora una volta siamo stati feriti nell’intimo del nostro essere da un evento sconvolgente. Così sconvolgente che è difficile sottrarsi alla domanda circa il suo significato, talmente supera la nostra capacità di comprensione.

La questione è tanto radicale quanto scomoda. Non possiamo cercare di chiuderla in fretta, desiderando di voltare pagina quanto prima per dimenticare. Non è ragionevole restare prigionieri di una emotività che ci soffoca, tanto meno spostare l’attenzione su eventuali responsabili.

La carità sterminata, che si è documentata in questi giorni come moto spontaneo e che sarà necessaria soprattutto nei prossimi mesi quando ci sarà più bisogno di aiuto, indica che la dimenticanza non è l’unica strada. Eppure neanche questa mossa è in grado di esaurire l’urgenza della domanda, suscitata dall’esperienza della nostra impotenza di fronte al terremoto.

Eventi come questo ci mettono davanti al mistero dell’esistenza, provocando la nostra ragione e la nostra libertà di uomini. Sprecare l’occasione di guardarlo in faccia ci lascerebbe ancora più smarriti e scettici. Ma per stare davanti al mistero dell’esistenza abbiamo bisogno di qualcosa di più della nostra pur giusta solidarietà. Da soli non possiamo.

La compagnia di Cristo - che è all’origine dell’amore all’uomo proprio del nostro popolo - si rivela ancora una volta decisiva nella nostra storia: una compagnia che dà senso alla vita e alla morte, alle vittime, ai sopravvissuti e a noi stessi, e sostiene la speranza.

L’imminenza della Pasqua acquista, allora, una nuova luce. «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32).

Comunione e Liberazione


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cl

domenica, 29 marzo 2009
VOLANTONE  DI  PASQUA
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La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche il presente più faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. La presenza di Cristo non è soltanto una realtà attesa,  ma una vera presenza.
Benedetto XVI

Noi diciamo quello che dovrebbe essere  o quello che non va e non  "si parte dall'affermazione che Cristo ha vinto".  Che  Cristo ha vinto, che Cristo è risorto, significa che il senso della mia vita e del mondo è presente, è già presente, e il tempo è l'operazione profonda e misteriosa del suo manifestarsi.
Luigi Giussani

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benedettoxvi, giussani, cl

mercoledì, 11 febbraio 2009
ELUANA
«CI VORREBBE UNA CAREZZA
DEL NAZARENO»
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«L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque » (Enzo Jannacci, Corriere della Sera, 6 febbraio 2009).
Ma una vita come quella di Eluana si può riempire di senso? Ha ancora significato?
La morte di Eluana non ha chiuso la porta a queste domande. Anzi. Non è tutto finito, come un fallimento della speranza per chi la voleva ancora in vita, o come una liberazione per chi non riteneva più sopportabile quella situazione. Proprio ora la sfida si fa più radicale per tutti.
La morte di Eluana urge come un pungolo: come ciascuno di noi ha collaborato a riempire di senso la sua vita, che contributo ha dato a coloro che erano più direttamente colpiti dalla sua malattia, cominciando da suo padre?
Quando la realtà ci mette alle strette, la nostra misura non è in grado di offrire il senso di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Soprattutto, di fronte a circostanze dolorose e ingiuste, che non sembrano destinate a cambiare o a risolversi, viene da domandarsi: che senso ha? La vita non è forse un inganno?
Il senso di vuoto avanza, se rimaniamo prigionieri della nostra ragione ridotta a misura, incapace di reggere l’urto della contraddizione. Ci troviamo smarriti e da soli con la nostra impotenza, col sospetto che in fondo tutto è niente.
Possiamo «riempire di senso» una vita quando ci troviamo davanti a una persona come Eluana?
Possiamo sopportare la sofferenza quando supera la nostra misura?Da soli non ce la facciamo. Occorre imbattersi nella presenza di qualcuno che sperimenti come piena di senso quella vita che noi stessi invece viviamo come un vuoto devastante.
Neanche a Cristo è stato risparmiato lo sgomento del dolore e del male, fino alla morte. Ma che cosa in Lui ha fatto la differenza? Che fosse più bravo? Che avesse più energia morale di noi? No,
 tanto è vero che nel momento più terribile della prova ha domandato che gli fosse risparmiata la croce.
In Cristo è stato sconfitto il sospetto che la vita fosse ultimamente un fallimento: ha vinto il Suo legame col Padre.
Benedetto XVI ha ricordato che per sperare «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato.
Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita…potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù” (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta,allora – soltanto allora – l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada nel caso particolare»
(Spe salvi 26).
La presenza di Cristo è l’unico fatto che può dare senso al dolore e all’ingiustizia. Riconoscere la positività che vince ogni solitudine e violenza è possibile solo grazie all’incontro con persone che testimoniano che la vita vale più della malattia e della morte. Questo sono state per Eluana le suore che l’hanno accudita per tanti anni, perché, come ha detto Jannacci, anche oggi «ci vorrebbe una carezza del Nazareno, avremmo così tanto bisogno di una sua carezza», di quell’uomo che duemila anni fa ha detto, rivolgendosi alla vedova di Nain: «Donna, non piangere!».
10 febbraio 2009 Comunione e Liberazione


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eutanasia, cl

venerdì, 06 febbraio 2009
CL:
preghiamo per Eluana

06/02/2009 - Pubblichiamo il comunicato stampa di Comunione e Liberazione in merito agli ultimi sviluppi della vicenda di Eluana Englaro
Accogliendo le parole del Segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata - «Quando ci avviciniamo al mistero del dolore e della morte bisogna, per chi crede, pregare» -, Comunione e Liberazione, oltre che alle iniziative di dialogo e di giudizio di queste settimane, invita a partecipare ai momenti di preghiera per Eluana organizzati dalle diocesi e a promuoverne nei luoghi di vita, di studio e di lavoro.

Da don Giussani abbiamo imparato che «solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino solo da Colui che ne è il senso ultimo possono essere “conservate”, vale a dire riconosciute, conclamate, difese». Tanto è vero che quando viene meno il riconoscimento del Mistero presente nella storia, risulta difficile riconoscere tutta la grandezza dell’uomo.
Per questo invitiamo a pregare per una vita che è affidata al Mistero buono che fa tutte le cose, e perché Dio possa illuminare coloro che hanno responsabilità a tutti i livelli.

l’ufficio stampa di CL
Milano, 6 febbraio 2009.

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eutanasia, cristianesimo, cl

sabato, 15 novembre 2008
CASO ELUANA
Carità o violenza?
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«Capire le ragioni della fatica è la suprema cosa nella vita,perché l’obiezione più grande alla vita è la morte e l’obiezione più grande al vivere è la fatica del vivere; l’obiezione più grande alla gioia sono i sacrifici… Il sacrificio più grande è la morte» (don Giussani).

Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?
Dov’è il punto di origine di una ragione impazzita, capace di ribaltare bene e male e, quindi, incapace di dare alle cose il loro vero nome?
L’annunciata sospensione dell’alimentazione di Eluana è un omicidio. La cosa è tanto più grave in quanto impedisce l’esercizio della carità, perché c’è chi si è preso cura di lei e continuerebbe a farlo.
Nella lunga storia della medicina il suo sviluppo è diventato più fecondo quando,in epoca cristiana, è cominciata l’assistenza proprio agli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura
della città o eliminati. Chi se ne fosse occupato avrebbe messo a rischio la propria vita. Per questo chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro
uomo, per il suo valore infinito perché immagine di Dio creatore.
Così il caso Eluana ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. Siamo strappati al nulla da
Qualcuno che ci ama e che ha detto: «Persino i capelli del vostro capo sono contati».
Rifiutare questa evidenza vuol dire, prima o poi, rifiutare la realtà. Persino quando questa realtà ha il volto delle persone che amiamo.
Ecco perché arrivare fino a riconoscere Chi ci sta donando la presenza di Eluana non è un’aggiunta “spirituale” per chi ha fede. È una necessità per tutti coloro che, avendo la ragione, cercano un significato. Senza questo riconoscimento diventa impossibile abbracciare Eluana e vivere il sacrificio di accompagnarla; anzi, diventa possibile ucciderla e scambiare questo gesto, in buona fede, per amore.
Il cristianesimo è nato precisamente come passione per l’uomo: Dio si è fatto uomo per rispondere all’esigenza drammatica - che ognuno avverte, credente o no
- di un significato per vivere e per morire; Cristo ha avuto pietà del nostro niente fino a dare la vita per affermare il valore infinito di ciascuno di noi, qualunque sia la nostra condizione.
Abbiamo bisogno di Lui, per essere noi stessi. E abbiamo bisogno di essere educati a riconoscerLo, per vivere.
Comunione e Liberazione
Novembre 2008.

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eutanasia, cl

domenica, 12 ottobre 2008
Vedere e commuoversi
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“In questo mondo si parla troppo. Bisogna vedere, vedere e commuoversi. Perché il fare non basta, stanca. Invece il guardare ti commuove e ti muove senza sosta. "

Rose Busingye

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reale, cl

sabato, 11 ottobre 2008
djFrancesco
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da: www.ilgiornale.it n. 243 del 2008-10-10 pagina 25
«Non mi sono mai drogato A tredici anni aiutavo i barboni»
di Valentina Terruzzi
Esce l’autobiografia dello showman «Al liceo ho letto Don Giussani. Da allora voglio dare positività»
da Milano

Mancava giusto un libro. In cinque anni di scorribande nel mondo dello spettacolo,
Francesco Facchinetti ha fatto di tutto: dj, cantante, rockettaro, protagonista di reality e persino conduttore tv. E oggi il figlio di Roby dei Pooh, tolti l'uncino del «Capitano», i boxer da isolano famoso e le cravatte sanremesi, se ne esce con un’autobiografia, o come preferisce dire lui, «un romanzo dove parlo di me stesso»: Quello che non t’aspetti (Sperling & Kupfer, da domani in libreria), scritto a quattro mani con l’autore televisivo Domenico Liggeri «e con l'aiuto di papà, onde evitare che scrivessi scemenze».
Hai appena 28 anni: non è un po' presto per scrivere le tue memorie?
«Anch'io me lo sono chiesto, e infatti questo libro non vuole essere la fine ma l'inizio di un percorso, per sfatare il pregiudizio dei giovani “cazzari”, drogati e bamboccioni. Qualche mese fa mi hanno svaligiato la casa portandomi via tutte le cose di valore, ma grazie ai ladri ho ripensato alle esperienze importanti della mia vita, quelle che mi hanno educato e reso più forte, e le ho trascritte in questo libro».
E sarebbero?
«
Intanto gli anni trascorsi a Gioventù Studentesca, l'organizzazione giovanile di Comunione e Liberazione. Ero al primo anno del liceo classico Don Gnocchi di Carate Brianza. In classe ho letto un libro di don Giussani che diceva: “La felicità è una e sola e si chiama Dio”, e lì ho capito che ognuno di noi è venuto al mondo con una missione. La mia è quella di comunicare, dare agli altri un messaggio positivo attraverso la musica, la tivù, un libro».
Tredici anni, la cresta da punk, e già catechista di un paese vicino, Carugo.
«Insegnavo ai ragazzi più piccoli, partecipavo agli incontri di preghiera e ai pellegrinaggi religiosi.
Ancora oggi i miei più cari amici sono di Cl».
Poi l'incontro con fratel Ettore...
«
Qui il merito è di mia madre che a 13 anni mi ha portato nella comunità Casa Betania di fratel Ettore, a Seveso, che ospitava tossici, alcolizzati, prostitute».
Ti ha portato in comunità perché «ti facevi»?
«
Mai drogato in vita mia. Facevo il volontario. I miei pomeriggi, dai 13 ai 16 anni, li ho passati a contatto con malati di Aids e barboni che andavamo a recuperare nei sotterranei della Stazione Centrale di Milano. Siamo anche andati a Roma a incontrare papa Wojtyla, e lui mi ha notato tra centinaia di fedeli facendomi il segno della croce sulla fronte, come già aveva fatto qualche anno prima a Bergamo, quando fra tanti bambini aveva baciato proprio me».
Quasi un predestinato... Com'è oggi il tuo rapporto con Dio?
«Dio è il mio navigatore satellitare. Mi porta dove voglio andare».
Hai un tatuaggio di San Francesco su un fianco. Perché?
«L’ho fatto tre anni fa. Ad Assisi mi hanno descritto San Francesco come il re della festa, una sorta di “dj” ante litteram, proprio come sono io, che guarda caso porto il suo nome».
Dici anche di sentire delle “presenze”. Non ti sembra di esagerare?
«Sento delle forze che mi guidano, e sento la presenza dei miei cari che mi sono mancati quand’ero piccolo».
Ad allontanarti dall’impegno religioso è stata una passione ancora più grande: la musica. Ti ha aiutato nella carriera essere figlio di un Pooh?
«Mi ha aperto tante porte, per il resto ho fatto tutto con le mie gambe. Io busso alla porta e parlo. Così ho fatto anche con Simona Ventura, con la quale da gennaio riprenderò X Factor».
Nel frattempo a cosa stai lavorando?
«Seguo il casting per X Factor, tutti i pomeriggi sono in onda a Radio Rtl e il sabato conduco Scalo 76 su Raidue con Mara Maionchi».
Mille cose insieme come sempre. Nel libro dici: «Mi piace fare cose che non sono il mio mestiere».
«Io penso che oggi l’importante sia l'energia, il fuoco dentro. I miei idoli, Bob Dylan, Jovanotti, Vasco Rossi non sono espressione del “bel canto”, eppure con un filo di voce hanno fatto la storia della musica. Fiorello non ha una dizione perfetta, ma nel suo campo è un fuoriclasse».
E tu a quale «campo» appartieni?
«E chi può dirlo? Sono tutto e nulla di quello che faccio. Se penso alla meta mentre viaggio, allora ho finito di viaggiare».
grazie a:Luigi di Varese

Postato da: giacabi a 07:48 | link | commenti
canti, cl

sabato, 27 settembre 2008

CARDINALE RATZINGER VENNE IN SARDEGNA PRIMA VOLTA NEL 1993

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Don Felice Nuvoli
responsabile del Movimento Comunione e Liberazione in Sardegna
mio "Testimone"e Responsabile

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cl

sabato, 13 settembre 2008
Andrea Aziani
grazie!***grazie!

 
Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola

A Julian Carron
(direttamente o tramite Alberto Savorana)
Caro Julian,
stamani sono stato svegliato da una telefonata di mia figlia Caterina, che chiamava dalla vacanza del Clu, dove aveva appreso della morte di Andrea. Sono stato a lungo frastornato, in silenzio. Poi ho realizzato quanto Caterina piangeva a dirotto mentre mi dava questa notizia.


Piangeva perché sapeva chi era Andrea per me. Era stato anche il suo padrino di battesimo. Ma in fondo lei lo ha visto pochissime volte perché Andrea partì da Siena quando lei era ancora piccola. L’ha poi rivisto quando tornava dal Perù, ma una manciata di volte. Lo stimava e l’amava perché vedeva quanto io e Alessandra lo stimavamo e lo amavamo. Ma, secondo me, Caterina piangeva anche e soprattutto di commozione per sé, perché sapeva bene che la sua propria vita, la sua chiamata dal nulla all’esistenza, Dio l’aveva realizzata proprio grazie al “sì” di Andrea che venendo a Siena ha fatto fiorire la giovinezza mia e di Alessandra, che così, in questa storia, siamo diventati poi suo padre e sua madre. Il suo stesso nome, Caterina, porta il segno di quel incontro che ci ha fatto riscoprire e amare con entusiasmo i santi della nostra terra.
E’ bello un destino che ti raggiunge con il volto di Andrea. Un mio amico mi ha detto: da anni, quando prego e dico Gesù Cristo, è anche il volto di Andrea che mi viene alla mente.
Sono così tante le cose che vorrei raccontarti, ma è anche così forte il groppo alla gola, la commozione per avere avuto in dono amici, fratelli, padri come Andrea. Che mistero è questo, che crea un legame più forte della carne e del sangue! E che infinita compassione ha avuto Dio di noi, per mandarci in dono amici così belli! E che commozione sentire i propri figli vibrare e commuoversi per le stesse cose e gli stessi volti che fanno vibrare e commuovere noi. Che spettacolo vedere le loro giovinezze fiorire allo stesso caldo sole che ha fatto fiorire le nostre giovinezza e che continua, per infinita tenerezza, ad alimentarle. Creando un popolo di uomini, donne e bambini commossi e grati.
Mi viene solo da dire – correggendo Pasolini – “oh generazione fortunata!”. La nostra, la mia. Che immensa, struggente fortuna è infatti essere raggiunti dal nostro destino tramite volti così.
Io incontrai Andrea e Dado il 16 gennaio 1977, alle ore 12. Era il compleanno di Andrea e due giorni dopo era il mio diciottesimo compleanno. Ma io nacqui allora, in quell’incontro. Letteralmente.
Ho sempre pensato che il Signore aveva scelto per me le persone più adatte (le più adatte a me) per farmi conoscere la sua bellezza e a donarmi la sua amicizia.
Julian, Andrea era un santo. Un uomo vero. Sinceramente io non ne ho incontrati molti come lui. Per me era e resta senza paragoni. Mi accorgo ora che il suo “dies natalis” è stato per la festa di S. Ignazio di Loyola: noi abbiamo sempre avuto la sensazione che lui fosse come uno dei primi sei compagni di Ignazio.
Quando vedemmo il film “Mission” subito dicemmo tutti: ma questo è Andrea. Quello che scala la cascata, inerme, per raggiungere i Guaranì, dopo che han buttato giù un altro gesuita crocifisso. Quei piedi nudi che scalano la montagna sotto la cascata per il compito (e l’irresistibile desiderio) di annunciare Gesù a tutti, a qualunque costo, era Andrea.
Sarà perché ha sempre desiderato ardentemente andare in missione e andare in Sud America, ma lui era di quella tempra lì. Ardeva… Fac ut ardeat cor meum…(una radicalità in cui emergevano le sue ascendenze ebraiche e che lo faceva assomigliare a san Paolo)
. Ovviamente l’abbiamo tante volte preso in giro nei frizzi per la sua instancabilità e certi suoi aspetti buffi e lui ne rideva di cuore, ma che forza, che bellezza, stare con lui, stare dietro di lui, anche se aveva un passo molto, molto spedito. La giovinezza è avere quel cuore lì. E io voglio ancora stargli dietro. Ora più che mai, aiutandolo da qui a fare sfracelli lassù, come ha fatto quaggiù.
Era sempre sorridente, pacificato e felice, ma per lui non esisteva né il caldo né il freddo, né il bisogno di mangiare, né di bere, né di dormire… in qualunque luogo ci fosse bisogno di Cristo lui c’era, infatti era dappertutto, questo era il suo instancabile “movimento” quotidiano, di ogni ora e di ogni minuto, il suo stesso respiro. “Per guadagnarci un posto in Purgatorio”, diceva lui ridendo e sollevando le nostre rumorose proteste. Era una battuta, ma che diceva quanto lui facesse tutto con la gratuità del “servo inutile”, di chi sa che è Dio che opera e che converte. Pur non concedendosi un minuto di riposo, ci ripeteva: “non è che dobbiamo noi salvare il mondo. Noi dobbiamo solo non ostacolare il Signore. Dobbiamo solo non impedirgli di salvare tutti”. A pensarci è una rivoluzione. Infatti lui si faceva quasi trasparente, per evitare che chi lo incontrava non si accorgesse di Gesù. Delle tantissime altre cose che vorrei dirti e che qui non posso dirti, ne scelgo una, per me la più preziosa, quella che da anni, ogni volta che ci penso, mi strugge il cuore, riempiendomi di gratitudine e anche di vergogna di me.
Ho conosciuto tanti che testimoniano Gesù con ardore, con intelligenza e cuore. Ma la particolarità di Andrea – che non dimenticherò mai! – era questa: in lui non c’era un atomo, neanche remotissimo, di amor proprio. Lui si faceva tutto con tutti. Sembrava che la sua sola felicità fosse che io (e tutti quelli che incontrava) fossi felice. Sembrava che la sua realizzazione fosse che io realizzassi il mio destino. Come un padre e una madre, ma di più, perché più gratuitamente (in fondo in noi genitori c’è sempre l’orgoglio dei “nostri” figli)In ogni suo gesto, in ogni sfumatura, in ogni sua attenzione o parola, sempre e in tutto, lui affermava sempre e solo te, ognuno di coloro che Dio gli aveva affidato. Mai sé. Mai avevi la sensazione che stesse difendendo qualcosa o affermando un suo punto di vista o cercasse una gratificazione. E’ difficile da spiegare, ma io non ho mai conosciuto un’umiltà così grande: sembrava appassionato a cancellare se stesso per affermare e costruire la tua felicità, il tuo destino. Perché si sa quanto – anche nella più eroica carità o nella più eroica ascesi – a volte possa nascondersi l’orgoglio, soprattutto l’orgoglio spirituale che è il più insidioso. Anche nell’autoumiliarsi a volte c’è un’ostentazione che dà spazio al proprio “io”. Niente di tutto questo c’era in Andrea. Sembrava che lui non avesse neanche più un “io”. Viveva ogni respiro per Lui, perché ognuno trovasse il suo destino, cioè Lui: il suo “io” era letteralmente assorbito in Colui per cui respirava e per cui batteva il suo cuore. Tu avevi sempre la sensazione, certa, che quell’uomo, per te, avrebbe dato la vita. In ogni momento. E senza alcuna ostentazione. In silenzio. E’ incredibile a dirsi. Uno spettacolo per gli angeli. E io sono certissimo che, oltre a dare tutto se stesso, il suo tempo, le sue energie, la sua intelligenza, per la missione, io sono certo che si è offerto esplicitamente. Per noi, per tutti noi. Penso, con le lacrime agli occhi, anche per me. Per tutte queste cose devo e voglio onorare mio padre e la casa di mio padre. E sento che c’è l’urgenza di convertirci. Per diventare come lui forse no, ma almeno per assomigliargli. Innanzitutto cominciando dal primo passo, per me difficilissimo: l’umiltà. “Lasciarsi portare dal legno della Sua umiltà”, come dice s. Agostino. Lasciarsi portare… Se pensi che per questo possa tornare nella Fraternità, io ne sarei felice.
Un abbraccio,
Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola

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testimonianza, cl, aziani

venerdì, 12 settembre 2008
Quel meeting ci batterà
Di  GIAMPAOLO PANSA
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La ruota della storia ha cominciato a girare nel senso opposto. Solo i califfi del Pd non se ne sono accorti



Al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini c'ero andato molti anni fa. Era l'agosto del 1986 e dovevo discutere di informazione con Enzo Biagi, il moderatore era Robi Ronza. In seguito mi avevano invitato altre volte, ma per qualche motivo non ero riuscito a tornarci. Quest'anno ho accettato e il 27 agosto ho risposto alle domande di Alberto Savorana, il portavoce di Cl. Il tema dell'incontro recitava 'La passione per la storia' e lo scopo era discutere dei miei libri sulla guerra civile italiana. Il primo choc è stato di trovarmi di fronte a una platea di mille persone, venute per capire che tipo sono. E molte altre mi aspettavano fuori da quel salone strapieno, per ringraziarmi, per stringermi la mano, per incitarmi ad andare avanti.

Che scoperte ho fatto quella sera e il giorno successivo, nel vagare per il Meeting? Soprattutto tre. La prima che
lì c'era un popolo, ossia una folla sterminata di gente comune, però non qualunque. Spesso di condizioni modeste e a famiglie intere. E tutti avevano nel cuore il desiderio di stare insieme, ma anche di incontrare persone diverse da loro. La seconda scoperta è stata che questa gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando.

Nessuno mi ha fatto l'analisi del mio sangue politico.
Nessuno mi ha chiesto per chi avevo votato. Nessuno mi ha domandato se preferivo Berlusconi o Veltroni. Erano soltanto interessati a sapere perché avevo scritto quei libri, che cosa mi aveva mosso a fare quel passo e se intendevo proseguire lungo quella strada. Era il mio percorso umano che volevano scrutare, con lo sguardo attento dell'amicizia: il mio viaggio alla ricerca della verità e di me stesso. E ogni volta mi sono sentito ascoltato e mai giudicato. Non mi era mai successo.

La terza scoperta sono stati i giovani che lavoravano al Meeting , dalla mattina sino a tarda sera. Confesso che non voglio mai occuparmi dei giovani. La mia distanza da loro è ormai troppo grande, e non solo a causa dell'età. A Rimini ne ho incontrati un esercito. Erano più di 3 mila per far girare al meglio la macchina. Tutti volontari, tutti venuti a loro spese. Luigi Amicone, il direttore del settimanale 'Tempi', mi ha raccontato che ne erano arrivati 14 dal lontanissimo Kazakistan, stretto fra Russia e Cina. Pagandosi il viaggio e soltanto per pulire i bagni.

Nell'osservare il mondo del Meeting mi sono ricordato del vecchio motto di un presidente francese: François Mitterrand. Aveva vinto le elezioni con lo slogan: 'Una calma forza tranquilla'. Anche i ciellini sono così. E anche per questo vinceranno. Diventando sempre più forti in un'Italia nevrotica che non crede in niente, strozzata dal relativismo, senza più passioni o aggrappata a brandelli di passioni consunte che non sono più una bandiera.

Uno che l'ha capito subito è un'astuta eccellenza del Partito Democratico: Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds e grande esperto delle vecchie Feste dell'Unità. Quando è arrivato al Meeting, ha iniziato a girare, a guardare, ad ascoltare. E ha concluso:
"Devo ammetterlo, siete più bravi di noi. Per vedere la nuova Festa dell'Unità bisogna venire da voi a Rimini".

A qualche ciellino si sarà accapponata la pelle nel sentir paragonare il Meeting alle defunte feste comuniste. Ma Sposetti ha visto giusto. Proviamo a pensare alla Festa nazionale del Pidì a Firenze. Quasi tutte le sere, per capire che roba sia, mi guardo Nessuno tv che fa le dirette dei dibattiti alla Fortezza da Basso. Se fossi Veltroni oscurerei quell'emittente. E rinuncerei a metter su la tivù del partito. Che strazio il cabaret dei sopravvissuti! Vecchie facce che danno aria ai denti per dimostrare di essere in vita. Litanie logore, spesso urlate di fronte a molte sedie vuote o ai volti annoiati di militanti più anziani di me.

Mi godo lo spettacolo con un sentimento doppio. La maligna goduria di aver fatto bene ad avere cattivi pensieri sulla sorte delle sinistre italiane. E l'angoscia di vedere sparire un mondo nel quale anch'io ho creduto. Poi mi dico: forse la ruota della storia ha già cominciato a girare nel senso opposto. E i superbi califfi del Pidì e delle altre parrocchie rosse non se ne sono accorti.

Ripenso al meeting di Rimini e concludo: maledetti ciellini, ci sconfiggerete. Anzi ci avete già battuti. Come diceva la favola del cavaliere che combatteva senza accorgersi di essere già morto? È il caso della sinistra di oggi. Speriamo che i vincitori ci offrano almeno l'onore delle armi.

Postato da: giacabi a 20:08 | link | commenti
cl


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