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domenica 5 febbraio 2012

comunismo, 2

A 25 anni dalla morte,
 la Polonia ricorda padre PopieÅ‚uszko, martire della fede e della libertà
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Postato da: giacabi a 20:51 | link | commenti
comunismo

lunedì, 12 ottobre 2009
Gli uomini liberi
e il Comunismo
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comunismo variante cinese

Postato da: giacabi a 20:06 | link | commenti
comunismo

domenica, 20 settembre 2009

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Unita 

Eugenio Corti racconta Caprara: dall'ideologia alla scoperta del vero bisogno umano

da Il Sussidiario (17/06/2009)

Massimo Caprara, l’ex segretario di Togliatti, il fondatore de Il Manifesto, è morto ieri all’età di 87 anni lasciando un’enorme testimonianza storica e un’eredità culturale che ancora dev’essere pienamente compresa. Abbandonato il Partito Comunista Italiano per abbracciare il cattolicesimo ha trascorso il resto della propria vita a combattere l’ideologia a lungo sostenuta, denunciandone i crimini e, come lui stesso disse, “la mancanza di umanità”. Abbiamo chiesto a Eugenio Corti, anch’egli diretto testimone delle tragedie che le ideologie del secolo passato scatenarono sul mondo e amico di Caprara, di raccontarci quale fosse la statura umana di questo eccezionale personaggio.

«La Verità è una cosa povera, umile, il Vangelo è stato scritto con pochissime parole, ma dal grande significato, è la storia dell’uomo e dell’umanità intera: “Perché mi hai abbandonato?”. È Dio che vive la povertà dell’uomo: la mia povertà è la verità, la mia verità è povera, non posso raccontare null’altro che questo. E tutto quello che ti accade nella vita, il lavoro, gli amori, diventa secondario rispetto all’avvenimento che ti è capitato, necessario ma secondario. Adesso mi sento di essere veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario».

Eugenio Corti, come commenta questa frase di Massimo Caprara?
Dà l’idea dell’uomo che era. C’è in questa frase tutta la persona di Caprara, trascinato nel comunismo dall’amore per i poveri e per gli esseri umani si è reso conto che la loro salvezza non è quella prevista da Karl Marx, ma quella segnata da Gesù Cristo. Ha scoperto questa cosa semplice e al contempo profondissima trovando in lui stesso la povertà. Ossia non considerandosi come il ricco distributore di una dottrina da impartire ai poveri, ma come egli stesso povero e quindi partecipe realmente dei bisogni umani. Questa è la vera rivoluzione.

Che uomo era a livello personale Massimo Caprara?
L’ho incontrai più volte nel corso della mia vita, ho avuto questo grande onore. Ebbi modo di ammirare in lui soprattutto la dirittura morale, oltre a un’innata gentilezza. Era un uomo passato attraverso un’immane tragedia nell’ordine dello spirito e della cultura. Caprara aveva fermamente creduto in un ideale che gli si era rivelato addirittura mortifero. Non solo negativo, non solo sbagliato, ma produttore di morte. Una scoperta che lo segnò nel profondo, ma che non lo spense. Nel corso dei rimanenti anni della sua esistenza ha sempre cercato di spendere la propria intelligenza e il proprio tempo in un’opera di recupero umano. La sua partecipazione ad azioni che poi dovette giudicare come negative non fu per lui causa di un ritiro dal mondo da trascorrere fra i rimorsi e l’inazione, bensì rappresentò una spinta inesorabile e controcorrente alla riparazione del male compiuto.  E questo soprattutto in ambito culturale. Non è da tutti riuscire a rinnegare un’intera vita spesa per un ideale e ancor di più impiegare le proprie restanti energie per fare marcia indietro.

Qual è stato il fattore decisivo del suo cambio di orientamento politico e ideale?
La mia impressione è che Massimo Caprara sia stato al centro di una progressiva scoperta della Verità. A partire da un’intuizione sulle contraddizioni intrinseche alla storia del suo partito, dovuta forse all’estrema coerenza morale che l’ha sempre caratterizzato, un po’ alla volta è emersa in lui, sempre più chiaramente, la coscienza dell’errore di fondo dell’ideologia nella quale si rispecchiava. E sempre più cominciò a mettersi al servizio della Verità. La sua apertura e il suo cammino al servizio della verità lo hanno portato alla conversione al Cattolicesimo. Gli effetti di questo rinnovato rapporto con la religione furono altrettanto radicali nei giudizi espressi sul PCI.

A questo proposito. Caprara ha spesso denunciato il tentativo del PCI di appropriarsi ambiguamente di alcuni riferimenti culturali cattolici anche mediante particolari “amicizie” in ambito ecclesiastico. È d’accordo con questo tipo di osservazione?
Sono perfettamente d’accordo. Caprara ha disposto per gran parte della sua vita di un osservatorio straordinario, quello conferitogli dal ruolo di segretario di Togliatti. Aveva quindi sott’occhio il “capo” e tutto il mondo che lo circondava, giorno per giorno. Fu testimone delle azioni di Togliatti e della sua incredibile spregiudicatezza, anche nei riguardi del Cattolicesimo. Ed in effetti Caprara, anche da militante, ha sempre malvisto l’ambiguo rapporto fra il PCI e i cattocomunisti alla Franco Rodano. Non tollerava il connubio di “diavolo e acqua santa”, sebbene lo stesso Togliatti fosse anch’egli dell’idea di tener ben separate le “fazioni”. Il giudizio negativo sull’ambiguità nei confronti della Chiesa non si limitava dunque al solo capo, ma a tutta la schiera dei luogotenenti che lo attorniavano, assai più desiderosi di accaparrare sostenitori fra i cattocomunismi, di fare “tutt’uno” con loro.

Fu dunque un’accusa che non risparmiò nessuno.
Fu un’accusa ferma verso l’ideologia e le persone che la incarnavano in Italia e all’estero. Va detta però una cosa molto importante: nel rinnegare il proprio passato non fu mai una sola volta aggressivo o astioso contro alcuno. Individuò con grande chiarezza l’errore di fondo che risiedeva nel Partito Comunista e nella sua intellighenzia, ma non rinnegò mai nessuna amicizia. Questo è un concetto difficile da esprimere in occasione di un ricordo, perché di un morto solitamente non si può parlare che bene. È però oggettivo riconoscere la grande nobiltà d’animo con la quale Caprara trattò le persone con cui era stato in stretti rapporti per lunghissimi anni. Una nobiltà che non fa di lui né un crociato né un fanatico, ma solo un uomo al servizio della verità.

Oltre ai membri del PCI denunciò atteggiamenti scorretti anche da parte dei rappresentanti del mondo cattolico di sinistra?
Altroché. C’è stato tutto un circondare Togliatti da parte di servili personaggi della cultura cattolica. Fra i “migliori” si può pensare a De Luca per esempio o allo stesso Rodano. Ma ricordo, e parlo a titolo personale, personaggi che non voglio citare che si sono letteralmente sbracati nel seguire Togliatti, sostituendolo praticamente alla figura del Papa. Persone che si comportarono davvero con grande ignobiltà e il cui atteggiamento Caprara condannò al pari, se non peggio, di quello dei suoi compagni.

Come commenta l’isolamento che Massimo Caprara subì da parte del partito comunista una volta venuto alla luce il suo “cambio di rotta”?
Era inevitabile che venisse isolato. Ma devo dire che nel suo caso non è stato attaccato con violenza e virulenza. Certamente è stato “dimenticato”, “vaporizzato”, ma non si è voluto infierire contro di lui. Probabilmente temevano, attaccandolo con più forza, che egli affondasse ancor di più la lama nell’esame dei loro comportamenti sbagliati. Una paura meschina, se si giudica quanto ho detto di questo personaggio. Si sono limitati a considerarlo un uomo perduto, un individuo negativo, ma non c’è stata l’aggressione che avrebbe potuto esserci: hanno avuto paura del vecchio maestro e della sua miniera di ricordi.

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L’ultimo sguardo di Massimo Caprara, nel racconto di un amico


di Stefano Nembrini,
da Il Sussidiario (17/06/09)


L’ultima volta che l’ho incontrato, Massimo Caprara non poteva più parlare. Entrando nel suo studio avevo provato una stretta al cuore, pensando a quanto dovesse essere difficile per lui. Aveva consacrato la sua vita alla testimonianza del miracolo che gli era accaduto. E adesso faticava perfino a salutare un amico. Mi ero chiesto, quasi irritato, perché il Signore lo stesse privando proprio dello strumento con cui aveva conquistato i cuori di centinaia di persone, compreso il mio. Eppure, quel giorno, non avevo potuto fermarmi alla rabbia. Un istante dopo lo avevo guardato negli occhi. E quello sguardo, lo sguardo in fondo con cui ci siamo congedati, mi si è piantato nel cuore. In quel volto di ottantenne erano due occhi da bambino che mi sorridevano, pieni di letizia.

“Come può un uomo nascere quando è già vecchio?”. Forse è proprio lo stupore di Nicodemo che meglio descrive la mia amicizia con Massimo. In fondo è stato il rinnovarsi, ogni volta con maggiore intensità e coscienza, di questa domanda.

Fin dal primo incontro, quando con alcuni amici lo ascoltammo ad un convegno a Milano: ci colpì fin da subito la nettezza del giudizio rispetto al suo trascorso nel Partito Comunista, (“inconsapevole prigioniero di una terribile ideologia”). E nello stesso tempo il coraggio e l’energia di un uomo che non solo si era lasciato quel passato alle spalle, ma che viveva ora una grande domanda: “Adesso sono solo un uomo in cerca della verità”. Insomma, ci aveva incuriositi. Fu così che lo invitammo al liceo scientifico di Trescore, frequentato da alcuni di noi; il consiglio d’istituto aveva approvato il progetto all’unanimità, orgoglioso di ospitare un così degno rappresentante del Partito. Si erano persi qualche passaggio della vita di Caprara. Ma non fu tanto l’incontro, pur entusiasmante, a sconvolgerci quel giorno. Fu il pranzo che seguì, a casa di uno degli organizzatori. Quando Massimo parlò di sé, del suo cammino degli ultimi anni, del paziente risvegliarsi di quell’anelito religioso rimasto sopito per tanto tempo, ma mai scomparso del tutto, custodito nel tenero ricordo della madre. Quando Massimo, di fronte a tutti noi, si commosse, pronunciando il nome dell’unico che poteva offrire quella verità tanto desiderata: “Cristo”. Ma che uomo era costui? Non potevamo abbandonarlo.

Così con i primi anni di università incominciarono anche le visite a casa Caprara, un appartamento seminascosto in centro a Milano. Io, Amir, Elena, insieme a Gianni Mereghetti, e poi altri ancora. Prima con il sacro timore di chi si accostava ad un monumento, ad un’autorità: uno che aveva vissuto spalla a spalla con Togliatti, che aveva stretto la mano a Stalin, che aveva scritto la nostra Costituzione; e poi, col passare del tempo, con sempre maggior familiarità e cordialità. Si moltiplicavano così gli incontri, i pomeriggi passati con lui e la sua devotissima moglie Iolanda. Sui divanetti del suo studio, a dialogare di storia e politica, o per l’Italia, accompagnandolo in alcuni dei suoi innumerevoli incontri.

E poi quel pomeriggio, scioccante. Io e Amir stavamo uscendo dal suo appartamento dopo una delle consuete visite; sulla soglia Massimo ci guarda e scoppiando a piangere ci dice: “Grazie, voi siete le mie colonne”. Tornammo a casa in silenzio, sconvolti: cosa stava accadendo? Cosa avevano due ventenni da insegnare ad un uomo così? Non ce ne eravamo ancora accorti. Semplicemente eravamo di fronte ad un miracolo. Lentamente, attraverso l’amicizia con noi, attraverso quel primo Meeting a Rimini, attraverso l’incontro con don Giussani nei suoi testi, Massimo stava iniziando la sua Vita Nova, come la definì. L’uomo che aveva pianto solo di fronte a Stalin, ma per il freddo di Mosca, adesso si commuoveva non di fronte a noi, ma di fronte alla tenerezza della presenza di Cristo, nella nostra e nella sua vita.

La sera stessa gli scrissi, ringraziandolo per la promessa che la sua vita mi aveva testimoniato. La sua risposta fu impressionante, come sempre: “Siamo uniti da una fruttifera amicizia che si fonda sull’Avvenimento, sull’Incontro, sull’Annunzio. Non vi sono, in questo, gerarchie, anzianità, qualifiche, ma solo una comune letizia per la Scoperta [...] l’inesauribile capacità non del passato, né dell’utopia, ma dell’attualità incondizionata della Presenza”.

Abbiamo così avuto in questi otto anni, semplicemente, una grande grazia: godere dell’amicizia di uno che, incontrando Cristo, si è riscoperto uomo. E ci ha aiutato a riscoprirci tali.

Si può nascere quando si è già vecchi? Sì. Ed è una promessa per tutti.


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L'ex segretario di Togliatti che sfidò il comunismo

di Mario Cervi,
da Il Giornale (17/06/09)

Se n’è andato, con Massimo Caprara, uno dei grandi testimoni delle vicende politiche italiane nel secolo scorso. Caprara è stato uno dei personaggi esemplari di quella stagione insieme drammatica e affascinante del nostro Paese in cui uomini di grande levatura intellettuale e morale compirono un percorso tortuoso e difficile tra le ideologie e le eresie: fino al traguardo d’un distacco ironico o diffidente dalle une e dalle altre, per alcuni. E per altri al traguardo d’una nuova solida fede. Caprara è stato, come attivista politico e come giornalista, un privilegiato. Lo è stato come segretario particolare, per vent’anni, di Palmiro Togliatti. Del leader comunista ha saputo e capito tutto quel che c’era da sapere e da capire, sul piano personale e sul piano politico.

Al Migliore ha dedicato moltissime pagine, tutte interessanti. Le ha scritte senza mai aver l’aria di volersi avventare contro il capo rinnegato. Ha scelto piuttosto la strada dell’analisi ragionata e del racconto sobrio, acuto, efficace. Manteneva lo stesso tono anche quando, a quattr’occhi, si ragionava della sua
lunga militanza nel PCI che lo fece sindaco di Portici, per quattro legislature lo mandò a Montecitorio, gli affidò compiti delicatissimi. Sì, la conoscenza con Togliatti - Caprara era un intelligente ragazzo di buona famiglia napoletana subito preso in simpatia dal leader comunista appena rientrato in Italia - rappresentò la prima svolta decisiva della sua esistenza. Diligente, efficiente, abile, capace di tacere, Caprara riuscì a conquistare la totale fiducia del suo capo.

La seconda svolta venne nel 1969, quando insieme agli altri fondatori del Manifesto - in particolare Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rossana Rossanda - Caprara si mise in rotta di collisione con il segretario del PCI, Enrico Berlinguer. Era stato spiegato a Berlinguer che la nuova pubblicazione non aveva «intenzioni frazioniste», voleva solo fare «ricerca teorica». Ma quando il Manifesto uscì fu chiaro che andava ben al di là. Il PCI veniva scavalcato a sinistra da ribelli che non ammettevano cedimenti borghesi, ma che nel contempo avevano criticato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia con toni ben diversi da quelli felpati della dirigenza comunista.
Questi comunisti dell’ala sinistra avevano dissentito dallo stalinismo più per le caratteristiche conservatrici che per quelle dispotiche e guardavano alla Cina maoista come a un nuovo, praticabile modello. Con durezza furono tutti radiati dal PCI.

Caprara si rimproverò sempre per non aver lasciato il partito nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria, e per avere assistito, allora, all’umiliazione di Giuseppe Di Vittorio che aveva deplorato l’attacco all’Ungheria e che fu costretto da Togliatti a una umiliante ritrattazione. «Imre Nagy - ha scritto Caprara - attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958. Nonostante simili gravissimi eventi io allora non uscii dal partito... Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia». Imboccato il difficile cammino dei dubbi, Caprara non s’acquetò nemmeno nel Manifesto. Già molto prima che eventi di portata storica sgretolassero l’Unione Sovietica e relegassero il comunismo nei ripostigli della storia, Caprara aveva visto crescere le sue diffidenze. Le utopie svanivano, avveniva in lui una conversione politica che fu anche una conversione religiosa. Raccontò d’essere stato afferrato «dalla mano dolce e potente di Cristo tramite don Luigi Giussani, che pure non ho mai visto di persona». Anche gli ambienti del Manifesto erano toccati dalla parola di don Giussani: «Giussani diceva cose più interessanti. In lui vedevano qualcosa che non vedevamo in nessun altro. Non siete rivoluzionari, diceva, voi non cambiate affatto la persona, non cambiate né la vita né la persona».

In questo tragitto s’avvicinò al Giornale, o piuttosto s’avvicinò a Indro Montanelli che dei fasti e nefasti comunisti era curiosissimo, e che aveva sempre letto con attenzione ciò che Caprara andava narrando e commentando. E poi a Indro piacevano i convertiti - essendolo stato lui stesso - quando erano in buona fede e sapevano presentare il loro cambiamento in maniera «interessante». Volle arruolare Caprara, nel 1986, e non ebbe motivo di pentirsene. La collaborazione di Caprara al Giornale fu assidua, molto apprezzata da Indro e utilissima. Quando capitava un fatto o un lutto che riguardasse gli anni del comunismo, in particolare quelli in cui Massimo Caprara era stato al fianco del Migliore, ricorrere a lui era automatico: e non si faceva pregare.

Col tempo aveva maturato idee che da una parte curiosamente lo avvicinavano ai fautori dello «scontro di civiltà» (c’è l’asse islamico e c’è l’asse cristiano di Bush e Putin), e da un’altra lo portavano a rivalutare l’epoca della Guerra fredda quando i comunisti erano seri e i conservatori anche. E Togliatti sapeva essere pragmatico quanto il più cotennoso conservatore. Sulla sua straordinaria esperienza umana e intellettuale, Caprara ha pubblicato molti libri penetranti e innumerevoli articoli e saggi. A essi dovrà sempre riferirsi chi si occuperà, negli anni e decenni futuri, di comunismo, di anticomunismo e di politica in generale. Caprara era e rimane nelle sue opere un riferimento importante e indispensabile.

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L'uomo che svelò l'orrore del comunismo italiano

di Ugo Finetti,
da Libero (17/06/09)


L’eccezionalità di Massimo Caprara consiste nel fatto che è studiando la sua figura e i suoi scritti che si trovano le ragioni ideali sia del comunismo sia dell’anticomunismo.

Aveva solo 22 anni quando Palmiro Togliatti lo convocò nel suo improvvisato domicilio napoletano appena rientrato da Mosca per nominarlo caporedattore di Rinascita dopo che Caprara si era fatto notare come direttore della rivista Latitudine con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Napolitano e Antonio Ghirelli. Era il primo maggio 1944 e da allora Caprara seguì Togliatti per vent’anni affascinato da una personalità che rappresentava ai suoi occhi la più radicale rottura con un passato dell’Italia costellato da avvenimenti nefandi e figure compromesse. Dire che fu per tutto quel periodo solo “segretario particolare” del Migliore è però errato perché Caprara, dal 1944 fino alla morte di Togliatti nel 1964, ricoprì una molteplicità di incarichi elettivi e di partito a livello napoletano e nazionale (consigliere comunale a Napoli, sindaco di Portici, segretario regionale della Campania, deputato e quindi segretario del gruppo comunista di cui Togliatti era presidente).

Come è potuto diventare da fedelissimo un eretico? È l’itinerario che si consuma attraverso ruoli e battaglie che man mano lo portano sempre più ad avere di fronte non tanto avversari esterni, ma soprattutto interni nel Partito. A Napoli diventa uno degli esponenti di punta; fine intellettuale è capace di avere un seguito popolare. Sindaco di Portici, è poi il battagliero
capogruppo comunista al Comune di Napoli con Achille Lauro sindaco. È a lui che il regista Francesco Rosi si ispira quando gira Le mani sulla città. Alle elezioni politiche del 1963 entra alla Camera dei Deputati con 94 mila preferenze scavalcando il “delfino” di Amendola, Giorgio Napolitano, di 16 mila voti. Gliela faranno pagare. L’anno successivo, morto il Migliore, i “togliattini” - Ingrao, Berlinguer e Caprara - conoscono un periodo di declino. Ma con il ’68 il PCI si sposta a sinistra e Amendola finisce in minoranza. Tornano in primo piano Ingrao e Berlinguer, ma ben presto nasce il problema di fino a dove può andare il 1968 nel PCI. Il confine è tracciato dalla fedeltà all’URSS di fronte alla invasione della Cecoslovacchia. La “riprovazione” del PCI è di corta durata e quando Caprara insieme con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri fonda la rivista Il Manifesto insistendo nella critica all’URSS si va verso la rottura. Ingrao fa marcia indietro, Berlinguer assume il ruolo di inquisitore (con cui si guadagna la successione a Longo) e il gruppo del Manifesto è radiato dal PCI. Caprara è il caso più clamoroso perché è il dirigente con più seguito e il comitato direttivo di Napoli che deve prendere il provvedimento disciplinare è riluttante. Questa pagina del Manifesto è solitamente cancellata. Caprara ha subito una doppia “radiazione”: dal PCI e dai giornali di sinistra (Corriere della Sera incluso). È la radiazione che lo faceva più soffrire negli ultimi anni. Perché Caprara doveva essere punito, escluso? Perché non era più di sinistra e quindi le fotografie del passato vengono ritoccate. Caprara dopo l’esperienza del Manifesto ebbe una “seconda vita” come autore di indagini giornalistiche e ricerche storiche dalle colonne del Mondo a quelle dell’Espresso e poi del Giornale. Ben prima della caduta del Muro di Berlino, Massimo Caprara ha disegnato la parabola di un’idea comunista che da promessa di liberazione e di verità aveva costruito un mondo politico-culturale di coercizione e di menzogna. Nei suoi libri - da Togliatti e il Komintern a Gramsci e i suoi carcerieri, da Quando le Botteghe erano oscure a L’inchiostro verde di Togliatti - ha ripercorso la storia del comunismo italiano evidenziandone il doppio fondo.

La rievocazione ad esempio di una serie di missioni delicate affidategli da Togliatti (deve andare in Francia ad indagare sul ginepraio dell’arresto e fuga di Togliatti a Parigi allo scoppio della guerra, incontrare l’avvocato della Sacra Rota a cui è affidato l’inventario e il riciclaggio di una parte dell’oro di Dongo, occuparsi del figlio “segreto” del segretario che soffre in un orfanatrofio di Mosca) non è solo denuncia, ma presa di coscienza che nel corso degli scritti lo conduce al dialogo con il mondo cattolico, all’incontro con Comunione e Liberazione, a quella che egli amava chiamare «la frequentazione» di don Giussani come di San Josemaria Escrivá.

Questo itinerario era da lui motivato in riferimento alle parole “persona” e “libertà”. Il dato di fondo che lo portava a respingere l’idea comunista non era soltanto quanto era accaduto al di là del Muro di Berlino ma soprattutto la “diversità” del mondo comunista italiano.
In relazione a precisi episodi, inorridiva di fronte a questa “diversità” che si risolveva in una comunità di persone che liberamente decidevano di autocensurarsi e cioè di vivere sotto il regime del centralismo democratico costruendo nella società italiana una énclave, un mini Paese dell’Est in cui si viveva sacrificando la propria libertà alla ragion di partito. Il sacrificio della libertà - e della verità - era per Massimo Caprara una scelta di vita aberrante. Quando si passavano in rassegna alcune figure storiche che ancora oggi vengono additate come Padri della Patria egli commentava lapidariamente: «Un assassino».

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Riccordo di un rivoluzionario vero

di Gianni Mereghett,
da Tracce (17/06/09)


Massimo Caprara è tornato tra le braccia del Padre dopo una vita di grande intensità, segnata da una tensione insopprimibile al vero, da una ricerca appassionata del Mistero della vita. Segretario di Palmiro Togliatti negli anni duri in cui dominava l’ideologia si è sempre lasciato interrogare dalla realtà, tanto che i drammatici avvenimenti del 1968 a Praga lo portarono a lasciare il Partito Comunista Italiano e a fondare il gruppo del Manifesto. Massimo non poteva accettare che un popolo fosse privato del bene della libertà come non poteva accettare il consenso, altrettanto colpevole, di chi anteponeva la scelta di parte alla difesa dell’uomo e del suo desiderio.

Da qui iniziò il suo lungo, instancabile cammino alla ricerca di ciò che potesse abbracciare pienamente le sue esigenze umane. Fino alla scoperta della fede.

Il Meeting di Rimini rappresentò un punto di riferimento fondamentale del suo percorso. Il primo incontro con il Meeting fu durante l’edizione del 1999, in occasione dell’omaggio a Eugenio Corti. Caprara aveva già messo in discussione il suo passato, anche se non lo rinnegava, ma cercava in esso quella libertà che avrebbe potuto portarlo alla fede. Affermò di «non essere ancora un credente, ma di sentire il bisogno di trovare la fede». Il Meeting lo colpì per la passione umana e la tensione al vero che lì incontrò. Per questo vi tornò nel 2000, a presentare ancora una volta un testo di Eugenio Corti (L’isola del Paradiso) e poi nel 2001 e nel 2002, ogni volta testimoniando un passo in avanti in questo suo cammino ad abbracciare il Mistero, così da esserne abbracciato fino a «riscoprirsi uomo», come recita il titolo della sua autobiografia in cui racconta la storia della sua coscienza.

L’incontro con tanti giovani e tanti uomini in cui la fede rispondeva all’umano è stato decisivo per Massimo. È stato un incontro a segnare la sua vita, un incontro a compiere tutte le esigenze del suo cuore, e in questo incontro è nata la coscienza di essere stato chiamato dal Mistero ad una strada in cui la sua umanità si sarebbe realizzata. Lo disse con decisione e certezza proprio al Meeting del 2004, presentando Riscoprirsi uomo. Storia di una coscienza:
«Certamente sono stato chiamato, perché non si può passare da soli da una grande solitudine a una grande fede». Una fede che ha fatto di lui quel rivoluzionario che aveva sempre voluto essere. Sempre al Meeting del 2004 concluse dicendo: «Adesso mi sento veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario, nel senso in cui lo dice don Giussani. E se qualcuno mi chiederà un giorno: “Tu cosa hai fatto nella tua vita?” io risponderò “Sono stato un rivoluzionario”». Caprara è stato ed è un rivoluzionario, perché si è preso il coraggio di seguire il suo cuore, la sua esigenza di verità, la sua domanda di libertà, e lo è stato fino in fondo perché ha riconosciuto che in Cristo l’umanità si ritrova. Per questo ricorderemo sempre i suoi occhi pieni di certezza, il suo sguardo intenso, fisso al Mistero che lo ha chiamato a sé, perché potesse dire io con tutta la dignità che è data ad un uomo vero.

Dall’incontro con il fatto cristiano in cui Caprara ha riscoperto se stesso è nato per lui anche un compito cui ha dedicato l’ultima parte della sua vita, il compito di raccontare la menzogna e la violenza di cui l’ideologia si è resa responsabile della storia. Lui, che si è dichiarato “prigioniero volontario” dell’ideologia, è stato nello stesso tempo colui che in questi anni ci ha raccontato il suo orrore, per amore alla verità, ma ancor di più perché chi ne è ancora imprigionato potesse trovare la strada della liberazione.

Uno degli incontri più significativi si svolse a Milano il 18 febbraio 2002, di fronte a millecinquecento giovani. Caprara ripercorse le origini della storia del comunismo, raccontando episodi personali
. Lo fece perché, avendo visto e conosciuto gli orrori dell’ideologia comunista, non aveva il diritto di tacere. «Ho visto, ho conosciuto e ora lo devo dire... Cerco la verità e la voglio cercare insieme ai giovani, insieme agli uomini del mio tempo, della mia epoca. Discuto perché il passato non venga rimosso, discuto perché altri non vengano indotti all’errore”. Raccontare a tutti quello che lui aveva visto divenne il compito più importante degli ultimi anni della sua vita, certo che è dai fatti che l’uomo capisce ciò che corrisponde al suo cuore o ciò che ne nega il valore. Sono stati anni intensi, Caprara è andato dovunque in Italia, ha incontrato gli studenti nelle scuole, ha partecipato a numerosi incontri promossi da centri culturali, ha scritto testi in cui documentare gli orrori dell’ideologia, come Paesaggi con figure o Gramsci e i suoi carcerieri. Per i giovani ha avuto una grande predilezione: ogni volta che li incontrava li coinvolgeva nel suo lavoro di ricerca del vero. Era per loro un maestro, insegnava a guardare dentro la storia con la forza del giudizio, una forza che sa svelare la menzogna e sa far emergere ciò che nessuna violenza può distruggere, il grido dell’uomo a Colui che, unico, lo libera dal male.

La sua energia sempre all’attacco del vero è oggi più che mai una consegna che, come lui ci ha insegnato, trova nel cuore dell’uomo il suo punto di forza, la possibilità unica di compiersi dentro i passi della vita quotidiana.

 grazie a : mdeledda

Postato da: giacabi a 10:22 | link | commenti
comunismo, caprara

mercoledì, 02 settembre 2009
Il peccato luciferino del socialismo sudamericano
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Il peccato luciferino del socialismo sudamericano che ci ha promesso il Paradiso, ma ci ha consegnati all’Inferno
Con questo articolo padre Aldo Trento comincia la sua collaborazione con Tempi

di Aldo Trento

«Un errore è una verità impazzita» diceva Chesterton. Ed è esattamente questo ciò che è accaduto col socialismo del ventunesimo secolo. Ma qual è la verità che è impazzita, e che sta all’origine e alla fine del ben noto “asse del male” che unisce Castro, Chávez, Correa, Morales e Lugo? La risposta non è rintracciabile nelle parole di questi personaggi, nelle loro utopie e nelle astrazioni in cui vivono, ma piuttosto nella premessa antropologica che sta alla base dell’ideologia che si propongono di incarnare. Bisogna chiedersi: che cos’è l’uomo, per questi signori? È solo rispondendo a questa domanda che si può arrivare a comprendere la menzogna che propinano. Essi partono, infatti, da una verità indiscutibile: l’uomo ricerca, desidera, sogna la felicità. È la struttura stessa dell’“io” che grida questa esigenza intima e insostituibile dell’essere umano; perché l'io umano, qualunque cosa faccia inclusa la peggiore, è mosso da questa tensione alla felicità.
La felicità coincide col benessere della persona, con la sua soddisfazione integrale: solo quando un uomo sta bene, è soddisfatto, è felice può definirsi libero. Tutto il cammino dell’umanità nel corso dei secoli si riassume nella bellissima domanda di san Francesco: «Quid animo satis?», che cosa soddisfa realmente il cuore dell’uomo? Ogni movimento filosofico, sociale, politico, qualsiasi ideologia parte da questa esigenza umana. La fortuna del marxismo è coincisa con la sua abilità di illudere la gente con la vana promessa che il paradiso consistesse nell’assalto al Palazzo d’Inverno, come veniva chiamato il Cremlino, residenza degli Zar e simbolo del potere che opprimeva il popolo. E così il grido marxista “proletari di tutto il mondo, unitevi” nasce dall’intelligenza di Karl Marx che percepì l’esigenza, non solo individuale, ma del proletariato del XIX secolo, di essere felice. E di conseguenza, il suo desiderare un mondo nuovo.
“Forza compagni, distruggiamo tutto e costruiamo un mondo nuovo. Forza compagni, afferriamo la falce e il martello e uniti cambieremo questo mondo”. La falce e il martello erano i simboli dell’utopia comunista. Però, se davvero è questa la verità che tutti cerchiamo, – perché il cambiamento, cioè la felicità, è l'anelito che ci definisce nella profondità del nostro essere – perché questa verità è impazzita, cioè si è trasformata in bugia, inganno?
L’illusione che la felicità coincida col benessere economico e sociale della persona, con la risposta alle sue necessità biologiche e psicologiche. Una visione parziale dell'uomo, che censura la verità primordiale dell’“Io”, che è relazione con l’Infinito. Per il marxismo l’uomo è “un tubo digerente”, un ingranaggio del sistema funzionale alla collettività. Per Marx l’uomo non coincide con la persona: a lui non interessava l’individualità ma la funzione che ciascuno ricopre nella salvezza prevista dalla cosiddetta “nuova società socialista”. Ricordo bene quando col cervello annebbiato da questa ideologia gridavamo per le strade “il privato non esiste, quello che conta è il pubblico!”. La visione trascendente dell’uomo, che è poi la dimensione qualitativa dell’Io, era totalmente eliminata, censurata, negata. Da qui l’ateismo di Stato che diede origine ad ogni forma di violenza.
Il socialismo del secolo XXI incarnato da Castro e Chávez altro non è se non il figlio diretto e abortito di questa posizione. E cos’è il chavismo se non l’illusione, nel ventunesimo secolo, di poter rispondere al desiderio di felicità dell’uomo dimenticando la trascendenza di quello stesso uomo? Il populismo, la nuova malattia che affligge la maggioranza dei paesi latinoamericani, altro non è se non un uso strumentale del bisogno ontologico dell’uomo, imponendo un’ideologia di-
sumana, che pretende di risolvere il dramma dell’uomo con l’illusione di un benessere economico, peraltro strutturalmente impossibile, a cui manca una visione integrale della persona. Per di più un benessere a buon mercato, costituito da un sussidio economico che consente a tutti di non morire di fame e favorisce l’assistenzialismo suicida del popolo stesso. Mai i paesi caduti sotto il comunismo hanno conosciuto tanta miseria e infelicità come durante gli anni in cui furono vittime della violenza di questo mostro. Certo avere di cui cibarsi e di cui coprirsi è importante. Ma “non di solo pane vive l’uomo”, perché è relazione con il Mistero. E se non lo incontra, cade nella disperazione. O il benessere dell’uomo è totale, integrale, oppure è un terribile malessere. È ciò che papa Benedetto XVI spiega nella sua enciclica Caritas in Veritate, quando afferma che il nome dello sviluppo è Cristo, e che la povertà peggiore è la perdita del senso della vita che nasce dalla realtà. Perdita a sua volta originata dal fatto che l’uomo ha eliminato Dio dal suo orizzonte.

Pupazzi e fannulloni
La diabolica pretesa che l’uomo, novello Lucifero o Prometeo, possa con le sue mani realizzare il mondo nuovo, possa con le sue forze cambiare il mondo, trasformarlo, risponde al desiderio di felicità che lo definisce. È la prima tentazione, quella in cui caddero Adamo ed Eva e i poveri illusi della Torre di Babele. Cosa pretendono i padri dell’“asse del male”? Di cambiare Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Paraguay con le loro proprie mani, sfidando Dio e affermando, in pratica, che ciò che Dio non è riuscito a compiere, essi lo faranno. È la posizione diabolica che Cristo respinse quando fu tentato dal demonio, e che questi signori, al contrario, hanno assunto come pratica di vita e di governo. Non c’è peggior menzogna dell’orgoglio quando si impadronisce dell’essere umano, spingendolo ad autodefinirsi Dio o a sostituirsi a Lui. E il fatto che questi signori non amino la Chiesa, questa Chiesa reale e in comunione col Papa, mostra quanto siano convinti del fatto che nemmeno Cristo e l’annuncio cristiano siano riusciti ad ottenere in America Latina ciò che loro, e soltanto loro, sono in grado di realizzare. Le conseguenze evidenti sono la progressiva perdita di libertà, la paura della diversità, un nazionalismo disperato che rinnega la tradizione, l’assistenzialismo alienante, una classe di fannulloni che vivono al fianco del potere come pupazzi incapaci di un’intelligenza creativa, e il sottosviluppo culturale indispensabile al potere per sussistere. Sarebbe sufficiente un viaggio in Bolivia, per vedere con i propri occhi la miseria del socialismo del secolo XXI.



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comunismo, padre trento

venerdì, 28 agosto 2009
'SOTTOMETTERE LA RAGIONE ALL'ESPERIENZA'
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Si rafforza il feeling tra il Meeting e Giampaolo Pansa

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Dal sito del Meeting:
Giampaolo Pansa accende il Meeting e il Meeting accende Giampaolo Pansa. L’ex giornalista dell’Espresso alle 15 in punto sale sul palco della sala A1 come chi si sente a casa. Alza le braccia e con le dita a V saluta il pubblico che ha occupato ogni posto del padiglione. L’incontro, introdotto dal portavoce di Comunione e Liberazione, Alberto Savorana, è intitolato “Sottomettere la ragione all’esperienza”. Savorana, ricordando la visita di Pansa alla passata edizione del Meeting, esordisce chiedendo all’ospite qual è stato il percorso intrapreso durante quest’anno.
Il giornalista piemontese, partendo dal suo ultimo lavoro Il revisionista, ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, dalle storie e dagli insegnamenti di sua nonna Caterina: una donna presto vedova e costretta a crescere da sola ben sei figli. “Il mio revisionismo - afferma Pansa – comincia da lì, dalla mia famiglia larga e povera, dai genitori mai andati in vacanza”. L’autore di libri come Il sangue dei vinti e I gendarmi della memoria ricorda “la guerra, i bombardamenti e la paura che si prova a nove anni”. “Eravamo poveri – prosegue – ma da noi abbondavano le discussioni, a cui eravamo ammessi anche noi piccoli”. Pansa parla del lungo percorso che lo ha portato a scrivere i suoi romanzi, quasi senza accorgersi di ciò che gli stava accadendo. “Lo capii – spiega – solo quando in redazione arrivarono più di duemila lettere dopo la pubblicazione del Il Sangue dei vinti. Erano i messaggi di persone che raccontavano storie analoghe a quelle già raccontate da me. Cos’era accaduto?
La Provvidenza aveva scelto un microbo per abbattere un muro di paura imposto dai vincitori dopo il 25 aprile”.
Numerose sono le punzecchiature del giornalista al Pd. “È vero che la memoria storica dev’essere sempre viva, ma purché questa sia vera. Il modo in cui la Resistenza ci viene raccontata – spiega Pansa – ha un difetto. Non ci viene detto che la parte maggiore di coloro che l’hanno combattuta, i comunisti, non voleva la libertà, ma solo sostituire la dittatura nera con quella rossa”. “
La crisi della sinistra italiana – afferma – è culturale, perché non ha avuto il coraggio di raccontare la verità su se stessa
. Ecco perché mi sento più in sintonia col popolo del Meeting che col popolo di cui ho fatto parte per lungo tempo”.
Ritornando al tema dell’incontro, Pansa afferma che “nella vita bisogna essere curiosi. La conoscenza diventa avvenimento solo se non si vive passivamente. Bisogna essere umili”. Ed il Pansa narratore manifesta la sua umanità quando confessa le sue “preghiere serali” e la sua “domanda sulla morte”. Poi si rivolge alla platea e dice: “Oggi ero stanco, avevo mal di schiena, ma venire al Meeting è una esperienza fortissima. Il vero miracolo – conclude – sono i vostri occhi limpidi che mi guardano e hanno fiducia in quello che hanno davanti”.

(M.P.)
Rimini, 26 agosto 2009

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comunismo

giovedì, 13 agosto 2009
testimonianza
Li Lu Male
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Mi scuso, vorrei poter parlare italiano, questa lingua così bella. Quando sono arrivato in questa terra ho incominciato a sperare che avrei potuto incontrare persone di alta grandezza morale e adesso sono qua con voi tutti, amici miei. Ieri, quando siamo stati insieme, sono rimasto veramente colpito e mi ha commosso vedere questi studenti che cantavano canzoni. Improvvisamente mi è sembrato di essere ritornato sulla piazza Tienanmen, e ho capito che dovunque persone giovani si uniscono e condividono idee comuni, non vi sono differenze.
Voglio descrivervi come era la situazione prima del movimento. Il popolo cinese viveva e vive una vita miserevole e la situazione è molto grave. Vi è un'inflazione molto forte, nessuna libertà di parola. I problemi si ripetono. Già nel 1919 gli studenti volevano parlare, levare la loro voce, in quanto rappresentanti della gente comune, per poter dare suggerimenti al governo. Niente di più. Il 15 aprile l'ex Segretario di Stato, che veniva considerato dagli studenti come un simbolo della riforma democratica, è morto. Gli studenti hanno organizzato una manifestazione in sua memoria e sono scesi nelle strade per rendere chiaro quello che volevano. L'atteggiamento del governo è stato del tutto al di là di qualsiasi possibilità di immaginazione. Vorrei darvi un esempio: il 21 aprile più di 100.000 studenti erano seduti sulla piazza pacificamente, solo per scrivere un documento nel quale esprimere i nostri desideri. Abbiamo scritto col nostro sangue per poter presentare questo documento ai nostri governanti. Abbiamo dovuto presentarlo al Congresso. Abbiamo dovuto aspettare per più di 40 minuti e non vi è stata nessuna risposta.

Il 26 aprile, il governo ha dichiarato che il movimento degli studenti rappresentava un disturbo e una insurrezione contro l'ordine. Potete immaginarvi quali erano i nostri sentimenti: quello che chiedevamo era una cosa molto semplice, aprire un dialogo con i leader del governo. Per questo davamo suggerimenti in nome della gente comune, gente della strada. Ma una questione così semplice non può essere risolta in questo modo. Verso la metà di maggio - mi ricordo che era un giorno pieno di luce e di sole, la stagione della primavera, quando i fiori riempiono le nostre aiuole, ma un giorno per noi di profonda tristezza - migliaia di amici, di studenti, hanno deciso di iniziare lo sciopero della fame. Non avevamo nessun altro modo per fare ascoltare le nostre richieste. Nel recarci sulla piazza di Tienanmen, io e i miei amici ci sentivamo veramente molto tristi. Vedevamo i fiori ai lati della strada, Ciao Lin ne ha colto uno e ha detto: "E’ un po' come la nostra vita, quella dei fiori. Un fiore così bello morirà e questo è come la nostra vita".
Prima di iniziare lo sciopero della fame sulla piazza Tienanmen, alcuni professori ci hanno invitato a fare un'ultima cena insieme. E’ un'abitudine, un costume cinese, significa che tutti noi ci impegniamo a sacrificarci. Quando abbiamo iniziato lo sciopero della fame non avevamo stabilito una data finale. Abbiamo semplicemente cercato di ascoltare le nostre coscienze. Ci siamo detti: se non raggiungiamo il successo per le nostre richieste, continueremo all'infinito, fino a che non saremo morti. Quindi, per sette giorni completi, più di 3.500 studenti hanno continuato lo sciopero, sono svenuti, sono stati inviati all'ospedale, alcuni di questi sono ritornati e hanno continuato a star male e a svenire. A me è successo tre volte, un amico dieci volte è ritornato e dieci volte è svenuto. In ospedale si è risvegliato e ha visto che i medici lo stavano trattando con glucosio, si è rifiutato di seguire questo trattamento, ha solo chiesto un poco di acqua ed ha ripreso lo sciopero della fame. Ma di fronte a questa azione così coraggiosa il governo ha continuato a non dare risposta e così siamo giunti all'ottavo giorno dello sciopero della fame: quel giorno il governo ha annunciato che veniva imposta la legge marziale a Pechino. Da 200.000 a 300.000 soldati vengono così inviati a Pechino, ma il nostro popolo si è schierato accanto agli studenti che stavano facendolo sciopero della fame. Più di 10.000, 11.000 persone che facevano lo sciopero della fame, e milioni di cinesi che li sostenevano, quando hanno sentito che era stata imposta la legge marziale, più di un milione di persone in modo autonomo ed istintivo si sono organizzate per bloccare, con i loro corpi, le truppe che cercavano di entrare nella città. È qualcosa che mi ha colpito, è stato veramente commovente vedere persone anziane, vecchie donne e uomini che con i loro stessi corpi cercavano di bloccare i camion, pronti a morire. Volevano proteggere le vite dei giovani. Non so come posso descrivere i sentimenti che provavamo sulla piazza Tienanmen. Siamo rimasti li più di tre settimane. Dormivamo sulla pietra. Lo sciopero della fame era la nostra unica maniera per presentare delle semplicissime richieste. Siamo stati sostenuti, appoggiati dal popolo cinese e anche dai popoli di quasi tutto il mondo.

E a volte ci è sembrato di avere già vinto, perché avevamo risvegliato i popoli, avevamo fatto capire quale può essere il significato del potere del popolo. Le persone comuni hanno capito che potevano alzare la voce per chiedere che fossero rispettati i loro diritti, in quanto esseri umani che hanno una loro piena dignità. Si trattava di persone complete, che potevano farsi ascoltare: e in quei giorni gli studenti hanno dimostrato anche di avere grosse capacità organizzative. Ogni giorno ci si organizzava per bloccare le stazioni della metropolitana, ma anche per far sì che la vita dell'intera città si svolgesse con ordine. Nel corso di quei giorni si pensava che l'ordine in Pechino fosse qualcosa che appartenesse ormai alla storia passata di Pechino e invece siamo riusciti, e questo è stato ripreso da tutti i giornali, ad organizzare cinque comitati che hanno regolato l'intera vita della città, conservandola come prima: questo ha scatenato l'appoggio del popolo agli studenti. È uno tra i dati più interessanti, ma è anche un simbolo per dimostrare che i cuori, i sentimenti di tutti erano dalla parte degli studenti. Ma qual è stata la reazione del governo e cosa è questo governo che ha scatenato il massacro?
I miei amici vi hanno appena descritto il massacro. Io non voglio ripetere questa triste storia, ancora adesso mi è insopportabile raccontare, penso che tutti voi possiate capire i nostri sentimenti. Vorrei soltanto dire una cosa. Gli studenti, quegli studenti che sono stati feriti, colpiti, sono studenti come voi e si sono trovati di fronte a delle truppe pericolose, però hanno cercato di reagire nel modo più pacifico e non violento possibile. Vorrei darvi degli esempi. Il 21 maggio si è avuto il primo momento di pericolo; ci veniva detto che l'esercito stava cercando di entrare nella piazza e che si preparava ad attaccarci con gli elicotteri, dall’alto, facendo scendere i soldati sugli studenti. E vi erano varie dozzine di elicotteri che volavano sopra la piazza Tienanmen. Cosa hanno fatto gli studenti? Hanno lanciato in aria dei palloni, non conosco il termine esatto in inglese, ma erano come aquiloni di carta, che da bambini si usano per giocare. Pensavamo che questi fragili aquiloni di carta potessero bloccare gli elicotteri. Poi c'è stato un altro momento di estremo pericolo. Una giovane coppia che faceva lo sciopero della fame ha annunciato di volersi sposare sulla piazza Tienanmen. Lo hanno annunciato di fronte a tutti gli studenti. Molti hanno partecipato a questa cerimonia di matrimonio. E questo è per noi un simbolo, per dimostrare che crediamo che la vita continuerà, anche se in segreto, perché la vita è qualcosa di sacro, significa dignità e ogni qualvolta soffriamo, siamo ancora degli esseri umani, e se dobbiamo morire, e se moriremo, lo faremo come veri e completi esseri umani e comunque continueremo a lottare e passeremo la consegna alla generazione che ci segue. Molte persone sono venute alla cerimonia di matrimonio e volevano dare tutti i regali possibili a questa giovane coppia. Naturalmente si trattava di persone molto povere, che non hanno niente e non possono trovare grossi regali, però dimostravano i loro sentimenti, il loro amore per la vita. Alcuni hanno dato come regalo una penna, alcuni una tazza d'acqua, altri hanno dato un piccolo pezzettino di sapone. Un operaio voleva perlomeno firmare qualcosa e non aveva carta, non aveva niente, allora ha deciso di strappare un pezzo della sua camicia e l'ha dato, come la cosa più vicina al suo corpo, al suo cuore. Mi spiace, forse capite perché non posso continuare sono il fratello di questa giovane coppia. Vi ringrazio profondamente
Dal vostro applauso sento che siamo gli stessi, uguali, un unico essere umano, possiamo capirci, tutti noi amiamo la vita. Quel giorno io ho coniato uno slogan, ho detto: "Abbiamo bisogno di lottare, ma abbiamo anche bisogno di essere felici". Grazie. Il mondo appartiene e apparterrà sempre a coloro che sono esseri umani completi. Ancora una cosa.
Il 26 maggio gli studenti hanno deciso di fare un concerto. 3.000 cantanti sono stati invitati alla piazza Tienanmen e hanno tenuto un concerto per l'intera notte. Studenti e persone cantavano e ballavano. Non ci importava, se i soldati sarebbero venuti, se ci avessero ucciso. Noi volevamo essere felici, volevamo godere la vita. Il 4 giugno è iniziato il massacro. Gli studenti decisero di creare un'università che si sarebbe chiamata Università di Democrazia della piazza di Tienanmen e hanno anche fatto questo statuto della democrazia e una statua intorno a cui abbiamo celebrato la creazione di questa università. Abbiamo fatto dei discorsi. Questo è durato due ore, le sole due ore di vita di questa università. Poi i carri armati sono entrati nella piazza e hanno spazzato via tutto quello che avevano creato. Gli studenti, gli operai, gli intellettuali, i cittadini, tutti sono stati uccisi e così anche la statua della nostra Università della Democrazia è stata spazzata via. È l'università che ha avuto la vita più breve del mondo intero. Però penso sia l'università più grande del mondo. Capisco che il vostro cuore è dalla parte degli studenti cinesi, e quindi in futuro potremo lottare uniti. Non vi saranno differenze fra italiani e cinesi. Noi vogliamo unicamente che ci venga concesso di vivere come esseri umani. Adesso vorrei dire qualche cosa che riguarda la mia fuga dalla Cina. Ero considerato uno dei leader degli studenti più ricercati dal governo in Cina. La lista dei criminali ricercati viene spedita nell'intero Paese, quindi è quasi impossibile fuggire, perché la Cina ha un sistema di polizia segreta estremamente ramificato per poter controllare le persone. Ma c'è un movimento clandestino, tutte le persone riescono comunque a offrirvi sostegno.
Non vi posso dire il nome delle persone che mi hanno aiutato a fuggire dalla Cina, è stata una cosa molto pericolosa per loro.Il governo, questo governo assassino, ha arrestato più di 120.000 persone, e varie centinaia sono state condannate a morte e uccise, ma sempre in modo clandestino. L'intera Cina, l'intero Paese, sta ormai diventando una Bastiglia, una enorme prigione, ogni gesto è pericoloso, ognuno deve criticare gli altri e autocriticarsi. È come quello che hanno fatto durante la Rivoluzione Culturale, nel corso di quei tristi tempi più di 16 milioni di persone sono morte. Adesso il governo assassino vuole che la storia si ripeta, ma non possono farlo: la situazione è totalmente diversa. Molti leader, intellettuali, sono stati aiutati a fuggire dalla Cina e adesso vi è una certa forma di resistenza. Il governo ha perso qualunque fondamento legale nel cuore del popolo cinese. Dopo il massacro, io ho sentito che la mia vita non era più qualcosa che mi appartenesse, il mio stesso sangue rappresenta un continuum con il sangue di quegli studenti che sono morti sulla piazza di Tienanmen, il loro sangue è collegato per sempre con la mia vita.. Per tutta la mia vita io sarò profondamente impegnato in questo movimento per il ritorno della democrazia in Cina.
La nostra lotta ha uno slogan molto semplice: democrazia per la Cina, diritti umani per i cinesi. Adesso in Cina possiamo ancora fare qualche cosa e noi che siamo fuori possiamo aiutare. Uno dei programmi è ricostituire tutte le strutture proprie alla democrazia. So che vi sono degli insegnanti, per esempio negli Stati Uniti, in California, che hanno deciso di creare un fondo per ricostruire le strutture di democrazia sulla piazza di Tienanmen. Mi hanno parlato del vostro movimento qui in Italia, sono stupito e commosso da quanto avete fatto, io posso capire la vostra lotta, quello che voi state facendo perché qualche cosa che vuol portare a trattare gli essere umani come tali. È esattamente quello che noi studenti vogliamo, quello per cui lottiamo, quello che vogliamo per il popolo cinese. Quindi penso che tutti voi potrete offrirci il vostro sostegno per quello che sarà un lavoro comune. Ancora un altro dei nostri programmi: ricostruire questa università di cui vi ho parlato, vogliamo che sia veramente una università internazionale. Penso che sia possibile cooperare, lavorare insieme. Ieri, mi ha commosso una canzone molto bella, ha lasciato una profonda impressione nel mio cuore (era "Povera Voce" ndr).
Per concludere il mio intervento, io vorrei ricantare questa canzone con voi tutti; la canzone parla di gente comune, normale, esseri umani che dicono: il nostro mondo è piccolo ma bello, un mondo uguale per tutti. Vorrei cantare questa canzone con voi, amici miei, e vorrei invitare tutti i miei amici a cantarla. L'ho imparata solo pochi minuti fa, ma vorrei che tutti voi mi insegnaste, proviamoci insieme.



Li Lu Male,ha studiato fisica e poi economia, ha organizzato nella sua città diversi circoli di discussione con altri giovani. Appena iniziati i fatti della Tienanmen, si è coinvolto attivamente con il movimento dei giovani. È stato responsabile del comitato direttivo dello sciopero della fame, che egli stesso ha praticato, e del comitato di gestione della piazza Tienanmen e portavoce ufficiale di questo movimento. Ha parlato alle Nazioni Unite, è riuscito, tra i pochissimi, a fuggire dalla Cina, figura nell'elenco dei 21 peggiori criminali del suo Paese.  Meeting di Rimini - agosto 1989

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comunismo, testimonianza

sabato, 25 luglio 2009
Ivan Medek, l’apostolo del dissenso
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Europa dell’Est • A 83 anni uno storico oppositore del regime comunista cecoslovacco racconta in un libro la lotta per la libertà condotta con Havel che poi lo volle come suo braccio destro • Cattolico convinto, fu tra i primi firmatari di «Charta 77» • Espulso dal Paese, ritornò solo nel 1989 • Scrive del primo presidente della Repubblica ceca: «È stato sempre una persona coraggiosa, sia in prigione, sia al potere. Non ha la pelle dura, ma per il nostro popolo ha fatto più di qualsiasi altro»
di Roberto Beretta
Tratto da Avvenire del 22 luglio 2009
È stato uno dei 5 invitati alle seconde nozze di Václav Havel nel 1997, quando il drammaturgo e fondatore di «Charta 77» ha sposato in segreto l’attrice Dasa Veskrnova, pochi mesi dopo la scomparsa della prima moglie Olga Havlova – mol­to amata dai praghesi. Ed è stato per quasi 6 anni, dal 1993 al 1998, il braccio destro del presidente ceco al Castello di Praga, come suo fedelissimo capo di gabinetto. Eppure pochi immaginerebbero che Ivan Medek – oltre che anticomunista a tutta prova, tra i primi fi­matari di «Charta 77», dissidente a lungo perseguitato dal regime e costretto ad espatriare dal 1978 alla caduta del Muro – sia anche un cattolico, anzi un convertito: per­ché non è del tutto scontato pen­sare che l’intellettuale più «laico» del dissenso, il presidente agnosti­co Havel, abbia personalmente voluto al suo fianco un credente convinto come Medek. Eppure lo racconta il protagonista stesso, che oggi ha 84 anni e vive a Praga, in un libro intitolato «A gonfie vele» nel quale raccoglie alcune conversazioni radiofoniche autobiografiche e che la ricercatrice udinese Tiziana Menotti ha tradotto in italiano sia per la sua tesi di specialità, sia con la speranza di trovare un’editrice che faccia conoscere anche da noi la straordinaria espe­rienza di un uomo purtroppo poco conosciuto nel Belpaese.
E invece Medek viene da una famiglia molto nota in Cecoslovacchia: la nonna materna di Ivan, rimasta vedova di Antonín Slavícek (il maggiore esponente dell’impressionismo ceco, morto suicida appena quarantenne), si era risposata con il pittore Herbert Masaryk, figlio di Tomáš Garrigue Masaryk primo presidente della Cecoslovacchia dalla fondazione delle Repubblica nel 1918 al 1935. Casa Medek dunque fu per tutti gli anni Venti uno straordinario foyer culturale, ma anche politico, assai vi­vace e accolse molti degli spiriti più creativi della nazione. Anche Rudolf Medek, padre di Ivan, arruolatosi nel 1917 come volontario per combattere gli austriaci in Russia, era poeta e scrittore.
Né la vena artistica familiare si era esaurita lì: Mikuláš – fratello minore di Ivan, morto nel 1974 – è considerato uno dei maggiori rappresentanti della pittura contemporanea ceca. Ivan, nato nel 1925, ha talento da musicista: ha studiato al conservatorio fino al colpo di Stato filo-sovietico del 1948, poi ha fatto il manager nella Filarmonica ceca prima di essere licenziato per mo­tivi politici, quindi ha lavorato presso una casa discografica, poi come inserviente in un ospedale, da lavapiatti in un’osteria: sempre più giù nella scala sociale ma sempre senza perdere la sua dignità e l’aristocratica ironia. Nel 1968 Me­dek ha partecipato pure ai fermen­ti della Primavera di Praga con Havel («Era il più giovane di noi ma aveva le idee molto chiare e assunse la direzione» del gruppo, testimonia). Nel frattempo però aveva incontrato il cristianesimo: «La conversione di Ivan Medek al cattolicesimoscrive Tiziana Menotti avvenuta negli anni Cinquanta acquisì vigore per la frequentazione di diversi sacerdoti che avevano resistito alle pressioni del regime per una Chiesa nazionale staccata dal Vaticano, pagando con la persecuzione e il carcere duro la loro fe­deltà a Roma. Tra questi c’era Antonín Mandl, collaboratore del cardinale Beran e segretario dell’Azione cattolica cecoslovacca che, come molti altri prelati, aveva trascorso pa­recchi anni in prigione prima di essere rilasciato negli anni Sessanta». Padre Mandl introdusse Medek presso numerosi sacerdoti dissidenti, come l’abate e poeta Anastáz Opasek (arrestato nel 1949 con l’accusa di tradimento e spionaggio per il Vaticano e condannato all’ergastolo nel 1950), Ota Mádr, Josef Zverina, Antonín Bradna o il salesiano padre Mrtvý: «Dopo essere usciti di prigione si incontravano di tanto in tanto e a volte mi invitarono alle loro riunioni. Lì conobbi persone che non dimenticherò. Quasi cominciai a invidiare le loro esperienze del carcere. Nonostante le guardie spesso li avessero picchiati e fossero stati volgari con loro, essi avevano conservato una libertà radiosa, quale pochi a­vevano al di là del muro del carcere. L’attività di questi cristiani fu stimolante sotto tutti gli aspetti.
Essi ad esempio aprirono discussioni pubbliche tra cristiani e marxisti. Era sempre pieno di gente, accadeva davvero qualcosa.
Durante la normalizzazione queste attività furono vietate, ma un seme rimase e più tardi da esso nacquero vari gruppi indipendenti». Grazie a tali conoscenze, Medek diventa uno dei principali collegamenti tra dissenso laico e religioso: «Nel marzo 1968 – ricorda – Karel Pilík, un prete cattolico che come gli altri sacerdoti scarcerati non aveva il nulla osta dello Stato per l’esercizio dell’ufficio sacerdotale e lavorava come operaio, propose una petizione per rivendicare la distensione del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il ripristino delle scuole ecclesiastiche, l’insegna­mento della religione, la nomina dei vescovi e così via.
Stilammo la petizione e Pilík propose di farla firmare anzitutto ai vescovi. Io avevo a quel tempo un’automobile Škoda e andammo dai vescovi. Incominciammo con il vescovo Tomášek; non era ancora cardinale. Rifletté a lungo, ma alla fine firmò. Poi, uno dopo l’altro, facemmo visita agli altri vescovi.
Moltissimi di loro avevano una paura terribile. Erano stati rilasciati dal carcere con la condizionale e non volevano ricadere in qualche violazione. Ma firmarono tutti. Poi andammo nei monasteri e alla fine facemmo firmare la petizione ai credenti. Raccogliemmo circa 336. 000 firme. Consegnammo la petizione, ma loro la bloccarono.
Non se ne fece assolutamente nulla». Nel gennaio 1977 Medek è uno dei primi fra i 1900 firmatari di «Charta 77»: «Me la portò un amico al caffè nel dicembre 1976. Disse che avevano riflettuto se farmelo firmare, perché per me poteva significare la fine dell’esistenza.
Dissi che lo sapevo, ma firmai. A volte, dopo Natale, ci riunivamo nell’appartamento di Havel e ordivamo piani. Lì si decise chi sarebbe stato il portavoce e quando sarebbe seguita la riunione successiva, doveva essere in gennaio. Solo che finimmo in trappola».
Medek viene subito licenziato, ma fa causa alla ditta e durante il processo il suo avvocato chiede inutilmente che venga letto in aula il motivo del licenziamento, cioè «Charta 77»: un pretesto per rendere pubblico il documento. «Nel maggio 1978 – continua Medek – mi capitò un fatto spiacevole. Dopo un interrogatorio alla polizia segreta mi portarono via di sera con gli occhi bendati in un bosco.Mi pestarono un poco finché persi conoscenza, se ne andarono e mi lasciarono lì. Allora pensai che se volevo compiere davvero un lavo­ro proficuo, non potevo farlo in patria in quelle condizioni». Medek lascia dunque il Paese per trasferirsi a Vienna, dove lavora per le emittenti radiofoniche Voice of America e Radio Free Europa svolgendo un importante lavoro di controinformazione diretta alla Cecoslovacchia.
Solo nel 1989 potrà tornare in patria: «All’incontro di fine anno di Charta 77 e dei suoi fautori incontrai Václav Havel, a quel tempo già presidente. Gli chiesi un’intervista. Il presidente mi ricevette al Castello il 14 gennaio. Mi chiese che cosa poteva fare per me. Dissi che ero venuto a chiedergli che cosa potevo fare io per lui». Infatti, dopo aver lavorato qualche tempo per il governo, Medek diventa – già anziano – il braccio destro di Havel. «Fu uno dei periodi più belli della mia vita.
Václav Havel è una persona enormemente interessante e bisogna prenderlo così com’è. È anche una persona straordinariamente coraggiosa. Si è rivelato tale in tutti i momenti della sua vita: in prigione, durante gli interrogatori e durante il lavoro in ufficio. Inoltre è sensibile, vulnerabile: ciò non dovrebbe corrispondere al suo coraggio. Non ha la pelle dura. Ed è molto modesto. Quei 6 anni al Castello per me non significarono soltanto lavoro e spesso decisioni politiche complicate, ma soprattutto la possibilità di conoscere da vicino una persona di cui sono convinto che, per la nostra re­pubblica, abbia fatto più di qualsiasi altro».

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comunismo, testimonianza

domenica, 28 giugno 2009
Arcipelago Gulag in Romania:
ciò che nessuno aveva mai raccontato
La testimonianza è di pochi giorni fa. È stata letta in Vaticano da un prete greco-cattolico che è stato sedici anni nelle prigioni comuniste. Ai limiti dell´immaginabile

di Sandro Magister                                    
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ROMA - Due libri, due opposte fortune. Mercoledì 24 marzo, in un hotel romano di lusso, il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls ha presentato alla stampa di tutto il mondo l´ultimo libro di papa Karol Wojtyla, il racconto autobiografico dei suoi anni di vescovo di Cracovia. Intitolato "Alzatevi, andiamo", edito da Mondadori, tradotto in numerose lingue, il libro ha il successo assicurato. Il suo semplice annuncio ha avuto un´enorme copertura mediatica.

Immeritatamente trascurata e clandestina, invece, si prospetta la vita di un altro libro presentato 24 ore prima, martedì 23 marzo, nella sala stampa vaticana.

Il volume ha per titolo: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell´Europa del Novecento". Raccoglie gli atti di un convegno di storici tenuto in Vaticano nel 1998 sulle persecuzioni delle Chiese dell´est. È stato stampato nel 2003 dall´Editrice Vaticana. Ma nelle librerie è praticamente introvabile. Persino lo scaffale virtuale di Amazon.com lo ignora.

Eppure questo è un libro decisamente fuori dell´ordinario. E ancor più lo è stata la sua presentazione, anch´essa passata sotto immeritato silenzio.

Per capirlo, basta leggere il testo riprodotto qui sotto, letto dal suo autore proprio durante la presentazione del volume, in Vaticano. L´autore è un anziano sacerdote della Chiesa greco-cattolica di Romania che ha passato sedici anni nelle prigioni comuniste. Il racconto della sua prigionia è concretissimo e insieme spirituale. Un po´ Solgenitsin, un po´ atti dei martiri. Tra mistero d´iniquità spinto ai limiti dell´immaginabile e Grazia. Con la "Santa Provvidenza" che opera per le mani inconsapevoli degli aguzzini.

In tempi in cui il martirio è parola abusata, applicata anche agli "shahid" islamisti che si fanno esplodere per fare strage, questa è una testimonianza che aiuta a restituir verità. Assolutamente da non perdere.



 



"Ma è più grande il Cielo sopra di noi"

di Tertulian Ioan Langa



Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste.

A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell´università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici.

Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell´epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell´accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza.

Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura.

Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti.

Sono stato arrestato a Blaj, nell´ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all´epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l´estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza.


LA VERGA DI FERRO



Ricordo il giovedì santo dell´anno 1948.
Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all´interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell´umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell´interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l´annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l´ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell´inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l´inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiosi, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata.


LA LUPA


Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare.
Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c´era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l´alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell´edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l´equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio.

Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle
parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.


IL SACCHETTO DI SABBIA


Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c´era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell´angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando.
Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall´organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l´autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell´unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico.


VENTOTTO CENTIMETRI


Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori
, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l´uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l´esperienza delle sardine: però non nell´olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l´osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull´anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz´ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l´altro, ci voltavamo sull´altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c´era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all´orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l´orina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l´odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l´intero organismo e ogni suo orifizio.


IL "FILTRO"



Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l´ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d´egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate.
La mancanza d´aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno.
Contribuivamo così, a nostro modo, all´edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?


NUDI NEL GELO



Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L´accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell´uomo creato dall´amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma
fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.

Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l´anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All´anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all´incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina.


CAMMINARE O MORIRE


Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall´altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei ?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te.
Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz´ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell´angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi.
Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.


MA TUTTO È GRAZIA


Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l´ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto.

Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà?
E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l´hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).

Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l´uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.

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comunismo, testimonianza

venerdì, 12 giugno 2009
Giampaolo Pansa
Il cronista che ha costretto perfino le scuole a piantarla con l’agiografia della Resistenza
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di Luigi Amicone da: www.tempi.it
  Giampaolo Pansa scrive libri che mandano in brodo di giuggiole milioni di lettori. Ma in oltre cinquant’anni di professione non ha mai scritto per un giornale conservatore. Strano, no? «E perché strano? E poi ti sbagli. Ho appena sfilettato quindicimila caratteri per Atlantide». La sua ultima fatica, una specie di autobiografia in cui si toglie tanti bei sassolini, è in libreria da neanche tre settimane. Eppure fa già gongolare Rizzoli. Primo perché attualmente Il revisionista è il libro più venduto dell’editore milanese. Secondo perché, come ogni libro di Pansa, risulterà tra i più letti dell’estate. Quanti ce ne sono in giro di colleghi che siano stati cronisti, inviati, editorialisti, direttori, entrati e usciti, sempre lasciando il segno di una certa libertà, di una certa personalità, di una sicura genialità, dalle più illustri testate del regno? La Stampa, Il Giorno, Il Corriere della Sera, La Repubblica, L’Espresso. Questo è il cursus honorum dell’aguzzo e rude monferrino che oggi scrive per Il Riformista. Ma vogliamo dimenticare questa cosa pazzesca di un “dilettante” che ha sbaragliato l’immaginetta di una Resistenza tutta lettere di Piero Calamandrei e Brigate Garibaldi? Imprescindibile Giampaolo Pansa. Nessuno come lui ha avviato una rilettura così convincente e documentata, critica e perciò anche discutibile, ma contro la quale non vale illatio, di certi aspetti della Resistenza e della guerra civile rimasti pressoché inattingibili al grande pubblico. Opera che non ha soltanto suscitato un movimento di popolo (Il sangue dei vinti sta approssimandosi al milione di copie vendute) e la gratitudine di centinaia di migliaia di italiani la cui voce e le cui memorie erano state cancellate da un cinquantennio di storiografia addomesticata (per non dire semplicemente faziosa). Ma sta finalmente costringendo i saggi di storia, i sussidiari scolastici, i manuali universitari, a parlare di “revisionismo”. Non più come distratto omaggio alla memoria dell’oltraggiato e ora indiscutibile Renzo De Felice. Ma come rivelazione autentica di vicende che la cosiddetta Storia, quella ufficiale, quella scritta dai vincitori, quella ribadita dagli agiografi partitocratici, aveva semplicemente omesso o falsificato
 

 

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comunismo

giovedì, 28 maggio 2009
  Se manca l’umano
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Lettera scritta da un giovane di fronte al suicidio di un suo compagno di lotta

«Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l'angolo ad attenderci cortese e sorridente. Si avanzava spediti verso lo "scontro decisivo". Ma molti "scontri decisivi" passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava la misura di un fallimento. In contrasto con questa "esasperante lentezza", la nostra vita, quella sì, correva veloce e senza intoppi: ti toglieva la giovinezza, ti spingeva ad un lavoro che non c'era o in ogni caso quasi sempre ad un lavoro schifoso... Egli è morto anche perché siamo stati "disumani" tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo con cui si sono trattati i compagni "silenziosi" che non parlavano quasi mai alle riunioni, gli "stupidi" perché quando parlavano dicevano (male) due o tre volte cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leaders depositari del sapere e del potere; disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie, o lettori dei nostri volantini, o persone a cui spiegare la rivoluzione. Quanti sono i compagni persi per strada, allontanati da questo modo di fare? Chi ricorda i loro volti, chi ha mai conosciuto la loro storia? Chi li ha aiutati a crescere politicamente,o ad ambientarsi in sede?  Roberto è morto ed è sciocco e retorico dire ora frasi del tipo "lotteremo anche per lui", “lo avremo sempre al nostro fianco"; è cinico affermare che bisogna fare che Roberto non sia morto invano; significherebbe trovare a questa morte orrenda una giustificazione a posteriori. Ma tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c'è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene cosi: c'è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra "squallida" pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco cosi grande dove un uomo possa perdersi.              Ivrea, settembre 1977».
(Da Care campagne, cari_compagni. Lettere a Lotta Continua, Coop. Giornale Lotta Continua, Roma 1977)

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comunismo

mercoledì, 29 aprile 2009
Un senso di malinconia lega la sinistra odierna all'ortodossia comunista 
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Martedì 28 aprile 2009 da Unionesarda.it
Vedi le foto A lle celebrazioni del 25 aprile per la liberazione dell'Italia dal nazifascismo, Silvio Berlusconi ha detto una frase sulla natura antifascista, ma non antitotalitaria, della nostra Resistenza e dell'Italia repubblicana. In questa banale verità c'è tutta la differenza tra la sinistra italiana e quella americana, e anche molte delle ragioni del ritardo culturale e politico in cui si trova il Partito democratico. La sinistra italiana è stata innanzitutto antifascista, ma non sempre antitotalitaria. Quella americana è soprattutto liberale e allo stesso modo distante sia dal fascismo sia dalla tradizione comunista e socialista, anche se nelle sue file non sono mancati gli infatuati dello Stato sociale di Mussolini e del progressismo socialista di Stalin.
In Italia, però, è esistita anche la sinistra democratica, ma è sempre stata minoritaria. Il pallino è stato in mano a chi guardava al modello sovietico con grande ammirazione e a quello angloamericano con forte sospetto, nonostante fossero stati gli angloamericani a combattere il fascismo in giro per il mondo. C'era il Partito comunista italiano, come è ovvio, il cui segretario Palmiro Togliatti era un dirigente del Partito comunista sovietico. Ma anche il Partito socialista italiano, il cui leader Pietro Nenni paragonava l'America di Harry Truman alla Germania di Adolf Hitler.
Il Partito comunista era un monolite che ha guardato a Mosca come a un faro fino al crollo del Muro di Berlino. Soltanto tre giorni dopo la liberazione della Berlino comunista, il 12 novembre 1989, Achille Occhetto ha annunciato alla Bolognina che il Pci avrebbe cambiato nome, ed è stata una sorpresa. Tre mesi prima, nemmeno la strage di Tien An Men era stata sufficiente a convincere il gruppo dirigente del Pci ad abbandonare il comunismo. La coraggiosa e precipitosa scelta di Occhetto è stata ostacolata dalla vecchia guardia. Soltanto quattordici mesi dopo, nel gennaio del 1991, il Pci si è liberato della denominazione "comunista", anche se solo in parte: la falce e il martello e la scritta "Pci" sono rimasti nel simbolo e posti alla base della Quercia per ribadire che il Pds aveva radici salde nella storia del comunismo. Un terzo del vecchio Pci non ha accettato la svolta ed è uscito per creare Rifondazione Comunista.
Il Pci si è opposto al Piano Marshall con cui gli Stati Uniti hanno pagato la ricostruzione postbellica e avviato il miracolo economico italiano ed europeo. Il Pci ha detto di no alla Comunità europea in tutte le sue forme. No, al sistema monetario continentale. No, alla Nato, cioè all'Alleanza Atlantica. No, agli euromissili che hanno difeso l'Europa dagli SS-20 sovietici. Il Pci ha difeso le ragioni imperialiste di Mosca nel 1956 (invasione dell'Ungheria), nel 1968 (invasione della Cecoslovacchia) e non si è scomposto granché nemmeno quando l'Armata Rossa ha invaso l'Afghanistan nel 1979 e i carriarmati sovietici sono entrati in Polonia nel 1980. Nel 1976, Enrico Berlinguer ha espresso il massimo della presa di distanza da Mosca, svelando a Giampaolo Pansa che si sentiva più protetto sotto l'ombrello della Nato. Successivamente ha detto che i fatti polacchi dimostravano che l'Urss avesse "esaurito la sua spinta propulsiva". Ma al di là di queste dichiarazioni, la politica del Pci non si è mai allontanata dall'ortodossia comunista. Quando la Nato ha deciso di installare i missili Pershing, per ristabilire l'equilibrio violato dai sovietici con gli SS-20 puntati sull'Europa occidentale, il Pci è stato il capofila del movimento pacifista che si è battuto perché il nostro ombrello fosse quello del Patto di Varsavia. A sinistra del Pci era peggio. Erano affascinati da soluzioni più estreme di comunismo, come il maoismo. Gli intellettuali comunisti raccontavano la Cina della Rivoluzione culturale come il paradiso in Terra, nonostante le stragi e le carestie provocate da Mao. Spostandosi ancora più a sinistra c'era l'antifascismo militante e armato che è sfociato nel terrorismo.
Questo non significa che in Italia non ci sia stata una sinistra democratica e antitotalitaria, tutt'altro. Abbiamo avuto giganti del pensiero politico democratico.
Il problema è che la sinistra odierna non ha ancora fatto i conti con questa storia e con questa tradizione, cercando ancora una volta di tenere tutto insieme, sia le radici totalitarie sia quelle democratiche.
Il risultato è l'inconsistenza e l'ambiguità di oggi. In America, invece, c'è Barack Obama.
CHRISTIAN ROCCA - NEW YORK

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comunismo

lunedì, 27 aprile 2009
La sinistra non vuole la verità
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La sinistra non vuole la verità su quanto è avvenuto sino al 1948. Non la vuole perché la “sua” verità, gonfia di menzogne, l’ha già imposta in tutte le sedi: la cultura, la ricerca storica, i testi scolastici, il cinema.”
Giampaolo Pansa

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comunismo

mercoledì, 15 aprile 2009
“IO PIANTO LA TENDA CRISTIANA”
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«Tu vai – (dice al suo interlocutore disposto a passare “di là)– io non vengo, non posso venire. Ancora una volta c’è Qualcuno – non qualche cosa – che mi ferma... Tu vai senza una tua tenda, chiedendo un posto sotto la tenda comunista... Invece io pianto – e non da oggi – la tenda cristiana vicino a quella comunista, non per una meschina concorrenza, ma per offrire un porto, quando la delusione succederà fatalmente all’ebbrezza del successo».
Don Mazzolari

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comunismo, don mazzolari

venerdì, 10 aprile 2009
INUTILITÀ DEL CRISTIANO
Adesso n. 6 - 31 marzo 1949
di don Primo Mazzolari
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Il giudizio non ci sorprende nè ci avvilisce: ma che ci venga da chi appena ha posto mano all’aratro se pur ci si è provato, e da uomini, la cui dottrina ha pochi lustri di storia non sempre felice negli stessi paesi ove si è accampata, mi fa pensare a un’invasione di credula supponenza, non priva di pericolose incognite.

Siamo di nuovo davanti a un movimento troppo sicuro di sè, con in tasca il toccasana d’ogni guaio e la chiave di ogni porta.

Sotto questo aspetto il comunismo ripete e ricapitola l’ubbriacatura scientista del secolo scorso e quella nazifascista di ieri. Benché su piani diversi, tanto gli scienziati come i gerarchi, credevano di poter dare il benessere all’uomo, senza ricorrere al «pio inganno», del cristianesimo, il quale rimanda altrove la soluzione del problema, per coprire il suo fallimento e il fallimento delle forze morali, che non hanno più diritto di cittadinanza in una realtà sociale unica­mente quantitativa con un rapporto di forze unicamente materiali.

La scienza ha dichiarato «bancarotta», e al nazifascismo è toc­cata la parte che gli è toccata, anche per merito del comunismo.

Adesso siamo da capo. Proprio da quel mondo che si dice nuovo, tornano con monotonia esasperante le stesse accuse ai cristiani e le formule trite e vuote, che conosciamo. Stavolta è un giovane che mi scrive e non s’accorge che ripete cose vecchie.

«Non accettando il principio della lotta di classe, voi cattolici siete costretti ad assumere una posizione conservatrice. Giungete ad essere più radicali su un piano di critica moraleggiante. Contro il ricco potete persino impugnare con larghezza il Vangelo; ma sul piano concreto non dite mai nulla di nuovo, perché il problema so­ciale è per voi un problema di difesa. Il povero va aiutato quel tanto che basta perché non cada preda del comunismo. Il giorno in CUI un cattolico riuscisse a stabilire peso e misura di questo tanto, molte vostre inquietudini cesserebbero».

Non manca di sicurezza il nostro giovane giudice; ma, se ci ba­date,
è una sicurezza discretamente artificiosa, appoggiata a una logica di marca comunista, buona tutt’al più per la catechesi degli attivisti.

Per lui come per i suoi, chi non accetta la lotta di classe, è un reazionario: chi non odia il ricco non ama il povero: chi non fa la barricata, non fa niente di concreto per il bene del popolo. E’ un farmacista, un dosatore qualsiasi; tante calorie quanto bastano per non far morire il povero, non una di più.

Se lasciassi mano libera alla passione che mi brucia, sarei tentato di protestare: ma tant’è. I miei amici comunisti e quanti vedono materialisticamente l’uomo e il mondo, non possono neanche concepire il valore dello sforzo morale e l’impegno ad esso legato. Tro­vando più comodo farsi regalare la salvezza che conquistarsela, li­cenziano la coscienza dell’uomo come forza di rinnovamento sociale, usando il termine dispregiativo quanto abusato di moralismo.

Una bilancia esatta, costruita con il contributo della sciénza e della dittatura proletaria, ci darà quella giustizia che la «registra­zione morale» delle mani dell’uomo, non ci ha dato nè saprà mai darci.

Come mai non s’accorgono, i comunisti che proprio le nostre mani «non registrate» falsificano anche le più perfette bilancie, come «l’odor del padrone» inquina qualsiasi struttura sociale? Can­cellato l’uomo, chi si può fidare dell’uomo anche se porta il titolo di proletario, che, in moneta umana, vale quanto quello di borghese e di capitalista?

Senza volerlo il discorso mi porta a rispondere anche all’amico Don Bedeschi, che sull’Avvenire d’italia mi ha chiesto, a propo­sito dell’editoriale «nè a destra, nè a sinistra, nè al centro, ma in alto» di precisare i confini «prima ancora di stabilire una quarta dimensione».

Un cristiano, che fa sul serio il mestiere del cristiano, può partire da qualsiasi punto cardinale di tattica politica e giungere alla con­clusione buona, che non è la salvaguardia del proprio interesse, ma l’esigenza della coscienza cristiana nel suo sforzo concreto. Si tratta quindi di saldare e far muovere cristianamente l’uomo più che trac­ciare dei confini i quali, anche se posti male, saltano sotto l’impe­gno cristiano, come non possono essere raggiunti, anche se ben se­gnati, qualora l’animo non si muova cristianamente.

Purtroppo, destra, sinistra, centro indicano spesso un’ipoteca sul nostro sforzo morale in vista di un interesse particolare da difendere o da raggiungere, per cui la quarta dimensione non viene neanche tentata.
Preoccupati in partenza da qualche cosa che ci sta più a cuore del fermento evangelico, il nostro lavoro, non è più cristiano. Ne conserva, a volte per nostra vergogna l’etichetta, ma è addomesticato e rivolto ad altri scopi.

Proprio perché si è assopito o spento in molti di noi il tormento vitale della coscienza sociale cristiana, perché ci difendiamo con essa invece di agonizzare per essa, si è fatto strada la sfiducia nelle forze morali come elemento rivoluzionario e la fede assurda nella lotta di classe ne prende il posto.

La nostra inutilità di cristiani è la conseguenza di questo mancato innesco per cui agli occhi di molti il meno diventa un più.


PRIMO MAZZOLARI

Adesso n. 6 - 31 marzo 1949

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comunismo, don mazzolari

sabato, 04 aprile 2009
I miti della guerra civile spagnola
Spagna ’36, di chi la vera colpa?
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da Avvenire (01/04/2009)
Antifranchista militante, membro negli anni Settanta del Partito comunista clandestino e attivista del gruppo rivoluzionario maoista Grapo, dopo la caduta della dittatura Pío Moa si è buttato a capofitto nello studio della storia dell’ascesa di Franco, della Guerra civile spagnola e della Repubblica del Fronte popolare.
E ne è riemerso con idee radicalmente discoste dai luoghi comuni storiografici che – in Spagna evidentemente come in Italia – tracciano senza esitazione la linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi. Moa, che giovedì sarà ospite del Centro culturale di Milano nell’incontro "Liberazione o furia ideologica? Verità e mito della Guerra civil" (Sala Verri, via Zebedia, 2), ricostruisce l’annuncio della conclusione della Guerra civile, dato da Franco il primo aprile di settant’anni fa: «Fu davvero la fine della guerra», spiega lo storico galiziano, autore nel 2003 di Los mitos de la Guerra Civil che, con centocinquantamila copie vendute, restò al primo posto in classifica per sei mesi consecutivi. «Dopo la Seconda guerra mondiale i comunisti cercarono di riaccendere la guerra civile attraverso la guerriglia, come in Grecia. Però fallirono. In Grecia i guerriglieri furono sconfitti soltanto grazie all’appoggio di Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre in Spagna furono annientati senza alcun bisogno di aiuti esterni».
Perché?
Perché non trovarono quasi nessun appoggio tra la popolazione. La gente si ricordava molto bene che cos’erano stati il Fronte popolare e il comunismo, e non voleva più nulla del genere. In Spagna sol­tanto negli ultimi anni, con Zapatero, è ritornato un certo clima psicologico da guerra civile, imposto dal potere.
L’opposizione antifranchista era davvero democratica, oppure per quelle sinistre il termine era, come negli anni Trenta-Cinquanta in Italia, soltanto un sinonimo di “antifascista”?
A opporsi a Franco c’era un insieme di comunisti, anarchici, marxisti rivoluzionari del Psoe [Partito socialista operaio spagnolo, oggi guidato da Zapatero, ndr], diversi gruppi golpisti come quello repubblicano di Azaña, nazionalisti catalani; in più c’era il Partito nazionalista basco, di un razzismo non lontano da quello nazista. È ridico­lo pretendere che questi partiti fossero democratici. In realtà avevano distrutto ogni legalità nella Repubblica, che almeno in parte era democratica, e così causarono la Guerra civile.
Perché attribuisce al Fronte popo­lare la responsabilità di aver real­mente causato la guerra?
Nell’ottobre del 1934 il Psoe e i nazionalisti catalani si sollevarono contro il governo legittimo e democratico di centrodestra. Sconfitti, non mutarono atteggiamento, fino a quando non riuscirono a radunare quasi tutte le sinistre nel Fronte popolare, con il quale si presentarono alle elezioni del febbraio 1936. Fu un voto antidemocratico, pieno di violenze, e il Fronte si proclamò vincitore anche se i dati elettorali non furono mai pubblicati. Immediatamente iniziò un’ondata di omicidi, trecento in cinque mesi. Solo una minima parte fu compiuta dalla Falange, allora un piccolo partito semifascista che peraltro iniziò a uccidere soltanto dopo che diversi sui militanti erano stati ammazzati impunemente dalle sinistre. E poi incendi, assalti alle sezioni e ai giornali di destra, fino al sequestro e all’omicidio di Calvo Sotelo, uno dei capi dell’opposizione. Il governo, intanto, organizzò un’illegale revisione dei seggi per sottrarne decine alla destra e destituì, altrettanto illegalmente, il presidente della Repubblica, Alcalá-Zamora; annullò poi ogni indipendenza della magistra­tura, ponendola sotto la supervisione dei sindacati, e si rifiutò di arrestare l’ondata di violenze. Non rispettava né faceva rispettare la legge, e di fatto proteggeva il processo rivoluzionario: quando un militante di destra veniva assassinato, la polizia perseguiva... la cerchia della vittima. I militari, esitando molto, cercavano di organizzare un complotto; quando però Calvo Sotelo fu ucciso da un gruppo di poliziotti e miliziani socialisti, Franco e gli altri smisero di esitare e si ribellarono. Credo che in pochi altri Paesi i conservatori avrebbero sopportato tante violenze e illegalità prima di sollevarsi.
In questo contesto si inscrivono anche le violenze contro i religiosi. Qual è lo stato attuale della ricerca storica su questo tema?
Furono ammazzati circa settemila religiosi, da vescovi a monache; più ancora furono gli uccisi per il solo fatto di essere cristiani. Furono distrutte migliaia di chiese, incendiati monasteri – alcuni con biblioteche di grande valore – rubata un’infinità di opere d’arte. L’omicidio dei religiosi mostrò un sadismo difficile da credere. Non fu una persecuzione popolare spontanea, ma organizzata dai principali partiti. Di tutto questo oggi non si può più dubitare.
Perché interpreta la sollevazione franchista come un “atto reazionario”?
Perché, letteralmente, reagiva contro un processo rivoluzionario. Franco non si sollevò contro la Repubblica né contro la democrazia, ma contro la rivoluzione. I franchisti non credevano nella democrazia, poiché ritenevano che ormai fosse diventata impossibile, in Spagna; all’epoca, del resto, in tutta Europa erano in molti a credere che la democrazia liberale apparteneva al passato.
Ma tra franchisti e repubblicani non c’era, negli anni Trenta, nes­suna forza democratica?
No. Non esistevano sinistre democratiche. Le più moderate volevano imporre un regime come quello del Partito rivoluzionario istituzio­nale messicano, e le più estremiste – la maggioranza – anelavano a una rivoluzione in stile sovietico o anarchico. Le destre rispettavano molto di più la legalità repubblicana, e si sollevarono soltanto quando la situazione era compromessa. La maggiranza delle destre non era fascista, ma neanche democratica: erano conservatori, e dopo il Fronte popolare cercarono di organizzare un regime cattolico. che chiamavano "democrazia organica". La dittatura di Franco fu autoritaria, non totalitaria, e la differenza è essenziale. Fu molto meno dura di quella sovietica, per capirci.
È difficile, oggi in Spagna, mettere in dubbio i dogmi storiografici sui “buoni“ e i “cattivi” della Guerra civile?
Lo è stato fino a pochi anni fa, quando l’intera storia della guerra e del franchismo era fatta di miti, però si impone sempre più una versione adeguata dei fatti storici. Perché i fatti sono testardi, nonostante il fatto che siano molti coloro che cercano di occultarli – a partire dall’attuale governo. Ma ormai hanno perso la partita e in pochi anni quei miti spariranno del tutto: cosa necessaria per tutelare la democrazia e arrestare l’involuzione politica attuale.

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comunismo

domenica, 22 marzo 2009
TESTIMONI/ Dai lager alla primavera di Praga:
gli 85 anni del vescovo Korec
 
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Angelo Bonaguro sabato 21 marzo 2009


«Abbracciami!» - esclamò la mia compagna di viaggio, sperando così di far credere, allo spione che ci pedinava, che eravamo una coppietta perdutasi nel tetro quartiere dormitorio di Bratislava-Petrzalka, mentre in realtà avevamo un appuntamento di tutt’altro tipo a casa del vescovo Jan Korec, all’epoca (1988) punto di riferimento della Chiesa slovacca “clandestina”. Oggi Korec ha da poco compiuto 85 anni, è cardinale e vescovo emerito dell’antica diocesi di Nitra, eretta ai tempi di san Metodio.

Nato il 22 gennaio 1924 da una famiglia operaia, Jan a 16 anni entra nella Compagnia di Gesù, e viene ordinato sacerdote nell’ottobre del 1950. Sono tempi di persecuzione per la Chiesa cecoslovacca: il regime comunista chiude i monasteri e avvia la campagna antireligiosa. Era necessario mantenere la successione apostolica, e così per volontà di Pio XII nel 1951 Jan viene ordinato segretamente vescovo. Dal 1951 al 1954 lavora come operaio alla Tatrachemia: «Provengo da una famiglia di operai - ha scritto nel suo diario La notte dei barbari - e non ho mai avuto problemi a fare l’operaio». Vive il lavoro come missione, pronto ad incontrare con carità cristiana una grande varietà di tipi umani finché, per problemi di salute, si trasferisce all’Ufficio igiene del lavoro, dove lo spediscono in biblioteca. Anche qui va oltre il semplice impegno di archivista: si inventa una rassegna stampa per i medici e scrive addirittura una storia dell’igiene sul lavoro a partire dall’antichità, sottolineando quanto fosse attuale l’idea di dignità umana presente nell’Antico Testamento!

Nel 1959 lo troviamo fra i metalmeccanici della Dimitrovka: «Mi alzavo prima delle 5, dopo la meditazione celebravo la messa, e prima delle 6 avevo già inforcato la bicicletta per andare al lavoro». Intanto segue clandestinamente il cammino spirituale di studenti e seminaristi, e ordina sacerdoti. Anche la polizia non perde tempo: nel 1960 viene arrestato, e al termine del processo-farsa è accusato di “spionaggio” e condannato a 12 anni di carcere. Il periodo più lungo lo passa a Valdice, dove incontra altri religiosi, fra i quali padre Zverina. Nonostante la dura condanna, il suo spirito resta libero: «Che dono meraviglioso è per l’uomo la sua anima, la sua mente, il suo spirito che non si lega alle quattro mura di una qualsiasi prigione, ma che può spaziare ovunque, fino all’ineffabile spiritualità di Dio!».

Il 20 febbraio 1968 lo rilasciano: i tempi stanno cambiando, e Korec partecipa al rinnovamento della Chiesa grazie ai fermenti della Primavera di Praga. Ma le sue condizioni di salute peggiorano, gli viene diagnosticata la tubercolosi ed è costretto a una lunga degenza sui monti Tatra. Nell’autunno del 1969, in visita a Roma, riceve da Paolo VI le insegne vescovili che riporrà nella sua “sacrestia”, come chiamava il cassetto dell’armadio, dove sarebbero rimaste fino all’89. Privo del permesso statale di officiare, il vescovo Korec torna in fabbrica, alla manutenzione degli ascensori, finché va in pensione (1984) e può dedicarsi a tempo pieno - clandestinamente - alla cura d’anime. Il summenzionato appartamento è meta continua di incontri con fedeli di ogni età. Sorvegliato e vessato dalla polizia (StB), Korec non è tipo da lasciarsi intimidire: invia lettere di protesta contro i soprusi ai credenti, mantiene i contatti con il dissenso civile, scrive testi di teologia pensati per la gente semplice e stampati all’estero, in bassa tiratura perché - gli aveva detto qualche intellettuale - «Sa, non sono perfetti»; per contrastare le cimici della StB si costruisce un cilindro vuoto fissato su un treppiede: mentre lui parla da un lato, l’interlocutore lo ascolta dall’altro, e viceversa.

Dopo la Rivoluzione di velluto può finalmente svolgere il suo mandato. Nel 1998 scrive gli esercizi spirituali per il Papa, e riceve diverse lauree ad honorem e riconoscimenti pubblici.

Scrive nel libro Jezis zd’aleka a zblizka: «Intorno all’anno 200 morì a Lione il vescovo Ireneo. Si è conservata una lettera da lui scritta all’amico e compagno di studi Florino, in cui rammenta quando a Smirne partecipavano alle lezioni del vescovo Policarpo, il quale era morto ottantenne nel 155. Ireneo ricorda che Policarpo raccontava loro gli avvenimenti collegati a “Giovanni, discepolo del Signore” che aveva conosciuto personalmente Gesù, e che Policarpo poté conoscere a sua volta personalmente molti anni addietro. Così Ireneo, in Francia e 200 anni dopo la nascita di Cristo, poteva ricordare Giovanni che aveva conosciuto direttamente Gesù, a sua volta tramite una persona, Policarpo, che aveva conosciuto direttamente Giovanni. Quando il vescovo di Lione durante la messa spezzava il Pane, non pensava ad un concetto preso dai libri, bensì al maestro Policarpo, il cui amico e apostolo Giovanni aveva conosciuto personalmente Gesù. Così si è conservata la memoria e la tradizione della Chiesa».


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comunismo, testimonianza

mercoledì, 25 febbraio 2009
Il caso Wajda.
 Il maestro censurato
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 Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere». Le scomode verità del grande regista di “Katyn”
 di Roberto Persico e Annalia Guglielmi
Varsavia

È appena tornato da Berlino, dove il suo Tatarak ha vinto il premio speciale della giuria per un’opera che «apre all’arte cinematografica nuove prospettive». «Pensi – dice sorridendo all’inviato di Tempi nei suoi studi a Varsavia – che il riconoscimento lo hanno dato ex-aequo a me e a un regista argentino poco più che trentenne al suo primo film». Lui, Andrzej Wajda, di anni ne ha ottantatré, e di regie alle spalle ne conta oltre tre dozzine. Ma ha ancora l’entusiasmo di un giovanotto e il gusto di usare la macchina da presa per continuare a raccontare le gioie e i dolori della vita, oggi come trent’anni fa, quando opere come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e Danton filtravano attraverso la cappa di piombo del socialismo reale e facevano sentire anche in Occidente la voce di un uomo libero, che non ha mai rinunciato a guardare la realtà coi suoi occhi rifiutando le lenti deformanti dell’ideologia. L’arrivo nelle sale italiane, dopo lunghe peripezie, di Katyn, il film sull’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi, è l’occasione per incontrare Wajda e parlare con lui di cinema. E di molto altro.
Andrzej Wajda, cominciamo dalla pellicola che sta riproponendo il suo nome in Italia. Da dove nasce l’idea di fare un film sul massacro di Katyn?
Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell’esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c’era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattuto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche.

Che cosa ha voluto dire allora per lei girare un film come questo?
Ho sempre avuto in mente che un film su Katyn avrei potuto e dovuto farlo io: farlo ha voluto dire saldare un debito con mio padre e mia madre, far conoscere a tutti l’eccidio compiuto sugli uomini e la menzogna perpetrata nei confronti delle loro donne.

Ci risulta, però, che l’opera abbia avuto qualche “problema di circolazione”. È vero?
Guardi, in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, posso dire di essere soddisfatto. Del resto era un’opera che la gente aspettava da sessant’anni. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla televisione di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Di-stribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che «l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche». Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune. Il caso più clamoroso, comunque, è quello della Russia.

Per quali ragioni?
Perché in Russia, ancora oggi, Stalin è amato. Compare ancora in cima alle classifiche dei personaggi più popolari. Si sa che ha ucciso decine di milioni di persone, eppure molti russi ritengono ancora che lo abbia fatto per il bene del suo paese. Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Pensi che gli organizzatori della Settimana del cinema polacco, in Ucraina, a Kiev e Charków (mi stava a cuore soprattutto questa proiezione, perché proprio in quella città fu ucciso mio padre nella primavera del 1940 e là è sepolto), si sono visti recapitare una una lettera della Televisione Polacca di questo tenore: «Telewizja Polska – l’unico e solo titolare dei diritti di distribuzione del film – non è a conoscenza di NESSUNA proiezione di Katyn in programma per la Settimana del cinema polacco in Ucraina. Per favore, abbiate la cortesia di ritirare il titolo dalle vostre programmazioni, e di comunicarci nome e contatti della persona o dell’organizzazione che vi ha fornito i diritti per la proiezione». Un tono piuttosto minaccioso, non le pare?

Chi si oppone alla circolazione di Katyn? Gli stessi che hanno pilotato il processo che ha portato alla scandalosa assoluzione degli assassini di Anna Politkowskaya?
Non ho ancora fatto in tempo a valutare fino in fondo la notizia a cui ha accennato. Però certo mi fa impressione che in un paese che pretende di essere democratico ritornino gli assassinii politici, come ai tempi della dittatura. È un fatto che non può non preoccupare vivamente.



In Italia qualcuno dice che Katyn sarà un flop perché non interessa, è una storia datata. Perché riproporla adesso che il comunismo è finito da vent’anni?
In Polonia il perché è chiarissimo: perché non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine. I tedeschi hanno compiuto crimini peggiori, ma i loro governanti lo hanno riconosciuto, e ora i nostri rapporti con la Germania non sono più avvelenati dal rancore. Non ci può essere amicizia fra due popoli se non si riconoscono i torti commessi.

Le sue opere sono state armi importanti per la lotta dei polacchi contro il regime. Come giudica il mondo che da quella lotta è nato, la Polonia e l’Europa di oggi?
Non solo i miei film, ma tutto il cinema polacco ha sempre fatto di tutto per costruire un ponte con l’Occidente. La Polonia è parte dell’Europa, i polacchi si sono sempre sentiti occidentali. Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche. Dove c’è una chiesa gotica vuol dire che è arrivata non solo la religione cattolica, ma la civiltà mediterranea. Noi polacchi, pur con tutti gli ostacoli, le difficoltà che abbiamo incontrato nella storia, apparteniamo pienamente a questa cultura, a questa civiltà.

Ma la Polonia di oggi è quella che immaginavate vent’anni fa?
Guardi, io non sono preoccupato perché la Polonia non ha sviluppato quella bella forma che noi speravamo. La democrazia è un sistema difficile, si assimila solo lentamente. La cosa davvero importante è che la società adesso può parlare di se stessa, che le persone possono mettere a tema quel che sta loro a cuore: è questo, in fondo, che ci interessava. La gente prima ha dato fiducia a Solidarnosc, poi ha ridato una possibilità alla sinistra, poi ha preso altre strade. L’importante è che le persone hanno cominciato a scegliere. Poi fa parte del gioco della democrazia che alcune scelte siano felici, altre meno. Personalmente, ho apprezzato molto le decisioni del primo governo, quello di Mazowiecki, la scelta di puntare subito su una forte integrazione con l’Europa: ha rivitalizzato la nostra economia, ci ha dato una moneta forte. L’integrazione con l’Europa ormai è un fatto irreversibile, i tentativi nazionalistici sono puramente folkloristici.

Ma in Europa ci si imbatte anche in una nuova ideologia, più sottile ma non meno penetrante, un’ideologia nichilista che afferma che nulla ha valore, una “dittatura del desiderio” secondo cui l’unico valore è soddisfare i desideri immediati di ciascuno. Cosa pensa a questo proposito?
Non ho paura di questo. In Polonia la situazione è diversa, la Chiesa ha ancora un ruolo importante. A me non spaventa che la gente, dopo quarant’anni in cui ogni iniziativa era inibita, riprenda a muoversi secondo i propri desideri, che cerchi la propria soddisfazione in tutti gli ambiti della vita. La gente ha ripreso in mano la responsabilità per il proprio destino: non mi sembra che sia nichilismo. L’importante è che la Chiesa continui a essere quella che è. La Chiesa nella storia polacca ha avuto un ruolo fondamentale. I preti erano contro il nazismo, i preti erano contro il comunismo, si sapeva bene la Chiesa da che parte stava. In Polonia oggi ci sono settori della Chiesa che si intromettono troppo nella politica spicciola, che pretendono di stabilire chi debba essere quello o quell’altro ministro (il riferimento è a un gruppo di sacerdoti che da qualche tempo svolge in Polonia una chiassosa campagna politica in chiave fortemente nazionalista, da cui peraltro i vescovi hanno nettamente preso le distanze, ndr). Non è il suo compito. Il compito della Chiesa è quello di sempre, difendere la persona dal potere dell’ideologia. Vorrei che non si scostasse da questo, che è il suo ministero di sempre.

Un compito che è ben rappresentato dall’opera di Giovanni Paolo II. Lei lo ha conosciuto bene. Che cosa ce ne può raccontare?
Forse è meglio dire, come fece una volta Zanussi (Krzysztof Zanussi, altro grande regista polacco, ndr), a cui era stata rivolta la stessa domanda: «È lui che conosce me». Ma visto che insiste, le racconterò un episodio che per me è stato particolarmente commovente. Una volta in Vaticano era stata organizzata una proiezione alla sua presenza del mio film Pan Tadeusz, che porta sullo schermo il più classico dei testi della letteratura polacca: anche il giovane Wojtyla lo aveva interpretato quando recitava nel “Teatro rapsodico”. Ebbene, a un certo punto il Papa ha chiuso gli occhi, e si vedeva che stava assaporando quelle parole, che tante volte anche lui aveva recitato. Poi li ha riaperti, ha seguito il film fino al termine e alla fine mi ha detto: «L’autore ne sarebbe soddisfatto». È stata la più importante recensione che ho ricevuto.

È questo che la spinge a continuare, a realizzare a ottant’anni suonati opere che vengono premiate perché «aprono all’arte cinematografica nuove prospettive»?
Chissà (Wajda sorride, ndr). Certo che non mi aspettavo proprio questo riconoscimento. Oggi va di moda realizzare film mescolando invenzione e realtà, così ci ho provato anch’io. Avevo cominciato a girare un film su questa novella di uno scrittore polacco, Jaroslaw Iwaszkiewicz, che si intitola Tatarak (è il nome di una canna selvatica che cresce lungo i fiumi, dal profumo inebriante). La storia ha come protagonista una donna il cui compagno è gravemente malato, però a un certo punto il marito dell’attrice che impersonava la protagonista, Krzystyna Janda, si è ammalato per davvero, e lei ha dovuto prendersene cura. Pensavo che non se ne sarebbe fatto più niente, invece, dopo la morte del marito Krzystyna è venuta da me e mi ha detto che era disposta a proseguire il lavoro, inserendo però anche il racconto di che cosa aveva significato per lei seguire la malattia del marito. Così è venuto fuori questo film, in cui realtà e finzione si incontrano per mettere a tema il nostro atteggiamento nei confronti della malattia e della morte, un dramma che riguarda tutti.

Insomma, questo significa che è ancora possibile fare del cinema che non sia di evasione, ma che aiuti a guardare più profondamente le cose.
Assolutamente sì. La differenza è che anni fa i temi prevalenti erano la politica e la società, oggi è l’uomo, i suoi drammi, i suoi desideri. E la morte, che ci aspetta dietro l’angolo, che non possiamo evitare



da Radio Formigoni - Rubrica “Movie & Popcorn” a cura di Beppe Musicco di Sentieridelcinema.it

Postato da: giacabi a 22:06 | link | commenti
comunismo

sabato, 21 febbraio 2009
TESTIMONIANZA/ Harry Wu:
 la mia vita da dissidente nei Laogai cinesi
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da: .ilsussidiario. del 18-02-09
mercoledì 18 febbraio 2009
La divisione italiana della Fondazione per la ricerca sui Laogai (www.laogai.it - Laogai Research Foundation) insieme al Mup, Movimento universitari padani, ha organizzato venerdì 12 Febbraio un incontro con il fondatore della Fondazione Harry Wu per denunciare la realtà dei campi di lavoro forzato in Cina, dove vengono tutt’ora internati milioni di oppositori alla dittatura comunista.

Harry Wu è un testimone diretto di questa realtà concentrazionaria cinese per aver subito sulla propria pelle per anni tali torture. In seguito riuscì a emigrare negli Stati Uniti, dove risiede attualmente, e a fondare la Laogai Foundation che denuncia in tutto il mondo questa spaventosa realtà.

Signor Wu cosa significa esattamente la parola Laogai e da quanto tempo esistono in Cina questi luoghi?

Il termine Laogai è in realtà una sigla “Laodong Gaizao Dui” e significa letteralmente “riforma attraverso il lavoro”. I Laogai sono stati introdotti immediatamente dopo la presa del potere di Mao Zedonge l’instaurazione della dittatura comunista in Cina nel 1949, con l’aiuto dei sovietici che insegnarono alle guardie rosse come strutturarli. Esistono dunque da sessant’anni e in questo arco di tempo abbiamo calcolato che circa cinquanta milioni di persone sono passate attraverso questa tremenda realtà concentrazionaria. Oggi sono rinchiusi e costretti ai lavori forzati circa tre milioni e mezzo di persone.

Ma cosa avviene esattamente in un Laogai? In cosa consiste questa prigionia?

I Laogai sono un formidabile strumento del governo cinese per ottenere manodopera a costo zero. Chi entra in una di queste 1.045 strutture sparse su tutto il territorio cinese è completamente uno schiavo del Partito Comunista, costretto a lavorare per sedici ore al giorno in miniere, fattorie o fabbriche. Questi detenuti sono sottoposti a torture, malnutriti e costretti a dormire in baracche con condizioni igieniche inesistenti. Così il governo cinese riesce a raggiungere l’obiettivo di reprimere e internare qualsiasi dissidente senza nemmeno un finto processo. Persone che dichiarano il proprio credo religioso o cercano di praticarlo pubblicamente, persone che si battono per la libertà o semplicemente esprimono delle critiche pubbliche al governo vengono incarcerate assieme a comuni delinquenti, ai quali comunque non andrebbe riservato un trattamento così crudele. Una caratteristica centrale del sistema Laogai è il sistematico lavaggio del cervello del detenuto. L’indottrinamento politico si effettua con “sessioni di studio” giornaliere che hanno luogo dopo le lunghe e dure ore di lavoro forzato. Poi si utilizza l’autocritica, che avviene davanti ai sorveglianti e agli altri detenuti ed è finalizzata a “riformare” la personalità di chi si auto-accusa. Innanzitutto si devono elencare e analizzare le proprie colpe, anche se inesistenti. Successivamente ci si deve accusare pubblicamente di averle commesse, procedendo alla riforma della propria personalità, per diventare una “nuova personalità socialista”.
Signor Wu, lei è stato imprigionato e costretto ai lavori forzati per diciannove anni. Di che colpa si era macchiato?
Sì è vero, ho passato momenti atroci in quel periodo. Quando fui arrestato era il 1960 e avevo 23 anni. Ricordo benissimo che ero a disagio nel clima di polizia in cui si viveva e tutt’oggi si vive in Cina. Non si potevano esprimere opinioni, tutti venivano continuamente spiati. Mi considero un patriota e all’epoca sostenevo sinceramente anche la figura di Mao Zedong. Ero un ragazzo di vent’anni e sicuramente non ero politicizzato. I miei problemi iniziarono nel 1956. A quell’epoca ero iscritto alla facoltà di geologia all’università di Pechino. Quando iniziarono le sollevazioni del popolo ungherese contro i sovietici, espressi semplicemente l’opinione che a mio giudizio le armate sovietiche avevano utilizzato dei metodi sbagliati per sopprimere i moti della popolazione ungherese. Ma fu la mia protesta contro la distinzione in uso tra “compagni”, in senso di appartenenti al partito, e “colleghi di classe”, che per il proprio credo o opinioni venivano discriminati, a provocare l’arresto. Io sono cattolico e mio padre prima della rivoluzione era banchiere. Quando venni allo scoperto fui immediatamente mandato in un Laogai. Durante quegli anni venni trasferito per ben tre volte da una miniera di carbone ad altre fabbriche. È stato un periodo difficilissimo della mia vita, talvolta ho pensato al suicidio, ma è stato soprattutto il desiderio di rivedere mia madre a salvarmi.
Poi cosa successe?
Grazie a Dio, dopo il mio rilascio nel 1979, riuscii a immigrare negli Usa nel 1985. Dapprima non volevo rivelare la mia terribile esperienza a nessuno. Lavoravo sodo nei negozi per la vendita di ciambelle e mi ero ripromesso di non parlare mai più della Cina. Poi ripresi coraggio, tornai a studiare all’università di Berkeley in California e decisi di denunciare apertamente i crimini cinesi. Il mondo doveva sapere esattamente cosa avveniva nei Laogai. Così fui ricevuto dal Senato degli Stati Uniti per testimoniare sulla mia vicenda personale. Nel 1992 fondai a Washington la Laogai Research Foundation con la quale mi batto per far conoscere in tutto il mondo cosa siano i Laogai e aiutare i dissidenti cinesi, cosicché un giorno la dittatura di Pechino possa essere spezzata. Solo nel 1993 la parola GuLag (i campi di lavoro forzato sovietici) è uscita alla ribalta internazionale grazie all’infaticabile lavoro di Solženicyn. Nel 2003, con la nostra fondazione siamo riusciti a far introdurre il termine Laogai nel vocabolario di Oxford. Purtroppo la realtà dei Laogai perdurerà ancora per molto tempo in Cina, siamo solo agli inizi del nostro lavoro di denuncia.
Come giudica l’operato delle Nazioni Unite per difendere i diritti umani in Cina?
Per dieci anni, dal 1990 al 2000 mi sono recato a Ginevra per denunciare la politica del figlio unico imposta dal governo cinese come strumento di controllo demografico. Scegliere liberamente quanti figli avere è un diritto fondamentale, ma le Nazioni Unite con la conferenza sulla donna a Pechino hanno scelto a maggioranza di sostenere le politiche del governo cinese. È stata una decisione tragica con la quale in Cina vengono perseguitate e costrette all’aborto migliaia di donne. Cito il caso di Chen Guang Chen, attivista per i diritti umani, tuttora in prigione per essersi battuto contro la campagna di aborti forzati imposta dal regime cinese nella provincia dello Shandong. Secondo il settimanale Times (Times 9.12.05 ndr) solo in una parte di questa provincia almeno 7.000 giovani donne sono state costrette ad abortire dal marzo al luglio del 2005. Alcuni episodi sono agghiaccianti, come il caso di una giovane di 23 anni, Li Juan, alla quale gli operatori sanitari hanno infilato un ago nell’addome fino a raggiungere il feto di nove mesi che si è dapprima mosso scalciando e poi si è fermato. Almeno 130.000 aborti forzati hanno luogo in Cina ogni anno secondo il Parlamento Britannico, che nel 2007 ha presentato una mozione in cui si chiede al Governo di cessare l’erogazione dei contributi del Regno Unito in favore dell’UNFPA, il Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, che sostiene economicamente la politica di “pianificazione familiare” del regime cinese. È triste constatare che a causa di questa agenzia Onu, la condizione della donna in Cina è diversa e peggiore di quella delle donne di tutto il mondo. Oltre a non difendere l’elementare diritto alla vita, le Nazioni Unite fanno molto poco per spingere il governo cinese verso la libertà di culto e di educazione in Cina. Basti pensare che ogni tipo di educazione non statale è bandita.
Sono in molti a pensare che l’apertura del mercato cinese al resto del mondo e il conseguente sviluppo economico e tecnologico che questo ha comportato spinga verso una progressiva democratizzazione del governo cinese.
Innanzitutto c’è una distinzione fondamentale tra libertà e democrazia. È importante lavorare sulle libertà inalienabili dell’uomo, quei diritti fondamentali che oggi il governo cinese calpesta. Anche il Partito Comunista parla di democrazia, ma la libertà in Cina è inesistente.
In secondo luogo i fatti confermano il contrario. Il Partito Comunista attraverso i suoi funzionari controlla e guadagna su tutte le attività di mercato presenti sul territorio cinese. In questi anni sono aumentate la repressione, gli abusi, i morti e gli arresti. Le cifre ufficiali parlano di 58.000 rivolte popolari nel 2003, di 74.000 nel 2004 e 87.000 nel 2005. Non si tratta di ricchi studenti che giocano alla rivoluzione, ma di veri e propri affamati. Io ho una posizione diversa, di fronte a questa brutale negazione dei diritti umani si deve avere il coraggio d’imporre sanzioni economiche contro la Cina o questi crimini contro l’umanità continueranno a essere commessi.

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comunismo

martedì, 03 febbraio 2009
Il compagno

***

Un Gatto, che faceva er socialista
solo a lo scopo d’arivà in un posto,
se stava lavoranno un pollo arosto
ne la cucina d’un capitalista
.
Quanno da un finestrino su per aria
s’affacciò un antro Gatto: - Amico mio,
pensa - je disse - che ce so’ pur’io
ch’appartengo a la classe proletaria
!

Io che conosco bene l’idee tue
so’ certo che quer pollo che te magni,
se vengo giù, sarà diviso in due:
mezzo a te, mezzo a me… Semo compagni!

- No, no: - rispose er Gatto senza core -
io nun divido gnente co’ nessuno:
fo er socialista quanno sto a diggiuno,
ma quanno magno so’ conservatore
!
Trilussa Carlo Alberto Salustri, Roma 1871 - 1950 


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comunismo, trilussa

giovedì, 22 gennaio 2009
VANDA DAGLI OCCHI AZZURRI
 ***
Quanto vale un uomo

 Eravamo vicine di letto nella grande camerata femminile dell' ospedale del lager, dove non c' era un centimetro libero. Avevo già avuto modo di osservare la denutrizione in tutti gli stadi possibili e immaginabili, ma non avevo ancora incontrato un simile esempio di scheletro vivente! E su quel teschio splendevano grandi occhi azzurrissimi, di una sfumatura cobalto. Nei casi di estremo esaurimento gli occhi di solito si infossano, diventano opachi, mentre quelli di Vanda... Guardando quegli occhi, quasi non ci si accorgeva più del cranio completamente rasato, della pelle secca, aderente alle ossa, delle nere labbra screpolate che non potevano coprire la chiostra dei denti, belli ma velati da una patina di muco secco. Si rigirava nel letto, alzandosi, o meglio sollevandosi continuamente sulle braccia, e allora faceva ancora più spavento: non aveva camicia, la si sarebbe dovuta cambiare troppo spesso. Giaceva su un' incerata, sulla quale le gocce di sangue colavano quasi ininterrottamente. Io la capivo, infelice ragazzina appena uscita dall' età infantile. A due-trecento passi da lì, fuori del portone c' era sua madre, che non vedeva da due anni: proprio per incontrarla aveva affrontato tutti i pericoli della «strada della vita», che invece l' aveva portata in quell' ospedale di lager, dopo l' arresto per abbandono del posto di lavoro. Il fatto è che gli adolescenti la cui salute era irreversibilmente minata dalla tubercolosi e dalla pellagra venivano «scartati», cioè cancellati dagli elenchi dei campi per inattitudine al lavoro, e i genitori o i parenti potevano venirseli a prendere. Ma c' era la severa disposizione di non scartare quelli intrasportabili o che dovevano morire in breve tempo. Non potevano andare a morire a casa neppure quelli il cui aspetto poteva testimoniare in maniera evidente quali erano gli effetti del campo di lavoro correzionale... «Mi dica, zia Frosja, ma mi dica tutta, tutta la verità: la mamma non si spaventerà troppo quando mi vedrà? Non voglio che si spaventi». «Ma che dici, bambina!», cercavo di calmarla. «Come fa una mamma a spaventarsi della propria figlia? Sei malata. E la mamma lo sa. Sa anche che la malattia non rende belli». «È proprio questo che mi preoccupa! La mamma è partita all' inizio, per accompagnare i bambini sfollati sugli Urali, e non è più potuta tornare. Io sono rimasta con il papà, ma lui è morto già nel primo inverno, e io mi sono messa a lavorare: cucivo sacchi, li riempivo di terra. Già a Leningrado avevo una bruttissima cera, ma la mamma mi ricorda com' ero prima della guerra. Sa», disse un po' imbarazzata, «ero bella. No, davvero, molto bella! Con i capelli ricci, colorita... Adesso invece sono pelata, magra... faccio paura». E mi guardava con aria interrogativa, speranzosa. «Ma che dici, Vanda! Capirai che guaio se non hai più i ricci! I ricci ricresceranno. E il colorito, quando si hanno sedici anni, fa presto a tornare. A questo, credimi, ci penserà la mamma. E anche adesso, per quanto tu sembri magra o, come dici, pelata, per la mamma sei sempre la più bella! Ora sbrigheranno tutte le formalità, ti rilasceranno il certificato...». Con quanta gratitudine mi guardavano i suoi fiduciosi occhi azzurri! Probabilmente sorrideva, benché sia difficile affermarlo: il digrignare dei denti non coperti dalle labbra somiglia sempre a un sorriso. Mi tendeva una mano, e io accarezzavo quella pelle secca e fredda: la mano di uno scheletro. Ma sapevo dalle parole di Sarra Abramovna che la madre della ragazza aspettava invano giorno e notte al portone, senza mai allontanarsene: le avevano negato il permesso, non le avevano lasciato alcuna speranza... Questa conversazione si ripeteva diverse volte al giorno. E sempre, tranquillizzandosi, Vanda mi tendeva la mano, e io la accarezzavo. Mentre sull' incerata colavano goccioline di sangue... Morì senza soffrire. Semplicemente, insieme al sangue, finì anche la vita. Lo sentì, la madre, quando sua figlia le passò accanto, sotto una tela catramata, nella carretta che la portava alla fossa comune?
Kersnovskaja Evfrosinija, Quanto vale un uomo, Milano, Bompiani, 2009
per i disegni premi qui

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comunismo

martedì, 30 dicembre 2008
***
 " Quando si crede che l'uomo può essere salvato dall'uomo, si è pronti per il comunismo o per il nazismo.
J. Roth

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comunismo, ideologia

venerdì, 24 ottobre 2008
Premio Sakharov ad Hu Jia:
 ira per Pechino, gioia per gli attivisti
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Il governo cinese accusa “la premiazione di un criminale detenuto”. Ma gli attivisti per i diritti umani plaudono “questo forte incoraggiamento” e invitano Pechino a riconoscere i diritti umani fondamentali “per diventare una grande potenza moderna”.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Reazioni irate da Pechino e commenti entusiasti di chi lotta per i diritti umani in Cina, dopo che ieri il Parlamento europeo ha insignito Hu Jia del prestigioso Premio Sakharov, assegnato ogni anno a chi si è distinto nella lotta per i diritti umani e la libertà.
Ferma protesta di Liu Jianchao, portavoce del ministero cinese degli Esteri, che parla di una “grossolana interferenza negli affari interni della Cina”, con “la premiazione di un criminale detenuto, senza considerare le nostre ripetute proteste”. In precedenza Pechino aveva ammonito Strasburgo che una simile scelta avrebbe potuto “danneggiare” le relazioni. “Non credo – ha proseguito – che questo premio rappresenti l’opinione della maggior parte dei cittadini europei”.
Hu lotta da anni a favore dei diritti dei malati di Hiv-Aids ed è diventato un vero simbolo, anche in Cina, della lotta coraggiosa per i diritti umani. E’ stato arrestato a dicembre per avere criticato il governo, anche per la demolizione di interi quartieri a Pechino per la costruzione di opere olimpiche. Ad aprile è stato condannato a 3 anni e mezzo di carcere per “sovversione”, per articoli pubblicati su internet che rivelano - a detta del governo - i suoi “rapporti con le potenze straniere, tesi a screditare l’immagine della Cina”.
Molti attivisti cinesi per i diritti ritengono che quanto dice il loro governo non rappresenti l’opinione pubblica del Paese. Bao Tong, noto attivista per i diritti sotto stretta sorveglianza della polizia, ha commentato che “questo è un forte incoraggiamento per Hu e per chiunque lotti per la libertà e i diritti umani in Cina”. “E’ anche la massima dichiarazione di sostegno per tutti i cittadini cinesi che chiedono i diritti umani fondamentali. Hu lotta per valori riconosciuti come essenziali in tutto il mondo. Se la Cina vuole diventare una potenza moderna, deve riconoscere i diritti universali dell’uomo”.
Wan Yanhai, attivista per i malati di Aids, si augura che ciò possa indurre le autorità a liberare presto Hu. Ma Li Jingsong, avvocato di Hu, pensa il contrario, perché Pechino “non vuole mostrare di cedere alle pressioni internazionali”. Anche se commenta che almeno la metà delle guardie carcerarie, che sorvegliano Hu giorno e notte, “mi hanno detto che è una brava persona e un vero cristiano, capace di amare anche chi lo maltratta”.
Con il premio sono anche assegnati 50mila dollari. Gao Yaojie, ginecologo la cui lotta per i diritti dei malati di Aids è stata apprezzata dalle Nazioni Unite, si augura che “almeno le autorità [cinesi] non blocchino la somma” e ne permettano la consegna alla moglie Zeng Jinyan, da mesi agli arresti domiciliari sorvegliata a vista con la figlia di 11 mesi. “Fa un vita molto difficile”.
Zeng (nella foto con Hu) ha espresso per telefono la propria gioia per il premio. “Ho sempre pensato – aveva detto in precedenza – che simili riconoscimenti nel tempo lungo siano un aiuto” per la lotta di Hu.
La madre di Hu, per telefono, non parla del premio ma è contenta che da 2 settimane il figlio sia stato trasferito dal carcere di Tianjin a quello di Pechino, dove finalmente ha potuto fargli visita, con la nuora e la nipote.
“Non mi è sembrato stanco – dice – e in questa prigione non deve lavorare. Ha un buon morale e il cibo è molto migliore. Gli hanno anche permesso di tenere in braccio la figlia, durante la visita. Ora spero che gli permettano anche di ricevere cure mediche”.

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comunismo

sabato, 16 agosto 2008
CINA
Le false immagini delle Olimpiadi di Pechino
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di Bernardo Cervellera                       da:AsiaNews

Il falso della bambina che canta la canzone (con la voce di un’altra) alla cerimonia di inizio dei Giochi è solo una delle tante trappole di queste Olimpiadi che preferiscono l’immagine alla realtà: per coprire i disastri ecologici ed umani portati dal Partito comunista al potere. Si vuole eliminare l’individuo e il popolo e per questo si nega la libertà religiosa. Il consiglio di Benedetto XVI.

Pechino (AsiaNews) - Lin Miaoke, la bambina che ha cantato l’Ode alla madrepatria alla cerimonia di apertura dei Giochi di Pechino, ha solo mimato la canzone. Chen Qigang, direttore musicale della serata ha dichiarato che la piccola Lin prestava soltanto la sua immagine. La voce veniva da un’altra bambina, Yang Peiyi, con una voce più bella, ma con una dentatura non perfetta e un volto meno accattivante. Nei blog cinesi si accusano gli organizzatori della serata di aver preferito l’immagine ai contenuti e ci si domanda come si fa a disprezzare il volto semplice di una bambina di 7 anni, che non solo canta, ma anche dipinge e ama l’opera di Pechino. Chen Qigang ha sottolineato che la scelta di immagine, più che del contenuto è avvenuta addirittura per salvare “gli interessi nazionali”.
Un’altra rivelazione – confermata dal Comitato organizzatore dei Giochi - è quella per cui nella trasmissione televisiva si sono visti fuochi d’artificio per tutta la città: essi non erano reali, ma generati dal computer. L’artificio era necessario perché la sera dell’8 agosto il cielo di Pechino era nuvoloso e nebbioso – a causa dell’inquinamento e del caldo - e la visione da lontano non chiara.
Per evitare imbarazzanti domande sull’inquinamento, anche qui – sempre per “l’interesse nazionale” – si è preferito giocare d’immagine più che di sostanza.
Tutto questo non stupisce per nulla. Tutto il carrozzone delle Olimpiadi è usato dalla Cina per questo motivo: promuovere un’immagine del Paese moderna, aperta, gioiosa, pulita, giovane forse per attrarre nuovi investimenti e turisti, cercando di far dimenticare problemi e contraddizioni che pure restano acuti nella popolazione .
L’ambiente
Per rimanere alla cerimonia di apertura, la retorica dei bambini che disegnano il sole (che si vede raramente a Pechino), o le nuvole bianche (anch’esse rare) fa a pugni con la situazione concreta della Cina attuale. Secondo un’inchiesta recente, oltre il 90% dei cinesi reputa l’emergenza ecologica il problema più grave del Paese, che crea mancanza di acqua potabile in città e campagne e la morte di almeno 400 mila persone all’anno per problemi respiratori.
In questi giorni i visitatori stranieri sono bombardati alla tivù da immagini turistiche di sogno, nel Zhejiang o nel Sichuan, con laghi tranquilli e azzurri, foreste verdi, panda giocosi, mentre la realtà è fatta di industrie che inquinano e di intere regioni terremotate a rischio infezione e di inquinamento nucleare.
La cultura
Una simile operazione di immagine avviene per la cultura. Non c’è trasmissione televisiva o giornale quotidiano che non abbia ormai rubriche sull’antica cultura cinese: calligrafia, musica, opera, riti, feste, tradizioni… Tutto però viene spiegato come delle “cose” da praticare. Si pubblicizzano riti, cibi, tradizioni senza andare a fondo dei motivi che li hanno fatti emergere. Si danno solo “istruzioni per l’uso” (oggi mangiate ravioli; oggi mangiate spaghetti; oggi mangiate quella verdura;…) senza mai avvicinarsi ai perché: perché oggi si dovrebbero praticare queste cose?
Anche la cerimonia di apertura ha glorificato i saggi confuciani, la scrittura, la stampa, la Via della seta, l’architettura del passato e poi si è lanciata verso il futuro, l’astronave, il mondo fraterno sperato, senza dire nulla del presente così doloroso per centinaia di milioni di cinesi.
Un grande assente: il Partito comunista
Alla cerimonia di inizio si è messo fra parentesi tutto il periodo comunista dell’ideologia pura: nel far scorrere i grandi momenti della storia cinese si è passati dai costumi e dalle colonne rosse del periodo Ming e Qing alle imprese spaziali di Yang Liwei, il primo astronauta cinese.
Tutto questo è dovuto anzitutto al fatto che il Partito comunista in Cina sta soffrendo la più profonda crisi ideologica dalla sua fondazione, minato com’è dalla corruzione e dal decadere del suo “servizio al popolo”. Ma è anche dovuto al fatto che l’organismo più criticato – e forse più odiato – dai cinesi è proprio il Partito. Le decine di migliaia di rivolte che avvengono ogni anno e che sempre di più giungono fino ad assalire le sedi del Partito, metterle a ferro e fuoco, scontrarsi con la polizia e l’esercito a causa di espropri, inganni, inquinamenti, licenziamenti, ingiustizie dicono quanto la gente ami il Partito. Per “migliorare l’immagine”, il Ministero della propaganda, preoccupato di questo trend, si è detto pronto a pagare 5 mao (5 centesimi di euro) ad ogni persona che nei blog su internet infili una lode al Partito. Anche nella cerimonia d’inizio, per questioni di “immagine”, si è preferito saltare a piè pari ogni riferimento a Mao – che propose il disastroso Balzo in Avanti e la sanguinaria Rivoluzione culturale - e a Deng, che ha imposto le modernizzazioni economiche senza la democrazia. E così si evita di fare un lavoro di “purificazione della memoria”: di rivedere la storia, per confessare i propri errori.
Manca l’uomo e la sua libertà
Da tutte le cerimonie olimpiche manca l’uomo e il popolo. Tutti i tedofori sono stati scelti fra personalità del Partito, del commercio, dello spettacolo e dello sport. Nessuna traccia dei milioni di lavoratori migranti che per anni sono stati sfruttati per costruire i faraonici impianti olimpici; nessuna traccia di qualche pechinese, costretto a subire i problemi delle Olimpiadi (traffico, sicurezza, difficoltà di movimento, controlli,…) senza godere di nessun vantaggio.
Al popolo viene richiesto di ubbidire: non sputare per terra; non gridare per strada; non manifestare le proprie opinioni… Non si chiede il loro coinvolgimento. La gente di Pechino soffre e subisce accanto alle Olimpiadi, ma non vi partecipa. Ne è prova i molti posti vuoti agli stadi:i biglietti sono stati dati agli sponsor che non si sono nemmeno presa la briga di distribuirli. L’importante è solo l’immagine, che il logo dello sponsor appaia alla televisione.
Coinvolgimento e partecipazione implicano un appello alla responsabilità della persona. Ma questo è ciò che il potere teme di più.
Ma anche i progetti che la Cina vorrebbe raggiungere, come ad esempio la pulizia dell’ambiente, senza esaltare la responsabilità dell’individuo e della persona, rischiano di non produrre frutti.
La libertà religiosa
Dopo le critiche dei media internazionali sulla censura operata dalla Cina su internet, rimangono oscurati ancora i siti religiosi e soprattutto quelli cattolici e della Falun Gong. Io penso che questo sia perché la religione è la strada della riscoperta dell’individuo, che invece il potere cinese cerca di eliminare. La proposta che il potere fa ai giovani è solo quella di un materialismo consumista: cose da possedere, ricchezza da sperare, potenza cinese da espandere, niente per l’anima. E si elimina la religione. Quanto il papa ha detto  giorni fa - “è importante che questo grande Paese si apra al Vangelo” - non è solo una richiesta di libertà religiosa: è una necessita per la Cina, perché sia esaltata la responsabilità dell’individuo, senza di cui nessun ideale, nemmeno quello di un mercato vibrante, potrà essere mai pienamente attingibile.

Postato da: giacabi a 08:04 | link | commenti
comunismo, cina

martedì, 05 agosto 2008
Il comunismo
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«Per noi in Russia, il comunismo è un cane morto, mentre, per molte persone in occidente è ancora un leone vivente.»
 Aleksandr Solzenitsyn

 

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comunismo, solzenicyn

domenica, 20 luglio 2008
Altro che Olimpiadi
la Cina è un orrore"
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di Gian Micalessin                                                                          da:
                                                                                                          n. 172 del 2008-07-20
Intervista a Harry Wu, il dissidente che ha vissuto 19 anni nei "laogai", i campi lager comunisti
Un orrore lungo 19 anni. Gli cadde addosso nel 1961 quando era uno studente universitario ventitreenne e non lo abbandonò fino al 1979. Diciannove anni nei campi di lavoro della Cina comunista senza una vera colpa, senza un processo, senza un’autentica condanna. La vita di Harry Wu è ancora oggi, a 71 anni suonati, una vita segnata da quell’orrore, dal ricordo dei compagni di prigionia piegati dalla fame e dagli stenti, dalla fatica e dalla determinazione che lo aiutò a uscire dai campi di lavoro dove la Cina di Mao seppellì decine di milioni di cosiddetti «controrivoluzionari». La maggior parte dei suoi compagni di sventura non sopravvisse. Chi ci riuscì spesso non vuole ricordare.
Harry Wu ha fatto di quel ricordo la missione della sua vita. Anche dopo la libertà, dopo la «riabilitazione», dopo la fuga negli Stati Uniti
, non ha mai smesso di raccontare quei 19 anni, non ha mai smesso di pronunciare la parola «laogai». Grazie a lui la «rieducazione attraverso il lavoro», introdotta dal maoismo cinese per spegnere qualsiasi opposizione e qualsiasi resistenza, è diventata sinonimo di lager e gulag. Ma il cammino è ancora lungo e Harry Wu lo sa. Nonostante sia tornato in Cina, nonostante la recensione in un dettagliato elenco degli oltre mille campi di lavoro dove ancora oggi la Cina rieduca i suoi dissidenti, nonostante sia stato nuovamente arrestato, nuovamente condannato e definitivamente espulso dalla Cina, la battaglia di Harry Wu non si è mai fermata. Dopo il laogai e i lavori forzati ha denunciato le esecuzioni e i prelievi d’organi dai condannati a morte. Solo grazie a lui molte delle nefandezze del comunismo cinese sono venute alla luce, ma la strada è ancora lunga. Soprattutto in Europa, soprattutto in un continente che in nome degli affari ha spesso dimenticato le battaglie per i diritti umani. Ed ecco allora Laogai. L’orrore cinese, il nuovo libro intervista pubblicato da Spirali in cui il professor Wu ci accompagna nella raccapricciante galleria di sofferenze su cui è cresciuta e si sviluppa la potenza economica cinese. Ma questa potenza, a sentire quanto racconta Harry Wu al Giornale, potrebbe avere un orizzonte limitato perché, come ci ripete il più famoso dissidente cinese, «se a Pechino arriverà una nuova rivoluzione sarà la rivoluzione contro il comunismo».
Pechino può contare su un’economia florida, su un consenso abbastanza generalizzato, su un ferreo apparato di sicurezza e su rapporti internazionali abbastanza solidi: perché mai non dovrebbe sopravvivere?
«Perché chi comanda, il Partito, continua a professare il credo comunista e questo lo porterà a fare i conti con le proprie contraddizioni interne. Il comunismo puntava ad abolire la proprietà privata, la libertà di pensiero, di parola e di religione. Ma oggi la libertà economica diffonde anche un desiderio di libertà autentica. La gente apprezza il benessere, ma desidera la proprietà privata, vuole possedere la terra su cui vive.
Ma in Cina nessuno può possedere la terra. Quel diritto spetta solo allo Stato e al Partito. La stessa cosa vale per la religione. Chi è veramente cattolico non sa più cosa farsene dei vescovi nominati da Pechino, pretende di poter ascoltare la parola dei veri vescovi ordinati dal Papa. Lentamente questo processo travolgerà anche l’economia e chi investe i propri soldi pretenderà di sottrarla al controllo dei burocrati venuti dalle fila del Partito. Il Partito diventerà l’espressione di tutto quello che i cinesi non vogliono e sarà spazzato via».
Le Olimpiadi accelereranno questo processo?
«Le Olimpiadi non contano nulla, sono transitorie, passeggere. Quando si spegneranno i riflettori si spegnerà anche l’attenzione per i diritti umani. C’è una grande questione che tutti tendete a dimenticare. I Giochi sono affascinanti, ma passeggeri ed effimeri. La negazione dei diritti umani è invece continua perché connaturata al sistema. Non basta parlarne tre mesi per eliminarla. Conoscete qualcuno veramente disposto a boicottare i Giochi in nome dei diritti umani? Io non ne ho incontrato neppure uno».
Ma le Olimpiadi aiutano a far parlare della Cina...
«Qualsiasi cosa possiate dire, qualsiasi cosa succeda da qui alla fine dei Giochi non rappresenta un grosso problema per Pechino. Guardate il Tibet. A marzo hanno ucciso centinaia di persone e ne hanno imprigionate migliaia. Chi parla più di loro? Chi lotta per loro? Lo stesso Dalai Lama, se continueranno i colloqui con Pechino, sarà forse costretto a presenziare alle Olimpiadi».
Quali sono le violazioni dei diritti umani più plateali?
«In Cina, ci sono le esecuzioni. In Cina, le donne non sono libere di partorire. I Cina non esiste libertà di religione e di organizzazione. In Cina i mezzi di comunicazione sono interamente controllati dai comunisti e sostenuti dalle società come Yahoo, Cisco, Microsoft e Google. In Cina, se ti colleghi a Internet, devi inserire la tua carta magnetica, così la polizia scopre immediatamente che sei su Internet. La sicurezza cinese si fa dare da Yahoo o da qualsiasi altro provider le informazioni sull’indirizzo e-mail, le trasferisce ai tribunali che emettono atti d’accusa e ordini d’arresto. Ma la cosa più aberrante è forse la legge sul controllo delle nascite che toglie a donne e famiglie il diritto naturale alla procreazione. Per mettere al mondo un figlio le famiglie cinesi devono ottenere il permesso dello Stato. Per imporre questo sistema aberrante lo Stato spinge all’aborto milioni di donne e ne condanna altrettante alla sterilizzazione. Non c’è nulla di simile sulla faccia della terra».
Lei è stato il primo a denunciare i trapianti degli organi prelevati ai condannati a morte.
«
La Cina, oggi, è l’unico paese al mondo che usa gli organi espiantati ai condannati a morte per i trapianti. Grazie a questa pratica la Cina è oggi il secondo paese al mondo per trapianti d’organo. Il 95 per cento degli organi proviene da prigionieri giustiziati. Di conseguenza la Cina è l’unico paese al mondo in cui il numero dei prigionieri giustiziati cresce ogni anno. E il numero delle esecuzioni resta uno dei meglio custoditi segreti di Stato».
Cosa potrà metter fine a questi orrori?
«Solo la fine del comunismo».

Gian Micalessin

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comunismo

lunedì, 14 luglio 2008
Nazismo e comunismo sono gemelli
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"Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l'uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un'identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa,che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l'altro, il che è sempre più' triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica. "
Boris Pasternak da: Lettera ai genitori 5 marzo 1933

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comunismo, pasternak

giovedì, 05 giugno 2008
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Scritto da Gian Micalessin   
Da : il giornale lunedì 26 maggio 2008

 Il professor Harry Wu è innanzitutto un sopravvissuto. Nel 1960 quando venne accusato di essere un controrivoluzionario era un semplice studente di geologia di 23 anni. Si ritrovò in un campo di lavoro e ci uscì solo 19 anni dopo. Gran parte dei suoi compagni di prigionia morirono di fame o stenti. Lui promise a se stesso di sopravvivere per raccontare quell’inferno.
Liberato nel 1979 e fuggito negli Stati Uniti Harry Wu è oggi il più conosciuto dissidente cinese grazie alle campagne contro i campi di lavoro e alle denunce dei traffici di organi umani espiantati ai condannati a morte cinesi. Ma il 71enne professore Harry Wu, da ieri in Italia per un ciclo di conferenze, continua a non darsi pace e promette di continuare la sua battaglia fino a quando il termine «laogai» sarà entrato in tutti i dizionari del mondo.
«I laogai - spiega Harry Wu - sono come i gulag sovietici, sono il simbolo del comunismo cinese. In Cina oggi chi critica il regime finisce lao gai. I lao gai sono il simbolo della mancanza di libertà».

Per molti italiani i “laogai” sono una reliquia del passato...
«Sbagliano. Oggi in Cina esistono oltre mille campi di lavoro. Nei lao gai la rieducazione attraverso il lavoro punta a trasformare il detenuto in un perfetto comunista e a cancellarne tutti i tratti devianti, compresa la religione e l’aspirazione alla libertà individuale. E se non ti adegui a quelle regole la pena si estende. Il lavoro di quei detenuti viene utilizzato per produrre prodotti a basso prezzo molti dei quali arrivano nel vostro Paese. In Europa fingete di non saperlo, ma un terzo del tè cinese, la gran parte delle suole di gomma o delle luminarie di Natale vengono prodotti da migliaia di schiavi di Stato. E voi pagate la loro schiavitù».

Perché accusa l’Europa e non gli Stati Uniti?
«La dogana degli Stati Uniti possiede una lista di prodotti i cui componenti arrivano dal sistema dei lao gai e blocca alla frontiera quei beni. I lao gai sono un segreto di Stato e molto sfugge ai controlli, ma almeno negli Stati Uniti il principio e la regola esistono. L’Unione Europea non si è mai preoccupata di fare niente di simile».

In Europa il dibattito sul boicottaggio delle Olimpiadi è però molto vivace.
«Le Olimpiadi sono un fatto transitorio, dibattere sul boicottaggio è una stupenda forma d’ipocrisia. Fra tre mesi sarà tutto finito e la Cina tornerà quella di sempre. Fareste meglio ad appassionarvi meno alle Olimpiadi ed affrontare più seriamente il problema della violazione dei diritti umani. Le Olimpiadi passano, il comunismo resta».

Lei definisce comunista un Paese che commercia con tutto il mondo ed ha aperto le sue frontiere all’economia occidentale.
«Come definirebbe un Paese dove la proprietà della terra è solo dello Stato e dove qualsiasi forma di religione non è tollerata? In Cina lei può comprare un palazzo, ma non la terra su cui è costruito, quella resta allo Stato che incassa un affitto. In Cina puoi costruire una Chiesa, ma dentro quella chiesa non potrai mai propagandare la liberta di religione. Capitalismo e libertà in Cina restano mere finzioni».

Da dove incomincerebbe la battaglia in difesa dei diritti umani?
«Dalla legge sul controllo delle nascite. Quella legge è il simbolo dell’aberrazione perché toglie a donne e famiglie il diritto naturale alla procreazione. In Cina per mettere al mondo un bimbo bisogna ottenere il permesso dello Stato, ma quel diritto si esaurisce dopo il primo figlio. Per imporre questo sistema aberrante lo stato spinge all’aborto milioni di donne e ne condanna altrettante alla sterilizzazione. Non esiste nulla di simile sulla faccia della terra».
Lei denuncia anche l’utilizzo degli organi dei condannati a morte nei trapianti eseguiti dalle cliniche di Stato. Che prove ha?
«Nel 2006 le autorità cinesi hanno riconosciuto che il 95 per cento degli organi utilizzati per i 13mila trapianti di quell’anno arrivavano dalle esecuzioni capitali. Io ho raccolto e divulgato le testimonianze di medici cinesi coinvolti in quel traffico e di pazienti consapevoli di essersi salvati grazie ai reni o al cuore di un condannato. Le prove sono raccolte in Traffici di morte, il libro realizzato dalla mia fondazione».
In Cina le esecuzioni avvengono all’aperto con un colpo alla nuca, ma per espiantare un cuore il sangue deve ancora circolare, per un rene non possono passare più di 15 minuti dal decesso. Le sue affermazioni sembrano tecnicamente incompatibili...
Leggete le testimonianze di medici e infermieri mandati con le ambulanze sui luoghi delle esecuzioni. Raccontano di corpi raccolti dieci secondi dopo gli spari, di condannati ancora in agonia espiantati in tutta fretta. Nel caso dei trapianti congiunti cuore polmone qualche condannato è stato ucciso in salette all’interno dell’ospedale. Gli ospedali cinesi sono statali e lavorano in stretta collaborazione con le autorità governative. Chi commina le pene capitali e chi cura i pazienti fa parte dello stesso sistema. I medici vanno a visitare i condannati, ne analizzano il sangue per determinare la compatibilità con i pazienti in attesa, archiviano i dati e attendono il momento dell’esecuzione. Ricordatevi che in Cina il numero delle esecuzioni capitali è uno dei segreti di Stato meglio custoditi, ma ricordate soprattutto che il comunismo non ha alcun rispetto per la dignità dell’essere umano. Tanto meno dopo morto».
il Giornale, 26 mag 2008.
Sopravviverà la Cina a se stessa? Incontro con Harry Wu
Centro Culturale di Milano 26/05/2008
incontro con Harry Wu coordina Rodolfo Casadei
Logo Radio Formigoni
Harry Wu: un grido di libertà per la Cina
Clicca sul logo per ascoltare l’intervista del 29.5.2008 a cura di RF
a Rodolfo Casadei – giornalista inviato del settimanale “Tempi”
grazie a : Graciete

Postato da: giacabi a 15:15 | link | commenti
comunismo, cina

martedì, 08 aprile 2008
I totalitarismi usano la domanda religiosa che risiede nel cuore umano, per affermare il proprio potere
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I totalitarismi odiano Dio, perché odiano la libertà che egli dà all’uomo. Sanno però usare con grande abilità la domanda religiosa che risiede nel cuore umano, per affermare il proprio potere. Il fenomeno era stato in parte già studiato, prima di tutti da Lederer, negli anni Quaranta (Lo Stato delle masse, Bruno Mondadori editore), che, prima ancora di Hannah Arendt, aveva mostrato come i regimi totalitari si fondassero sulla distruzione delle culture e delle appartenenze trasmesse dalle tradizioni (quelle di cui parla Giussani ne Il rischio educativo), la cui origine profonda è sempre religiosa, per costruire l’uomo massa, permeabile alle richieste dei capi, e del loro sistema di schiavitù.
Prima di distruggere le religioni però, i totalitarismi in statu nascenti le usano, conoscendone a fondo la forza inestinguibile. Anzi una delle leve di cui si servono per abbattere le democrazie secolarizzate nate dalle rivoluzioni borghesi del Settecento e dell’Ottocento è proprio il disprezzo che queste ultime, intrise di razionalismo superficiale e di mitologie giacobine, mostrano per il fenomeno religioso.
Hitler, un indiscutibile esperto di totalitarismo, ricordava che «la fede esiste dappertutto in uno stato di dormiveglia, ed il trucco sta nel risvegliarla con un credo politico entusiasmante, così come si fa quando si getta un fiammifero sulla paglia secca». Questa consapevolezza è oggi fortissima anche nei totalitarismi islamici, che Hitler l’hanno studiato molto bene (anche per via del comune nemico: gli ebrei), ed hanno inventato il fondamentalismo come strumento per la propria affermazione e diffusione, servendosi del timore/orrore del popolo per il secolarismo occidentale.
Ora uno degli ultimi studi in materia, “In nome di Dio”, dello storico Michael Burleigh, pubblicato da Rizzoli, fornisce ulteriori prove sulla relazione tra la svalutazione della religione nelle democrazie secolarizzate, ed il rafforzamento di tendenze totalitarie.
Mentre infatti il modello culturale occidentale adottava la visione “relativista” (non c’è nessuna verità universalmente valida, e comunque non la si può conoscere), la ricerca di Dio ha vissuto una nuova fioritura. Molti giovani occidentali però, trovando le nostre Chiese troppo “incredule” sulla loro fede, e deboli nella riproposizione delle proprie tradizioni (lo stupefacente dibattito contrario al Motu proprio di Benedetto XVI sulla messa in latino ne è una prova), finiscono - certo sconsideratamente - con l’aderire a organizzazioni religiose che appaiono più agguerrite e convinte, dall’Islam fondamentalista, ad ambigue sette giapponesi ed orientali.
Ciò accade appunto perché la domanda cui la religione risponde è profonda, e ineludibile nell’essere umano, il quale, proprio perché è dotato della ragione, si chiede quale sia il senso della sua vita.
L’esperienza religiosa, da sempre originata da questa domanda, quando viene emarginata o inibita da un modello culturale laicista, viene ricacciata nell’inconscio collettivo. E’ proprio lì, “sotto la paglia”, che i dittatori come Hitler, Lenin, Saddam, Assad e gli altri, ripescano le forze della domanda e della tradizione religiosa per dare forza ai loro regimi di repressione burocratica ed atea.

ClaudioRisè , da Tempi, 4 ottobre 2007, www.tempi.it

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comunismo, nichilismo

mercoledì, 05 marzo 2008

Solo Dio «è»
  Il mondo «da so­lo » non produce né vita, né verità, né amore ***
da: www.avvenire.it   05/03/08      
Caro prete operaio, in realtà Marx ci allontana dai poveri»
 DI: MADELEINE DELBRÊL
 Caro Padre Fratello ( Jacques Loew), Sono rimasta impantanata per lei, nel bene e nel male, nelle mie considerazioni sulla missione in tutte le sue forme. Penso che la cosa migliore sia spedirle tutto quanto al­la rinfusa, disordinatamente. In caso contrario rischierebbe di aspettare troppo tempo!
  Penso che il filo conduttore sia il confronto fra la vocazione cristiana nella sua essenza e la vocazione missionaria. Un missionario è prima di tutto un cristiano. Per lui, essere mis­sionario rappresenta lo sbocciare della propria vocazione cri­stiana. Tanto più questo cardine è ancorato in maniera profonda al mondo, tanto più rischia di perdere la fede nel «senso unico» della salvezza che non può venire che da Dio attraverso Cristo.
Rischia di confondere il progresso umano con la salvezza e rischia di mettersi al servizio delle «ricette» di felicità che il mondo propone in quel momento. Rischia di da­re al mondo la paternità di qualche idea-forza che non è in realtà che una briciola di Vangelo separata dal suo contesto e di cui alcuni gruppi umani si sono fatti carico. Rischia di unire il messaggio di Cristo ad altri messaggi, di farne un elemento della salvezza dell’uomo ad opera dell’uomo, di mettere il Vangelo al servizio di cause che non sono semplicemente e puramente quelle della salvezza.
 
Potrebbe dimenticare che solo Dio «è». Che il mondo «da so­lo » non produce né vita, né verità, né amore. Rischia di a­mare il mondo più che gli uomini. Rischia di farne una realtà assoluta quando non si tratta che di un relativo, di una possibilità incessantemente modificata dal gioco di forze buone e malvagie di tutti i cuori di tutti gli uomini. Il mondo non ha importanza.
 
Sono gli uomini che sono im­portanti. Il mondo è quello che essi sono. Si rischia anche di fare del mondo una astrazione, di credere che un mondo rico­struito con le nostre mani avrebbe uno slancio maggiore e po­trebbe portare la salvezza. È chi vive ogni giorno che fa e disfa il mondo. Non è lavorando al mondo che lo si renderà miglio­re: è ogni uomo migliore che renderà migliore il mondo.
 
Il Cristo che ci è dato da vivere deve tradursi nella nostra vita: non deve essere né adattato, né rettificato. La vita non si adat­ta a chi la vive, né la verità agli occhi di chi la vede. Cristo è co­me è. Non possiamo renderlo diverso. Non possiamo renderlo altro che amore. Non possiamo modificare il suo amore che è prima di tutto amore per Dio e, di conseguenza, amore per gli uomini.
  Cristo ha frantumato personalmente i falsi assoluti del mon­do: il denaro, l’onore, il potere, rifiutandoli liberamente. Ma non li ha ricostruiti stabilendo un’altra società umana con delle nuove gerarchie di onore, di potere e di ricchezza. Ha vinto il mondo relativizzandolo, perché la vittoria del mondo sull’uomo è fondata sul presentarsi a lui come assoluto.
 
Cristo, di cui il cristiano vive, non gli offre le ali per una evasio­ne verso il cielo, ma un peso che lo trascina verso il più profondo della terra. Questa vocazione nei confronti del mon­do che sembra rappresentare in maniera specifica l’essenziale della vocazione missionaria non è che la conseguenza della presa di Cristo su di noi. Diminuire, assottigliare il nostro lega­me con Cristo e con la Chiesa significa, malgrado tutte le ap­parenze, diminuire quello che in noi tende verso il mondo e ci permette di immergerci in esso. Si tratta della condizione di un amore per il mondo che non sia un’identificazione con es­so ma un dono.
  Da tutto questo risulta che per la nostra vita pratica, al «punto di svolta» in cui tutti i rami della missione si trovano in questo momento –
quello a cui noi siamo chiamati non è un partico­lare tipo di salvezza temporale dell’umanità, ma la salvezza stessa che Cristo è venuto portare e che è una salvezza «so­pra »nnaturale, che richiede dei mezzi «sopra»nnaturali, mezzi che non possono venire se non dall’alto. Se, a causa del fatto che li amiamo e viviamo in mezzo a loro, facciamo nostri i metodi e il movimento dei marxisti come mezzi di salvezza, ci ritroviamo su una strada completamente sbagliata.
 10 luglio 1950



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comunismo, cristianesimo, delbrel

martedì, 19 febbraio 2008
Il Walesa di Pechino
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da: www.avvenire.it 19-02-08
 DA SHANGHAI ILARIA MARIA SALA


Era il 1989, la Cina era in preda a un profondo sconvolgimento politico: da settimane gli studenti universitari erano in piazza Tienanmen, a Pechino, chiedendo riforme, democrazia, e lotta alla corruzione. Il loro coraggio ispirò ben presto molte altre categorie professionali e città, e le proteste si estesero a Chengdu e Canton, Xi’an, Shanghai, Xiamen. I giornalisti e i registi cinematografici, gli artisti e gli scrittori si erano uniti, chiedendo libertà di stampa e di espressione, e perfino i lavoratori decisero che era giunto il momento di sostenere gli studenti e chiedere un sindacato indipendente.
 
Han Dongfang, un lavoratore delle ferrovie che all’epoca aveva 26 anni, fondò allora il primo sindacato indipendente della Cina, proprio ai margini della piazza: il comitato generale, infatti, era ospitato all’interno di una tenda rossa, che portava la scritta «Sindacato indipendente dei lavoratori di Pechino», dove Han riceveva aspiranti iscritti e coordinava un movimento che diventava ogni giorno più imponente. Oggi, riflettendo su quei giorni conclusisi con la decisione di inviare l’esercito contro la folla disarmata, che causò centinaia di morti, alcuni pensano che fu proprio il timore dato dalla possibilità di un movimento di lavoratori organizzati a scatenare la violenza repressiva di Stato.
  Forse.
  Quello che appare chiaro, però, quasi vent’anni dopo, è come i conflitti dati dalla mancanza di un sindacato indipendente siano oggi fra i problemi più esplosivi del Paese. La Costituzione cinese dà a tutti il diritto di formare sindacati autonomi, ma questo, nella pratica, è un diritto che è negato, e usurpato totalmente dalla Federazione sindacale dell’intera Cina, sotto la guida del Partito comunista.
Dopo la repressione di Tienanmen, Han Dongfang venne arrestato e messo nel reparto malattie infettive dell’ospedale carcerario, dove contrasse la tubercolosi e dove sarebbe potuto morire entro breve, se una forte campagna internazionale per la sua difesa non avesse convinto le autorità a rilasciarlo, ed esiliarlo, per ragioni di salute.
  Dal 1992, dunque, questo ex fer­roviere vive in esilio, a Hong Kong (senza avere il diritto di va­licare la frontiera che ancora se­para l’ex colonia britannica dal territorio cinese), da dove porta avanti un lavoro straordinario per la difesa dei diritti dei lavora­tori cinesi, tramite la sua ong, il China Labour Bulletin (Clb), che compie un’opera di monitorag­gio dei problemi legati al lavoro in Cina. Cura anche un program­ma radio trasmesso dalla stazio­ne
  Radio Free Asia
(finanziata parzialmente dal Congresso a­mericano), che lo mette in con­tatto quotidiano con i lavoratori cinesi, e con il vasto panorama di abusi, lotte, e progressi che carat­terizzano la Cina anche in questo campo.
  Ham è il primo a essere sorpreso dalle evoluzioni in atto fra i lavo­ratori nel suo Paese: «Qualche anno fa, quando parlavamo per telefono, erano i lavoratori stessi a chiedermi di modificare le loro voci, per non essere riconoscibili. Adesso invece tocca a me dire lo­ro di stare attenti, di non com­mettere imprudenze e di non mettersi nei guai, mentre loro in­sistono, chiedono di andare in onda con nome e cognome, tal­mente sono esasperati dalle con­dizioni in cui alcuni di loro si tro­vano ». In tutta la sua carriera, infatti, Han è sempre stato una voce as­sennata, coraggiosa, certo, ma sempre nel nome del rispetto dei diritti e delle regole.

  E nel nome della dignità dei lavo­ratori cinesi: «Non si tratta di proteggere gli operai», dice, dagli studi della radio. «Questo è un sentimento nobile, ma che è me­glio riservare alle piante o ai pan­da: stiamo parlando di adulti, per cui nel loro caso quello per cui si deve lottare è affinché ottengano il diritto di organizzarsi in modo indipendente.
Nessuno meglio di un lavoratore sa quali sono i pro­blemi all’interno di una fabbrica, di un’azienda, di un’istituzione – spiega –. È a loro che si deve con­cedere il diritto di parola che gli spetta per legge».
  Ma per quanto il governo cinese sia oggi impegnato a varare leggi per garantire migliori condizioni nel Paese, l’idea di un sindacato indipendente continua a essere vista con terrore. Non a caso, l’ex presidente cinese Deng Xiaoping chiamava i sindacati liberi il «morbo polacco», capace di ca­povolgere un intero regime.

Postato da: giacabi a 14:49 | link | commenti
comunismo

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