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domenica 5 febbraio 2012

comunismo




In questo caldo mese di maggio noi iniziamo lo sciopero della fame.Nei giorni migliori della giovinezza dobbiamo lasciare dietro di noi tutte le cose belle e buone e solo Dio sa quanto malvolentieri e con quanta riluttanza lo facciamo. Ma il nostro paese è arrivato ad un punto cruciale. Il potere politico domina su tutto,i burocrati sono corrotti,molte buone persone con grandi ideali sono costrette all’esilio. E’ un momento di vita o di morte per la nazione. Tutti voi compatrioti,tutti voi che avete una coscienza ascoltate le nostre grida. Questo paese è il nostro paese,questa gente è la nostra gente,questo governo è il nostro governo. Se non facciamo qualcosa chi lo farà per noi? Benchè le nostre spalle siano ancora giovani ed esili,benchè la morte sia per noi un fardello troppo pesante,noi dobbiamo andare,perchè la storia ce lo chiede.
Il nostro entusiasmo patriottico,il nostro spirito totalmente innocente vengono descritti come elementi che creano tumulto. Si dice che abbiamo motivi nascosti,che veniamo usati da un manipolo di persone. vorremmo rivolgere una preghiera a tutti i cittadini onesti,una preghiera ad ogni operaio,contadino,soldato,cittadino comune o all’intellettuale,funzionario di governo,al poliziotto e a tutti quelli che ci accusano di commettere crimini. Mettetevi una mano sul cuore,sulla coscienza. Quale sorta di crimine stiamo commettendo? Stiamo provocando un tumulto? Cerchiamo solo la verità,ma veniamo picchiati dalla polizia. I rappresentanti degli studenti si sono messi in ginocchio per implorare la democrazia, ma sono stati totalmente ignorati. Che altro dobbiamo fare?
La democrazia è un ideale della vita umana come la libertà e il diritto. Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite. E’ questo l’orgoglio della nazione cinese? Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. Ma siamo ancora ragazzi. Madre Cina,per favore,guarda i tuoi figli e le tue figlie. Quando lo sciopero della fame rovina totalmente la loro giovinezza, quando la morte gli si avvicina puoi rimanere indifferente? Non vogliamo morire,vogliamo vivere. Non vogliamo morire,vogliamo studiare. Caro padre,cara madre,per favore non siate tristi. Cari zii,care zie che non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza,che questo permetta a tutti di vivere in modo migliore. Abbiamo una sola preghiera:non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando. La democrazia non è un affare che riguarda poche persone. La battaglia democratica non può essere vinta da una singola generazione.
Domandiamo alcune cose: primo,che il governo cominci un dialogo diretto,sostanziale e paritario con la delegazione degli studenti dell’Università. Secondo,che il governo riabiliti questo movimento degli studenti e che faccia una giusta rivalutazione per riaffermare il suo spirito di movimento patriottico e democratico.

Postato da: giacabi a 15:25 | link | commenti
comunismo

giovedì, 28 aprile 2011
Il più grande crimine di tutti i tempi: «Il misero Balzo di Mao Tse Tung»
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Massimo Introvigne (Avvenire, 28 aprile 2011)
Continua la controversia fra gli storici se abbia ucciso più persone Hitler  o Stalin. Il libro dello storico inglese Frank Dikötter Mao’s Great Famine. The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-1962 (Walker, New York 2010) ci ricorda che Mao Tse-Tung li batte di gran lunga entrambi, stabilendo record che forse superano anche Gengis Khan. Una cosa, secondo Dikötter, è sicura: il “Grande Balzo in Avanti” del 1958-1962 è il più grande crimine di tutti i tempi, la peggiore catastrofe mai causata da mano umana nella storia.
Si trattò di una corsa folle allo sviluppo economico attraverso la collettivizzazione lanciata da Mao nel 1958, dopo che Khruscev aveva promesso che in quindici anni l’economia russa avrebbe superato quella degli Stati Uniti. Mao rispose che nello stesso periodo, anzi prima, la Cina avrebbe superato la Gran Bretagna, e nel 1958 avviò una gigantesca campagna per concentrare tutti i contadini dell’enorme Cina in sole 28.000 grandi comuni, imporre ritmi di lavoro forsennati per costruire a tempo di record nuove dighe e canali e installare in ogni villaggio piccoli altiforni per produrre ghisa e altri materiali. Il piano era demente. Le dighe costruite frettolosamente cedettero, facendo – nel solo caso delle due barriere sul fiume Huai – 230.000 morti. Gli altiforni – in cui pure i contadini furono costretti a buttare di tutto, dalle pentole ai rivestimenti delle case, talora distrutte per questo scopo – produssero materiali ferrosi del tutto inutili. Soprattutto, si distrussero le famiglie. Uomini e donne furono separati e inviati a lavorare fino a venti ore al giorno in unità separate, dormendo all’addiaccio o in casermoni o tende malsane e mangiando – pochissimo – nelle mense. Uno dei collaboratori di Mao dichiarò che era venuto il momento di riconoscere che “tutto è collettivo, anche le persone umane”.
Dikötter è il primo storico cui il governo di Pechino ha consentito di accedere a tredici dei trentuno archivi regionali cinesi, e a quattordici dei maggiori archivi comunali fra cui quelli di Nanchino, Canton e Wuhan. Si tratta di tesori di documentazione, ma non di una ricerca completa. Difficilmente questa sarà mai consentita dalle autorità cinesi, a meno di un cambio di regime. Se pure lo fosse, molti documenti sono irrimediabilmente perduti.
Il materiale è comunque sufficiente a tracciare un quadro allucinante. Ben presto i cinesi iniziarono a morire, o di fame o uccisi dalle milizie che temevano rivolte. Mao giunse perfino a commissionare degli studi sul numero di persone che, regione per regione, dovevano essere giustiziate per prevenire ogni rischio di rivolta, e a imporre “quote” di esecuzioni alle autorità regionali. La fame portò a diffusi episodi di cannibalismo, rigorosamente documentati negli archivi, e a un vero e proprio sterminio dei vecchi e dei bambini, separati dai familiari e concentrati in “Case della felicità” le cui razioni alimentari dal 1960 scesero a livelli così bassi che quasi tutti morirono. Ma molti finirono uccisi dalle milizie. Dikötter riporta che in un villaggio dove la maggioranza delle persone era già morta di fame furono allestite “trappole” con dolci e riso per vedere chi era disposto a rubare per sopravvivere. Chi ci cascava finiva in un sacco, dove era subito bastonato a morte dalla milizia. Quanti morirono? Nessuno lo saprà mai con certezza, conclude lo storico, ma oggi le stesse fonti ufficiali cinesi parlano di una cifra minima di quarantacinque milioni di persone, riferita peraltro ai soli cinque anni del Grande Balzo in Avanti e non all’intera carriera di Mao.
Nel 1961 era diventato chiaro anche a molti esponenti del partito che la natura stessa si ribellava al folle progetto. “C’è una nuova battaglia – rispose Mao in un discorso –: abbiamo dichiarato guerra alla natura”. Ma alla fine, incalzato soprattutto da Liu Shaoqi che minacciava di organizzare una rivolta all’interno del partito, Mao nel 1962 dovette cedere e rinunciare al Grande Balzo in Avanti. Ma giurò di vendicarsi. Nel 1966 scatenò la Rivoluzione Culturale, che uccise almeno altre 700.000 persone: tra cui, nel 1969, Liu Shaoqi, che fu prima imprigionato e poi lasciato morire, privato delle cure mediche per il suo diabete. Di tutti questi orrori qualcuno vorrà attribuire la colpa ai soli collaboratori del presidente. Ma il libro di Dikötter toglie ogni illusione sul suo ruolo. L’immane tragedia fu voluta e guidata personalmente da Mao.

 
 

Postato da: giacabi a 15:28 | link | commenti
comunismo

giovedì, 31 marzo 2011
Il saggio Tiziano Terzani
spiega cos'è il senso religioso

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“Mi è venuto un  modo di vedere le cose ,anche forse una loro drittezza  morale che  mi hanno tramandato  sempre questo senso di cos’è giusto e cosa non è giusto e non in base ad un criterio lui comunista e lei cattolica perché secondo me …nel fondo del cuore di  tutti c’è chiaro cos’è giusto e cosa   non è giusto,cos’è il bene e cos’è il male,cos’è che dobbiamo fare , e non secondo la regola di un partito o di una religione ma del  cuore che è uguale per tutti.”
..........................................................

Tutta la mia vita ho  visto rivoluzioni fallite, unione sovietica i massacri di quel regime ,in nome di un sogno un grande sogno, orribile ,un incubo, la Cina ci sono andato ho studiato il cinese pensavo che la Cina era un interessante sperimento,un incubo, massacri e tutte la rivoluzione vietnamita,la rivoluzione  cambogiana sempre queste rivoluzioni fatte fuori, con grandi massacri risultato una grande povertà sia materiale che spirituale. Allora è forse il momento di pensare che la sola rivoluzione che possibile fare è quella dentro di noi, cominciare dentro di noi”

Postato da: giacabi a 16:16 | link | commenti
comunismo, terzani, senso religioso

lunedì, 31 gennaio 2011
Una testimone eroica di nome Wanda
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di Antonio Giuliano
27-01-2011

«Una sera studiavo con la mia amica Nata, quando all’ingresso risuonò una voce maschile, estranea e ostile, benché parlasse polacco: “Chi di voi è Wanda?”». Iniziò proprio così nel 1941 il calvario di una diciottenne studentessa polacca di nome Wanda Poltawska. Già, perché oltre allo sterminio di milioni di ebrei, conobbero l’inferno dei lager nazisti anche tanti cattolici, come questa donna impavida che il prossimo 2 novembre compirà 90 anni.
Quella maledetta sera, la ragazza, originaria di Lublino, fu trascinata al comando della Gestapo di Cracovia e interrogata per giorni. Aveva partecipato alla Resistenza polacca contro l’invasore tedesco. Eppure nonostante le percosse e le minacce, tenne duro e non fece nessun nome dei suoi compagni. Ma per lei si aprirono le porte del baratro. Sette mesi di prigionia prima di essere caricata su un sinistro treno merci destinato al famigerato lager di Ravensbrück, lì dove i medici nazisti usavano le persone come cavie per i loro esperimenti.
Riuscì a venirne fuori dopo quasi 5 lunghissimi anni, come racconta lei stessa in un libro impressionante uscito qualche anno fa in Italia (Edizioni dell’Orso) e ora riproposto dalla San Paolo. Il titolo parla da sè: “E ho paura dei miei sogni” (pp. 254, euro 16). Chi non ha vissuto l’esperienza traumatica di un campo di concentramento non potrà mai capire come si possa aver paura dei propri sogni. Solo Wanda Poltawska può testimoniare le notti insonni seguite al suo ritorno a casa nel 1945.
«Già dalla prima notte provai qualcosa di terribile - spiega nel testo -. Giorno dopo giorno, o meglio notte dopo notte, sognai di Ravensbrück. I sogni assunsero una vivezza e una plasticità inafferrabile, al punto che non potevo distinguere se si trattasse di un sogno o della prosecuzione del lager». Seguì allora il consiglio di una sua vecchia insegnante e affidò alla scrittura il compito di liberarla dagli incubi: avrebbe provato a raccontare ciò che aveva vissuto. L’idea funzionò, smise di sognare. Ma chiuse i manoscritti in un cassetto.
Soltanto dopo molti anni acconsentì alla pubblicazione. Troppe le cicatrici che rimarranno incancellabili. E quelle pagine sono pugni nello stomaco. Sin dall’arrivo nel campo. «Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano distruggere la nostra personalità». Poi i lavori pesanti, fino allo sfinimento: «Ricordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c’era un’altra prigioniera e l’avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava un poco».
Non c’era sosta al tormento: «Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un’ora suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un’altra ora ancora la sirena per l’appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Eravamo magre come scheletri».
Nel dormitorio si gelava, nelle baracche di lavoro il caldo era asfissiante. Ma più di ogni altro patimento era temuto il padiglione dell’infermeria. Qui i prigionieri arrivavano in piedi e ritornavano spesso su una sedia a rotelle. Bastava un’iniezione degli infermieri nazisti per perdere coscienza e ritrovarsi con le gambe ingessate. Gli interventi chirurgici si ripetevano a intervalli di tempo regolare e lasciavano ferite aperte pronte a tradursi in infezioni.
Wanda Poltawska pur fiaccata dagli “esperimenti” si trascinava ogni volta dalle compagne più sofferenti per consolarle. Rimase immutata la sua fiducia nell’uomo: «Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone».
C’era da impazzire e quando tutto finì ci vollero diversi anni per ricominciare a vivere. Ma riuscì a superare i traumi laureandosi in medicina e specializzandosi in psichiatria. E se la scrittura riuscì a lenire il dolore, quando ritornò a casa molto le giovò l’incontro con un giovane prete polacco: Karol Wojtyla. A lui confidò le sofferenze indicibili e l’amicizia profonda che si creò tra di loro proseguì anche durante gli anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Insieme fondarono l’Accademia per la vita di Cracovia, per sostenere le ragazze che sceglievano di non abortire.
E Wojtyla che la chiamava affettuosamente “dusia, sorellina, la volle con sé a Roma. Sul legame profondo che li univa l’anno scorso è uscito anche Diario di un’amicizia (San Paolo, 24 euro) in cui Wanda Poltawska rivela un prodigio: nel 1962 si ammalò gravemente. Don Karol scrisse a padre Pio di pregare per lei e il tumore sparì. Woytyla che pure aveva conosciuto gli orrori della guerra, condivideva nell’intimo le sofferenze che aveva patito la sua migliore amica.
Lo rivelò in una lettera del 1978: «A me Dio ha risparmiato quella prova, perché lei è stata lì. Si può dire che questa convinzione fosse “irrazionale”, tuttavia essa è sempre stata in me, e continua a rimanerci». Così come non si spiega razionalmente la forza interiore di questa donna testimone dell’abisso del male. Scrive Wanda Poltawska: «Non ho mai perduto la fede nel fatto che l’uomo è creatura divina, capace di azioni eroiche; ma Ravensbrück mi ha anche insegnato che l’uomo non è automaticamente un’immagine di Dio, che deve anzi lavorare per essere tale».

 

Postato da: giacabi a 20:14 | link | commenti
comunismo, giovanni paoloii

domenica, 16 gennaio 2011

COMUNISMO/ Erika Kadlecová: solo la Chiesa salva la libertà di non credere in Dio

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lunedì 3 gennaio 2011

Erika Kadlecová (1924) è un nome che difficilmente si trova nelle pubblicazioni dedicate alla Primavera di Praga. Eppure questa sociologa in quel periodo ricopriva l’importante incarico di direttrice del Segretariato per gli affari delle Chiese presso il ministero della Cultura, che fino a poco tempo prima era stato retto dallo stalinista Hruza. Le cosiddette «democrazie popolari» erano solite istituire questi uffici non tanto per normalizzare i rapporti con la Chiesa, quanto perché intervenissero a limitarne il raggio d’azione.

La Kadlecová faceva parte di un gruppetto di sociologi marxisti, ricercatori presso l’Accademia cecoslovacca delle scienze, che dall’inizio degli anni ’60 cercavano un approccio meno ideologizzato al problema religioso, tentando di analizzarlo dal punto di vista sociologico. Dopo il colpo di Stato che nel ’48 a Praga aveva portato al potere i comunisti, la sociologia era stata espulsa dalle università, e fino agli inizi degli anni ’60 fu considerata una «pseudo-scienza borghese» che, quando si occupava del fenomeno religioso, lo faceva in chiave negativa.
Al contrario, la Kadlecová, durante il suo breve incarico durato dal marzo ’68 al giugno ’69, cercò di semplificare il ritorno della Chiesa alla normalità dopo decenni di politica antireligiosa. Ma dopo l’invasione sovietica di agosto e l’avvio del processo di «normalizzazione», iniziarono le epurazioni: l’«ateismo scientifico» prese il posto della sociologia della religione, la Kadlecová fu sostituita dal riciclato Hruza e il suo nome comparve solo nei rapporti della polizia (la sorvegliavano agli incontri degli ex-comunisti) e nei canali del samizdat.
Ed è proprio nel samizdat religioso che troviamo, alla metà degli anni ’80, un testo della Kadlecová in cui, a prescindere dalle domande ultime sul senso della vita, dove «se si elimina la premessa di Dio non esiste una risposta soddisfacente», la sociologa si interroga sulla rinascita di interesse per il fenomeno religioso.

Tracciando una breve panoramica del pensiero europeo, la Kadlecová giunge a conclusioni sconfortanti: «Scomparso il feudalesimo, il colonialismo, il capitalismo, sono andati al potere coloro che promettevano libertà, uguaglianza, fraternità e la rivoluzione dei proletari di tutto il mondo. I sogni però si sono infranti nel momento in cui venivano realizzati, e il risultato è la disillusione, la confusione, la paura del futuro, la perdita di prospettiva. È svanita anche l’illusione che l’uomo sia naturalmente buono e che compia il male solo perché indotto dalle circostanze: la crescente aggressività, il cinismo e l’indifferenza sono problemi presenti ovunque… Il marx-leninismo atrofizza la mente e la induce a pensare paradossalmente in modo religioso: siamo i primi ad imporre alla società, in maniera grossolana e ridicola, gran parte di quello che rinfacciamo alla religione come inaccettabile… Diamo la caccia all’uomo delle nevi, fotografiamo i dischi volanti, cerchiamo tracce di visite degli extraterrestri, meditiamo sulla parapsicologia - e questi sono ancora i problemi più concreti».
A parte alcune opinioni riduttive sulla Chiesa espresse dalla Kadlecová, retaggio della disinformazione, è interessante sorprendere l’onestà intellettuale con cui osserva l’esperienza della Chiesa. E qui il suo testo assume i toni di una moderna Lettera a Diogneto: «Le Chiese non hanno nessun mezzo coercitivo: la compattezza, la disciplina interna e l’ubbidienza possono fondarsi esclusivamente sull’autorità. E proprio in questa debolezza sta la sua forza e il suo carattere eccezionale. La loro dottrina, il loro modo di vita sono assolutamente diversi da quelli che inculchiamo: indicano la via di uscita e la speranza là dove gli altri non vedono nulla. Sono proprio queste le caratteristiche che attirano le persone annientate dalla futilità e dalla mancanza di prospettive. Diventare cristiano non è certo un modo per far carriera, lo sappiamo bene. Il contatto con i cristiani dà la sensazione di una comunità di persone generose e di una particolare positività. L’aiuto e il sostegno reciproco, l’ambiente di amicizia che nella società atomizzata è in grado di supplire alla mancanza di rapporti, nelle società religiose sono resi ancor più forti da un aspetto metafisico: l’incontro con Dio nel prossimo».

La sua analisi si estendeva oltreconfine: per dimostrare la disfatta della politica antireligiosa, bastava infatti gettare uno sguardo sulla situazione della Chiesa in Polonia, da dove per giunta era uscito un papa! Wojtyla - osserva la sociologa - non solo agisce conoscendo perfettamente i problemi dei paesi socialisti, ma comprende altrettanto bene la politica e la neolingua del Partito. E in questo contesto la Chiesa interviene come difensore dei diritti umani, salvaguardia dell’identità e dell’integrità nazionale, protettore degli interessi degli operai e dei contadini, e come tale è riconosciuta: «Dove siamo finiti - si chiede la Kadlecová - se la Chiesa cattolica lotta per la libertà di parola contro la censura introdotta dai marxisti, e per il diritto dei lavoratori ad unirsi in sindacati di cui si fidano?».
Sembra di sentire Peppone dal palco: «Reverendo, qui si bara: i comunisti siamo noi»…
 

Postato da: giacabi a 21:52 | link | commenti
comunismo, cristianesimo

mercoledì, 15 dicembre 2010
Cuba, Oscar Biscet non si arrende
Cuba,
Oscar Biscet non si arrende

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di Francesco Agnoli
09-12-2010

C’è un personaggio, che cubano non era, ma che della rivoluzione cubana fu uno dei protagonisti, famoso in tutto il mondo: un medico, bianco, comunista, di nome Ernesto Che Guevara. Il “Che” è ormai da decenni una celebrità ed un mito. Lo hanno reso tale i miliardi di Giangiacomo Feltrinelli, il suo volto bello, virile e duro, fotografato durante un funerale, e la sua morte romantica di guerrigliero. Proprio quest’ultima ha contribuito più di tutto alla trasfigurazione del personaggio: ha fatto dimenticare quante persone contribuì a far fucilare ed uccidere, e lo ha trasformato in una sorta di Cristo laico, “morto per i suoi ideali”.

Oggi sappiamo sempre meglio che razza di medico fosse il Che: voleva “curare” l’isola di Cuba importando il modello sovietico, e additava come “esempi da seguire” i feroci dittatori Lenin, Stalin e Mao. Eppure il mito del Che permane. Mentre, al contrario, quasi nessuno in Europa conosce un altro medico, lui sì veramente tale, nero e non bianco, credente in Dio e non nell’ateismo marxista.

Il suo nome è Oscar Elias Biscet. Ne ha promosso la conoscenza, recentemente, in Italia, il Movimento Europeo Difesa Vita (Medv), con il sostegno di personalità come Giuliano Ferrara, Antonio Socci, Andrea Morigi, gli onorevoli Mario Mauro e Renato Farina, il ministro Giorgia Meloni e molti altri. L’editore "Fede & Cultura" ha lanciato una maglietta con il suo volto, non meno bello di quello del Che. L’onorevole Lorenzo Fontana ha portato la sua storia all’Europarlamento… Perché? Chi è Oscar Elias Biscet?

E’ un uomo coraggioso, determinato, che sorretto dalla sua fede e dal suo amore per la propria professione, si batte come un leone per la causa della Vita: contro l’aborto, l’eutanasia e l’eliminazione dei dissidenti anti-comunisti. Biscet sa bene cosa accade nel suo paese. Castro, consapevole di aver condotto Cuba alla miseria, ha provato a procurarsi denaro attraverso la droga. Oggi, ormai da anni, punta sul turismo sessuale e sul turismo medico. Il primo ha ridotto il paese ad un grande bordello, e questo ha determinato un tasso altissimo di aborti, anche sulle piccole minorenni. Il secondo consiste nella vendita a ricchi stranieri, di cure, o pseudo cure, che altrove sono vietate, basate sull’uccisione di embrioni e feti.


Nella Cuba comunista e materialista, che si batte per la legalizzazione della clonazione, l’uomo, non più “figlio di Dio”, ha perso ogni dignità. Ma c’è chi non si rassegna, come Biscet. Anche se questo gli è costato la persecuzione, la prigionia, la perdita della salute. Biscet vive in una piccolissima cella, senza luce, senza spazio, senza bagno. Ha perso i denti, è sempre più minato nella salute. Proprio in questi giorni sua figlia Winnie ha lanciato un altro appello al presidente Obama chiedendogli di intercedere per suo padre che dal 1999 ad oggi ha potuto godere di soli 36 giorni di libertà.

Winnie ha anche scritto: “Recentemente, 39 prigionieri politici che erano stati incarcerati durante la stessa repressione, sono stati liberati e portati in esilio in Spagna o in Cile, sotto i termini di un accordo tra il governo spagnolo, la Chiesa cattolica e il regime di Castro. Mio padre rispetta la decisione di abbandonare il Paese in cambio del rilascio, ma ha coraggiosamente deciso di rimanere in prigione poiché si rifiuta di accettare i termini di tale accordo. Nel "Gulag" di Castro, mio padre ha sofferto orrori e torture indescrivibili. La sua consolazione, resistenza e sopravvivenza nascono dalla sua fede in Dio e dal costante impegno per i suoi principi. Anche in carcere, è uno degli uomini più liberi in tutta Cuba. Questa è la ragione per la quale nessuna condizione potrebbe essere accettata. Rifiuta la libertà condizionale o limitata, che consente al regime di rimandarlo in carcere e non accetterà mai l'esilio forzato in Spagna o altrove. Egli non abbandonerà mai il Paese che ama”.

Anche in Italia si può fare qualcosa per Biscet, collaborando a far conoscere la sua figura e a creare un movimento di opinione. Ricordando che anche Armando Valladares, celebre dissidente cubano autore di “Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag cubano” (Spirali), fu liberato grazie ad un forte campagna di stampa e all’intervento del presidente francese Mitterand.
Per maggiori info: http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?id=2051

Postato da: giacabi a 14:05 | link | commenti
comunismo, agnoli

sabato, 13 novembre 2010

J'ACCUSE/ Sechi: ecco perché la sinistra odia il riformismo ancor più di Berlusconi


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mercoledì 10 novembre 2010

Caro direttore,

ho letto l’interessante testimonianza di Pietro Barcellona, che rappresenta una grande provocazione culturale oltre che un importante stimolo di riflessione storica.

Il mio è un Sessantotto vissuto a Torino da giovane ricercatore presso una facoltà umanistica. Militavo nelle fila di un movimento di estrema sinistra, fortemente polemico col Pci, i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri (un intellettuale e dirigente socialista), ma avrei concluso la mia parabola politica iscrivendomi a questo partito che ci aveva sbeffeggiato come “terribilmente rivoluzionari” quando non ci aveva associato a mestatori di torbido.

La calunnia e la diffamazione, quando non la consegna al nemico, è stato sempre un tratto costitutivo dei comunisti, in tutte le epoche e latitudini, ma anche, temo, di chi ha cambiato nome alla vecchia identità. Dopo un processo che fece qualche clamore, in cui mi venne sospesa la tessera e alcuni successivi tentativi di cacciarmi, me ne andai e aderii per qualche tempo al Psi di Bettino Craxi.

Non so se sia possibile paragonare la generazione del Sessantotto e quella odierna, e i rispettivi ceti politici. Dalla mia esperienza ho ricavato la testimonianza che l’estremismo (e l’anticomunismo) non necessariamente approdino, e quindi si consumino, nella lotta armata. Mi pare che nessuno dei Quaderni Rossi sia finito impigliato nell’avventura del terrorismo.

Non abbiamo mai affrontato il problema della guerra civile, e quindi non c’è stato un pronunciamento del nostro gruppo sul rapporto tra lotta di classe e violenza. Ma da Marx a Lenin a Mao, e dalle esperienze della conquista del potere in Russia e in Cina,come dalle guerriglie in America latina e in diversi paesi africani, avevamo tratto la convinzione che non poteva essere esclusa, fosse anzi inevitabile.

Credo sia stato un caso che il terrorismo non abbia seminato nelle nostre file. Il sistema politico allora dominato dalla Dc ci appariva particolarmente gommoso, impermeabile, e lo Stato come un coacervo di istituzioni che era la finzione di un regime liberaldemocratico, cioè di uno stato di diritto. Non escludevamo che potesse piegarsi ad una torsione autoritaria e repressiva.
 
In realtà, noi non avevamo pregiudizi sulla riformabilità di esso. Seguivamo attentamente, dentro il Psi, le posizioni di Riccardo Lombardi, per un verso e di Vittorio Foa, dall’altro, ma anche di alcuni settori della Confindustria, ritenendo che il “sistema” avrebbe potuto incorporare dosi avanzate di trasformazioni, cioè di riforme anche radicali.

Eravamo anni luce lontani dalle tesi e dalle analisi della Terza Internazionale. Nutrivamo, infatti, una concezione non stagnazionista e tanto meno catastrofista del capitalismo. Per sopravvivere e, anzi, garantire meglio il suo comando, avrebbe finito per conciliarsi con le proposte altamente riformatrici di Lombardi e della stessa sinistra socialista.

La compatibilità del funzionamento del capitalismo con le riforme ci aveva indotto a combattere  il Psi e il Pci. Pensavamo che essi fossero gli strumenti di questa politica di spostamento degli equilibri sociali e dei rapporti di forza ad un livello più elevato. Il controllo capitalistico sul proletariato, secondo la nostra analisi, sarebbe avvenuto coinvolgendo, come vittime consenzienti, i due partiti della sinistra, in un processo di ristrutturazione.

Fu questa la ragione del nostro anticomunismo, dal momento che consideravamo la sinistra italiana una variante della socialdemocrazia e quindi una fonte di pericolo, e di inquinamento, oltreché di resistenza, ad una prospettiva di rottura del sistema e di costruzione di una prospettiva socialista.

Il bilancio di questa stagione politica è stato che l’Italia non ha avuto né riforme né rivoluzione. Anzi ha subìto quanto spesso segue alla demonizzazione e al venire meno di queste due soluzioni, cioè un periodo di inasprimento del conflitto politico e sociale che ha preso il volto della lotta armata. Una parte della militanza politica di sinistra è finita nell’apologia e nella pratica del terrorismo. Sono i cosiddetti anni di piombo.

La sinistra non ha saputo riflettere sul fatto che questi anni, dominati da delitti, sopraffazioni, violenze inaudite, non hanno avuto per protagonisti figli di nessuno o nemici del popolo. Essi sono il canto del cigno della politica del Psi, del Psiup e del Pci.Una politica ambigua, confusa, inconcludente che non ha scelto di abbracciare coerentemente la strada delle riforme possibili, all’interno dello stato liberale e del regime capitalistico di produzione, né quello di  rovesciarlo aprendo una prospettiva rivoluzionaria, anche diversa da quella del socialismo reale (ripugnante) di Mosca, Pechino, L’Avana.
 
Migliaia di giovani, delusi, hanno finito per abbandonarsi all’illusione di porre fine al capitalismo e allo stato borghese decapitandone i dirigenti, che erano alla testa del sistema politico o delle imprese, o passando per le armi sindacalisti, poliziotti e carabinieri. Questa mattanza aveva dietro la disperazione che cede il passo al terrore. Ma non la si può liquidare come una coda anarchica, un soprassalto euforico irrazionale, comunque un episodio circoscritto, perché aveva dietro di sé l’essiccarsi di ogni speranza di cambiamento anche per l’incoerenza e la timidezza con cui Psi e Pci hanno sostenuto le riforme avvenute.

Non sono paragonabili a quelle che hanno disegnato il welfare state dei paesi scandinavi, della Germania e anche della Francia. Ma non è vero che delle riforme in Italia non ci siano state. Penso a quanto avvenuto nelle università, nel sistema sanitario, previdenziale, delle abitazioni ecc., per non parlare del (quasi) controllo sugli investimenti conquistato dal sindacato in qualche settore indu-striale.

Purtroppo queste riforme hanno avuto la forza di bloccare il funzionamento del sistema, sottoponendolo ad una catena vincolistica di lacci e lacciuoli ed estendendo l’area del controllo statale. In questo modo si espandeva la sua influenza e la si poteva utilizzare, come alla fine avvenne, per una politica di scambi e compensazioni corporative.

Il riformismo italiano non ha corrisposto, come in altri paesi europei, ad un disegno di qualche organicità. Non si trattava di abbassare, e tantomeno abolire, il conflitto sociale, ma di regolarlo in maniera da indurre le imprese ad aggiornamenti, ristrutturazioni, innovazioni tecnologiche e produttive continue. E contestualmente far uscire il sindacato e i partiti da una politica meramente rivendicativa, assistenziale e corporativa qual è sempre stata.

Purtroppo, la persistenza della cultura leninista nella sinistra italiana è stata declinata assumendo l’impresa e l’imprenditore come un nemico da battere e criminalizzare. Il capitalismo è stato vissuto come l’incarnazione del demonio, e fare profitti una sorta di reato. Pertanto, un passaggio decisivo come la collaborazione tra le imprese e la scuola (non solo l’università) per rendere l’insegnamento consapevole dei bisogni del sistema economico, e far capire che il mercato vive di competitività (che esige una concentrazione massiccia di sforzi e saperi) e il lavoro di produttività, non è stato possibile.

Nell’informazione e nella comunicazione hanno prevalso i poteri di veto dei comitati di redazione, e l’assenza di ogni inventiva per dare alla sinistra qualche quotidiano, rivista, rete televisiva che ne mostrasse la cultura di governo. Lo spettacolo offerto è stato, e continua ad essere, la querimonia e il rampogniamo come mostra la paranoia nei confronti di Berlusconi. nello stesso momento invece Confindustria trasformava Il Sole-24 Ore in un grande organo europeo e si muniva di radio e televisioni in grado di sfidare sia il sistema pubblico sia quello di Mediaset, alla quale si deve la grande rivoluzione della televisione commerciale.
La sinistra è stata, ed è, parte, cioè causa e non solo effetto, della disgregazione del paese. A corroderne la fibra è il prevalere delle supplenza, cioè della sostituzione delle funzioni da parte di corpi che non ne avrebbero titolo. È il caso macroscopico della magistratura, che esercita ormai da decenni compiti politici che non le spettano grazie alla copertura, se non alla delega, ricevuta dal Pci.

Non potendo assumere responsabilità di governo dirette per la mancanza di un consenso elettorale adeguato e per il legame organico con una  potenza straniera ostile, e non solo estranea, all’alleanza atlantica, il principale partito della sinistra non ha avuto scrupolo a servirsi del sindacato dei magistrati per delegittimare i propri avversari, si trattasse di partiti o di imprenditori (è il caso di Berlusconi). Lo ha fatto mettendoli alla sbarra, cioè trascinandoli in una catena infinita (e persecutoria) di contenziosi giudiziari.

Dalla crisi della sinistra, come da quella Dc e dei socialisti, si è usciti con una sorta di populismo che vede trionfare il carisma personale sulle macchine politiche, la personalizzazione del potere, un permanente conflitto istituzionale, forme spurie di alleanze, la progressiva alienazione di grandi settori popolari dalla politica intesa come partecipazione e militanza.

Sono morte o venute meno le vecchie forme formate dai partiti della Prima repubblica, ma è arduo dire che siano state sostituite da altre. Comitati di quartiere, movimenti associativi spontanei, iniziative di gruppi di cittadini non hanno spazio né stimoli a formarsi anche per via del sistema elettorale, che ha centralizzato le scelte dei candidati affidandoli ad un manipolo di capi-partito.
Concependo il potere come una fortezza da espugnare, la cultura politica del Sessantotto ha trascurato l’importanza della disseminazione molecolare del potere, e quindi della necessità di stabilire un rapporto con i bisogni sociali che non fosse la tradizionale arma della mediazione e del compromesso.


Straordinariamente importante è stata la lotta per la liberazione delle donne, il loro riscatto. Ma la sconfitta è stata la più cocente. Chi guarda la televisione vede trionfare il degrado assoluto con le ragazze ridotte a cariatidi di sesso, semplici macchine di seduzione.
Bisognava leggere meno Lenin e più Tocqueville, meno Marx e più Adam Smith, meno Gramsci e più Schumpeter. Perciò la formazione delle nuove generazioni passa attraverso una massiccia politica scolastica, di investimenti in cultura e ricerca, di riconsiderazione del lavoro non come luogo solo dell’antagonismo di classe, ma della competizione e del conflitto. Com’è nella tradizione liberale degli autori che ho prima citato
.

Il sessantottismo non ci serve più. Non ha saputo andare oltre la retorica della lotta contro l’autoritarismo. È stata un’ulteriore denuncia dei suoi misfatti, non una risposta alternativa se non nella sua dimensione utopica. Riecheggiava quella del marxismo teorico che, come ci ha insegnato Norberto Bobbio, non ha avuto alcun interesse ad elaborare una teoria dello Stato, cioè della divisione dei poteri, della loro conquista e gestione. Nondimeno ha mostrato un esito sorprendente: la sinistra antifascista è stata statolatrica non meno del fascismo. Un monito da tenere ben presente nel tempo in cui viviamo.

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comunismo

giovedì, 28 ottobre 2010

J’ACCUSE/ Barcellona:
io, da ex Pci, vi spiego chi è il potere che ci governa


 

giovedì 28 ottobre 2010

Lo storico Giuseppe Giarrizzo mi chiama in causa come uno dei protagonisti del ‘68 e mi chiede di raccontare le mie esperienze di allora per cercare di capire cosa sta succedendo ora.

In effetti, quegli anni hanno avuto su di me un’influenza decisiva anche perché mi sono trovato in una condizione singolare: ero già professore da un anno e mi trovavo quindi dall’altra parte della barricata, ma avvertivo nella protesta studentesca il segno confuso e ambiguo di un bisogno di cambiamento rispetto ad una società profondamente irrigidita nei propri schemi mentali e nelle proprie categorie interpretative.

Il ’68 mi costrinse a rivedere il senso del mio insegnamento e a ricercare, con la contaminazione di altri saperi, le ragioni per cui una norma giuridica possa e debba essere rispettata dai cittadini. Incontrai su questo terreno la ricerca storica, sociologica e psicologica e resi il mio approccio ai problemi dell’esistenza assai più complesso di quanto non fosse stato fino ad allora.

Tuttavia non mi arresi senza combattere alle richieste degli studenti che chiedevano corsi sulla rivoluzione culturale cinese e sul modello della pianificazione sovietica. Sospesi le lezioni e restituii il registro al rettore fino a quando gli stessi studenti non cercarono un punto di compromesso. I movimenti con cui mi misurai fino in fondo furono allora rispettivamente Servire il popolo, gruppo extraparlamentare di sinistra, e Ordine nuovo, movimento di estremisti di destra.

Dopo diversi incontri, gli studenti accettarono le mie proposte. Agli studenti di sinistra proposi di studiare, come testo integrativo di Istituzioni di diritto, la critica di Marx alla filosofia del diritto hegeliano e agli studenti di destra, in particolare, l’Operaio di Jünger e la Teologia politica di Schmitt. Credo che gli studenti capirono il senso di queste proposte e si sforzarono persino di elaborare delle vere e proprie dispense di cui conservo ancora i ciclostilati. Alla fine dei corsi si fecero gli esami senza voto collettivo ma discutendo le tesi che avevano elaborato. 
Dopo molti anni i leader dei due movimenti, Campanella e Lombardo, diventarono professori universitari e molti di loro, nel corso degli anni, mi hanno ringraziato per non aver ceduto alla richiesta del voto collettivo unico.

Ho sempre ripensato a questa mia esperienza, per me certamente positiva, non tanto per le provocazioni utopiche, che non mi hanno mai sedotto, ma per lo stimolo a capire il significato dell’insegnamento e la comunicazione con un mondo di giovani sicuramente animati da una forte passione per tutto ciò che costituiva critica e rottura dell’ordine vigente. Riflettendo, tuttavia, su quegli anni e sull’eredità che hanno lasciato, mi sono persuaso che dentro quella rivolta studentesca c’erano i germi di una degenerazione individualistica e persino narcisistica delle forme di vita della nostra società.

Le assemblee studentesche anticipavano tragicamente l’idea di “società liquida” di cui parla Baumann, e il leaderismo del microfono in mano favoriva forme primordiali di demagogia populista. Non andava al potere l’immaginazione, come Castoriadis aveva sperato in Socialismo e barbarie, ma la ricerca della soddisfazione dei bisogni nella loro immediata istintività: la libertà sfrenata di ogni desiderio minava lo stesso spirito di gruppo e quella coesione necessaria per costruire alternative reali.

Il ’68 mi è apparso sempre più non come l’ultima fiammata del grande socialismo europeo, ma come l’inizio di una confusione di ruoli e di linguaggi che tendeva a produrre un nuovo tipo di conformismo massificato attorno alla sola bandiera della trasgressione senza progetto di trasformazione. Purtroppo le letture di quel periodo divennero sempre più spesso Marcuse, Deleuze e Guattari. La rivolta si presentava come liberazione da ogni vincolo o legame in nome di una rivoluzione che si proponeva la destrutturazione e l’annichilimento di ogni “sovrastruttura ideologica”: dalla famiglia, vista come un nemico, ai partiti della sinistra tradizionale che venivano indicati come meri traditori delle idealità socialiste.

Alcuni, profeticamente, videro nel ’68 anche uno sfrenarsi dell’individualismo borghese, della media borghesia acculturata che con Marcuse metteva sotto accusa ogni forma di civiltà organizzata e che con Deleuze e Guattari, ne L’Antiedipo, predicava il primato del desiderio senza freni e un’idea astratta di libertà senza limiti. In quegli stessi anni, in un altro libro profetico, Mitscherlich constatava come si stesse formando una gioventù senza padri che non avrebbe criticato le tradizioni, in nome del legittimo diritto di innovare, ma che avrebbe fatto terra bruciata anche delle conquiste progressive che erano state realizzate in tanti decenni di conflitti sociali.

Il carattere narcisistico, che cominciava a diventare il vero motore di ogni iniziativa, si rendeva sempre più evidente nella proliferazione di gruppi e gruppetti che si chiudevano spesso in un settarismo fanatico, praticando persino riti di un’improbabile iniziazione ad una nuova immagine dell’uomo.

A distanza di anni registravo in un libro, intitolato L’individualismo proprietario (1987), che gli anni trascorsi avevano prodotto una forma di individualismo povero, di mero consumo -come scriveva in quegli anni O’Connor-  fondato sulla universale appropriabilità di tutto ciò che veniva prodotto capitalisticamente. Non si era formata, invece, alcuna nuova idea di bene comune e nessuno aveva posto il problema dei limiti naturali allo spreco delle risorse. Ho scritto in quegli anni che si era formato un nuovo individualismo di massa del consumo senza limiti che avrebbe conformato l’idea del benessere come possesso illimitato di oggetti usa e getta.

Questo giudizio così severo vuole aiutare soltanto a capire perché oggi non riusciamo a costruire alcun senso comunitario di appartenenza che non sia legato all’effimera connessione nelle reti dei social network. Forse ciò si spiega con questa sotterranea pulsione alla soddisfazione immediata del bisogno e con la generale infantilizzazione della società. Una infantilizzazione che ha spento totalmente la spinta allo sviluppo della democrazia partecipata che fu pure una componente positiva dell’intera fenomenologia del ’68.

Negli anni ’70, infatti, accanto al movimento degli studenti, si sviluppò nella società italiana una straordinaria volontà di impegno personale nella organizzazione della scuola, della sanità e della giustizia, alla quale fu aggiunto l’aggettivo “democratico” per segnare una nuova fase dell’attivismo sociale. Proliferavano i comitati di quartiere e le organizzazioni di base che si proponevano di inserire le regole democratiche nella vita di istituzioni sclerotizzate.

L’insieme dei fenomeni, tuttavia, fu contrassegnata da una sorta di anticipazione dell’anti-politica che assumeva i caratteri di un vero e proprio disprezzo e ripulsa dei partiti della sinistra italiana ed europea, accusati di aver ceduto alle sirene del capitalismo riformabile. Come dirigente comunista mi trovai più volte nell’amara situazione di essere accusato di servire i padroni e di tradire la classe operaia. Non era però un fatto che riguardava la mia persona, ma un atteggiamento generale che tendeva a delegittimare i partiti storici: insomma un’anticipazione della componente anti-politica che oggi impedisce di produrre una nuova narrazione delle vicende del nostro Paese a partire dalla prima guerra mondiale.
I giovani del ’68, rimasti orfani della utopia libertaria che si proponeva un continuo nuovo inizio della storia senza radici e senza appartenenze, senza vera identità e vere differenze, in realtà cominciavano a neutralizzare l’idea del conflitto sociale come conflitto di interessi e di valori e trasformavano persino il lessico quotidiano delle nuove generazioni.

Al posto di “tempo” la parola “flusso”, al posto di “popolo” la parola “moltitudine”, al posto di partecipazione libera e responsabile delle persone, la vaga idea di un “comune” che non è né pubblico né privato. Di tutte le speranze di quegli anni e anche delle forme nuove di democrazia è rimasto soltanto un nuovo linguaggio stereotipo che, accompagnato dalla rivoluzione informatico-capitalistica, dalla globalizzazione e dalle innovazioni tecnologiche, ha completamente frantumato il tessuto sociale, rendendo negativa ogni nozione di vincolo e di legame, di fedeltà e responsabilità.

È davvero una strana coincidenza che, a partire dagli anni ’70, cominci un costante declino della sinistra in Italia e nel mondo, e che l’offensiva neoliberista riesca a camuffare l’istanza libertaria in uno straordinario e inaudito potere dell’impresa. Marx, negli Scritti giovanili, aveva previsto che, senza un processo di maturazione della coscienza popolare, il comunismo sarebbe potuto diventare una forma di comunismo rozzo e primitivo, in cui anche le donne vengono messe in comune in una forma di generale prostituzione mercificata e in una alienazione senza freno della personalità individuale.

Non è un caso che molte ideologie e linguaggi contemporanei, che si ispirano alla cosiddetta biopolitica e descrivono la società come assoggettata nella forma vivente ad un astratto potere manipolativo, attacchino proprio il concetto di “persona”. Concetto rimasto sepolto dalle nuove parole che tendono a screditare ogni forma di responsabilità individuale.

Credo che tutti coloro che hanno vissuto queste esperienze e che si interrogano sulla crisi attuale, debbano chiedersi quali siano le radici di questa trasformazione della massa degli uomini in bambini viziati che cercano soltanto il modo di esibirsi e di essere applauditi.

Come vedi, caro amico Giarrizzo, ti restituisco la palla, anche per cercare di capire specificamente perché il nostro Ateneo, che in quegli anni sembrava un polo di attrazione e di elaborazione innovativa, sia diventato la palude mediocre di questi anni e di questi giorni di nuovo, apparente tumulto.
da:
www.sussidiario.net

Postato da: giacabi a 09:59 | link | commenti
comunismo, barcellona

venerdì, 10 settembre 2010
Appello per Oscar Elias Biscet
Di Movimento Europeo Difesa Vita (del 08/09/2010 @ 18:10:47, in Movimento Europeo Difesa Vita, linkato 322 volte)
C'è un uomo che è divenuto un mito, una leggenda. Che ci guarda ogni giorno da magliette e gadget vari, in quasi tutto il mondo. Che ha un volto bello, virile, e duro. La cui fama è stata garantita da un miliardario italiano che voleva divenire anch’egli ispiratore di guerriglie rivoluzionarie, e che ne ha diffuso una foto, destinata a divenire leggendaria.
Il suo nome è Ernesto Che Guevara. Il suo merito, aver contribuito al trionfo, in Cuba, di una feroce dittatura, ereditaria (dopo Fidel Castro, Raul Castro), che persiste da cinquant’anni. Chi era Che Guevara? Un rivoluzionario feroce, dogmatico, che considerava l’Unione Sovietica, i paesi dell’est, Cecoslovacchia, Polonia ecc., un modello di benessere; un ammiratore dello sterminatore Stalin, prima di divenire un seguace entusiasta del più grande massacratore di tutti i tempi, il dittatore cinese Mao Tse Tung.
Il Che fu il primo filocomunista e il primo filosovietico, ben prima di Castro, tra i ribelli cubani, e riempì l’isola di manuali e di tecnici russi; fu l’ uomo che durante la crisi dei missili di Cuba del 1962 sperò ardentemente che potesse scoppiare la guerra mondiale tra Usa e URSS, ritenendo che essa avrebbe sconfitto il nemico americano e portato automaticamente la pace e la giustizia sociale ai popoli. Un uomo che ebbe due mogli e cinque figli, ma secondo la testimonianza di uno di questi, Camilo Guevara, non dedicò loro un solo attimo del suo tempo, intento com’era a cambiare il mondo con le armi.
Che Guevara fu un feroce sanguinario. “Era disumano, un uomo senza sentimenti che in realtà voleva fare solo ciò che aveva occupato tutto il suo tempo: la guerra di guerriglia”: così, dopo aver ricordato le fucilazioni indiscriminate ordinate dal Che a la Cabaña, Juanita Castro, la sorella di Fidel, che fu rivoluzionaria al suo fianco per alcuni anni (Juanita Castro, I miei fratelli Fidel e Raùl, Roma, 2010).
 “La sua arroganza e il disprezzo verso gli altri, che considerava inferiori e trattava con i piedi - aggiungeva Carlos Franqui, che fu direttore di radio Rebelde e del quotidiano Revolucion, voci ufficiali della rivoluzione castrista-, erano proverbiali. E ancora: Esiste il mito di Guevara, nonostante tutti i suoi insuccessi economici e politici, che contribuirono fortemente alla distruzione dell’ economia e della società cubane” (Carlos Franqui, Cuba, la rivoluzione: mito o realtà, Milano, 2007).
Il Che era un uomo crudele, fanatico, un "dogmatico, freddo, intollerante che non ha nulla da spartire con la natura calorosa e aperta dei cubani", scriveva Regis Debray, un intellettuale francese marxista, che fu amico intimo di Castro e di Guevara, e che venne arrestato insieme a lui in Bolivia, prima di divenire consigliere del presidente socialista Mitterand (Révolution dans la révolution?, Paris, 1967 e Loués soient nos seigneurs, Paris, 1996)
Secondo Alvaro Vargas Llosa (figlio del celebre Mario, che fu sostenitore della rivoluzione cubana), il Che fu il responsabile di centinaia di esecuzioni nel carcere della Cabaña nelle prime settimane di potere; contribuì a consegnare la rivoluzione anti-Batista nelle mani del comunismo, allacciando le relazioni con il regime sovietico, e organizzò i primi campi di concentramento per i prigionieri politici, i credenti e gli “asociali” (tra cui gli omosessuali), creando nello stesso tempo un sistema economico autoritario che andò ben presto in bancarotta. (Il mito Che Guevara e il futuro della libertà, Torino 2007; Enrico Oliari, Pride, 9/2004).
Del resto è stato Guevara stesso a scrivere, in quello che è considerato il suo testamento: “Agirà il grande insegnamento dell’invincibilità della guerriglia…L’odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare le sue limitazioni naturali e lo converte in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così” (E. Che Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia (1959-1967), Torino, 1969).
Così come era lui, capace di condannare a morte su due piedi avversari e talora persino compagni di lotta, e di dichiarare: “Prendete un fucile e sparate alla testa di ogni imperialista che abbia più di quindici anni". (Massimo Caprara, già segretario di Palmiro Togliatti, Il Timone, luglio-agosto 2002).
Per giudicare Che Guevara non importa dunque quanto fosse giusta la sua denuncia delle colpe del capitalismo e degli Usa! Importa che la soluzione da lui scelta era sicuramente folle, sanguinaria: l’odio, la dittatura, il totalitarismo comunista, in stile stalinista o maoista! Soleva dire, lamentandosi con molti compagni rivoluzionari cubani non comunisti o addirittura anticomunisti: “Appartengo a coloro che credono che la soluzione dei problemi di questo mondo si trovi dietro la cortina di ferro” (Antonio Moscato, Che Guevara, Teti, Roma, 1996).
Dietro quella cortina, il Che andò, e ne rimase entusiasta, ma oggi tutti noi sappiamo quello che c’era davvero! Sappiamo anche cosa c’è oggi, a Cuba, dopo tante promesse: “Senza i beni di base provenienti dagli yankees e da altri occidentali (tra cui in prima fila anche noi italiani) i cubani sarebbero alla fame. Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cuba è quella di un paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata servita nei paladares… Sullo sfondo dell’eroica rivoluzione contro Batista e delle grandiose ambizioni geopolitiche del carismatico Fidel, questa Cuba immiserita e sopravvivente, cucita su misura di turista (sessuale, non più ideologico) sembra rassegnata a recitar se stessa” (Lucio Caracciolo, sul settimanale di sinistra L’Espresso 1/1/2009).
 Il fallimento dell’ ideologia comunista è ormai sotto gli occhi di tutti, in tutti i paesi ex comunisti ed anche a Cuba (si veda anche intervista ad Alina Castro, figlia ribelle di Fidel fuggita da Cuba, su Corriere 17/11/2006). E’ dunque ancora possibile portare la maglietta del Che? E’ ancora lecito considerarlo un eroe ed un modello, come fecero anche le Br italiane, dopo che persino uno scrittore graniticamente comunista, e amico di Castro, come Josè Saramago, dopo la durissima e sommaria condanna di 79 dissidenti cubani, ebbe a dichiarare: “Fino a qui sono arrivato. D'ora in poi Cuba seguirà la sua strada e io la mia” (la Repubblica, 17/4/2003)?
Forse è il caso di rimuovere un idolo. Di rivisitare una mitologia.
Ma soprattutto di tributare onore e ammirazione ad altri, che della rivoluzione cubana del Che e di Castro sono, ancora oggi, le vittime! Il nostro eroe, allora, che vogliamo ricordare nella preghiera e sulle magliette, non è un guerrigliero, né un fanatico dell’ideologia. E’ un cattolico, un nero, un medico che crede nella dignità della persona: per tutti questi motivi, è un perseguitato.
Il suo nome è Oscar Elias Biscet. Per Amnesty International, Human rights first, Freddom now, per migliaia e migliaia di cubani, è un “prigioniero di coscienza” e un vero eroe.
 Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla Vita. Diritto alla vita violato costantemente in un paese in cui esistono la pena di morte per i nemici politici; in cui organismi governativi sostengono la liceità della clonazione umana cosiddetta “terapeutica”, contro l' “atteggiamento oscurantista”, a loro dire, di chi si oppone; in cui esiste l’aborto forzato, per motivi di ricerca medica, e il tasso di abortività è circa 5 volte quello italiano; in cui l’uso del farmaco Rivanol come abortivo determina il fatto che nel caso di fallimento, cioè in un’alta percentuale, il bambino viene ucciso (infanticidio) per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza; in cui il turismo sessuale, anche pedofilo, che è per molti cubani e cubane l’unico modo per sopravvivere, porta ad una tasso altissimo di aborti e di aborti su giovanissime!
In un paese in cui embrioni e feti sono spesso utilizzati e uccisi a scopo di ricerca, nel più perfetto stile nazi-comunista, a vantaggio di persone provenenti dai paesi più ricchi (il turismo medico, accanto a quello sessuale; vedi le testimonianze di medici cubani come Hilda Molina, Julian Alvarez, José Luis García Paneque…).
Per la sua battaglia “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, cioè a favore della vita dei più piccoli, contro il degrado umano, contro la pena di morte e la tortura per i dissidenti e contro l’eutanasia, praticata su malati poveri, che si rivelano un peso economico, Biscet è stato aggredito, picchiato, additato come pazzo. Poi allontanato dal suo lavoro, rinchiuso in galera dal 3 novembre 1999 e al 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.
Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi giace nella stessa isola in cui sorge Guantanamo, in condizioni terrificanti e disumane (ben descritte da prigionieri cubani come Armando Valladares, autore di Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag delle Americhe dal fondo delle carceri di Fidel Castro, SugarCo 1985, Spirali 2007, e Pierre Golendorf, autore di Un comunista nelle prigioni di Fidel Castro, SugarCo 1978).
 Prigioni in cui, secondo le Nazioni Unite, avvengono: “Isolamenti in stanze fredde; perdita del controllo di tempo e spazio; immersione in pozzi neri; intimidazioni coi cani; simulazioni di esecuzioni; botte ai reclusi; lavori forzati; confinamento per anni in prigioni chiamate ‘cassetti’; uso di altoparlanti con rumori assordanti durante gli scioperi della fame; spersonalizzazione del detenuto mediante totale nudità in celle di castigo; soppressione di acqua ai prigionieri dichiarati in sciopero della fame; presentazione del recluso nudo davanti ai familiari per obbligarli ad accettare il piano di riabilitazione politica…”.
Secondo Human rights first, Oscar Biscet soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie, talora sotterranee, o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua. La sua salute è rovinata. Ha perso quasi tutti i denti, ma non il coraggio. Manda a dire ai suoi sostenitori: “La mia coscienza e il mio spirito stanno bene”. Biscet è forse, vista la lunghezza della sua pena, il massimo prigioniero di coscienza oggi al mondo.
Lo chiamano anche il “negro olvidado” (il “negro dimenticato”).
 Noi, invece, vogliamo ricordarlo e chiederne la liberazione.
La maglietta è disponibile sul sito www.fedecultura.com

Per contatti: biscetlibero@tiscali.it
Firmatari:
Francesco Agnoli, presidente Medv (Movimento Europeo Difesa Vita); Luigi Amicone, direttore del settimanale “Tempi”; Elena Baldini, Assistente Pastorale per la Vita; Giampaolo Barra, direttore del mensile Il Timone; Toni Brandi, presidente Laogai Research Foundation Italia; Carlos Carralero, rifugiato politico cubano, ha fondato "L'Unione per le Libertà a Cuba"; Giovanni Ceroni,  responsabile Giovani Federvita Piemonte; Pucci Cipriani, giornalista; Roberto de Mattei, storico, presidente della Fondazione Lepanto; Renato Farina, scrittore; Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano Il Foglio; Giuseppe Garrone, fondatore del numero verde SOS Vita (8008/13000), cofondatore del Progetto Gemma e riscopritore della Ruota degli esposti (1992); Antonio Gaspari, direttore editoriale L'Ottimista; Silvio Ghielmi, cofondatore e per anni gestore del Progetto Gemma del MpV; Federico Iadicicco, consigliere provincia di Roma; Mario Mauro, presidente PPE al Parlamento Europeo; Giorgia Meloni, ministro della Gioventù; Andrea Morigi, giornalista; Mario Palmaro, filosofo del diritto e giornalista; Massimo Pandolfi, giornalista e scrittore; Luca Teofili, presidente associazione romana Archè; Giovanni Zenone, direttore di Fede & Cultura
 

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comunismo

martedì, 07 settembre 2010

Mio padre minatore e Napolitano

6 settembre 2010 / In Articoli
Napolitano come autorità morale della nazione? Non mi piace l’idea che viene prospettata sempre più spesso da giornali e sondaggi e vagheggiata implicitamente pure dal cardinal Bagnasco, a proposito della vicenda di Melfi.    
Napolitano è un funzionario dello Stato, il primo in quanto presidente della Repubblica. Mi auguro che faccia quel rispettabile mestiere in modo super partes, come un notaio, non come lo sta facendo adesso, vistosamente impegnato a tessere delle sue politiche (per esempio verso la Lega) con modi ovattati e furbi che ricordano la sua precedente vita nel Pci di Togliatti.
Riconosco che certe volte si è mostrato super partes e non mi pare che sia, dal punto di vista caratteriale, livoroso e ampolloso come il pessimo predecessore Scalfaro. A differenza di costui, Napolitano, essendo ateo, non si ritiene il padreterno. E’ già qualcosa.
Ma quanto a “padri della patria” e autorità morali, se permettete, guardo altrove. A Napolitano personalmente preferisco il suo opposto speculare: mio padre, Silvano, che ha passato tutta la vita a “combattere i Napolitano”.
I due hanno fatto una vita antitetica. Sono nati entrambi nel 1925. Napolitano in una famiglia benestante che lo ha fatto studiare, mio padre in una famiglia di minatori, che a nove anni gli ha fatto lasciare le elementari e lo ha mandato a guadagnarsi il pane.
Nel 1938-39, a 14 anni, Napolitano fu iscritto al liceo classico Umberto I di Napoli e mio padre alle miniere di carbone di Castellina in Chianti.
Nel 1942 Napolitano entrava all’università, facoltà di Giurisprudenza, e mio padre, desideroso di studiare, usava il poco tempo fuori della miniera leggendo  i libri datigli dal parroco del paese.
In questi anni di guerra Napolitano si iscrive al Guf, il Gruppo universitario fascista, collaborando col settimanale “IX Maggio”. Mentre mio padre approfondisce la sua fede cattolica e comincia a detestare la barbarie della guerra, l’ingiustizia che vede attorno a sé e le dittature.
Nel 1945 Napolitano aderisce al Partito Comunista italiano e mio padre prende contatto con la Democrazia cristiana. Nel 1947 Napolitano si laurea e partecipa alle epiche elezioni del 1948, a Napoli, come dirigente del Pci di cui Togliatti è il “commissario” e Stalin il padrone indiscusso.
Mio padre vive quelle elezioni – decisive per il futuro e la libertà dell’Italia – facendo campagna elettorale per la Dc nella terra più rossa d’Italia, prendendosi insulti e minacce (che per fortuna rimangono tali dal momento che a vincere è la Dc).
Nel 1953 Napolitano viene eletto deputato del Pci e come tutti i dirigenti comunisti che non hanno mai lavorato un giorno in una fabbrica, in un campo o in una miniera pretende di rappresentare i lavoratori italiani e di parlare a nome loro.
Nello stesso anno mio padre, che lavoratore lo era, in un incidente di miniera subisce l’amputazione di una mano e rischia di morire dissanguato (salvato solo dal gelo della notte invernale che ghiacciò il sangue e lo fermò).
In quel 1953 morì Stalin. Il più sanguinario e longevo dei tiranni aveva soggiogato con i carri armati metà Europa e minacciava pure l’Italia, ma il Pci lo faceva venerare alle masse come il più grande benefattore dell’umanità.
Il giorno dopo la sua morte, infatti, il 6 marzo 1953, “l’Unità” uscì con questa monumentale prima pagina: “Stalin è morto. Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”.
Seguivano pagine e pagine di encomi adoranti. Mio padre che già nel 1950 era riuscito a procurarsi una copia di “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler, cercava di spiegare la verità su questo bestiale tiranno a tanti suoi compagni di lavoro, imbrogliati dalla propaganda del Pci, partito complice di Stalin e propalatore in Occidente dalle sue stomachevoli menzogne.
Fior di intellettuali e politici che in quei decenni avevano tutti i mezzi per riconoscere cos’era il comunismo e denunciarne gli abomini  (anche perché si recavano in Urss) si rifiutarono di farlo, continuando a prendersi gioco di milioni di lavoratori, a farsi beffe della loro povertà, dei loro sogni, nutrendoli di odio e di un’ideologia violenta che rubava loro perfino l’anima: la fede in Dio.
Nel 1956 i carri armati sovietici schiacciarono nel sangue il moto di libertà dell’Ungheria. Il Pci e l’Unità applaudirono i cingolati del tiranno e condannarono gli operai che chiedevano pane e libertà come “controrivoluzionari”, “teppisti” e “spregevoli provocatori”.
Napolitano – che era appena diventato membro del Comitato centrale del Pci per volere di Togliatti – mentre i cannoni sovietici sparavano fece questa solenne e memorabile dichiarazione: “L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Passano gli anni e Napolitano diventa uno dei leader più importanti del Pci, mentre l’Urss delle mummie di Breznev continua a soffocare la libertà dovunque, dalla Polonia alla Cecoslovacchia, dal Sud est asiatico all’Africa, all’Afghanistan.
Mio padre, che alla mia nascita era disoccupato per la chiusura delle miniere ed era passato a fare un altro lavoro operaio, dedicherà molte energie alla militanza politica (nella Dc contro il Pci), alla militanza sindacale e alle opere di solidarietà cattoliche, ma anche alla letteratura e alla pittura.
Da lui, negli anni Settanta, a 14 anni, ho imparato i fondamentali della politica. E quello che fa un uomo degno di questo nome. Scoppia il caso Solzenicyn e leggo un suo pamphlet “Vivere senza menzogna” e poi “Arcipelago Gulag”. Mio padre me lo indica come un uomo vero.
Al liceo che frequento, pieno di figli di papà di estrema sinistra, lo chiamano invece “fascista”. Per il Pci è un reazionario.  Napolitano sull’Unità definisce “aberranti” i giudizi politici del dissidente russo e spiega che esiliarlo era la “soluzione migliore”.
Di errore in errore il Pci di Napolitano continua a professarsi comunista fino a farsi crollare il Muro di Berlino in testa nel 1989. In un Paese normale quando quell’orrore  è sprofondato nella vergogna e il Pci ha dovuto frettolosamente cambiar nome e casacca, tutta la vecchia classe dirigente che aveva condiviso con Togliatti e Longo la complicità con Stalin e l’Urss, avrebbe dovuto scegliere la via dei giardinetti e della pensione. Anche per l’età ormai avanzata.
In Italia accade il contrario. Avendo sbagliato tutto, per tutta la sua vita politica, Napolitano diventa Presidente della Camera nel 1992, ministro dell’Interno con Prodi, senatore a vita nel 2005 grazie a Ciampi e nel 2006 addirittura Presidente della Repubblica italiana.
Mio padre muore nel 2007, in una casa modesta, a causa della miniera che gli ha riempito i polmoni di polvere di carbone che, a distanza di decenni, lo porta a non poter più respirare.
Mio padre fa parte di quegli uomini a cui si deve la nostra libertà e il nostro benessere, ma la loro morte – come scriveva Eliot – non viene segnalata dai giornali.
Gli onori invece vanno a coloro che vengono da quel comunismo che per anni ha minacciato la nostra libertà. Sono questo tipo di uomini a essere considerati autorità morali e padri della nazione.
L’Italia ha avuto il più forte e pericoloso Pc d’Occidente, che è stato una delle grandi sciagure della nostra storia. Ma ancora oggi sembra non si possa dire.
Napolitano è il primo Capo dello Stato proveniente dal Pci. E l’Italia è l’unico Paese dell’Occidente ad aver fatto una scelta simile. Del resto assai contrastata. Infatti fu eletto da metà parlamento, che rappresentava una minoranza degli italiani.
All’inizio sembrò tenerlo presente e guadagnò consenso tenendosi super partes. Oggi assai meno. Il protagonismo politico di Napolitano si fa sempre più evidente. E arrivano anche sermoni moraleggianti e richiami da padre della Patria.
Vorrei dirgli: no grazie, ce li risparmi. Abbiamo altri padri.

Antonio Socci

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comunismo, socci

mercoledì, 01 settembre 2010

Zhao Xiao: «l’economia cinese trarrebbe vantaggio dalla diffusione del cristianesimo».

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pubblicata da Anti UAAR il giorno mercoledì 1 settembre 2010 alle ore 13.05

Zhao Xiao
è un economista cinese di primo piano, il quale ha guadagnato l'attenzione per aver sostenuto che l'economia cinese trarrebbe vantaggio dalla diffusione del cristianesimo. La sua biografia è anche presente su Wikipedia. L'economo ha recentemente scritto un saggio in cinese intitolato: «Dio è il mio presidente del consiglio», basato sull'ormai celebre ed apprezzato documento economico, intitolato: "Economie di mercato con le chiese ed economie di mercato senza Chiese" (vedi qui). Dopo averlo scritto si è convertito al cristianesimo. Frontline lo ha intervistato e lui ha raccontato: «Nel 2002 mi sono recato in America per studiare le differenze tra le economie di mercato degli Stati Uniti e la Cina. L'unica differenza fondamentale che ho scoperto è che in America ci sono chiese dappertutto. Così ho scritto quell'articolo famoso. Ho scoperto che c'è un fondamento basato sulla moralità cristiana dietro le spalle dell'economia americana. In Cina ci siamo concentrati molto sulle riforme economiche senza prestare attenzione al fondamento morale. Grazie a questo articolo, durante l'ultima riunione del Comitato Centrale del XIV Partito Comunista Cinese, si è deciso di approfondire i rapporti tra l'economia e i concetti di moralità».

Ma -ha chiesto l'intervistatore- che rapporto c'è tra l'economia e la moralità? Xiao ha dato una risposta molto lunga, che sintetizziamo: «La morale cristiana è in grado di fornire un tipo di motivazione che trascende la ricerca di profitto. Sappiamo che l'America è un paese fondato dai Puritani, il cui sogno era creare una città su una collina per permettere che il mondo vedesse la gloria di Gesù Cristo. Quindi il loro scopo era fare affari per la gloria di Dio, una motivazione che trascende il profitto. Non c'è cultura che può eguagliare quella della carità cristiana, dell'amore incondizionato». Poi l'economo ha parlato della sua conversione: «Nel 2002, quando ho scritto quell'articolo, non era un cristiano. Solo dopo le mie osservazioni da studioso ho cominciato ad osservare le chiese americane, ad entrarvi ed osservarle. Erano tutti molto amichevoli, tutti così felici. Soprattutto quando ho visto coppie di 70 o 80 anni ancora così giovani e innamorate. Questo mi ha veramente commosso. Ho visto l'amicizia, la buona volontà tra le persone e l'amore reciproco. Ho cominciato a studiare la Bibbia, ma volevo ancora dimostrare la non esistenza di Dio. Dopo più di tre mesi ho ammesso la sconfitta. Questo è il libro che manca nella cultura cinese».

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comunismo, cristianesimo

mercoledì, 25 agosto 2010

Il direttore del giornale comunista che si convertì al cattolicesimo.

 

Nel 1996 morì Douglas Hyde, uomo di Stato, fervente ateo-comunista ed ex-direttore del Daily Worker, il giornale del partito. Il MB.com riporta la storia della sua conversione al cattolicesimo, raccontata anche nel libro che lui stesso ha scritto, intitolato: Io credo. L'autobiografia di un comunista inglese convertito. Come direttore del giornale cominciò a leggere tutti gli scritti riguardanti la Chiesa cattolica con l'intento dichiarato di confutarli uno a uno. Ma qualcosa accadde durante questo sforzo di distruzione... più leggeva infatti e più veniva intellettualmente convinto dal contenuto. Un giorno mentre si recava al lavoro con un treno che attraversa la città di Londra, vide il solito cartello indicante la San Etheldreda's Catholic Church.
Quel giorno decise all'improvviso di scendere e dirigersi verso essa. Si sedette sull'ultima panca e mentre si domandava quale strana forza lo avesse portato lì, una ragazza entrò in Chiesa e si diresse angosciata verso la statua della Vergine Maria. Quando la giovane uscì, Hyde vide che sul suo volto la preoccupazione era totalmente sparita e la ragazza era raggiante. Allora si alzò e volle imitarla: in ginocchio di fronte alla statua affidò il suo desiderio di convertirsi. Lui stesso ha ricordato nel libro questo momento: «Mi chiesi: ma come si fa a pregare la Madonna? Io non lo sapevo. Poi mi è venuto in mente qualcosa che sembrava abbastanza opportuno. Capii che la mia ricerca era finita. Una volta uscito di chiesa cercai di ricordare le parole che avevo pronunciato e quasi mi misi a ridere: erano quelle di una melodia di danza tradizionale: "O dolce e bella signora, sii gentile, signora mia, sii gentile con me"». Ebbene, evidentemente lo è stata.

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comunismo

lunedì, 23 agosto 2010

Marxismo: le radici del razzismo
si trovano in Marx ed Engels
tratto da: Corrispondenza romana, CR 888/04, 19.2.2005.

"«Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo». Questa affermazione iconoclasta, fondata sui testi dei «padri» del socialismo scientifico, è di Jean-François Revel ...". Questo è l'inizio di un interessante articolo di Gianluca Arrigoni, apparso su "Libero" il 28 gennaio 2005 che riportiamo di seguito.

"Jean-François Revel, nella sua prefazione al libro di George Watson «La littérature oubliée du socialisme», argomenta: "È nelle origini più autentiche del pensiero socialista, nei suoi più antichi dottrinari, che si trovano le giustificazioni del genocidio, della purificazione etnica e dello Stato totalitario, impugnate come delle armi legittime, indispensabili al successo della rivoluzione e alla preservazione dei suoi risultati.

(...) Engels, nel 1849, chiedeva lo sterminio degli ungheresi, ribellatisi contro l'Austria. E dà alla rivista diretta dal suo amico Karl Marx, la "Neue Rheinische Zeitung", un articolo importante la cui lettura sarà raccomandata da Stalin, nel 1924, nei sui «Fondamenti del Leninismo». Engels vi consiglia di far scomparire, oltre agli ungheresi, i serbi e altri popoli slavi, poi i baschi, i bretoni e gli scozzesi".
In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 dalla stessa rivista, lo stesso Marx si chiede come si possa fare per sbarazzarsi di "queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc...".
La razza conta molto, per Marx e Engels. Che scrive nel 1894, a uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius: "Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch'essa un dato economico...". Secondo i fondatori del socialismo, la superiorità razziale dei bianchi è una verità "scientifica".

Nelle sue note preparatorie a «L'Anti-Dühring», il vangelo della filosofia marxista della scienza, Engels scrive: "Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell'eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d'Australia". Ancora nel XX secolo, degli intellettuali socialisti, grandi ammiratori dell'Unione Sovietica, come H. G. Wells e Bernard Shaw, rivendicano il diritto per il socialismo di liquidare fisicamente le classi sociali che fanno ostacolo alla Rivoluzione o che la ritardano.

Nel 1933, nel periodico "The Listener", Bernard Shaw, facendo prova di un bello spirito di anticipazione, per rendere più rapida l'epurazione dei nemici del socialismo incita i chimici a "scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» - mortale - ma umano, sprovvisto di crudeltà". Anche il boia nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme, nel 1962, invocò in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, che servi ad uccidere le vittime della Shoah.

Il nazismo e il comunismo hanno come tratto comune di volere una metamorfosi, una redenzione totale della società, e se possibile dell'umanità. Per questo, pensano di avere il diritto di annientare tutti i gruppi razziali o sociali che potrebbero essere un ostacolo, foss'anche in modo involontario e non cosciente - nel gergo marxista "oggettivamente" - , a questa sacra impresa di salvezza collettiva.

In questi giorni, mentre il dovere di memoria sembra un principio condiviso da tutti, Jean-François Revel, mostrando una verità nascosta, dimostra come sia più difficile applicare quello che è un suo indispensabile complemento, il dovere di verità".
da :
http://www.storialibera.it/epoca_contemporanea/comunismo/articolo.php?id=918&titolo=Marxismo:%20le%20radici%20del%20razzismo%20si%20trovano%20in%20Marx%20ed%20Engels

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comunismo, marx

sabato, 14 agosto 2010

STORIA/                                                                                            da www.sussidiario.it

Quella Madonna tanto cercata, ma anche perseguitata, nel cuore della Polonia

venerdì 13 agosto 2010
Uno dei santuari tradizionalmente legati ai pellegrinaggi mariani è quello di Jasna Góra a Czestochowa, fondato verso la fine del XIV secolo dai monaci di san Paolo Eremita, chiamati in Polonia dall’Ungheria dal principe Ladislao di Opole
Già dalla seconda metà del XVI secolo Jasna Góra è una meta privilegiata, e tra i suoi visitatori troviamo rappresentanti di tutti i ceti sociali, che rendono questo luogo il simbolo dell’identità e dell’unità della nazione.
«Quest’antica effigie - disse Giovanni Paolo II -, che porta su di sé i segni di elementi del cristianesimo d’Oriente e d’Occidente, è un simbolo dell’unione di questi due mondi, delle ricchezze e delle culture che mediante il Battesimo si sono incontrati e uniti in Cristo […]. Il santuario ha svolto pure il ruolo della difesa della fede, della cultura e della conservazione dell’identità nazionale particolarmente durante il lungo periodo della spartizione della Polonia […]. Negli anni dell’ateizzazione organizzata e sistematica, Jasna Góra divenne […] punto di riferimento per la rigenerazione sociale».
Nel Novecento, durante la Seconda guerra mondiale, parte della fortezza viene occupata dalle truppe naziste che proibiscono i pellegrinaggi. È proprio di quegli anni il ricordo della visita compiuta da Guareschi: «Mi arresto perplesso sull’entrata, poi riprendo ad avanzare, e mi sembra d’essermi sfilato dal mio corpo coperto di stracci e d’averlo lasciato lì sulla porta, tanto mi sento leggero […]. Si leva un canto dalla folla, e pare la voce stessa della Polonia: un dolore dignitoso di gente usa da secoli a essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre e che non muore mai» (Diario clandestino, settembre ‘43).
Altri scrittori e poeti sono stati ispirati dal santuario, come il nobel Milosz: «Maria purissima, benedici colei che nella misericordia non crede. / Che la Tua luminosa mano spossata possa lenire ogni sua tristezza. / Sotto la Tua protezione sia più lieve il pianto».
Durante l’epoca comunista, i pellegrinaggi continuano nonostante le campagne antireligiose: nell’agosto 1956 sono quasi un milione i fedeli presenti al santuario a rinnovare i voti di affidamento a Maria. Come secoli prima, a Jasna Góra arrivano studenti, contadini, rappresentanti del mondo della cultura, ai quali si aggiungono, dal settembre ‘83, gli operai grazie al primo loro pellegrinaggio voluto da padre Popieluszko.
Le autorità statali, non potendo concretamente proibire i pellegrinaggi, cercano in tutti i modi di ostacolarli e contenerne la portata: limitano la circolazione dei mezzi pubblici, sopprimono i treni, controllano i pellegrini che si spostano con i mezzi propri e con i torpedoni di associazioni e circoli. Non di rado la polizia pattuglia le strade e ritira pretestuosamente le patenti, mentre vengono avviati lavori stradali straordinari. I pellegrini che riescono ad arrivare sono sorvegliati, e le targhe dei loro veicoli fotografate e schedate.
La propaganda comunista cerca di distogliere l’attenzione dei fedeli organizzando cineforum e rimpinzando i palinsesti televisivi con film imperdibili, proponendo grandi manifestazioni culturali e ricreative, allestendo lungo il percorso chioschetti per la vendita di alcolici e altre merci normalmente introvabili. In questo modo da un lato si vuol trasformare il pellegrinaggio in occasione da paese dei balocchi, dall’altro si intende screditare lo stesso gesto religioso e i pellegrini agli occhi dell’opinione pubblica.
Ciononostante l’afflusso di fedeli a Jasna Gora è inarrestabile e… variopinto: nell’estate del ‘71 al pellegrinaggio da Varsavia si uniscono 300 hippies che, secondo i rapporti della polizia, di sera si riuniscono a discutere animatamente sull’esistenza di Dio e sul senso della vita; gli agenti sono scandalizzati perché dai conventi le suore escono a portare a questi giovani cibo e bevande, e i contadini mettono loro a disposizione i campi per piantare le tende.
Oltre ad azioni ordinarie di disturbo e controllo, la polizia compie atti vandalici sia contro i pellegrini, sia contro chi li ospita: ogni tipo di spazzatura viene disseminato nei campi per convincere la popolazione locale che non si tratta di iniziative di carattere religioso, e per infondere un senso di avversione tra i sacerdoti delle parrocchie coinvolte.
Nel 1978, durante il 267° pellegrinaggio da Varsavia, agenti del Ministero degli interni avviano un intervento su ampia scala: rubano zaini e altri oggetti, rovinano i sacchi a pelo, lasciano qua e là materiale pornografico, bucano le gomme delle auto e intossicano pozzi e fontane. L’Istituto polacco per la memoria nazionale conserva la nota spese per l’azione di disturbo prevista contro i pellegrini partiti da Radom: nei primi giorni di agosto un sottufficiale spende 658 zloty per acquistare 200 preservativi, due scatole di colore alla nitro, 30 assorbenti femminili, 5 bottiglie di vino, carta igienica, pennelli e strutto.
A ciò si aggiungono «35 bottiglie per la birra con relativi tappi, brandelli di giornali sporchi, mezzo litro di sangue animale con cui imbrattare gli assorbenti, avanzi di cibo e qualche barattolo di conserva». Lo stesso sottufficiale propone di cospargere un intero tratto di strada con i semi delle rose canine, la cui parte interna ha proprietà pruriginose…
Nemmeno dopo l’elezione di Giovanni Paolo II si allenta la presa: nell’82 Grzegorz Piotrowski, che sarà tra gli assassini di padre Popieluszko, riceve l’ordine di incendiare un fienile il cui proprietario aveva ospitato i pellegrini, tenta di violentargli la figlia e di intossicare il pozzo.

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comunismo, maria

sabato, 03 luglio 2010
Orfanotrofio russo di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 4 marzo 2010 La cultura e le leggi bolsceviche che avrebbero dovuto portare alla “liberazione della donna”, magari contro la “sessuofobia cristiana”, causarono, come si è visto, la disgregazione della società, il boom degli infanticidi e degli aborti.
Tanto che i paesi comunisti, dal Vietnam alla Cina, da Cuba alla Federazione russa, mantengono ancor oggi il triste primato degli aborti nel mondo. Ma non è tutto: anche i bambini già nati furono vittime, in massa, dell’ideologia. Riguardo alla famiglia, infatti, all’inizio della rivoluzione comunista si sostenne che la lotta tenace al matrimonio religioso, il lavoro obbligatorio per le donne e l’intervento dello stato per sollevare i genitori dal “fardello dell’educazione dei figli”, avrebbero portato a una società armoniosa e felice. Alexandra Kollontai, in due discorsi del 1921, aveva infatti dichiarato: “Nella Società Comunista la donna non dovrà passare le sue scarse ore di riposo in cucina, perché esisteranno ristoranti pubblici e cucine centrali in cui si darà da mangiare a tutti…”; neppure sarà più necessario che le donne facciano le pulizie in casa, visto che ci penseranno persone stipendiate ad hoc dallo Stato. Inoltre il “focolare domestico” verrà sostituito dal “focolare comunitario”, il matrimonio indissolubile, “una mera frode”, dal “diritto alla felicità” per gli amanti; le case comuni prenderanno il posto degli alloggi privati, e la famiglia sarà sostituita, nell’educazione dei figli, dallo stato. Così “l’uomo nuovo, della nostra nuova società, sarà modellato dalle organizzazioni socialiste, dai giardini d’infanzia, residenze, asili per bambini e altre istituzioni di questo tipo, in cui il bambino passerà la maggior parte della giornata e in cui educatori intelligenti lo trasformeranno in un comunista cosciente”. “Non temete – continuava – per il futuro di vostro figlio. Non conoscerà il freddo e la fame. Non sarà disgraziato, non verrà abbandonato alla sua sorte come accadeva nella società capitalista. Non appena il neonato viene al mondo, lo Stato della classe lavoratrice, la Società Comunista, assicurerà al figlio e alla madre una razione per la sua sussistenza e una sollecita cura. La Patria Comunista crescerà, alimenterà ed educherà il bambino” e la famiglia non sarà più necessaria, ma al contrario “dannosa e inutile”, visto che “la donna che ha nutrito il suo bambino al seno ha assolto il suo dovere sociale”. Proprio in uno di questi discorsi, dopo aver ricordato che finalmente nel 1920 dodici milioni di cittadini, “bambini compresi”, hanno mangiato nelle mense pubbliche, e dopo aver stigmatizzato come “lavoro improduttivo” “la cura della casa e la cura dei bambini”, la Kollontai notava che “in Unione Sovietica, ahimè! il numero dei bambini abbandonati dai genitori non smette di crescere”.
Che cosa succedeva? La mentalità imposta dai bolscevichi, il matrimonio minimale, senza “formalità”, senza sacralità e quasi senza cerimonia, il cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di una o due settimane al massimo” (sfruttato da molti mariti), l’insistenza sulla morte della famiglia, il “doppio fardello” per le donne, si sommarono alla povertà determinata dalla guerra civile, dall’economia statalizzata e dalle carestie provocate, e portarono milioni di russi a smarrire il senso della genitorialità, all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad abbandonare i figli o allo stato o sulla strada. Gli storici sono concordi: fu un fenomeno di proporzioni inaudite. In breve la Russia fu strapiena di “besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di nessuno: si parla di 7 milioni di bambini nel 1922. A quelli abbandonati per i motivi suddetti infatti, bisogna aggiungere tutti i figli dei perseguitati politici: nella Russia comunista le mogli dei “traditori della patria”, ma spesso anche le mamme e le sorelle, venivano internate in appositi gulag, mentre i bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi in quelle che dovevano essere le “splendide” scuole pubbliche, sostitutive dei genitori, e che divennero invece gli immensi orfanotrofi-lager che disseminano ancora oggi l’Est postcomunista. A prendersi “cura” dell’emergenza fu incaricato il terribile Dzerzinskij, il capo della Ceka, determinando tra il resto il fatto che questi istituti sovraffollati di bambini disperati divennero talora veri e propri vivai per la polizia segreta di Stalin, capace, sovente, di ferocia senza pari. Nel 2007 in Russia vi erano ancora circa 5 milioni di bambini abbandonati.
Qualcosa di simile alla situazione di altri paesi comunisti, in cui la disgregazione familiare era stata considerata propedeutica a una maggior libertà dell’individuo e alla creazione di veri cittadini, fedeli solo allo stato e alla collettività. Nella Cina di Mao e nella Cambogia di Pol Pot, voler dormire a casa, dimostrare attaccamento per la moglie o i figli, tributare culto ai familiari defunti, costituirono motivi di sospetto. Si veniva incolpati di “mettere la famiglia al primo posto”, di porre in dubbio la capacità del partito di provvedere ai cittadini, di avere ancora “inclinazioni individualiste”, di essere troppo legati a “sentimentalismi” ed egoismi piccolo borghesi. Con esiti simili a quelli russi: una massa immensa di aborti, infanticidi e orfani nelle strade.
(Continua - 3)

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comunismo, famiglia, aborto, agnoli

Perché l'idea di vera famiglia spaventa così tanto i nostalgici dei vecchi principi comunisti
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Guerra di modelli di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 25 febbraio 2010
Uno dei concetti ribaditi dai padri del comunismo è che la liberazione generale che sarà garantita dalla nuova struttura economica riguarderà anche la famiglia, le donne e i bambini.
Il cristianesimo, accusano i marxistileninisti, disprezza la donna e la considera un essere inferiore destinato a procreare figli nel silenzio della casa. Ma divorzio libero, aborto, anticoncezionali, nuova visione dei rapporti prematrimoniali ecc., genereranno una società nuova, armoniosa, in cui la famiglia, finalmente "felice", non sarà più il luogo dell'oppressione dell'uomo sulla donna. Quest'ultima, lo affermava Engels, non sarà più schiava nella "camera da letto"o "nella camera dei figli, nella cucina". Sarà libera, felice, realizzata. Scomparirà del tutto anche la prostituzione, perché verranno eliminate "le condizioni che la generano e l'alimentano". Ciò avverrà, nella società comunista futura, tramite la fine, oltre che dello stato, anche di qualsiasi normativa atta a regolare il matrimonio, ridotto, come auspicava Engels, a "rapporti puramente privati, concernenti solo le persone che vi partecipano". Che siano per il "libero amore", magari anche di gruppo come nel film "Tre in uno scantinato", per il sesso come mero bisogno fisiologico, secondo la teoria del "bicchier d'acqua", o per una visione più moderata, per tutti i teorici del nuovo mondo comunista il divorzio libero farà miracoli. Fatto sta che nel 1917 il governo dell'Urss introduce nel codice il divorzio sia per mutuo consenso, sia su richiesta di anche uno solo dei due congiunti. Per celebrare l'evento Lenin afferma: "La repubblica dei soviet ha prima di tutto il compito di abolire ogni restrizione dei diritti della donna. Il procedimento giudiziario per il divorzio, questa vergogna borghese, fonte di avvilimento e di umiliazione, è stato completamente abolito dal potere sovietico. Da un anno esiste ormai una legislazione assolutamente libera sul divorzio".
Il codice del 1926 inoltre, accanto al matrimonio registrato, contempla anche il matrimonio di fatto, entrambi con lo stesso valore giuridico. Il divorzio è ancora più facilitato, può avvenire senza alcuna "formalità"ed essere unilaterale. Si assiste così alla morte della cosiddetta famiglia "borghese". Con quali conseguenze? La felicità promessa? H. Chambre, nel suo "Il marxismo nell'Unione Sovietica", ricorda che gli effetti di questa legislazione, e della cultura che vi è sottesa, sono l'instabilità della coppia coniugale, l'insicurezza dei fanciulli, l'aumento del numero dei figli per i quali la donna non percepisce pensione alimentare, l'incremento del disagio minorile… A sua volta F. Navailh, in "Storia delle donne"(Laterza), nota che tale "libertà degenera dando luogo a effetti perversi. L'instabilità maritale e il rifiuto massiccio di figli sono due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. L'aggravarsi delle condizioni delle donne (soprattutto in città) è evidente. I padri abbandonano o se ne vanno di casa, lasciando spesso una moglie priva di risorse. La procedura di divorzio mediante una semplice richiesta unilaterale incoraggia gli atteggiamenti più cinici...Gli assegni familiari sono anch'essi aleatori…". Si arriva così a una esplosione della disgregazione familiare, 44,3 per cento dei divorzi in città nel 1935, che spinge il governo a imporre una retromarcia per impedire il crollo del paese. Insomma, il "sol dell'avvenire" tarda a spuntare, così in economia come nella vita affettiva. Nel 1936, pur restando libero, il divorzio viene reso molto più difficile per le spese prescritte.
Nel 1944 si arriva a un'ulteriore virata: viene abolito il matrimonio de facto e solo quello registrato è ritenuto valido. La procedura è affidata ad un tribunale, che deve anche intraprendere un tentativo di conciliazione. Inoltre occorre pagare una cifra molto alta per presentare la domanda di divorzio e un'altra cifra notevole alla compilazione del certificato finale. Il divorzio diventa così, per molti, praticamente impossibile! I giudici sono chiamati a ostacolarlo in tutti i modi, a tentare l'impossibile per la conciliazione e a tenere conto del grado di colpevolezza dei due coniugi. In svariati casi rifiutano il permesso anche a chi abbia seguito tutte le procedure. Insomma, dal matrimonio senza alcuna formalità, puro affare di privati, si passa a una quasi totale inversione di rotta:ancora una volta l'utopia è sconfitta dalla realtà, e diventa necessario correre ai ripari.
Nascono così le crociate per limitare i divorzi. Già nel maggio del 1936 la Prava aveva spiegato che "la famiglia è la cosa più seria che esiste nella vita". "Senza una famiglia salda e felice -si legge su "Autoistruzione politica", organo del PCUS, nel 1962 -non vi può essere una felicità personale, né una retta educazione della nuova generazione.
Ecco perché il programma del nostro partito dà una grande importanza a un ulteriore rafforzamento della famiglia sovietica…". L'idea del "libero amore", in tutte le sue forme, è ormai lontana, l'ideologia è sostituita con la realpolitik: non è tanto la famiglia in sé che interessa, quanto la disgregazione dello stato che segue alla disgregazione della famiglia, che spaventa.
(Continua - 1)

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comunismo, famiglia, agnoli

domenica, 20 giugno 2010

Io ex compagno vi dico: ho fatto troppo poco per aiutare i dissidenti


ll comunismo è stato, per chi come me viveva in Occidente e beneficiava dei vantaggi della democrazia, l’errore che ha attraversato il Novecento e che si è via via consumato tra le conseguenze del ’56 ungherese e il 1989. I post-comunisti, per lo più, sono sfuggiti ai conti con la storia che hanno vissuto, hanno sostituito l’Utopia con qualche parola ancora pronunciabile come «socialismo» o con una parola incontestabile come «democrazia». In Italia si sono appigliati alla «diversità» del Pci, che ci fu se non altro perché la divisione di Yalta e la guerra mondiale ci lasciarono dalla parte giusta del mondo. Ma già negli anni Trenta il più importante degli «ex», o dei «rinnegati» come venivano definiti, cioè Arthur Koestler, scriveva che non c’era un solo comunista straniero il quale, andato in Russia, non dicesse poi un po’ schifato: «Noi faremo una cosa completamente differente».
Così l’Urss fu al tempo stesso il mito e l’anti-mito. C’erano comunismi - la declinazione al plurale è obbligatoria - che per sfuggire a Breznev si rifugiavano da Mao e da Fidel, qualcuno anche da Pol Pot, senza così sfuggire all’errore, ma illudendosi di farlo. C’erano comunismi per i quali l’apologia dell’uguaglianza faceva aggio sulla realtà dell’oppressione. C’erano comunismi che giustificavano, nel nome della somma zero, la Germania di Ulbricht e di Honecker con l’esistenza del potere di Franco in Spagna o di quello di Salazar in Portogallo. C’erano comunismi per i quali Dubcek era il simbolo della possibilità di un «comunismo buono», vittima di quello «cattivo».
E poi c’erano i grandi equivoci. Il «disgelo» di Krusciov consentì di archiviare comodamente Stalin. La guerra in Vietnam, uno sbaglio se non altro perché persa, esaltò il terzomondismo e l’antagonismo all’Occidente. Per restare in casa nostra, la «terza via» di Enrico Berlinguer fu l’ultimo alibi. Ecco, il post-comunismo è riuscito a sfuggire ai conti con il passato per queste piccole diversità, che hanno consentito di mettere in ombra l’errore. Al punto che solo oggi, anche molti di coloro che nel 1989 pensavano alla possibilità di una rifondazione, sono giunti a considerare improduttiva se non impronunciabile la parola stessa. Ma il problema è l’errore o sono queste diversità?
Il problema resta in primo luogo l’errore di aver convissuto con il totalitarismo, per di più vivendo nelle comodità di una democrazia. Chi ha rotto davvero con il comunismo non ha difficoltà a riconoscerlo. Un esempio? Se c’è qualcosa che non riesco a perdonarmi è di non aver capito venticinque-trent’anni fa che il sostegno ai dissidenti non poteva ridursi a qualche corsivo scritto in linguaggio diplomatico, ma avrebbe dovuto essere all’altezza del sacrificio a cui tante persone andavano incontro per minare alle fondamenta una struttura autoritaria. Che per essere davvero democratici in Italia bisognava sostenere fino in fondo i democratici perseguitati nell’Est.
Infine una domanda: chi inquina oggi di più? I nostalgici che non rinunciano al comunismo o coloro che comunisti sono stati e non hanno fatto fino in fondo i conti con il passato?

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comunismo, testimonianza

Così vide morire il comunismo

***
http://www.salutiamoli.it/files/2009/06/renzo-foa.jpg
Da:www.ilgiornale.it
di Renzo Foa
Renzo Foa, scomparso un anno fa, ha vissuto per quarant’anni tutte le passioni, le illusioni e le delusioni di un intellettuale comunista. Ha seguito gli sviluppi storici del comunismo sia nella versione terzo-mondista - Vietnam, Cambogia, Cuba - sia nella versione ortodossa - Unione Sovietica ed Europa orientale. Inviato in Vietnam nei primi anni Settanta come corrispondente dell’Unità, ha visto successivamente lo scontro politico e militare tra la Cina e lo stesso Vietnam, poi il genocidio compiuto da Pol Pot in Cambogia, lo sfacelo culturale e sociale del maoismo, la crisi polacca del 1980, il dissenso dei Paesi dell’Est, l’esito autoritario della rivoluzione cubana, la caduta del Muro di Berlino e, ovunque, il fallimento dell’economia collettivista. Ha assistito amaramente allo sgretolarsi dei miti rivoluzionari degli anni ’60 e ’70, dimostratisi per quelli che erano: mostruosi universi concentrazionari. Ha visto, cioè, l’inesorabile scacco di ogni possibilità di riforma del comunismo e l’inequivocabile emergere della sua vera natura dispotica e totalitaria (Renzo Foa, Ho visto morire il comunismo, introduzione di Lucetta Scaraffia, Marsilio, pagg. 144, euro 15).
Sequenze, tutte, registrate da «vicino» perché Foa, figlio di Vittorio, uno dei padri della sinistra italiana, è stato dal 1982 al 1986 capo redattore del quotidiano comunista, poi vicedirettore, infine, nel biennio cruciale 1990-1992, direttore. Come redattore, vicedirettore e direttore dell’Unità, avuto modo di avvicinare e intervistare esponenti importanti del mondo e del dissenso comunista quali, ad esempio, Mikhail Gorbaciov e Alexander Dubcek; contemporaneamente ha cercato di favorire un rinnovamento della sinistra italiana e internazionale. Di fronte alla catastrofe del comunismo - che, del resto, aveva già dato in precedenza inequivocabili prove di sé ha dovuto alla fine arrendersi, constatando l’impossibilità di conciliare il comunismo con la democrazia.
Uscito da questo universo totalitario, negli anni Novanta ha lavorato al Giorno, al Diario, a Liberal e, dal 2001, anche al Giornale come editorialista. Il suo percorso rappresenta un notevole esempio di grande onestà politica e intellettuale, che testimonia lo sforzo di uscire da un mondo a cui era stato legato per quarant’anni. Un caso raro di autentico anticonformismo, considerando il clima che ancora oggi aleggia in buona parte della cultura italiana. Un tragitto che lo ha portato all’abbandono della fede e alla lucida denuncia del suo mito nefasto, pagando il prezzo della solitudine a fronte delle accuse di tradimento da parte di chi, con il tipico modo curialesco, ha continuato nella pervicace volontà di negare l’evidenza. Insomma quasi la ripetizione di un paradigma già sperimentato nel secondo dopoguerra con i casi di due celebri «traditori» e «rinnegati» del comunismo come Viktor Andrijovich Kravchenko e Arthur Koestler ai quali, non a caso, Foa dedica pagine significative.
Il distacco maggiore consumatosi tra Foa e il PCI si palesa soprattutto nella diversa analisi degli anni Ottanta, dalla quale emerge l’incomprensione da parte dei comunisti della presidenza Reagan. Si constata qui, nell’acuto saggio dedicato al presidente americano, il grave ritardo politico e culturale del comunismo italiano e internazionale che, mentre si perde nell’effimero progetto dell’eurocomunismo, non riesce né vuole comprendere la svolta epocale rappresentata dalla vittoria irreversibile del capitalismo sul comunismo e l’inevitabile sconfitta di quest’ultimo. Quegli anni Ottanta, cioè, che segnano non soltanto l’avvento al potere di Reagan, ma anche l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla e ciò che questa elezione ha significato per la storia della Chiesa e del mondo. Emerge, proprio nelle pagine dedicate da Foa al decennio che porterà alla caduta del Muro, una caratteristica tipica dei comunisti italiani e, più in generale, della sinistra: l’incomprensione del mutamento storico che si manifesta sotto la forma contraddittoria, ma altamente rivelatrice di tutta una mentalità, della contemporanea sottovalutazione e demonizzazione dell’avversario (si pensi, ad esempio, all’odio contro Craxi).

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comunismo, testimonianza

domenica, 13 giugno 2010


Popieluszko: Vivere nella verità

Per rimanere persone spiritualmente libere, bisogna vivere nella verità. Vivere nella verità significa darne esteriormente testimonianza, dichiararla e rivendicarla in qualunque situazione. La verità è immutabile. Non si può distruggere la verità con delibere o decreti. In questo consiste in linea di massima la nostra schiavitù: che ci arrendiamo al dominio della menzogna, che non la smascheriamo e non protestiamo contro di essa ogni giorno…la testimonianza coraggiosa della verità è la via maestra verso la libertà”.(J. Popieluszko 31.10.1982)
Il 6 giugno 2010 nella piazza Maresciallo Józef Pilsudski, a Varsavia, con la partecipazione di fedeli da tutta la Polonia, dei membri del sindacato di Solidarność, di autorità civili e militari, Cardinali, Vescovi e sacerdoti, consacrati, e la madre centenaria Marianna con i familiari, è stato proclamato beato il sacerdote Jerzy Popielusko.
Alfons Alexandr Popieluszko (Jerzy) era una persona normale, un bambino normale, un ragazzo come tutti, un giovane comune, un figlio di contadini.
Che cosa ne ha fatto un uomo desiderato, atteso, cercato, difeso ed infine ucciso, sacrificato da un potere impaurito e violento?
Sua mamma Marianna ha detto che era innamorato della Madonna, come il martire Maximilian Kolbe, polacco pure lui, morto ad Auschwitz. Torturato e ucciso, gettato nel lago perché anche il corpo sparisse, l’ultimo oggetto rimasto sul ponte della Vistola fu il suo rosario. La Polonia ha una regina potente, la Vergine di Czestochowa. Non ha mai abbandonato il suo popolo. Ogni polacco si considera Suo figlio.
Jerzy nasce nella Polonia liberata dal nazismo, fraudolentemente governata dagli usurpatori comunisti, appoggiati dall’Armata Rossa, che impongono collettivizzazione forzata e ateismo in ossequio al diktat stalinista.

Terminato il Liceo è accolto nel seminario del Card. Stefan Wyszynski, primate di Polonia, uomo di grande coraggio, intelligenza e patriottismo.
Il servizio militare, obbligatorio per tutti i giovani, riserva ai seminaristi un trattamento particolare, inserendoli in un’unità speciale, dedicata a umiliare e distogliere i giovani dalla loro vocazione, esaurendoli fisicamente e psichicamente.
Jerzy torna in seminario fortificato e più deciso che mai, anche se fisicamente indebolito. Il Card. Wyszynski lo ordina il 28 Maggio 1972 e lo assegna come cappellano alla Parrocchia San Stanislao Kotska.

Il 1980 con la nascita di Solidarnosc è l’occasione per lui di incontrare il mondo operaio. Invitato a celebrare una Messa nell’acciaieria di Varsavia, dove gli operai sono scesi in sciopero, resta stupito dalla loro fede ed è da loro accolto come un naturale compagno di viaggio.
La Chiesa polacca è sempre stata vicina al popolo, identificandosi con esso e sostenendo le sue giuste preoccupazioni.
Jerzy diventa in breve il “cappellano di Solidarnosc”, accorrendo ovunque gli operai lo chiamino, sostenendoli, confessando, riportando molti ad una fede certa e senza paura. Celebra, insieme al parroco Bogucki, le “Messe per la patria”, per chiedere insieme al popolo la pace e la protezione di Dio sulla nazione.
Lo “stato di guerra” proclamato dal Gen. Jaruzelski, nel tentativo di arginare la sollevazione generale di un popolo che non teme più nulla, getta di nuovo la nazione polacca in un clima di violenza, sospetto, sopraffazione e di revoca dei diritti fondamentali dei cittadini
. La polizia (Milicja) spadroneggia: informatori e spie sono messi sulle tracce delle persone più in vista.
Popieluszko è inserito nella lista nera dei sacerdoti da far tacere ed eliminare. Calunnie e perquisizioni vogliono ridurre all’inazione e al silenzio chi non teme di affermare comunque la verità e la vicinanza al popolo. Si interviene anche sul Card. Glemp, successore di Wyszynski, per tentare di fermare Popieluszko, anche con la promessa di un permesso di studio a Roma. “Non posso deludere chi si fida di me” risponde Jerzy.

Dopo un fallito tentativo di assassinio mediante un incidente occorso all’auto su cui viaggiava, finalmente nella notte del 19 ottobre 1984, tre membri della polizia politica istigati dal loro capo Piotrowski, lo catturano con l’inganno sulla strada di ritorno da Bydgoszcz, dove era andato a celebrare una Messa, lo tempestano di botte, lo incaprettano e lo gettano nel lago di Wloclawek. Il suo corpo è recuperato dopo 20 giorni nella Vistola.
Il procuratore, nel processo ai responsabili identificati, tenta di dimostrare che Popieluszko era un provocatore ed un agitatore politico. 
Il popolo e la Chiesa ne riconoscono le virtù eroiche e la morte in odio alla fede.

La cultura europea è stata creata dai martiri dei primi tre secoli; l’hanno creata anche i martiri ad est della nostra terra, negli ultimi decenni, e anche qui da noi sempre negli ultimi decenni. Sì, l’ha creata don Jerzy. Egli è il patrono della nostra presenza in Europa pagata con l’offerta della propria vita, così come Cristo(Giovanni Paolo II, Wloclawek, 7.6.1991

La condizione fondamentale per destare l’uomo alla conquista della verità e della vita nella verità è l’acquisto della virtù del coraggio. Contrassegno del coraggio cristiano è la lotta per la Verità. La virtù del coraggio è la vittoria sull’umana debolezza, in particolare la vittoria sulla paura. Nella vita, infatti, bisogna avere paura solo di tradire Cristo per i 30 denari di una meschina tranquillità(
J. Popieluszko 27.5.1984)

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comunismo

sabato, 29 maggio 2010


Il sovietico francescano

 

Così l’uomo che rinunciò al suo arsenale nucleare per la pace si è inginocchiato davanti al santo che lasciò le armi per servire Dio. I frati di Assisi raccontano la visita a sorpresa di Michail Gorbaciov
di Giancarlo Giojelli
 
 
Sabato 15 marzo, vigilia della Domenica delle Palme. Un uomo prega inginocchiato tra gli altri fedeli nella basilica di Assisi. Prega intensamente, con gli occhi chiusi, per oltre mezz’ora. Accanto a lui una giovane donna e altre persone, sembrano slave. Un frate di origine lituana, padre Miroslavo, li nota un po’ stupito. C’è qualcosa di familiare in quella figura. Si avvicina, i frati qui sono abituati a sorprendenti incontri, e alla fantasia di Dio che propone occasioni che sarebbero francamente inimmaginabili. Ma questa è davvero grossa.
Inginocchiato davanti alla tomba di san Francesco, il più povero tra i poveri, c’è un uomo che fu tra i più potenti del mondo, l’ultimo imperatore dell’Unione Sovietica, l’ultimo segretario del Partito comunista dell’Urss, dello Stato dove il socialismo reale per sessant’anni ha abolito ogni educazione religiosa, l’uomo che ha avuto a sua disposizione immensi arsenali atomici e poi ha imboccato la strada che ha portato al crollo dell’impero comunista, alla caduta del Muro di Berlino, agli sconvolgimenti che hanno cambiato la vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. E ora è lì, umile e anonimo pellegrino: Michail Gorbaciov.

La donna accanto a lui è la figlia. Gli altri uomini sono anonimi amici che lo hanno accompagnato in questi viaggio. Nessuno sa di quella visita. Il frate lituano, emozionato, chiama i suoi superiori, il custode del Sacro Convento, padre Vincenzo Coli e padre Enzo Fortunato. «Mi ha colpito quel modo di pregare – racconta padre Miroslavo – intenso e raccolto, tipico del mondo orientale. Ma mai e poi mai avrei immaginato di trovarmi davanti Gorbaciov».
L’ex presidente sovietico parla con i frati per ore. Non tutto si può dire di quell’incontro, ovviamente, e non tutto ci è stato raccontato, perché i religiosi vogliono e sanno custodire le confidenze di un uomo. «Ci ha raccontato che si è avvicinato da tempo alla fede – dice padre Coli – attraverso la figura di san Francesco. Lui, da sempre ateo, ha iniziato un cammino, un percorso spirituale dopo aver scoperto la forza della religione cristiana guardando la figura del Poverello. E quando morì la moglie Raissa volle per lei i funerali religiosi». Una forza operava da tempo, dunque, nel cuore di Michail Gorbaciov, e qualcosa o Qualcuno lo ha chiamato all’inizio della Settimana Santa a questo misterioso appuntamento nella basilica di Assisi. Lui, cittadino di quella Russia dove tanto il comunismo imperante quanto l’ortodossia hanno sempre visto con estremo sospetto il cattolicesimo, fino ad impedire, a tutt’oggi, quella visita del Papa a Mosca che è rimasto il sogno irrealizzato di Giovanni Paolo II.
Sappiamo che Michail Gorbaciov ha trascorso l’intero pomeriggio con i frati del convento: «Una tappa significativa in un cammino profondo», dice a Tempi padre Fortunato, che, almeno per ora, non vuol pronunciare la parola “conversione”. Un cammino personalissimo che va rispettato con il dovuto silenzio ma anche un segno che stupisce per la profondità di quanto ha detto l’ex leader sovietico ai frati attoniti per quello che sentivano: «Francesco per me è l’alter Christus, l’altro Cristo. Il mio avvicinamento alla fede è stata una scoperta progressiva, dovuta proprio a san Francesco». Poi, insieme ai padri francescani, è salito nella Basilica Superiore, ha guardato a lungo un quadro che, ha detto, «sento particolarmente vicino». L’icona del Sogno delle armi di Spoleto, quando Francesco, sul punto di arruolarsi per andare a combattere i Mori, mentre dorme sogna un palazzo pieno di uomini armati e vede Cristo che gli chiede: «Vuoi servire il servo o il padrone?». Lui, Gorbaciov, che fu tra padroni del mondo, che fu signore delle armi più potenti che si siano viste sulle Terra, la sua scelta sembra averla fatta. In un giorno, in un’ora, in un momento a noi vicino del tempo e della storia.




Reagan e le parole della Madonna
Così, qui ad Assisi, davanti a quella tomba dove si sono inginocchiati altri potenti del mondo, assumono un diverso e più alto significato tanti eventi, scelte e parole pronunciate negli anni passati dal presidente sovietico. Quando si assunse la responsabilità di avviare quel processo di cambiamento che ancora non è terminato («La Russia ha davanti ancora un lungo percorso sulla strada della democrazia, dell’unificazione e della giustizia sociale», ha detto ai frati Gorbaciov, che poi ha anche discusso della possibilità di una visita del Papa e della sofferta divisione tra ortodossi e cattolici in Russia). Forse si svela ora la fonte vera di quel coraggio che gli è stato dato per cominciare a cambiare la storia, al di là di molte, sia pur legittime, letture politiche e sociali.
C’è un altro piccolo fatto, molto poco noto, che vale la pena di raccontare così come ce lo ha riferito Marja Pavlovic, una delle veggenti di Medjugorie che ora vive in Italia. Nel 1987, pochi giorni prima della storica firma del trattato tra Reagan e Gorbaciov sulla riduzione degli armamenti nucleari, l’accordo che avviò la caduta della Cortina di ferro, la ragazza incontrò davanti alla sua casa, in quel paesino della Bosnia, una coppia di americani. Erano venuti a pregare per la loro figlia, affetta dalla sindrome di Down. Pioveva a dirotto, erano bagnati fradici e Marja li invitò a bere un tè. Quando l’uomo le raccontò che era uno dei consiglieri militari del presidente americano e che si trovava in Europa per preparare l’incontro con i sovietici, Marja, sia pur po’ intimorita, pensò di consegnare al diplomatico una lettera per Reagan, in cui riferiva i messaggi della Madonna, che nelle apparizioni invitava a pregare per la pace. Dopo la firma del trattato le arrivò una telefonata a casa. «Qui è la Casa Bianca…». «Va a prendere in giro qualcun altro», rispose la ragazza, e mise giù la cornetta. Altro squillo, e Marja riconobbe la voce dell’americano che aveva incontrato: «Guarda che è proprio vero, volevo solo dirti che quando ha firmato il trattato il presidente Reagan aveva con sé la tua lettera e l’ha mostrata a Gorbaciov». Qualche giorno dopo, un’altra telefonata. Era l’ambasciata russa a Belgrado: «Il presidente Gorbaciov vorrebbe una copia dei messaggi della Madonna». Anche la Provvidenza ha la sua par condicio…
Forse non è estraneo questo piccolo episodio a quanto è avvenuto dopo, e forse Gorbaciov, in questi giorni il cui il nuovo Signore della Russia, Putin, mette in discussione il disarmo, si è ricordato della potenza della preghiera. Di quell’arma più grande delle sue atomiche che gli è stata consegnata vent’anni fa da una ragazzina bosniaca. Ed è andato a deporla davanti all’uomo che per primo lasciò le sue armi per servire il Vero Signore, e non più i servi.

 

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comunismo, testimonianza

lunedì, 24 maggio 2010


COMUNISMO/ Quel prete polacco, amico di Wojtyla, che diede la vita per l'unità della Chiesa


 
Franciszek 
Blachnicki
lunedì 22 marzo 2010

«Il frutto più bello di questo movimento sono i suoi aderenti, migliaia di giovani pieni di entusiasmo, pronti a dare la propria vita per il Vangelo»: così un periodico tedesco sintetizzava nel 1978 l’esperienza del movimento polacco Luce-Vita fondato da don Franciszek Blachnicki (1921-1987).
Nato in Slesia nel 1921, Franciszek partecipa alla resistenza antinazista. Arrestato dalla Gestapo nel ‘40, è internato ad Auschwitz e successivamente condannato a morte, pena poi commutata in 10 anni di carcere.

È in questo duro periodo che sceglie di consacrarsi totalmente a Dio. Dopo la liberazione, mentre la Polonia finisce nell’orbita sovietica, Franciszek entra nel seminario di Cracovia e viene ordinato nel 1950. Il novello sacerdote riceve l’incarico di organizzare i ritiri spirituali per i bambini della diocesi di Katowice, un’esperienza che gli suggerisce l’idea delle «oasi», esercizi estivi rivolti soprattutto agli studenti. Le Oasi, che la propaganda statale definisce «gruppi chiusi dediti all’indottrinamento», contribuiscono ad approfondire e riprendere l’esperienza religiosa fra i giovani disorientati dall’ateismo militante.

Nel ‘57 don Blachnicki lancia la «crociata per l’astinenza» contro il fumo e l’alcolismo. La crescente popolarità delle sue iniziative allarma le autorità: nel ‘60 viene arrestato e incarcerato per un anno. Stabilìtosi a Kroscienko, nel ‘63 rilancia le Oasi, e così il paesino sui monti Tatra diventa la sede del nascente movimento Luce-Vita (1976), che unisce la fedeltà alla tradizione culturale e religiosa polacca alla chiarezza metodologica ed educativa, incentrata sui momenti di convivenza, e contribuisce a superare la paura e la diffidenza tipiche delle società totalitarie.
Come ricordava uno studioso, «fu uno dei metodi più significativi di formazione giovanile negli anni ‘70 e ‘80, basato sull’esperienza della fede personale strettamente legata a quella comunitaria, e con l’Eucarestia al centro della vita». Dal ‘64 al ‘72 Blachnicki insegna all’Università Cattolica di Lublino, dove è molto stimato per i suoi studi di teologia pastorale secondo le indicazioni del Concilio. Nei primi anni ‘70 avviene l’incontro con don Giussani: «Nel corso dell’incontro - racconterà il fondatore di CL in un’intervista nell’81 - ho recepito due parole per me molto importanti: Chiesa e Comunione. Ricordo che ci siamo alzati ed abbracciati: avevamo molto in comune... Luce e Vita, che indicano il simbolo cristiano: Cristo è la luce che porta la via».
Nel giugno ‘73 Blachnicki invita a Kroscienko don Giussani, in occasione dell’atto di affidamento di Luce-Vita alla Madonna, alla presenza del cardinal Wojtyla, che da papa ricorderà: «Come vescovo presi parte a quell’esperienza, e lo feci con tutto il cuore. Molte volte andavo, insieme con don Blachnicki, a trovare i gruppi delle Oasi che facevano i ritiri in vari luoghi dell’arcidiocesi… Tutti sapevano che il cardinale di Cracovia era con loro, che li appoggiava, li sosteneva e che era pronto a difenderli in caso di pericolo».

La polizia infatti non sta a guardare. Irritata persino dalle croci erette dai giovani sui monti di Slesia, sorveglia e ostacola l’attività di Luce-Vita con una serie di provvedimenti amministrativi. Ciononostante il movimento cresce: dal migliaio di partecipanti agli esercizi estivi del ‘70, nel ‘75 sono già 14mila, 30mila nel ‘78. Nel dicembre ‘81, nei giorni drammatici dell’introduzione dello stato di guerra in Polonia, Blachnicki si trova all’estero. Decide di fermarsi in Germania, a Carslberg, dove c’è una comunità di esuli polacchi, e da dove continua a coordinare il suo movimento. Qui fonda anche il «Servizio cristiano di liberazione dei popoli», che intende riunire gli esuli dei paesi centro-europei contro la dittatura comunista.
 Per le autorità polacche è una spina nel fianco. Su di lui pende già un mandato di cattura, e per sorvegliarlo inviano in Germania i coniugi Gomtarczyk, agenti esperti già infiltrati in Solidarnosc. «Alla fine dell’84 - si legge nel rapporto di un loro superiore - i due agenti si prodigavano nel lavoro per don Blachnicki, diventando suoi stretti collaboratori... Sfruttando le divergenze fra gli attivisti anticomunisti dell’emigrazione, assumevano infine la gestione dell’organizzazione». Agli inizi dell’87 però vengono scoperti. Dai documenti raccolti dall’Istituto polacco per la memoria nazionale, risulta che il 26 febbraio don Franciszek ha un’accesa discussione con i due. Il giorno dopo, misteriosamente, muore. La coppia rientra in Polonia l’anno dopo, prima che nel loro appartamento faccia irruzione il controspionaggio tedesco-occidentale.
Nel ‘95 viene aperto il processo di beatificazione di questo «costruttore del Regno di Dio», che – come disse papa Wojtyla – se ne impadroniva evangelicamente con la forza. Riportiamo un passo di una sua riflessione quaresimale: «Cristo va al fondo del cuore umano, ne conosce tutti i peccati, ma questo non lo scoraggia. Come si rivolse alla Samaritana, così si muove verso tutti, perché tutti sono peccatori. Cristo ci porta un dono. Non guarda ai nostri peccati, non si domanda se siamo degni o indegni, non chiede conto dei nostri meriti».

«Il dono è qualcosa di immeritato… Quello che Gesù porta alla Samaritana e a tutti noi è la nuova religione della verità e dello Spirito. Il cristianesimo non è una magia, non sono riti da compiere in questa vita per evitare le sciagure. Il cristianesimo non è la litania dei comandamenti da osservare per non essere condannati, non sono le medagliette, gli scapolari o i santini - strumenti utili, ma che non possono rappresentare il contenuto e l’essenza del cristianesimo. Il cristianesimo… è l’incontro con il Dio vivo, che in Gesù Cristo si dona a noi, e che è dunque amore».
da: www.ilsussidiario.net

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comunismo, testimonianza

sabato, 27 febbraio 2010

Profezia

 della propaganda sovietica

***

 Compagni, sono nato per sbaglio. Mia madre non ha saputo farsi abortire in tempo. Se sono al mondo, lo debbo dunque alla stupidaggine dei miei genitori. So in anticipo con precisione quel che succederà: non avrò né fratelli, né sorelle. Mia madre, figli non ne desidera: non crede alla durata del matrimonio. Quanto a mio padre, quel bel tipo, ritiene che avere figli sia prova di spirito piccolo-borghese. Fra sei mesi da persona che sa sbrigarsela, andrà all’ufficio di registrazione e si sbarazzerà di mia madre. Ama le donne giovani e le risposa volentieri. Dopo, ci vorranno le tenaglie per cavargli fuori gli alimenti a cui ho diritto”.
Pravda  7 giugno 1935 confessione di un giovane comunista– con ogni probabilità immaginaria, propaganda sovietica

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comunismo

venerdì, 26 febbraio 2010

L’uguaglianza delle ideologie
nazi-comuniste
***

falce_martello_svastica_e_sangue
"Quando ci guardiamo in faccia l'un l'altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell'epoca. Forse che voi in noi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà? Forse che per voi il mondo non è la vostra stessa volontà, qualcosa forse può farvi esitare o fermare? [...] Non c'è nessun abisso tra di noi! [...] siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno Stato di partito"

 VASILIJ GROSSMAN  da: VITA E DESTINO – dialogo in cui il comandante Liss, un ufficiale delle SS responsabile del lager nazista, dice al vecchio bolscevico Mostovksoj, suo prigioniero


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comunismo, ideologia, storia

venerdì, 12 febbraio 2010

LA LIBBERTA’ DE PENSIERO

***
Un gatto bianco, ch’era presidente
der circolo der Libbero Pensiero
sentì che un gatto nero,
libero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li pensieri sui.
"Giacche nun badi alli fattacci tui,
-Je disse er gatto bianco inviperito-,
rassegnerai le proprie dimissione
e uscirai da le file der partito:
che qui la poi pensà liberamente
come te pare a te, ma a condizione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!"
"E’ vero, ho torto, ho aggito malamente…"
Rispose er gatto nero.
E pe restà ner Libero Pensiero
Da quela vorta nun pensò più gnente.

TRILUSSA

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comunismo, trilussa

venerdì, 05 febbraio 2010

I partigiani "bianchi"
cattolici nella Resistenza
***
 
Quasi ignorati, essi hanno avuto un ruolo importante nella liberazione dal nazifascismo. Vittime nella strage di Porzus, creatori della Repubblica dell'Ossola.
di Antonio Spinosa
La storiografia ufficiale, nel corso di questi anni, ha
sempre dato un'immagine univoca della Resistenza,
quasi mitizzata, ma non ha mai chiarito il ruolo che in
essa svolsero le varie componenti politico-partigiane e,
fra esse, anche quelle cattoliche. I drammi della guerra
accrebbero nella popolazione la fede religiosa,
specialmente del mondo contadino che costituiva il
fulcro della forza lavoro dell'Italia nella prima metà del
XX secolo.
Allora si comprende il ruolo che, nel corso del conflitto,
assunse la figura dei parroci i quali divennero una guida
non soltanto spirituale, ma anche civile e politica. Don
Primo Mazzolari ricordava come centinaia di giovani si
rivolgevano ai loro padri spirituali per orientarsi sulla
difficile questione di aderire o no alla chiamata alle armi
della Repubblica di Salò. Don Mazzolari nella saggia
Risposta a un aviatore scriveva nei riguardi della guerra e dell'obbedienza: Come si può riconoscere se una guerra è giusta o ingiusta? A chi spetta il compito di procedere a tale decisione? Tale ruolo è affidato all'autorità costituita, ma se questa, invece di rispondere al suo scopo, ossia il conseguimento del bene comune, si trova a operare contro di esso,l'individuo acquista il diritto alla rivolta come verso chi usurpa un diritto. E quindi così approfondiva il suo concetto: Ove comincia l'errore, o l'iniquità, cessa, con la santità del dovere, la sua obbligatorietà e incomincia un altro dovere:disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio.
Questi stessi ideali si riconoscono anche nelle parole di un giovane capo partigiano lombardo, Giancarlo Passavalli
Puecher, che fu passato per le armi il 22 dicembre del 1943: L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti
giovani d'Italia seguite la mia via, e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire la nuova unità nazionale.
Si verificava una situazione un po' critica. Difatti - mentre la gerarchia ecclesiastica doveva restare in una posizione di
distacco, e questo nel timore che la stessa Sede di Pietro potesse finire sotto le bombe naziste e il Papa venisse
deportato nella fatale Germania - il clero di provincia aveva, invece, mano libera nell'esercitare in modo diretto o
indiretto una positiva azione a favore dei gruppi partigiani, soprattutto quelli di ispirazione religiosa o liberale.
Il clero apre le porte delle canoniche
Le parrocchie divennero un rifugio per esuli e perseguitati, centri di appoggio della Resistenza in cui si tenevano le
riunioni clandestine delle varie espressioni del Comitato di liberazione nazionale, e persino depositi di armi. Scriveva don Andrea Ghetti il quale, insieme a don Aurelio Giussani, era un promotore del gruppo partigiano Oscar: La Resistenza fu per noi un moto dello spirito, un gesto di solidarietà, di ricerca di giustizia nella libertà. Quasi per istinto, i preti, le suore, il laicato cattolico si prodigarono nei soccorsi. Si assistevano gli sbandati, si accompagnavano in Svizzera gli ebrei e i militari alleati che, fatti prigionieri, erano evasi. Si prestava asilo ai ricercati, si riforniva di viveri chi era senza la tessera, si fabbricavano documenti falsi e si diffondeva capillarmente la stampa clandestina antifascista d'ispirazione cattolica.
Giorgio Bocca annota nel suo saggio sull'Italia partigiana: Senza l'aiuto del clero tre quarti della Pianura padana – il Piemonte, la Lombardia, il Veneto - sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione antifascista. E così
prosegue: La maggioranza è amica, quasi ogni parrocchia è un possibile rifugio, un sicuro recapito.
Sulla base di una stima del leader democristiano Enrico Mattei, redatta in occasione del primo congresso della Dc, le forze messe in campo dai cattolici durante la Resistenza ammontarono a 65 mila uomini suddivisi in 180 brigate. La più
attiva di esse era la Brigata del Popolo che agiva prevalentemente in ambito urbano e che svolgeva un importante ruolo nelle azioni logistiche e di sabotaggio a danno dei tedeschi.
Una forte presenza di partigiani bianchi si ebbe anche nel parmense dove su ventidue brigate, più della metà erano costituite da cattolici. Altre formazioni di ispirazione cristiano-liberale erano le Fiamme Verdi, organizzate dal tenente
degli alpini Gastone Fianchetti e operanti in Lombardia, Emilia, Veneto e Piemonte. Questa struttura poteva contare su
un giornale clandestino, Il Ribelle, che ispirò anche l'omonima e famosa preghiera dovuta alla penna dei partigiani Teresio Olivelli e Carlo Bianchi.
Strage di Porzus e Repubblica Ossolana
Sarebbe impresa ardua ricordare le numerose esperienze della Resistenza cattolica, e pertanto ne citiamo soltanto un
paio fra le più significative: quella della divisione Osoppo, che operava nell'udinese, e quella della Repubblica dell'Ossola.
Nel Friuli Venezia Giulia fin dal primo momento la convivenza fra partigiani cattolici (bianchi) e partigiani comunisti (rossi) si rivelò assai ardua, e ciò perché i due gruppi non condividevano né gli stessi ideali né perseguivano i medesimi
obiettivi. La situazione si deteriorò ulteriormente quando le divisioni della brigata rossa Garibaldi, per ordine di Togliatti,divennero collaborazioniste delle truppe titine che avevano invaso il territorio italiano per annettere alla Iugoslavia le città dalmato-istriane.
Uno degli episodi più drammatici della conflittualità che intercorreva fra comunisti e cattolici si ebbe fra i boschi di Porzus, nelle vicinanze di Udine. Operava in quest'area una divisione della brigata Osoppo, comandata dal giovane capitano degli alpini Francesco De Gregori - zio dell'omonimo cantautore romano - e dal commissario politico Gastone Valente. Del gruppo faceva parte anche il ventenne Guido Pasolini, fratello dello scrittore Pier Paolo.
Mediante uno stratagemma, il partigiano comunista Mario Toffanin - da tempo legato alle forze iugoslave di Tito – e altri militanti della formazione garibaldina riuscirono a ingannare gli onesti partigiani della Osoppo e, dopo averli lungamente seviziati, li uccisero a tradimento con raffiche di mitra. Ventuno furono le vittime della carneficina.
Nella Val d'Ossola, dopo la liberazione dalle truppe nazi-fasciste, si impose la volontà di un combattivo sacerdote, don Luigi Zoppetti, il quale diede vita a una piccola repubblica indipendente da cui si sarebbe dovuto irradiare in tutta la penisola un moto rivoluzionario e democratico. Accanto a don Zoppetti operò anche l'arciprete don Luigi Pellanda che, grazie a un'efficace mediazione, riuscì a evitare un cruento scontro armato fra i tedeschi che occupavano Domodossola e le truppe partigiane.
La Repubblica dell'Ossola ebbe vita assai breve - dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944 - ma, per la sua vicinanza alla Svizzera, ebbe una grande notorietà anche all'estero. Il suo territorio comprendeva trentacinque comuni con oltre ottantamila abitanti, e il capoluogo era Domodossola. A presiedere la giunta governativa fu chiamato il chirurgo Ettore Tibaldi che nel dopoguerra ricoprirà l'incarico di vicepresidente del Senato. Fra i ministri nominati dal Tibaldi merita di essere ricordata Gisella Floreanini, la prima donna italiana a ricoprire un incarico di governo. Si accreditò persino un ambasciatore a Berna, avendo la Comunità elvetica riconosciuto ufficialmente il nuovo Stato autonomo dell'Ossola.
Triste fine di un sogno
L'esperienza indipendentista finiva, tuttavia, tristemente. Da un lato, la scarsità di mezzi impedì all'apparato amministrativo di funzionare nel migliore dei modi, per cui si ebbero continui contrasti nella stessa compagine statale; dall'altro lato, le forze dell'Asse, ancora molto agguerrite, assediarono la Valle dell'Ossola per mano del terribile prefetto di Novara Enrico Vezzalini. L'attacco venne sferrato all'alba del 10 ottobre del 1944, e già alle ore 17,00 una colonna armata fascista guidata da Vezzalini in persona entrava vincitrice in Domodossola. Stando alle critiche lanciate dai partigiani comunisti, che erano stati esclusi dalla gestione della Repubblica ossolana, la colpa della disfatta era da imputare alle negligenze di don Zoppetti e di Tibaldi, rifugiatisi in Svizzera per non cadere vittime delle rappresaglie fasciste. Eppure, fra le repubbliche partigiane quella dell'Ossola resta una delle esperienze più stupefacenti e fruttuose in quanto a capacità organizzativa e pacifica dei partigiani bianchi.
La Repubblica dell'Ossola cadeva pochi mesi prima della fine del secondo conflitto mondiale. Nell'aprile del 1945 morivano Hitler e Mussolini. Il primo si toglieva la vita in uno dei tuguri del suo bunker berlinese insieme alla fedele compagna Eva Braun, il secondo veniva fucilato con l'amata Claretta Petacci davanti al cancello arrugginito di una villa di Giulino di Mezzegra nelle vicinanze del lago di Como. L'era dei folli tiranni che avevano sognato di dominare l'Europa (e oltre) si spegneva, ma come un furioso incendio essa lasciava dietro di sé morte e distruzione. Spettava alle giovani generazioni l'arduo compito di ricostruire ciò che era stato spazzato via dalle armi e dall'odio, e restituire nuova speranza a un Paese avvilito e umiliato. Però i semi gettati dalla Resistenza avrebbero favorito la nascita di una rinnovata nazione italiana, repubblicana e democratica.
Il ruolo svolto dai cattolici durante la Resistenza merita di essere sempre più studiato e approfondito per superare giudizi che spesso soggiacciono a una distorta e faziosa lettura storiografica. Particolare attenzione va rivolta all'azione politica di De Gasperi il quale, in forza della sua capacità di mediare fra diverse anime, riuscì a creare un diffuso consenso fra le parti politiche, che nella Costituente collaborarono insieme per scrivere la Carta Costituzionale della nuova Italia. A differenza di ciò che era avvenuto al termine del Risorgimento, quando i cattolici si erano sdegnosamente astenuti dal partecipare alla vita politica, durante e dopo la Resistenza la fermezza del clero contribuì a trasformare il moto antifascista in una rivolta popolare il cui cuore pulsante era costituito dalle masse contadine da sempre escluse dalla guida del Paese.
Fonte: Messaggero di San Antonio

 

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comunismo

domenica, 24 gennaio 2010
TESTIMONI
 Padre Leoni
e quei «dieci anni d’inferno»
 ***


di Marta Dell’Asta
14/01/2010 - Forlì ricorda il centenario della nascita del prete romagnolo che aveva scelto l’Urss come terra di missione. Finendo in gulag per la fede. Nella sua vicenda, l’esempio di «un uomo che riconosceva in tutto la presenza di Cristo»
Padre Leoni in Canada.
Padre Leoni in Canada.
Nel 1955 sulla stampa italiana era scoppiato il caso di un certo Pietro Leoni, gesuita romagnolo che aveva avuto la sorte poco invidiabile di passare dieci anni in un lager sovietico. E di tornare a casa. Questa vicenda - ben raccontata da Mara Quadri e Alessandro Rondoni in Pietro Leoni, Edizioni La Casa di Matriona - è stata al centro delle celebrazioni che Forlì e Premilcuore, dove padre Leoni è nato nel 1909, gli hanno dedicato nel centenario della nascita. Un anniversario cui i media non hanno dato molto spazio, che lunedì 18 verrà ricordato nella testimonianza conclusiva di monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca (l’incontro “La speranza del cristianesimo”, alle 21 presso l’Auditorium della Cassa dei Risparmi di Forlì, sarà un omaggio anche alla figura di don Francesco Ricci, il sacerdote di Forlì che s’è speso per sostenere la Chiesa oltrecortina).
Nato nel 1909 da contadini, diventato prete e gesuita, Pietro Leoni era partito per la Russia come cappellano militare nel 1941; nel 1945 era rimasto volontariamente in territorio sovietico per fare il parroco; arrestato quasi subito, aveva scontato dieci anni di lavori forzati nelle miniere di carbone del terribile campo di Vorkuta (nel ’47 li avevano poi portati a 25, gli anni), sino alla fortunosa liberazione e al ritorno in Italia.
In piena Guerra Fredda, un caso del genere non poteva non fare scalpore. Leoni aveva raccontato, senza reticenze, davanti alle platee di tutta Italia, con semplicità di cuore e la sua innata vis polemica. Ma al breve momento di gloria era seguito, quasi una vendetta, il momento delle calunnie, poi l’oblio. Del resto non c’era da aspettarsi di meno, perché nella sua testimonianza padre Pietro accusava sempre l’ideologia comunista come la fonte di tanto male, e questo, detto da un testimone oculare, toccava troppo sul vivo la sinistra italiana, che si era impegnata a squalificarlo con ogni mezzo. Così era riuscita ad imporre l’equazione: Leoni - fascista, e da quel momento i pochi amici e i parenti che cercavano di difenderne il buon nome si erano trovati a sbattere contro un muro di gelido disprezzo. Un vero tabù.
Tuttavia sia la fama che la censura avevano mancato il bersaglio: a Leoni stavano stretti sia i panni dell’anticomunista che quelli dell’impostore prezzolato dal Vaticano. Nessuno, in realtà, aveva interesse a capire per cosa veramente si era battuto quell’esile pretino (quando era tornato era addirittura trasparente) dalla forza indomabile, che era andato a ficcarsi in una situazione gravida di rischi senza nessuna particolare necessità.
Infatti nessuno gli aveva chiesto di restare in Urss a fare il parroco, era stato solo il suo ardente amore per Cristo e la Chiesa a spingerlo: padre Pietro era un missionario fin nel profondo del cuore, e ciò che gli premeva sopra ogni cosa era riportare la gente alla fede. Lo dimostra la sua vicenda umana: il detenuto Pietro Leoni in quei dieci anni non aveva mai tradito se stesso né gli altri, non aveva mai smesso di svolgere apostolato, aveva dato prova di coraggio fisico, fermezza psicologica e una carità senza limiti. La sua fiducia in Dio era così totale da dargli una forza indomabile, fino a mettere in difficoltà la stessa polizia segreta. Un giorno il giudice istruttore aveva perso le staffe con lui e gli aveva dato dell’impudente, poi gli aveva chiesto: «Leoni, ma lei vuole vivere sì o no? Se continua così finirà male!». E lui gli aveva risposto: «Io ho bisogno di una sola cosa: che la santa Chiesa sia salva, e la verità e la giustizia trionfino. Se per questo è necessario che io dia la vita, la do ben volentieri».
Diversamente da altri suoi colleghi sacerdoti che, cercando di dimostrare agli inquirenti che la loro attività religiosa non danneggiava lo Stato sovietico, si erano spezzati miseramente, Leoni aveva resistito con un dominio di sé e una lucidità di giudizio che hanno lasciato stupiti anche gli studiosi che hanno riesumato i verbali d’interrogatorio. Davvero pochi hanno resistito come lui, senza mai firmare nessuna falsa confessione. Ma in tutto questo l’indole personale era stata solo uno strumento potenziato dal totale abbandono in Dio. Sin da quando, il 29 aprile 1945, era stato arrestato a Odessa, e lui non era rimasto troppo sconvolto perché aveva la chiara certezza che nulla accadeva per caso. Questo, per lui, voleva dire solo un nuovo fronte di missione.
La baldanza e l’ironia, che traspaiono anche tra le righe dei verbali, non devono ingannare: padre Pietro aveva paura dell’ignoto e della sofferenza, e la solitudine gli pesava tremendamente, ma non fino a cancellare la presenza di Dio. Uno dei momenti più alti di questa esperienza era stato durante il confronto con un confratello che lo aveva accusato di spionaggio. Lì nell’ufficio del giudice istruttore, padre Pietro aveva immediatamente perdonato il tradimento, e riconoscendo nel traditore stesso la presenza di Cristo misericordioso, aveva chiesto a lui l’assoluzione dai propri peccati.
Negli anni di lager la sua preoccupazione costante era stata quella di celebrare l’Eucaristia il più spesso possibile, in tutte le condizioni e in tutti gli angoli, perché gli era evidente che la cosa che più necessitava a quella povera umanità calpestata era la dignità di figli di Dio, la forza di una presenza invincibile. A causa della messa era finito in cella di rigore innumerevoli volte, aveva scavato nelle miniere di carbone fino allo sfinimento, era finito all’ospedale con le ossa rotte... E intanto pregava sempre: «Signore allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà».
Con un senso di lealtà e un amore straordinari, temeva, chiedendo la liberazione, di sottrarsi alla propria missione. Ma non si era sottratto mai, anche dopo il lager, quando era iniziata per lui un’altra prova durissima, forse più amara: tornato in Italia, i suoi superiori gli avevano chiesto di tacere, di dimenticare. Si credeva che questo facilitasse i rapporti internazionali. E lui aveva obbedito, chiedendo di andare in missione in Canada.
«Non mi rammarico dei terribili anni in Russia, durante i quali sono stato lo strumento di cui Dio si è servito. Se potessi tornare indietro e scegliere liberamente, vorrei riviverli esattamente come li ho vissuti, questi dieci anni d’inferno»

da:htwww.tracce.it/

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comunismo, testimonianza

mercoledì, 20 gennaio 2010

Storia di un vescovo romeno
per 16 anni nelle prigioni comuniste
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CITTA’ DEL VATICANO, martedì 23 marzo 2004 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il doloroso racconto del Monsignor Tertulian Ioan Langa, dell’Eparchia di Cluj-Gherla (Romania), sui suoi lunghi anni di prigionia, fatto a margine della Conferenza Stampa di presentazione del volume: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell’Europa del Novecento".
.

Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste. Avendo come formatore spirituale, già dalla prima adolescenza, colui che sarebbe stato il Vescovo martire Ioan Suciu, e poi come guide intellettuali altri tre martiri - Monsignor Vladimir Ghika, il Vescovo Vasilie Aftenie e il Vescovo Tit-Liviu Chinezu, tutti vittime del comunismo ateo - era normale che tutta la mia vita portasse l’impronta della loro spiritualità.

Attraverso loro ho scoperto cosa sia il comunismo, cosa significhi eliminare Cristo dalla vita sociale e quanto mutilata possa diventare l’anima umana, l’intera società e la famiglia senza Chiesa, senza la Santissima Eucaristia e senza il culto della Santissima Vergine. In più, come uomo con il senso della realtà storica e sociale, non ho potuto ignorare la massiccia e minacciosa presenza sovietica atea alle frontiere della Romania e della nostra spiritualità. A questi fattori devo tutto l’orientamento spirituale e storico della mia vita. A me spetta soltanto la recettività.

La presenza violenta ed atroce del comunismo ateo non ha costituito per gli occidentali una realtà immediata e concreta, ma meramente libresca. Ciò spiega la differenza flagrante di percezione e di reazione di fronte al comunismo che manifestano i cristiani e gli intellettuali di Occidente, paragonata a coloro, nell’Est europeo, che hanno vissuto e subìto il mondo comunista.

A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell´università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici.
Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell´epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell´accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza.
Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura.
Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti.
Sono stato arrestato a Blaj, nell´ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all´epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l´estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza.

LA VERGA DI FERRO
Ricordo il giovedì santo dell´anno 1948. Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all´interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell´umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell´interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l´annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l´ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell´inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l´inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata.

LA LUPA
Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare. Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c´era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l´alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell´edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l´equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio.

Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.

IL SACCHETTO DI SABBIA
Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c´era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell´angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando. Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall´organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l´autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell´unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico.

VENTOTTO CENTIMETRI
Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l´uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l´esperienza delle sardine: però non nell´olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l´osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull´anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz´ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l´altro, ci voltavamo sull´altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c´era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all´orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l´orina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l´odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l´intero organismo e ogni suo orifizio.

IL "FILTRO"
Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l´ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d´egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate. La mancanza d´aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno.

Contribuivamo così, a nostro modo, all´edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?

NUDI NEL GELO
Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L´accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell´uomo creato dall´amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.

Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l´anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All´anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all´incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina.

CAMMINARE O MORIRE
Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall´altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei ?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz´ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell´angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi.

Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.

MA TUTTO È GRAZIA
Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l´ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto.

Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l´hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).

Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l´uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.

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comunismo, cristianesimo

martedì, 19 gennaio 2010

Il regime di Cuba ha fucilato 5mila dissidenti in 50 anni
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di Roberto Fabbri

Drammatica denuncia di un gruppo di dissidenti impegnati in un ambizioso progetto di riconciliazione nazionale

Dal 1959, quando ha preso il potere, il governo comunista dei fratelli Fidel e Raul Castro ha giustiziato con il sistema della fucilazione fino a cinquemila persone dopo «processi sommari e irregolari». Lo afferma un rapporto diffuso da un gruppo di dissidenti che difende la possibilità di un processo di riconciliazione nazionale.
«
La nostra commissione ritiene che nel corso di mezzo secolo l'attuale esecutivo ha fatto fucilare tra le tremila e le cinquemila persone», dice il rapporto firmato da Elizardo Sanchez, ex prigioniere politico e portavoce della Commissione cubana di diritti umani e riconciliazione nazionale (Ccdhrn, al bando ma tollerata dal regime comunista).
La Ccdhrn rilancia una proposta avanzata nel 1987, la «riconciliazione nazionale senza esclusioni che sarebbe una specie di amnistia nazionale sotto il segno della verità e della giustizia» e che «nonostante i timori del potere dell'Avana, sarebbe appoggiata dalla stragrande maggioranza della nazione cubana, sia dell'isola che in esilio». Un obiettivo che appare, nella migliore delle ipotesi, velleitario.

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comunismo

lunedì, 23 novembre 2009

Romano Scalfi: vi racconto la resistenza della Chiesa clandestina in URSS
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Romano Scalfi


lunedì 23 novembre 2009


Oggi è alla portata di tutti, in Russia come da noi, conoscere le vicende della persecuzione contro la Chiesa e la fede nell’Urss ad opera del comunismo sovietico; sempre che si sia interessati all’argomento.
Non si può dire altrettanto dell’attività della Chiesa clandestina, di cui si sapeva poco e molto confusamente. L’impressione generale era che si trattasse di un fenomeno di poca rilevanza. A sfatare questa opinione è uscito recentemente a Mosca il libro di Aleksej Beglov, membro dell’Accademia delle Scienze, noto studioso del fenomeno religioso che ha il merito di aver attinto largamente ai documenti segreti del Soviet per gli affari della religione.
Dal suo testo risulta che la Chiesa ortodossa russa, così ricca di martiri, non ha accettato passivamente la persecuzione, ma è stata molto feconda nell’inventare metodi sempre nuovi per conservare la fede.
I primi “monasteri domestici” nascono già nel 1920 e si diffondono sempre più con la progressiva chiusura dei monasteri da parte dei comunisti. In un primo tempo i monaci scacciati dalle loro sedi trovano ospitalità singolarmente in famiglie private, ma ben presto, per ricomporre la comunità monastica cercano di sistemarsi in gruppi da tre fino a venti persone. Ogni monaco svolge un lavoro nella società civile a seconda delle proprie attitudini, e alla sera si ricompone la vita claustrale. I monasteri domestici, almeno inizialmente, fanno di tutto per conservare stretti rapporti con i superiori dell’ex monastero, ma con l’intensificarsi della persecuzione i legami si indeboliscono fino al punto che la maggioranza dei monasteri domestici è costretta a gestirsi autonomamente.
Prima dell’ottobre 1917 monaci e monache erano 94.477. Nella prima metà degli anni 1920 i monasteri domestici raccolgono circa 30.000 persone; soprattutto la parte occidentale del paese è coperta da una rete di monasteri clandestini.
Contemporaneamente ai monasteri domestici nascono delle comunità catacombali, che non provengono da monasteri preesistenti ma sono formate da giovani preoccupati di vivere seriamente la propria vita spirituale. Del resto in questo periodo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, con l’incalzare della persecuzione crescono le vocazioni monastiche e sacerdotali. Nello stesso tempo si registra il ritorno alla Chiesa di diversi intellettuali, prima affascinati e poi delusi dall’utopismo leninista.
Le comunità catacombali giovanili sono meno legate alla regola monastica e più disposte al lavoro pastorale nelle parrocchie (là dove la chiesa è aperta) o in sostituzione della parrocchia quando la chiesa è stata chiusa. Le più famose sono le comunità illegali di Leningrado, promosse dal metropolita Veniamin Kazanskij, in seguito fucilato (1873-1922), e la comunità di Mosca guidata dall’arcivescovo Varfolomej Remov (1888-1935) passato poi alla Chiesa cattolica e pure lui fucilato. Nel 1930 la comunità arriva a contare 200 membri, impegnati per lo più nella parrocchia di San Pietro; alcuni vescovi sostengono clandestinamente le comunità illegali in varie città: Petr Ladygin (a Orenburg), Filipp Gumilevskij e Pitirim Krylov (a Mosca), Aleksandr Trapicyn (a Samara), Arsenij, Stadnickij (a Taskent). In base ai dati si può affermare che l’episcopato ufficiale negli anni 1920-1930 non solo giudicava positivamente la clandestinità cristiana, ma, nei limiti del possibile, la sosteneva anche. La cattedra patriarcale era certamente al corrente del rapporto dei vescovi con le comunità clandestine e lo approvava.
Un altro settore della vita clandestina della Chiesa sono “le parrocchie non registrate”. Al primo settembre 1936 nella Repubblica russa le chiese chiuse sono il 64,4 % del totale, in Ucraina il 90 %, in Bielorussia l’89,1 %. Per questo, dal 1930 in poi, in seguito alla chiusura di moltissime chiese, la fondazione di parrocchie clandestine diventa una faccenda normale: quando una chiesa viene chiusa e la comunità parrocchiale smembrata, i fedeli rimasti continuano a radunarsi in preghiera nelle case private, oppure all’aperto. Se è presente un sacerdote (anche clandestino), amministra i sacramenti, altrimenti a dirigere la comunità può essere un diacono, una monaca o un semplice fedele.
Nel 1916 le parrocchie ortodosse in Russia erano 35.825, nel 1939 quelle legali sono ridotte a 100, mentre quelle illegali sono 4.153. Nell’anno 1937 il Soviet per gli affari religiosi è costretto a constatare che: “I credenti di fede ortodossa hanno incominciato a riunirsi per conversare, leggere libri religiosi, soprattutto dove sono state chiuse le chiese”.
Anche nella vita clandestina non tutto funziona al meglio. La mancanza di un’autorità centrale effettiva che possa garantire l’unità pur nella varietà delle sue espressioni lascia alle comunità un’autonomia che in certi casi finisce per essere in contrasto con la dottrina della Chiesa.
Nel 1944 il partito decide di mandare al confino nelle estreme regioni orientale 1.500 membri della Chiesa dei “veri cristiani ortodossi”. Appartengono a un gruppo staccatosi dalla Chiesa ufficiale perché compromessa con il regime comunista considerato l’incarnazione dell’Anticristo. Predicano l’imminente fine del mondo ed arrivano a dichiarare la Chiesa ortodossa ufficiale serva dell’Anticristo. Partendo da questa posizione esasperata sentono il dovere di boicottare tutte le iniziative del governo. Per loro è opera dell’Anticristo andare a votare, avere il passaporto sovietico, ascoltare la radio, andare al cinema, pagare le tasse e perfino frequentale le chiese legalizzate dal governo.
Il fondamentalismo è sempre segnato, in tutte le correnti e in tutte le ideologie, dall’ossessione di dover innanzitutto condannare il nemico, addossare a lui ogni colpa per autogiustificarsi con maggior facilità; tende a esaurirsi nella protesta illudendosi che qui si manifesti la vera creatività dell’uomo. In questo senso i “veri cristiani ortodossi” non si rendono conto di avere molto in comune con gli ideologi del comunismo, dei quali acutamente aveva profetizzato Dostoevskij: «Arditi nella denuncia, eunuchi nella creatività. Sono capaci di distruggere il mondo, ma incapaci di costruire una catapecchia».
Anche nel ricco alveo della clandestinità cristiana in Russia, dunque, chi ha ceduto all’esasperata condanna del nemico ha finito per vanificare le migliori intenzioni, condannando se stesso alla sterilità.
da : http://www.ilsussidiario.net

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comunismo, dostoevskij, cristianesimo

domenica, 25 ottobre 2009
Tiananmen:
Non dimenticate il Giovane Che ha sfidato i carri armati
di Lu Decheng
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Calgary (AsiaNews) -- Lu Decheng, 46 anni, Da oltre tre anni è rifugiato politico uno Calgary (Canada), Dopo Aver passato 9 anni in un lager cinese ed Essere riuscito uno fuggire in Thailandia. I moti studenteschi e operai dell'89 Hanno segnato tutta la sua vita. MA La notte del massacro Lu era già in prigione: era Stato Arrestato qualche settimana prima, il 23 maggio, Quando con dovuta suoi amici Hanno Lanciato uova e vernice contro il grande ritratto di Mao Zedong Che sovrasta l'entrata del Palazzo Imperiale. Era la prima volta Che VENIVA "offesa" La memoria del dittatore Che Aveva decretato la morte di Decine di milioni di cinesi. Lu Decheng, autista di camion, era arrivato a Pechino per Sostenere le richieste degli studenti. Il suo gesto è Stato condannato dal regime come "incitamento alla rivolta

"La memoria più dolorosa di QUESTI 20 anni E il ricordo di quel giovane operaio Che da solo sfida il corteo dei carri armati a Pechino. La sua immagine ha Fatto il giro del mondo e tutti la conoscono, ma quasi nessuno sa qual è la sua sorte. Si chiamava Wang Weiming E non Sappiamo se è vivo o morto. Mi auguro sempre Che qualcuno si Mobiliti e si venga a sapere la verità su di lui, anche se è difficile Perché Quella immagine non fa vedere il Suo Volto. Da questo punto di vista io ei miei amici a causa Che abbiamo imbrattato il ritratto di Mao Siamo stati più fortunati: le nostre facce Erano conosciute dai media di tutto il mondo e così, Dopo Che ci hanno Arrestato, La Comunità Internazionale ha Fatto pressione per la Nostra Liberazione E SIAMO USCITI vivi dal lager ". Leggi tutto

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