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domenica 5 febbraio 2012

congdon


WILLIAM CONGDON, LO SGUARDO UMILE E PROFONDO DI UN PITTORE SULLA REALTA'
Credo che uno degli apporti più preziosi che William Congdon, pittore americano originario di Rhode Island, abbia dato al nostro tempo, al di là dell’imponenza della sua opera pittorica ancora poco conosciuta in Italia, sia l’ininterrotto lavoro di riflessione e di giudizio sulla sua identità d’artista, sulla lealtà verso quel “dono creativo” da lui sempre riconosciuto come il fondamento della propria potenza creatrice e che dettava continuamente i passi del suo itinerario di artista cristiano.
Ma, intendiamoci, non c’era cosa più lontana da lui come definire cristiano un artista perché fa delle opere di contenuto cristiano, di contenuto sacro. La sua identità cristiana, così sofferta, conquistata così dolorosamente tra le braccia di Don Giovanni Rossi presso la Pro Civitate Cristiana d’Assisi nel 1959, era destinata a sorgere da qualcosa di molto più profondo della semplice adesione ad un’ideologia cristiana. Attraverso Paolo Mangini conobbe Don Giussani e da quel momento si approfondì in lui la natura del cristianesimo come avvenimento, come evento di grazia che inaspettatamente coinvolge l’uomo in un abbraccio concreto ed umano. Da qui derivò certamente l’approfondimento, mai concluso, del suo modo di intendere il “fare” artistico. Il pittore autentico obbedisce ad “un’intuizione creativa” che avviene per accadimento nel suo impatto con le cose e la nascita del quadro assomiglia quasi alla gestazione ed al parto di una madre. Chi lo ha avvicinato sa quanto Congdon fosse cosciente che i suoi quadri non erano “suoi”: li chiamava “figli”, ma aveva tutta la consapevolezza che la loro “vita” li rendeva indipendenti dal loro creatore.
Ho conosciuto Congdon ad Assisi nel 1977, quando da giovane studente di Belle Arti ebbi, insieme ad alcuni amici, la sfacciataggine giovanile di presentarmi davanti al portone della sua casa per chiedergli un giudizio ed un aiuto nel cammino così confuso del fare arte che avevo iniziato. La sua accoglienza fu straordinaria. La sua immedesimazione con le nostre problematiche fu sbalorditiva. La sua amicizia fu piena di delicatezza e di attenzione. A quel primo incontro ne seguirono altri che pian piano ci fecero intravvedere una strada più certa per il nostro cammino: si trattava della conquista di ragioni, della comunicazione di un metodo che derivava dai racconti della sua formazione con il pittore Hensche, a Provincetown, e con lo scultore di origine greca George Demetrios, a Boston e Gloucester; poi i contatti con Pollock, con Rothko…
Facemmo tesoro dell’aver incontrato un maestro e incominciammo a sperimentare in Accademia le novità di percorso che ci aveva comunicato, provando immediatamente il gusto di possedere un progetto di lavoro che cominciò a dare i primi buoni risultati. Un giorno di agosto mi invitò ad andare da lui a Subiaco dove aveva uno studio/abitazione presso la grotta del Beato Lorenzo, un antico eremo appollaiato a strapiombo sulla valle dell’Aniene. Ricordo ancora l’emozione che provai quando mi fece entrare nel suo studio piuttosto spoglio, illuminato da un lucernaio sul soffitto e mi invitò ad affacciarmi con lui dal balcone che guardava verso la valle: “Andiamo a vedere cosa succede là fuori!”. Davanti a noi un’alta montagna con la sommità rocciosa e priva di alberi si ergeva dal fondo della valle in tutta la sua imponenza severa. “Adesso dipingila”,  mi disse invitandomi a rientrare e mettendomi in mano la sua spatola ei suoi tubetti di colore. Immaginate il mio timore e tremore nel toccare quegli strumenti creativi e nel trovarmi davanti al tecnigrafo che usava come cavalletto.
Ebbe la delicatezza di non rimanere spettatore del mio impaccio e, trovando una scusa per uscire dalla stanza, seguiva i miei tentativi dalla camera attigua, con qualche domanda e dandomi consigli nel suo italiano americanizzato: “Come va? …Ricordati di guardare sempre al centro della massa e di non preoccuparti dell’incontro tra le masse della montagna e del cielo che verrà da sé!…”.
In qualche modo me la cavai e, finito il lavoro, Bill venne a vedere. “Non c’è male. – mi disse – Adesso provo io!”. E cominciò il lavoro spremendo il colore dai tubetti sul tavolo di marmo che usava come tavolozza. “In quella montagna c’è il verde delle foglie, ma c’è anche il marrone della terra, c’è il nero, c’è l’arancio…”. Con la spatola cominciò a mescolare i colori aggiungendo a volte dell’uno, a volte dell’altro fino a che non otteneva il colore desiderato. Poi il gesto sicuro, netto e veloce sulla tavola nera che costituiva sempre il fondo dei suoi quadri. Muoveva con abilità quel “coltello”, come lui lo chiamava, lungo una trentina di centimetri. Ecco apparire le forme sintetizzate, compatte e vellutate della montagna e del cielo, della parte rocciosa, qualcosa di vivo! Tra loro emergeva qualche traccia del fondo nero: “Lascia sempre che le masse si incontrino liberamente, non costringerle! Questa ferita che rimane tra loro è la possibilità del loro respiro, altrimenti soffocherebbero!”.
Com’era vero quel quadro, come corrispondeva a ciò che avevamo visto dal balcone, com’era amata quella montagna, quel cielo, con che tenerezza era stata colta! Guardavo il mio esperimento che invece sembrava una crosta di plastica verde pallido e guardavo ciò che era nato dalle sue mani: il mio era già un cadavere, il suo era un neonato che vagiva! Ma non diede tregua alla mia tentazione di scoramento e continuò a spiegarmi, a consigliarmi, a incoraggiarmi con energia e dolcezza.
Così era Bill, così aveva imparato ad essere, umile e profondo nello sguardo, attraverso le fessure dei suoi occhi, verso ogni cosa che incontrava e che viveva come dono. Il suo modo di guardare, di toccare le cose, il suo amore al silenzio, la sua attenzione a che la luce nella stanza fosse discreta, non troppo forte, la sua dedizione a chi Dio gli metteva davanti. Non vi era nulla in lui del compiacimento dell’artista di successo che aveva quadri esposti in gallerie e musei internazionali. Su di noi giovani studenti, per esempio, scrisse una miriade di note, di idee, di appunti perché anche dopo i nostri incontri lui continuava ad inseguire pensieri e intuizioni che i nostri colloqui gli avevano suggerito.
A distanza di trentadue anni ricordo ancora perfettamente quei momenti di convivenza con lui perché mi hanno segnato profondamente: non si trattava solo di star vicino ad un maestro di pittura ma ad una presenza discreta e silenziosa, carica di pace, che mostrando la sua arte, ne metteva a nudo l’origine.
grazie ad:Wallace73
- The William Congdon Foundation
- DVD "Un'Avventura dello sguardo" - Itaca   

Postato da: giacabi a 09:50 | link | commenti
congdon

giovedì, 09 dicembre 2010
Cantare la vita per dare voce al Mistero presente
CLAUDIO CHIEFFO    
Cantare la vita per dare voce al Mistero presente
 
INTERVISTA
Al capezzale del cantautore cattolico più conosciuto in Italia. I ricordi dei suoi tremila concerti in giro per il mondo, le amicizie e le performance con i colleghi «laici». L’amicizia con don Giussani E una irriducibile positività che permea la sua opera e la sua esistenza. Anche nel momento più difficile Chieffo.
Cantare la vita per dare voce al Mistero presente «La malattia? Non è disgrazia»
Giussani mi è stato maestro di umanità. Nella sua bontà mi chiamava "il poeta". Ho cercato di seguire quello che mi diceva: sii te stesso fino in fondo, così aiuterai la gente. Spero di esserci riuscito
Gaber è il cantautore che stimo di più. Ha avuto il coraggio di dire in faccia al suo pubblico cose scomode e politicamente scorrette. Lui diceva che il dubbio alimenta la ricerca, io parlavo della domanda, che cerca una risposta

Dopo che la Grazia è stata presente con tanta evidenza nel corso della mia vita, non posso campare come se non potesse più arrivare. Sarebbe come smettere di sperare. E io non smetto
Dal Nostro Inviato A Forlì Giorgio Paolucci


Voce affaticata ma decisa, parole dense di vita. Si è fatta più dura la vita di Claudio Chieffo, uno dei cantautori più amati e conosciuti dalla gente, che da qualche mese deve fare i conti con un male contro il quale sta lottando con tutte le forze, sue e dei suoi cari. È una vita dura, ma colma di presenze amiche, di tanti che scrivono, pregano per la sua salute e gli stanno vicino in questo momento difficile. E quando lo senti parlare, hai la sensazione fisicamente percepibile che quel Mistero che da anni canta, lui lo veda e lo senta, lo chiami per nome: Gesù. Spesso, durante la lunga e intensa conversazione che ci ha concesso nella sua casa di Forlì, il suo sguardo si fissa su un poster che si è fatto appendere davanti al letto: è il «manifesto di Natale» stampato come ogni anno da Comunione e liberazione, che riproduce un particolare della Natività di Gesù dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova. Riporta una frase di Benedetto XVI: «Dio non ci lascia brancolare nel buio; si è mostrato come uomo. Egli è tanto grande da potersi permettere di diventare piccolissimo. Dio ha assunto un volto umano. Solo questo Dio ci salva dalla paura del mondo e dall'ansia di fronte al vuoto della propria esistenza». Parole che Chieffo sente particolarmente «sue» in questo momento, anche per la singolare coincidenza con una canzone composta nel '95, (In questa notte splendida ), che descrive bene il senso del Natale: «Un bimbo piccolissimo le porte ci aprirà/ del cielo dell'Altissimo nella Sua Verità».

Sono passati 45 anni dalle sue prime composizioni. Tremila concerti, 113 canzoni. Molti suoi brani appartengono a tutti: Il seme, Io non sono degno, Lasciati fare, Ballata dell'uomo vecchio, La nuova Auschwitz, Ave Maria splendore del mattino…. Tanti sono stati tradotti in varie lingue e cantati in tutti i continenti. E per etichettarla si è fatto ricorso alle definizioni più diverse: autore religioso, cantautore cattolico, menestrello di Cl. Chi è Claudio Chieffo?
Le etichette sanno di colla, appiccicano uno schema sulla persona. E ogni persona è molto più di un aggettivo. Ho sempre cercato di cantare la vita in tutte le sue manifestazioni: la gioia, il dolore, l'amicizia, l'esigenza di giustizia, la sete di felicità, il bene e il male. Mi è accaduto di incontrare una faccia della Chiesa che si chiama Cl, che a sua volta aveva il volto prima di un prete di Forlì, don Francesco Ricci, poi di un brianzolo come don Giussani. E proprio loro mi hanno educato a guardare sempre oltre la siepe, ad abbracciare il mondo. A essere, cioè, come la Chiesa: cattolici, universali, desiderosi di incontrare tutti, di cantare al cuore di ognuno.

Anche di quelli che non sono cristiani?
Certo! Uno dei ricordi più belli risale agli anni Ottanta. Ero andato a Perugia per un concerto, invitato dalla comunità di Cl. Nel pubblico c'erano anche dei musulmani, che alla fine mi chiesero di andarli a trovare. E così, a notte fonda, andai da loro e cantai alcuni brani che furono molto graditi. Facevano lo sciopero della fame contro Khomeini che era al potere da qualche anno. Ogni tanto qualcuno sveniva e lo portavano via. (Ride: «Ma non credo fosse per le mie canzoni…»).

Ha cantato con colleghi «distanti» come Guccini e Ivan Della Mea. Tra i suoi amici c'è anche Giorgio Gaber. Vi siete esibiti insieme in più di un'occasione. Lui si definiva l'uomo del dubbio e guardava a lei come all'uomo delle certezze, con un misto di invidia e scetticismo.
È il cantautore italiano che stimo di più per la schiettezza della sua posizione. Ha avuto il coraggio di dire in faccia al «suo» pubblico cose scomode e politicamente scorrette, attirandosi anche critiche e opposizioni. E in più di un'occasione mi difese con coraggio in un'epoca in cui se non cantavi col cuore rivolto a sinistra rischiavi l'impopolarità e l'emarginazione dai circuiti musicali. (Sogghigna: adesso è un po' diverso, ma mica troppo…) . L ui si diceva certo che ciò che manda avanti la ricerca umana è il dubbio. E io gli rispondevo: a parte che non capisco come fai a essere certo basandoti su un dubbio, la molla della ricerca non è il dubbio ma la domanda, perché lascia aperta la possibilità che ci sia una risposta.

Lei ha tenuto concerti in luoghi significativi, Mosca, Gerusalemme, ma anche in luoghi atipici come un gulag del Kazakhstan. Come è arrivato fin laggiù?
Le mie canzoni sono arrivate in tutto il mondo prima di me. In Kazakhstan venni invitato in occasione del Giubileo del 2000, unico artista straniero. Dovevo tenere sei concerti, ne feci il doppio perché le richieste si moltiplicarono. Non dimenticherò mai quello nel gulag di Kocsun, davanti a 800 detenute comuni, primo spettacolo dentro un carcere di quel Paese. Leggevano le mie canzoni, che parlavano di libertà e felicità, tradotte nella loro lingua, e dopo un po' si misero a battere ritmicamente con le mani sui tavolacci di legno per accompagnarmi cantando semplicemente la-la-la-la . Presto si unirono a loro anche le guardie, e alla fine del concerto mi si avvicinò la direttrice, conosciuta come atea convinta, chiedendomi di pregare perché suo figlio di 16 anni potesse trovare una buona strada.

Ha cantato anche davanti a Giovanni Paolo II, per undici volte.
È stato quasi sempre in occasione di incontri di popolo, come lui amava fare. Più che un solista che doveva farsi apprezzare per le sue qualità canore, mi sentivo la voce della gente che gli stava davanti. E lui ad ascoltare e talvolta a partecipare al canto, con quello sguardo che ti penetrava fino al cuore e ti faceva sentire abbracciato da un grande padre.

Cosa ha significato l'incontro e l'amicizia con un maestro della pittura contemporanea come Bill Congdon?
Ho avuto la fortuna di conoscerlo quando ero giovanissimo, nel 1963. Era uno che spalancava gli orizzonti, e dipingendo le terre della Bassa lombarda, dove si era ritirato a vivere e lavorare, ti faceva intravedere l'infinito. Un giorno mi disse: se una canzone non è una finestra aperta sul Mistero, è solo il rumore del nulla. Alcuni giorni fa è venuto a trovarmi in ospedale il mio vecchio maestro delle elementari: ricordo che in quinta ci leggeva la Divina Commedia, aprendo una finestra sulla Bellezza a bambini di dieci anni. È grazie a gente così che le mie canzoni hanno sempre cercato di evocare ciò che tiene in piedi l'esistenza. Partendo da episodi apparentemente banali della vita, aiutano a capire che c'è Qualcosa dentro qualcosa. (Con la mano indica il poster di Natale appeso davanti al suo letto. Riporta anche una frase di don Giussani: «Cristo arriva proprio qui, al mio atteggiamento di uomo, di uno cioè che aspetta qualcosa perché si sente tutto mancante, si è messo insieme a me, si è proposto al mio bisogno originale»).

Giussani diceva che molte sue canzoni esprimono con la musica ciò che lui affermava con le parole. Si sente onorato da un simile riconoscimento?
Il «Gius» è stato maestro in umanità. Nella sua bontà mi chiamava «il poeta». Personalmente non ho mai avuto incarichi nel movimento di Cl, ma ho sempre cercato di seguire quello che lui mi diceva: sii te stesso fino in fondo, così aiuterai tanta gente. Spero di esserci riuscito. Gli sono grato per come ci ha guidato a scoprire Gesù presente nella realtà. Mi dicono che davanti alla sua tomba, al Cimitero Monumentale di Milano, c'è una bacheca con tanti ex voto e messaggi di gente che scrive per ringraziare e per chiedere. Credo che adesso che sta lassù, vicino al Principale, continui a darsi da fare come quando era tra noi. E personalmente non smetto di chiedergli di intercedere per la mia guarigione.

Sul suo sito c'è una lettera scritta in giugno in cui, a proposito della sua malattia, racconta agli amici che «questo è un momento anche di grazia». Come si fa a parlare di grazia nelle sue condizioni?
Nella mia vita ho avuto mo do di toccare con mano tante volte e con tanta evidenza la presenza di Dio: l'amore di mia moglie e dei miei figli, i volti degli amici, l'appartenenza a un popolo, e tante cose che mi sono accadute. La prima percezione che ho avuto quando i medici mi hanno dato notizia del mio male, è che non mi sia venuta addosso una disgrazia, ma che anche questo è un modo - certo dolorosissimo - di far emergere e di testimoniare la gloria di Dio. Altrimenti sarei un dis-graziato , uno che non riconosce ciò che la Grazia ha operato e opera nella sua esistenza. Non si può campare da dis-graziati , sarebbe come negare che la Grazia possa arrivare. Sarebbe come smettere di sperare. E io non smetto.

Postato da: giacabi a 07:32 | link | commenti
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lunedì, 29 novembre 2010

La fragilità di una nascita

***
 
 
lunedì 29 novembre 2010
C’e una disarmata fragilità nella Natività di William Congdon che campeggia sul manifesto natalizio proposto da CL che si può trovare appeso in case, uffici e scuole. È stata dipinta nel 1960 e il suo autore, allora quarantottenne, è battezzato soltanto dall’anno precedente. Muove i primi passi nella Chiesa cattolica, seguendo come un bambino le indicazioni che gli vengono date. Soprattutto da parte di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi che lo aveva conosciuto qualche anno prima, poi atteso e abbracciato al culmine della disperazione nell’agosto del 1959.
Congdon aveva cercato dappertutto, letteralmente in tutte le parti più belle del mondo, l’immagine che, attraverso l’arte, potesse redimere un’esistenza posta sotto il segno del naufragio, dell’insicurezza, dell’assenza di paternità. Aveva avuto un notevole successo nelle prestigiose gallerie di New York, ma non era stato sufficiente. Quanto più viaggiava in cerca dell’autentico, tanto più l’esile zattera dell’arte perdeva pezzi, lo lasciava sempre più solo e disperato, in balia dell’immensità del mare tanto amato e altrettanto temuto. Il gorgo lo inghiottiva.
Naufrago per l’ennesima volta dopo l’ennesimo viaggio, Congdon è tornato da don Giovanni, senza più nessuna energia. Allora, sorprendentemente, il sacerdote gli ha detto che era pronto per ricevere il battesimo, poteva rinascere da un’altra acqua. Ha accettato. Senza neanche sapere bene cosa fosse il cattolicesimo e come si facesse a viverlo. Perciò ha seguito quello che gli veniva suggerito: dipingi i principali misteri della fede. Ad esempio la Natività.
Il nero pavimento assomiglia alle intricate vie delle città formicolanti che aveva un tempo dipinto; ma ora non sprofonda, sostiene. Le pareti intorno sono simili alla voragine risucchiante del Colosseo o al dirupo da cui Positano cade in mare di vecchi quadri; ma ora diventa la calda scenografia dell’evento, l’abbraccio a qualcosa di fragilissimo, ma reale: quella donna seduta, poco più che una spatolata di tenero azzurro, e suo figlio, nient’altro che un bozzolo bianchissimo. Non poteva proferire altro che questo balbettio il neo cattolico William Congdon.
Ma su questo bozzolo, che è anche un seme, s’appoggia come a centro sicuro tutta la composizione. E si appoggerà tutta la sua vita. Sull’orlo delle pareti, in alto, non ci sono più le case pericolanti di Roma o New York, né i palazzi traballanti di Venezia; ci sono i cori angelici, una festosa confusione di ali. Solo tre anni prima ben altre ali avevano occupato, nere, distese, aggressive, tutto lo spazio del quadro: quelle dell’avvoltoio visto in Guatemala, uccello annunciatore di morte e che di morte si nutre. Angelo funereo che a Congdon parve annunciare la sua stessa morte.
Sopra Maria e il Bambino, quasi invisibile, una capanna dagli esili sostegni e dal tetto traballante. È la casa, il luogo del riposo, del conforto, l’approdo di ogni viaggio. È la Chiesa. Allora, in quel 1960, Congdon non sapeva ancora che forma avrebbe preso per lui questa dimora. Sarà la compagnia del movimento di CL, con la quale camminerà per il resto della vita. In essa scoprirà che per essere artista cristiano non è indispensabile trattare argomenti sacri.
Lui aveva sempre dipinto quello che i suoi occhi vedevano: città, monumenti, deserti. Nella nuova dimora tornerà a questi suoi soggetti. Attraverso un itinerario non privo di fatiche comprenderà che quel Bambino, quel bianco seme, è il fondo di cui consistono tutte le cose che si vedono. E lietamente dipingerà campi, piogge, alberi e colline trasfigurate dalla percezione della loro gloria. La gloria della salvezza di tutti gli uomini e di tutte le cose che è iniziata con la disarmata, potentissima, fragilità della Natività.
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2010/11/29/La-fragilita-di-una-nascita/1/129782/

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domenica, 21 novembre 2010

Bill Congdon: prima che la terra risorga, deve morire


 
Io – terra dentro la terra e davanti alla terra – non sono altro,
non posso conoscere altro che terra;
sia che cammini, sia che mangi, sia che mi sieda, tutto è terra.
Che cosa è in me che non è terra che mi fa riconoscere la non-terra;
“terra” sì, ma prima; altro che terra, infinitamente oltre alla terra
fino a stare davanti, fino a stare dentro a Colui che ha creato la terra?
Prima che la terra risorga, deve morire;
io non penso che la terra dei miei colori
si trasfiguri in immagine, se essi non muoiono a ciò che sono, ...
ma essi, i miei colori, possono morire a ciò che sono
se io stesso non muoio alla terra che io sono?
Perché i colori mi sono affidati
solo in quanto sono impastati di me e io di essi.
L’opera d’arte – come immagine di Dio nelle cose – è un punto sospeso,
punto d’attesa come ponte fra cielo e terra
Il cielo è sceso per riavere dalla terra, ormai in germoglio,
un brano di se stesso che come seme esso aveva prestato alla terra
perché questa lo trasfiguri e lo restituisca al cielo.
Tutto sarà stabilità quando ogni brano così prestato e trasfigurato
rientrerà nel cielo; la terra non ci sarà più; sarà tutta assunta.

(da La traccia, luglio/agosto 2000, p.64)
 

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venerdì, 05 marzo 2010


Che cosa è in me che non è terra?

***

 Io – terra dentro la terra e davanti alla terra – non sono altro,
non posso conoscere altro che terra;
sia che cammini, sia che mangi, sia che mi sieda, tutto è terra.
Che cosa è in me che non è terra che mi fa riconoscere la non-terra;
“terra” sì, ma prima; altro che terra, infinitamente oltre alla terra
fino a stare davanti, fino a stare dentro a Colui che ha creato la terra?

Prima che la terra risorga, deve morire;
io non penso che la terra dei miei colori
si trasfiguri in immagine, se essi non muoiono a ciò che sono, ...
ma essi, i miei colori, possono morire a ciò che sono
se io stesso non muoio alla terra che io sono?
Perché i colori mi sono affidati
solo in quanto sono impastati di me e io di essi.
L’opera d’arte – come immagine di Dio nelle cose – è un punto sospeso,
punto d’attesa come ponte fra cielo e terra

Il cielo è sceso per riavere dalla terra, ormai in germoglio,
un brano di se stesso che come seme esso aveva prestato alla terra
perché questa lo trasfiguri e lo restituisca al cielo
.
Tutto sarà stabilità quando ogni brano così prestato e trasfigurato
rientrerà nel cielo; la terra non ci sarà più; sarà tutta assunta.


William Congdon da La traccia, luglio/agosto 2000, p.64

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giovedì, 23 luglio 2009
L'avventura dello sguardo
***
L'arte di William Congdon in un romanzo epistolare
di Alfredo Tradigo
Tratto da L'Osservatore Romano del 5 luglio 2009

William Congdon, il pittore dei crocifissi (ne ha realizzati oltre centottanta) e delle lune su Assisi.
Il grande artista americano (1912-1988) convertito al cattolicesimo si confessa. In un romanzo epistolare appena pubblicato, a ventuno anni dalla sua morte, racconta in prima persona l'itinerario artistico e spirituale della sua vita. Una vita on the road, sempre in viaggio da una città all'altra del mondo, da un simbolo religioso all'altro, alla ricerca di un luogo, di una Patria, di un'immagine che diano senso e unità a ciò che vede: alla realtà che per un artista è essenzialmente ciò che gli sta dinanzi. Come il sant'Agostino de Le confessioni, o come il Thomas Merton de La montagna dalle sette balze, Congdon rivela se stesso in trentadue lettere scritte nel 1995 all'amico Pigi Bolognesi che gli chiede spiegazione dei suoi quadri.
William Congdon. L 'avventura dello sguardo (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 218, euro 16) verrà presentato a Rimini il 23 agosto nei padiglioni della trentesima edizione del Meeting per l'amicizia tra i popoli che avrà come titolo "La conoscenza è sempre un avvenimento". Ed è proprio l'avventura della conoscenza che emerge dalla lettura di Congdon. "Nel gesto di far nascere l'immagine di un quadro io sperimento l'accadere di qualcosa di vero e duraturo, di salvato radicalmente diverso dal caos che dominava il resto della mia vita e della vita che vedevo intorno a me", scrive. L'arte, dunque, strumento di conoscenza e di azione. Anche di salvezza, potremmo azzardare. Superando estetismo ed edonismo, i mali del secolo XX.
Congdon inizia a raccontare per tappe e ogni sua lettera corrisponde a un periodo e a un'opera. Alla fine degli anni Quaranta espone con successo alla galleria Betty Parsons assieme con i maestri dell'action painting, movimento artistico newyorkese a cui rimase fedele sempre. Per lui New York è la città che esplode, la Babele rappresentata in Explosion del 1948.
Lasciandosi alle spalle una carriera estremamente redditizia. Congdon, occidentale e protestante, punta verso Oriente, verso i grandi simboli redentivi del passato: Venezia, la Grecia e il Partenone; Roma e il Colosseo. La sua arte interpreta il luogo, lo trasforma, lo rende parte di se stesso e del suo viaggio interiore.
"Se c'è un artista in cui le città del mondo si rivelano nel significato più profondo quell'artista è William Congdon", spiega Giovanni Testori che lo ha conosciuto. E lui, "folgorato dall'Acropoli", riparte inquieto e assetato verso Ceylon e l'India: "L'Oriente indiano mi si presentava come una possibilità di salvezza dall'ego borghese". Attratto dal "suo silenzio e la sua verità" dipinge nel 1954 il bianchissimo tempio di Taj Mahal, mausoleo eretto nel XVIi secolo da un sovrano indù per la moglie morta.
Tutto ciò però non gli basta: "L'Oriente indiano mi aveva affascinato ma non soddisfatto". Il suo animo è inquieto e viaggia da un albergo all'altro, da una meta all'altra, solitario e senza posa. Dipinge e riparte verso sempre nuovi simboli religiosi - o della natura - in cui specchiarsi. Nuove visioni lo acquietano: "Il destino di ogni viaggio non è perdersi ma, infine, ritornare da dove si è partiti più ricchi". Tornare a se stessi. "Senza ritorno non c'è viaggio".
Nel 1955 è in Algeria, nelle oasi di Ghardaia, Ouargala e Touggourt dove imprime il proprio piede nel colore a olio denso e pastoso di Sahara 12 annota: "Quando cammini in una città non lasci impronte. Nel deserto non è così: il peso del tuo corpo lascia sulla sabbia un'orma indelebile". In Africa legge sant'Agostino, san Giovanni della Croce, santa Teresa d'Avila. E scopre la ferita del peccato che è in ogni uomo. La ferita dell'io.
Ancora si muove freneticamente, inseguito dal senso della morte e dai suoi simboli. Dopo aver cercato invano se stesso nelle città del mondo, approda a Venezia e dipinge la piazza San Marco un centinaio di volte in varie riprese per scoprirvi - misteriosamente - il segno della croce. Siamo nel 1960, un anno dopo la sua conversione. Da quel momento il Crocifisso non lo abbandonerà più.
Venezia è la città della morte. Scrive: "La mia arte è sempre scattata di fronte al mistero della morte". La stessa morte dei suoi primi schizzi giovanili: volti trasfigurati dall'orrore della guerra nel campo di concentramento di Bergen Belsen dove morì Anna Frank, e dove Congdon prestava servizio nel 1945 come volontario nella Croce Rossa. La stessa morte nel vulcano spento dell'isola greca di Santorini (1955), nel cratere del Colosseo, nel condor abbattuto in Guatemala (1957); nelle macchine nere e nelle larve umane che scorrono nelle strade di Bombay (1973). In un piccione ucciso con un colpo di fucile (1968) vede la fine di Bob Kennedy. All'impasto dei colori dei suoi quadri aggiunge lo smog di Milano raccolto su un davanzale.
Dopo la conversione ricomincia a viaggiare ma in nessun luogo Congdon trova quella risposta definitiva che invece incontra nelle persone. All'eremo di San Lorenzo, Congdon apre un atelier e incontra gli amici del Gruppo adulto in cui entrerà in seguito. Jacques Maritain e Thomas Merton scrivono per lui l'introduzione al suo libro Nel mio disco d'oro. Incontra Olivier Clément nel 1981 in occasione della sua prima mostra al Meeting di Rimini.
Vent'anni passati ad Assisi (1959-1979) e poi gli ultimi vent'anni in "quello strano convento di laici che vivono nel mondo" che è la casa dei Memores Domini (1979-1998). Isolato, sepolto nella nebbia, lavora nel piccolo atelier affacciato sulla corte del monastero benedettino della Cascinazza e sui campi della bassa milanese. Qui Congdon obbedisce all'ora et labora benedettino, prega e dipinge "cocciutamente". Davanti alla nebbia e ai campi trova pace e compimento il suo sguardo d'artista, l'avventura della conoscenza, la matura sintesi della sua arte e fede. Nebbia che vela, svela, rivela l'immagine. Terra e croce che si identificano come luogo del corpo del Cristo: "poiché per la fede ogni forma è riconducibile alla croce di Cristo, mi domando se non si possa dire che la croce di Cristo è la chiave di lettura dell'immagine di qualsiasi cosa".
Così trova compimento in Congdon il tema del crocifisso. Il crocifisso scompare e diventa terra e cielo. Diventa lui stesso uomo e artista. Impasto di terra e cielo. E cita ancora Testori: "Direi che Congdon questa terra l'abbia come mangiata, l'abbia palpata, l'abbia accarezzata con una vastità e nello stesso tempo con una comprensione e adesione che altri pittori non sono riusciti a raggiungere". E ancora Olivier Clément, nel 1981, scrive su "L'Osservatore Romano": "Le ultime pitture di Congdon, quelle della bassa milanese, sono a un tempo straordinariamente forti e straordinariamente pacificate (e pacificanti): tutta l'ampiezza, tutta la gioia della terra offerta al cielo".

Postato da: giacabi a 20:58 | link | commenti (2)
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martedì, 11 novembre 2008
Il quadro
***
W.Congdon, Natività

I quadri come angeli, come il dono.
Il dono è il quadro. E il dono,
o gli angeli se vuoi, fanno il quadro.
Io non faccio i quadri, il quadro fa me.
E il quadro è un’obbedienza a ciò che c’era,
a ciò che c’è già. E questo “già”, “ciò che è già”.
E’ ciò che fa il quadro.
All’artista tocca soltanto l’obbedienza.
 William Congdon
 Ascoltate l'ìntervista di Red Ronnie a Congdon,

Postato da: giacabi a 22:18 | link | commenti
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sabato, 12 luglio 2008
Abbandonarsi al Suo amore..
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Per prendere sonno ascolto nel cuore della notte certi programmi della radio in cui voci parlano – la musica infatti mi tiene ancora più sveglio: di preferenza Marco Pannella su Radio Radicale, o monsignor Ravasi su Radio Maria. Questa volta, nell’ora della lezione di monsignor Ravasi sulla Bibbia, parlava qualcun altro, con un accento meridionale e un tono un po’ enfatico, ma una notevole qualità retorica, perfino spericolata e barocca in qualche luogo. Non so tuttora chi fosse, ma a un certo punto ha detto di sé di essere un vescovo meridionale, e di essere anche un buon nuotatore. E chi sa nuotare, ha detto, sa bene che chi abbia paura di annegare e chieda aiuto, si aggrappa per istinto al soccorritore, rischiando di tirarlo al fondo con sé. Se si vuole salvarsi, bisogna evitare di aggrapparsi, e invece abbandonarsi al sostegno del soccorritore. E la stessa cosa, ha detto, deve avvenire con Dio. Non bisogna aggrapparsi al suo aiuto, ma abbandonarsi al suo amore..“

Adriano Sofri, su Il Foglio
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PESCE VIVO

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giovedì, 24 aprile 2008
L’estrema compagnia che accompagna l’abbandono è Cristo
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"Io sono la nave abbandonata. Abbandonato vuol dire estrema compagnia, ultima compagnia non mancanza di compagnia è l’estrema compagnia, non c’è una compagnia più bella del cosiddetto abbandono. Abbandono vuol dire abbandonare se stessi e tutto quel che è comodo come conforto…….L’estrema compagnia che accompagna l’abbandono è Cristo e l’estrema compagnia, la totale compagnia, l’ultima compagnia, la totale compagnia è Lui . La pittura è l’espressione di questa estrema compagnia."
William Congdon dall'intervista di Red Ronnie

L'intervista più particolare e importante che ho fatto è stata sicuramente quella al pittore William Congdon. Era contemporaneo di Pollock, protagonista dell'action painting in una New York malata. Come barelliere nella 2° guerra mondiale entrò nel campo di concentramento di Belsen. Fu colpito profondamente, fino ad una conversione che lo portò ad Assisi. Ha iniziato a dipingere quadri straordinari, Lo avevo intervistato nel 1996. Non stava dipingendo e il suo tavolo di lavoro era pulito. Dopo due anni mi ha mandato un messaggio: il tavolo è sporco. Così, il 6 aprile 1998, sono tornato a trovarlo, nella cascinazza-convento della campagna milanese dove abitava. Aveva ripreso a dipingere grazie a foto di una nave arenata sulla costa venezuelana. Si identificava in questa nave che piano piano perdeva pezzi per sciogliersi nella natura. Mi sono reso conto che stavo intervistando uno spirito che lasciava una testimonianza storica, prima di staccarsi dal corpo. Era l'anno del film "Titanic" e mi sentivo spinto a fargli questa domanda. Ho scoperto che era nato la notte tra il 14 e 15 aprile 1912, quando affondò il Titanic. 8 giorni dopo, la domenica di Pasqua, mi sono chiuso per molte ore a montare l'intervista. Alle 4 del mattino del 15 aprile 1998, mi sono rialzato con 18 minuti strepitosi di montaggio, un capolavoro. Non sapevo che in quel preciso momento William entrava in coma per morire poche ore dopo, esattamente il giorno del suo compleanno e dell'anniversario dell'affondamento del Titanic. Mi aveva aspettato. Ho mostrato quell'intervista in TV e ne ho fatto un video per la William Congdon Foundation. Chi l'ha vista ne è rimasto fortemente impressionato. Ivan Cattaneo piangeva mentre la guardava sul divano del mio studio. Gianni Morandi mi telefonò alle 2 di notte per dirmi quanto lo aveva impressionato... Va vista e rivista. Ogni volta che la guardo, imparo cose nuove, soprattutto di come una vita che se ne va è solo un inizio di un'altra vita.
 Red Ronnie
  

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domenica, 20 aprile 2008
Thomas Merton e William Congdon, due “visionari
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Quando mi raggiunse la notizia dell’attentato e del crollo delle “Torri gemelle” insieme all’orrore affiorarono dal mio profondo due ricordi: innanzitutto una poesia di Thomas Merton del 1947, che lamentava:
La luna è più pallida di un’attrice,e ti piange, New York…
… Come sono state distrutte, come sono crollate,
quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio,
fuse da quale terrore e da quale miracolo?
Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
nella collera bianca della loro accusa,
quelle torri d’argento e d’acciaio?

e poi il quadro di William Congdon, New York City, explosion, del 1948: al centro un’esplosione nera che fa rovinare gli altri palazzi ridotti a ferri contorti, nero che invade case e strade in un caos infuocato…
Thomas Merton e William Congdon, due “visionari” più che contemplativi o, meglio, visionari perché capaci di andare oltre la contemplazione, la “theoria”: potremmo quasi dirli “profeti” se la profezia, la pura profezia, è anche ciò che è presente dentro l’oggetto della scrittura (parola o immagine) e che l’autore stesso non può ancora capire, perché se lo capisse non lo scriverebbe né lo dipingerebbe (cf. W. Congdon, Il viaggio continua, p. 39). Congdon non ha mai cessato di essere un visionario: ha cominciato con il guardare la città scorgendovi un sole nero e il nero della sofferenza su cui sorge un sole, una luna, “un oriente” appunto (La città nera del 1948-49), per poi, una volta approdato nella vecchia Europa, cercare di narrare le città cariche di memoria storica – Atene, Roma, Parigi, Venezia, Assisi… - ma segnate dal vuoto, da un’impotenza a essere luogo di comunità e, nello stesso tempo, dalla capacità di essere grembo che partorisce e lascia crescere il male, il dolore, la devastazione.
Poi il Crocifisso: non la croce, significativamente, perché la croce è solo uno dei molteplici strumenti di esecuzione e di morte, ma il Crocifisso che chiede di fissare lo sguardo scavando sull’uomo: “Scavate pure nei miei quadri e vedrete come l’autorità della forma è in fondo quella della struttura umana”. La ossessiva serialità dei crocifissi (quasi 200!) significa tenere lo sguardo fisso sul corpo umano che radicalmente è soltanto narrato nella sua condizione più autentica dal Crocifisso. Il corpo umano: epifania di morte, di corruzione, di disfacimento cinereo, ma in cui attraverso l’annientamento è possibile contemplare il “figlio dell’uomo”, l’umano che “ha narrato” (exeghesato, cf. Gv 1,18) e narra Dio e il suo amore folle che lo porta ad assumere la debole carne dell’uomo votata alla morte e carica dell’incapacità di rispondere a questo amore: e quest’ultimo è, per William Congdon, il solo peccato!.
Fra il 1959 e il 1979 c’è sì al centro il Crocifisso, come sottolinea l’Atlante dell’opera, ma in una parabola che è sempre di più una ricerca di kenosis. Nei primi crocifissi c’è l’appeso “senza volto” (aprosopon): solo un capo reclinato con i capelli che cadono assieme al corpo bianco, anzi precipitano… E tuttavia, proprio perché in questi crocifissi non c’è il nulla definitivo, ecco apparire l’ “amorevole nuvola” che avvolge il capo: sprazzi di luce dorata, quasi promessa di risurrezione, che appariranno ancora ne Il sepolcro(17.V.1974) e nel Crocifisso 165 del 1979. Ma i crocifissi senza volto sono tracciati con semplicità sempre maggiore, da  pochissimi colpi di spatola: tre nel Crocifisso 52 (17.II.1972), due nel Crocifisso 54 (sempre del 17.II.1972), fino a essere colpi di spatola sovrapposti, un corpo informe e senza articolazioni, una colata di cenere mescolata a colore, un grumo di lava e silenzio. Adamo, il terrestre, l’uomo fatto di cenere e impastato di male e di dolore, “larva, non uomo… rifiuto umano… senza ossa articolate” (Salmo 22,7.15): eppure è in questa cenere che Dio si è compiaciuto e ha compiuto la sua teofania.
Thomas Merton l’aveva ben capito quando, nell’introduzione a “Nel mio disco d’oro”, scriveva: “spira nella pittura di William Congdon un’aria di teofania che impone il silenzio e dovrebbe imporlo sia al religioso sia al critico d’arte”. Non solo si fa silenzio di fronte ai Crocifissi di Congdon, ma ci si chiude la bocca, come alla visione del Servo senza volto del profeta Isaia. Chiudersi la bocca, ammutolire in silenzio: sorge quasi un desiderio istintivo di coprirsi il volto per non vedere, simultaneamente all’essere attratti dal Crocifisso, spinti a volgere su di lui lo sguardo (cf. Gv 19,37). Nei Crocifissi di Congdon c’è una vera theologia crucis, perché essi sono una cattedra della scientia crucis: ogni Crocifisso è una “parola della croce”, appunto non la croce ma il Crocifisso (cf. 1Cor 1,18 ss.).
Il “Crocifisso” di William Congdon è il ricettacolo della maledizione, della morte infamante, dell’agonia umana, anzi è la carne, il corpo, epifania di come noi uomini siamo malati di follia, disfatti dal peccato, perduti nell’abisso dei nostri amori mancati e sbagliati, comunque sempre incapaci, impotenti ad avere una pienezza. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Salmo 22,1), ma anche “Dio mio, Dio mio perché ti sei abbandonato e sei precipitato facendoti uno di noi?”. E la risposta della fede è semplice, senza spiegazioni possibili: “Per amore!”. Risposta deposta nel cuore di Congdon dalla conversione a Cristo, ma risposta che non risale dall’interno del cuore se non per la forza della grazia.
Con ragione Rodolfo Balzarotti osserva che la pittura di Congdon è separata dallo spazio liturgico, non è a servizio della liturgia, ma nella liturgia c’è bisogno della consapevolezza espressa dai Crocifissi di Congdon, consapevolezza che in essa tutto l’uomo con il suo peccato e la sua devastazione sono portati e assunti per essere redenti.
Non solo si crea, ma anche ci si salva nel dolore della propria incapacità alla santità: “Non cerco nella mia pittura una misura della mia conversione … invece, per il fatto che Cristo è venuto per empire tutto di sé nel modo di essere di ogni cosa. Anche se non mi fosse tolta questa divisione tra la disunità della mia persona e l’unità della mia opera, Cristo riconciliando tutto in sé ne toglie la condanna” (Un artista, la sua vita e la comunità cristiana, dattiloscritto 29.VI.1971, p. 29).
Ed eccoci alla stagione matura del silenzio, agli ultimi quindici anni, quando la visione di Congdon è rigenerata. Allora, non a caso la nebbia diventa calligrafia del silenzio. Nel diario la parola “silenzio” si fa martellante: “Questo silenzio come partenza del quadro è la virtù e per virtù (o grazia) della nebbia – mi è stata tolta ogni cosa – ma viene rivelata per il filtro (spirito) della nebbia. Questa è la realtà dell’arte veramente sacra” (Diario 7 gennaio 1983). Beppe Barbieri a ragione legge qui una svolta radicale nella pittura di Bill, perché in essa ormai l’eloquenza è del silenzio.. Non a caso nel diario è evocato il silenzio di Rothko (26 febbraio 1983), ritenuto da Congdon “padre” e “maestro”, quel silenzio che accoglie chi prega nella cappella ecumenica di Houston.
La serie nebbia emerge dal silenzio, ma dal silenzio assoluto emergono anche la serie cielo e terra, “essenzialmente una cosa sola” (13 febbraio 1983) e quindi le monocromie silenziosissime del mais, dell’orzo, del giallo con sole. “La novità dei quadri di tutto un colore è che, se c’è un segno aggiunto, questo è incorporato dentro il tutt’un colore e non sovraimposto come previamente fatto. Anche il giallo con sole di oggi è così: il sole è quasi invisibile”. I segni sono silenti ma fanno sentire la Presenza in quella spessa materia del mondo, e il colore è carico dell’esperienza della vita.
Congdon così scrive nel Diario: “Io dipingo non come vedo ma quel che vedo: ho dipinto la nebbia adesso; vista solo la nebbia, ho dipinto solo la nebbia senza alcun segno di oggetto non essendocene fuori della nebbia stessa… A chi mi dice: ‘è astratto’, io rispondo che è l’opposto dell’astratto, è l’oggetto totale” (Nebbia oggetto di 3 dimensioni, Manoscritto 25.I.1989). Ma la nebbia per Congdon non è cecità, impossibilità a vedere, perché lui stesso ha detto: “Che cosa ti rivela la nebbia? Rivela l’uomo, l’uomo che soffre… Non c’è niente di ciò che Dio ha fatto che non sia strutturato sull’uomo: anche il cielo… Il mio occhio perfora, trapassa il nulla della nebbia come il cielo e lo empie della mia vita” (L’arte, uomo nelle cose e il tutto nel nulla, Manoscritto 1.III.1985). Comunione con le cose, “res” (sunt lacrimae rerum!), dipingere come pregare, esperienza di comunicazione ma anche di trasfigurazione che unisce le cose nell’immagine (cf. Diario 27 aprile 1991).
Ed infine questo silenzio lo si sperimenta più che mai stando davanti alla Finestra I (1992) o alla Finestra Monastero (1994). Silenzio di attesa perché la finestra si spalanchi e la luce accolga: quella luce di sole o luna, “oriente” sempre, perché sempre luce che spunta, a William Congdon non è mai mancata. Aveva asserito: “Si crea nel dolore della propria non santità”, ed era vero, ma la creazione nel dolore, autentico parto, lo ha rigenerato: Congdon è stato toccato dalla santità perché solo chi conosce la propria non santità, il proprio peccato, sa arrendersi alla grazia che santifica! Congdon ha amato la Luce: anche all’inferno l’ha sempre cercata e intravista.
Enzo Bianchi        Corriere della Sera, 4 marzo 2005


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Bill Congdon
A DIECI ANNI DALLA MORTE DEL GRANDE PITTORE

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§   Una intervista a cura di Red Ronnie


“Così io e anche tu, dobbiamo rinnovare ogni giorno una coscienza indirizzata alla resurrezione; non c’è altro. Da solo, questo è difficile, se non impossibile. Un altro deve risollecitarci alla vita” (W. Congdon, lettera alla cugina I. Tate)


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