“La rivoluzione cristianaha salvato l’umanità”***
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 22 dicembre 2008 (ZENIT.org).- “Laddove
si caccia Dio si sterminano gli uomini” e Gesù “è il fautore di una
rivoluzione che ha cambiato la storia dell'umanità”.
A
sostenerlo in questa intervista a ZENIT è Rosa Alberoni, già docente di
sociologia, giornalista e scrittrice, autrice di innumerevoli testi,
tra cui “La cacciata di Cristo”, “Il Dio di Michelangelo e la barba di
Darwin”, e del volume appena uscito: “La prigioniera dell'abbazia”.
A
Valladolid un giudice ha emesso una sentenza per cui tutti i
crocifissi dovranno essere tolti dai muri e dalle aule di una scuola
pubblica. A Oxford il consiglio comunale ha cancellato il Natale
sostituendolo con la festa delle luci d'inverno. Cosa sta accadendo?
Rosa
Alberoni: Sta avvenendo ciò che gli atei militanti sognano da due
secoli: riportarci al pre-paganesimo. Il crocifisso è il simbolo della
civiltà cristiana che ingloba tutti: atei, dubbiosi e credenti.
Eliminarlo dai luoghi pubblici è un modo per negare il nostro
antenato, Cristo, e di cancellare la nostra identità e il codice
culturale cristiano. I distruttori di oggi tentano di imitare i
giacobini, i pionieri della scristianizzazione, gli adoratori di se
stessi nascosti sotto la maschera della ragione, i costruttori delle
fosse comuni, i tagliatori di teste, gli sterminatori di esseri umani
in nome della dea ragione.
Essi
hanno compiuto atti contro l’uomo proprio perché avevano cancellato
Dio dalla loro mente, ed agivano in nome della propria sete di
dominio. Ma oggi, se la storia insegna qualcosa, i credenti, e tutti
gli uomini saggi, devono smetterla di lamentarsi ed agire.
Alcuni
magistrati o sindaci emanano sentenze o leggi masochiste, e gli atei
e i dubbiosi si ribellino, impediscano che si annienti il simbolo
della propria civiltà. E i credenti si oppongano mettendosi il
crocifisso al collo, esponendolo nelle case, stampandolo sulle
bandiere, attaccandolo sulle automobili, cucendolo sugli abiti,
tatuandolo sulle mani, sul petto, sulla fronte.
E
in più affollando le chiese, portando striscioni nelle manifestazioni
sportive, ovunque, con scritto: Io appartengo a Cristo ed anche tu,
perché Cristo crede in te. Quindi, basta lamenti, solo azioni ferme e
perseveranti, come fanno gli ebrei da sempre. La stella di Davide non è
segnata dappertutto?
Lei
ha scritto un libro dal titolo “La cacciata di Cristo” (Rizzoli)
pubblicato anche in Spagna (La expulsion de Cristo), con prologo di
Ignacio Sanchez Camara (Ediciones Cristiandad) e in Polonia, in cui
sostiene che in tutte le società dove è stato cancellato Dio l'umanità
subisce orrori e ingiustizie. Può spiegarci il perché?
Rosa Alberoni: Io
ho appreso dalla storia che là dove si caccia Dio si sterminano gli
uomini. E questo è un fatto inconfutabile, perché là dove hanno regnato
le ideologie atee come il giacobinismo, il comunismo e il nazismo,
milioni di esseri umani sono stati annientati.
Nessuna
guerra nel corso storico ha prodotto tanti milioni di morti come
hanno fatto i giacobini con la ghigliottina, i comunisti con i gulag e
il nazismo con i lager, e poi sono arrivati Mao e Pol Pot che hanno
agito da degni allievi dei loro maestri di sterminio.
Il perché l’abbiano fatto è talmente semplice che lo capisce anche un bambino:
se non c’è Dio a cui rendere conto delle proprie azioni, se si
esclude Dio dalla mente e dalle azioni, svanisce la sacralità della
vita e la coscienza morale, e le leggi vengono emanate da pochi per
soddisfare la sete di dominio di pochi.
Senza Dio l’uomo diventa un oggetto come lo è una bicicletta o un colapasta, quindi lo si può rottamare a piacimento. Non
è casuale se i nostri antenati greci e romani, che non sapevano
dell’esistenza di Dio, si erano inventato degli dèi, e li avevano
messi a tutela delle persone e delle attività umane.
Era
un modo tutto terreno, ma colmo di saggezza, per sacralizzare l’uomo e
le sue azioni. Essi avevano intuito che senza timore del Mistero,
l’uomo si comporta da belva feroce. Oggi l’azione degli atei
militanti è più subdola e devastante: con la dittatura del volere
individuale cercano di riportarci all’epoca pre-pagana, quindi nelle
caverne quando l’uomo agiva seguendo l’istinto come gli animali.
Se
non poniamo rimedi subito, è logico che questo possa verificarsi: se
l’idea momentanea di un ragazzo vale quanto quella di Dante, di
Shakespeare o della Bibbia, cioè quanto una tradizione culturale
millenaria, allora vengono cacciati dalla civiltà non solo Dio e il
sapere umano accumulato, ma anche la coscienza e la ragione degli
uomini.
E
dove regna l’arbitrio dell’opinione individuale, tutto diventa
profano, superficiale, volgare, e la morte civile e morale è una
conseguenza scontata. Occorre vigilare affinché il sogno sciagurato
degli atei non si realizzi. Essi mirano a far tabula rasa del
Cristianesimo e con esso della nostra identità di esseri umani civili.
Nello
stesso libro lei sostiene che Gesù è il fautore di una rivoluzione
che ha cambiato la storia dell'umanità. Può illustrarci il senso di
questa considerazione?
Rosa Alberoni:
La civiltà ebraica aveva affermato che c’era un solo Dio creatore del
cielo e della terra. Socrate che l’uomo era il fine dell’universo
perché portatore dell’anima immortale. Ma
Cristo Gesù compie la più grande, autentica ed irripetibile
rivoluzione del pianeta quando afferma che Dio è nostro Padre, e per
questo tutti gli esseri umani nati, creati, sono fratelli, uguali e
liberi.
Non
ci sono nobili e schiavi, ma tutti hanno la stessa dignità di figli.
Per rassicurarci di questa verità, ci incita ad invocarlo ogniqualvolta
ne sentiamo l’esigenza, quando temiamo di perdere la fede, quando
abbiamo paura, dicendo: Padre nostro che sei nei cieli. Non è un caso
che ci abbia lasciato in eredità questa unica preghiera che è un
testamento e una rimembranza.
Cristo,
rivelandoci che Dio è creatore di tutto ed è nei cieli, annulla tutte
le divinità pagane provenienti dalla terra o dalla mente degli
uomini, e ci rivela anche che noi non apparteniamo a questo mondo,
perché proveniamo dal cielo e sulla terra siamo solo di passaggio.
Noi
essendo figli di un Dio immortale, siamo immortali. Ma Cristo ci
lascia in eredità anche la più grande e semplice parabola
dell’esistenza, che non può essere equivocata. Egli proveniente dal
cielo s’incarna nel grembo di una donna, vive, soffre e muore, poi
risorge e torna in cielo, dal Padre. E’ questo il percorso che compie
ciascun essere umano: come figlio di Dio viene dal cielo e in cielo
ritorna. Il percorso di Cristo è il nostro percorso: “Io sono la
via”.
Dio,
conoscendo la nostra cocciuta incredulità, si incarna per parlarci,
per rivelarci chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Per questo ci
ripete: “Io sono la verità, la vita”; “io ho sconfitto la morte”. E
prima di ascendere al cielo aggiunge: “Non abbiate paura, sono accanto
a voi fino alla fine del tempo”. Dopo l’avvento di Cristo, non
possono esserci rivoluzioni per l’uomo, ma solo contro l’uomo. Quindi
noi abbiamo un solo compito durante il viaggio terreno: perfezionarci
per liberarci dalla macchia tenebrosa di Lucifero.
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Postato da: giacabi a 15:10 |
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cristianesimo, alberoni
La cultura cristiana
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"Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia
tutto ciò che egli dice e fa scaturirà dalla parte della cultura
cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche.
Se il cristianesimo se ne va, se ne va anche la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto". . Eliot, Appunti per una definizione della cultura, Opere, Classici Bompiani 2003) |
Postato da: giacabi a 19:54 |
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cristianesimo, eliot
La dottrina cristiana
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Non
mi fa paura che mi si accusi di essere retrogrado perché non soltanto
non ritengo che la religione sia una superstizione, ma, al contrario,
ritengo
che la verità religiosa sia l'unica verità accessibile all'uomo, e la
dottrina cristiana io la ritengo una verità che – lo vogliano
riconoscere gli uomini o no – si trova a fondamento di tutto il sapere
umano, e non mi fa paura nemmeno mi si condanni perché ho l'orgoglio di chiamarmi cristiano".(Tolstoj, Le memorie di un cristiano, 1884) |
Postato da: giacabi a 10:03 |
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tolstoj, cristianesimo
Da dove nasce
la civiltà
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"il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra cultura, tutto ciò che noi chiamiamo la civiltà".
Immanuel Kant
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Postato da: giacabi a 15:11 |
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kant, cristianesimo
L’origine della democrazia
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la democrazia occidentale deve le sue origini intellettuali e la sua legittimità essenzialmente a ideali cristiani, e non a una eredità greco-romana. Tutto ebbe inizio con il Nuovo Testamento.
Gesù proclamò il rivoluzionario concetto dell'uguaglianza morale non solo a parole, ma anche con i fatti. Egli ignorò
ripetutamente le principali differenze tra le classi sociali e
frequentò persone stigmatizzate, come samaritani, pubblicani, donne
immorali, mendicanti e vari altri emarginati, dando cosi un sigillo
divino all'uguaglianza spirituale. Fu esattamente in questo spirito che san Paolo ammonì: «Non
c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»
. Come era possibile ciò? È difficile credere che san Paolo
intendesse che non esistevano schiavi cristiani o che le donne avevano
gli stessi diritti degli uomini. Ciò che intendeva dire era che, nonostante le disuguaglianze terrene, non esiste disuguaglianza sul piano più importante: agli occhi di Dio e nell'aldilà. Anzi,
proprio a proposito di questa questione, san Paolo mise in guardia i
padroni di schiavi quando li esortò a trattarli bene dal momento che
«c'è un solo Signore nel cielo, e che non v' è preferenza di persone
presso di lui». L'affermazione di san Paolo, assieme a molte altre
presenti nel Nuovo Testamento, chiarisce che l'uguaglianza
agli occhi di Dio è in relazione al modo in cui le persone dovrebbero
essere trattate in questo mondo, cioè come mostrò Gesù.
Il modello venne così stabilito.
Rodney Stark. "La vittoria della Ragione" Lindau
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Postato da: giacabi a 19:00 |
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cristianesimo, stark
Storia di un vescovo romeno
per 16 anni nelle prigioni comuniste
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CITTA’ DEL VATICANO, martedì 23 marzo 2004 (ZENIT.org).-
Riportiamo di seguito il doloroso racconto del Monsignor Tertulian
Ioan Langa, dell’Eparchia di Cluj-Gherla (Romania), sui suoi lunghi
anni di prigionia, fatto a margine della Conferenza Stampa di
presentazione del volume: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell’Europa del Novecento".
.Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste. Avendo come formatore spirituale, già dalla prima adolescenza, colui che sarebbe stato il Vescovo martire Ioan Suciu, e poi come guide intellettuali altri tre martiri - Monsignor Vladimir Ghika, il Vescovo Vasilie Aftenie e il Vescovo Tit-Liviu Chinezu, tutti vittime del comunismo ateo - era normale che tutta la mia vita portasse l’impronta della loro spiritualità. Attraverso loro ho scoperto cosa sia il comunismo, cosa significhi eliminare Cristo dalla vita sociale e quanto mutilata possa diventare l’anima umana, l’intera società e la famiglia senza Chiesa, senza la Santissima Eucaristia e senza il culto della Santissima Vergine. In più, come uomo con il senso della realtà storica e sociale, non ho potuto ignorare la massiccia e minacciosa presenza sovietica atea alle frontiere della Romania e della nostra spiritualità. A questi fattori devo tutto l’orientamento spirituale e storico della mia vita. A me spetta soltanto la recettività. La presenza violenta ed atroce del comunismo ateo non ha costituito per gli occidentali una realtà immediata e concreta, ma meramente libresca. Ciò spiega la differenza flagrante di percezione e di reazione di fronte al comunismo che manifestano i cristiani e gli intellettuali di Occidente, paragonata a coloro, nell’Est europeo, che hanno vissuto e subìto il mondo comunista. A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell´università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici. Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell´epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell´accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza. Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura. Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti. Sono stato arrestato a Blaj, nell´ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all´epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l´estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza. LA VERGA DI FERRO Ricordo il giovedì santo dell´anno 1948. Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all´interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell´umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell´interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l´annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo. In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l´ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell´inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l´inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata. LA LUPA Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare. Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c´era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l´alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell´edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l´equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio. Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia. IL SACCHETTO DI SABBIA Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c´era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell´angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando. Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall´organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l´autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell´unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico. VENTOTTO CENTIMETRI Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l´uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l´esperienza delle sardine: però non nell´olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l´osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull´anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz´ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l´altro, ci voltavamo sull´altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c´era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all´orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l´orina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l´odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l´intero organismo e ogni suo orifizio. IL "FILTRO" Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l´ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d´egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate. La mancanza d´aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno. Contribuivamo così, a nostro modo, all´edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa? NUDI NEL GELO Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L´accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell´uomo creato dall´amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova. Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo. Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l´anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All´anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all´incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina. CAMMINARE O MORIRE Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall´altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei ?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz´ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell´angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi. Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo. MA TUTTO È GRAZIA Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l´ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto. Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l´hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66). Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l´uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi. |
Postato da: giacabi a 22:51 |
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comunismo, cristianesimo
La battaglia del cristiano
***
“Quando
il mattino della battaglia le compagnie si svegliano e si armano
nella nebbia, ognuna occupa il suo posto e attende il giorno. Devono
solo attendere e tenersi pronte.
Poi il caso sceglie una di esse fra tutte, e la pone al centro del combattimento. Essa non l’aveva meritato: l’onore ha deciso per essa. E le altre compagnie, sue compagne, mentre combattono, sentono oscuramente che altrove il combattimento è più vero, la morte più esigente, il sacrificio più utile e l’esito più decisivo. Per esse , lo sforzo ha delle soste; non ce ne sono per quelli che sono al centro; e quelli sentono di essere nella battaglia;indovinano gli sguardi, le grida lanciate verso di loro, e su di loro il pensiero del capo. Sotto questi sguardi, queste grida, questo pensiero, il loro gruppo ferito, decimato, lotta con coraggio maggiore del suo stesso coraggio, resiste con una forza maggiore della sua stessa forza. Esso era al mattino simile agli altri, né più coraggioso, ne’ meno coraggioso ; e alla sera è diverso. Ha superato la prova esce dal fuoco. E’,rimane diverso, segnato agli occhi di tutti dalla augusta grazia del combattimento. Un caso ne è la causa: l’eroismo è entrato in esso. Tale è cristiano: un essere fra gli esseri, e simile ai più umili. Ma egli combatte per l’intera natura, le potenze dall’alto sperano nel suo sforzo, è stato scelto e da ciò deriva il sovrappiù della sua forza”.
C. Peguy
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Postato da: giacabi a 20:30 |
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cristianesimo, peguy
Da quel giorno
la mia vita è cambiata
***
Un giorno, mentre ero nei quartieri poveri di Calcutta e stavo per ritornare nella mia stanza, ho visto una donna che giaceva sul marciapiede. Era debole, sottile e magrissima, si vedeva che era molto malata e l'odore del suo corpo era così forte che stavo per vomitare, anche se le stavo solo passando vicino. Sono andata avanti e ho
visto dei grossi topi che mordevano il suo corpo senza speranza, e mi
sono detta: questa è la cosa peggiore che hai visto in tutta la tua
vita.
Tutto quello che volevo in quel momento, era di andarmene via il più presto possibile e dimenticare quello che avevo visto e non ricordarlo mai più. E ho cominciato a correre, come se correre potesse aiutare quel desiderio di fuggire che mi riempiva con tanta forza. Ma prima che avessi raggiunto l'angolo successivo della strada, una luce interiore mi ha fermata. E sono rimasta lì, sul marciapiede del quartiere povero di Calcutta, che ora conosco così bene, e ho visto che quella non era l'unica donna che vi giaceva, e che veniva mangiata dai topi. Ho visto anche che era Cristo stesso a soffrire su quel marciapiede. Mi sono voltata e sono tornata indietro da quella donna, ho cacciato via i topi, l'ho sollevata e portata al più vicino ospedale. Ma non volevano prenderla e ci hanno detto di andarcene via. Abbiamo cercato un altro ospedale, con lo stesso risultato, e con un altro ancora, finché non abbiamo trovato una camera privata per lei, e io stessa l'ho curata. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Da quel giorno il mio progetto è stato chiaro: avrei dovuto vivere per e con il più povero dei poveri su questa terra, dovunque lo avessi trovato.
Madre Teresa di Calcutta
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Postato da: giacabi a 18:56 |
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cristianesimo, madre teresa
Robert Spaemann:la scienza è un bene,ma l’uomo non smetta mai di contemplare
INT.
Robert Spaemann (Berlino, 1927) e' uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, erede della Cattedra che fu di Hans G. Gadamer, ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito sull'etica contemporanea, in sintonia con gli studi dell'amico Joseph Ratzinger.
venerdì 18 dicembre 2009
Ieri
era l’ateismo materialista, nelle sue varie colorazioni ideologico
politiche. Più tardi è stato l’indifferentismo religioso ad attaccare
la credenza dell’uomo in Dio. Ma la persona non ha mai smesso di
interrogarsi sul senso di tutto. Senza credere in Dio, dice il filosofo tedesco Robert Spaemann,
l’uomo ci perde: è meno libero. Perché ne va della ricerca della
verità e del suo fine e dunque dell’io stesso che domanda. Ma è il cristianesimo la risposta definitiva alla ricerca, «non solo perché ipotesi di un altro mondo o di un'altra visione della realtà - dice Spaemann - ma perché la Verità si è fatta carne».
Da chi viene oggi il vero attacco contro Dio e la religione?
In
ogni tempo della storia ci sono state cause e motivi diversi che
hanno provocato le più svariate domande circa l’esistenza di Dio.
Sebbene in molti lo sostengano, oggi il problema non mi sembra che
riguardi come l’uomo possa venir liberato dagli obblighi della
religione. In realtà la maggior parte delle persone, più o meno inconsapevolmente, fa esperienza di una minaccia della propria libertà da parte della scienza e della tecnologia. Le scienze naturali hanno sempre di più espanso il loro dominio negli ambiti della vita delle persone.
Il progresso delle scienze sperimentali non è “innocente”?
Purtroppo i mezzi di questo dominio sono anche mezzi di potere sull’uomo e, soprattutto, del potere di uomini su altri uomini.
Tale dominio sull’uomo ha raggiunto oggi confini enormi e minacciosi,
come la possibilità che abbiamo, o presto avremo, di incidere
geneticamente sul profilo biologico di una persona. Oppure pensiamo alle neuroscienze il cui principale intento è quello di dimostrarci che la nostra libertà e il nostro libero arbitrio sono un’illusione. Le
estreme conseguenze di questa logica potrebbero portarci a
imprigionare tutti coloro il cui profilo genetico e neurologico
descrive come potenziali criminali.
E come entra in gioco Dio?
La fede in Dio in questo contesto equivale alla libertà dell’uomo. Libertà intesa come ricerca della verità. In questa ricerca l’Illuminismo ha cercato di sostituire totalmente la fede con la ragione, ma proprio qui risiede il grande errore dell’Illuminismo: l’aver negato a priori la validità della fede come elemento per raggiungere la verità. Come ultima conseguenza lo scientismo
ha contestato poi il fatto che la ragione abbia a che fare con la
verità, circoscrivendo la ragione a un ambito puramente empirico. Mentre è la fede, come apertura alla realtà, l’unica vera compagna della ragione.
In queste sue risposte si avverte l’eco della critica che Horkheimer e Adorno fecero nei confronti dell’Illuminismo (cfr ilsussidiario.net 18-3-2009). Come spiega però la coesistenza dei dogmi dello scientismo e dell’assenza di verità proclamata dal relativismo?
Come dicevo, lo scientismo
riduce la ragione a un solo ambito circoscritto. Una verità che valga
per tutti è negata anche dallo scientismo. In questo modo lo
scientismo si può conciliare con il relativismo. Nietzsche è stato il primo a portare agli estremi la conseguenza di questo ragionamento. Se non c’è Dio e non c’è la Verità possono esistere solo le prospettive di ogni singola persona. Non esiste una prospettiva “universale”. E Rorty, neopragmatico, lo ha ribadito sinteticamente: “desiderare la verità significa credere in Dio, infatti non c’è la verità”. Naturalmente è vero che lo scientismo pretende per sé che le proprie tesi siano verità. Il suo successo viene nutrito dai passi avanti che quotidianamente fa la scienza. Utilizza i progressi scientifici per propagandare l’illusione che la scienza sappia totalmente definire l’uomo.
Nel
suo recente discorso al convegno della Cei lei si domanda «di quale
tipo è la realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità». E
pone la questione come obiezione al relativismo. Potrebbe spiegare la
centralità di questo ragionamento?
Il passato rimane vero così come questa intervista è stata fatta e rimarrà tale per milioni di anni, per sempre.
Questa di primo acchito è una risposta al relativismo. Perché nessuno
potrà negare che ci sia stata: c’è stata punto e basta. Ma qui scatta
il vero problema dell’interpretazione soggettiva. Oggi siamo propensi come mentalità comune a pensare che un evento è accaduto per come lo si è vissuto.
Se si fosse conseguenti una persona potrebbe dichiarare «ho mal di
testa» e quindi un’altra iniziare a contraddire dicendo: «per come ti
sento io, non hai mal di testa». In realtà perdiamo così di vista il
fatto in sé, l’evento. In questo senso la mia domanda punta alla verità innegabile sulla natura di un evento, di qualcosa che è accaduto.
A
proposito di mentalità comune. Nel suo ultimo libro lei punta il dito
in particolare contro Rousseau nell’evidenziare gli errori della
modernità.
In realtà la mia opinione su Rousseau non è del tutto negativa. In lui indico piuttosto la sintesi dell’uomo moderno, l’esaltazione della soggettività di cui parlavo anche prima. E la stessa figura di Rousseau è percepita soggettivamente. Egli
è sia un eroe della rivoluzione sia della controrivoluzione; per
qualsiasi lato lo si prenda può essere insignito come paladino. In
questo senso Lévi-Strauss, recentemente scomparso, ha giustamente
detto che Rousseau è il padre di tutti.
Quindi un modello, ma certamente non un’origine. A quali cause lei fa invece risalire il pensiero moderno?
Gli aspetti sono naturalmente molteplici. Se devo trovare però una radice comune sarei propenso a indicare l’abbandono totale della visione teleologica della realtà, la disillusione dal fatto che la realtà abbia un fine. Questa
visione comincia già nel tardo Medioevo. Francis Bacon è il primo ad
affermare che il considerare le cose per il loro fine non ci serve
assolutamente a nulla. Thomas Hobbes sostiene che conoscere un oggetto
significa sapere cosa ne dobbiamo fare se lo possediamo. Di
qui è derivato l’abbandono del rapporto contemplativo con la realtà e
il conseguente tentativo di dominarla da parte dell’uomo.
La scienza non ha alcun merito?
Tutt’altro. I
meriti della scienza e della visione scientifica sono innegabili,
hanno alleggerito di molto il lavoro e le sofferenze dell’uomo. Ma la
pretesa scientistica di assurgere a unico tipo di conoscenza
possibile ha messo da parte un altro tipo di rapporto con la realtà,
altrettanto fondamentale.
Per
quale motivo lei vede nella Chiesa Cattolica l’unica risposta alle
minacce dell’epoca moderna nei confronti dell’umanità?
Bisogna fare chiarezza. Credo che molte
persone vivano l’esperienza di un enorme malessere nei confronti del
dominio della tecnica, nella perdita di valori e del senso
dell’esistenza. Prima abbiamo
parlato di Horkheimer. Ebbene io sono totalmente d’accordo con la
critica da lui mossa nei confronti dell’Illuminismo, sposo quasi in
tutto la sua visione. Il problema è che nel pensiero di Horkheimer non
c’è terapia, non c’è soluzione. C’è l’“hotel abisso” a Francoforte,
come diceva Ernst Bloch. La critica riguarda solo l’aspetto distruttivo. Il
cristianesimo è la risposta non solo perché ipotesi di un altro mondo
o di un'altra visione della realtà, ma perché la Verità si è fatta
carne. È un fatto di cui la Chiesa rende testimonianza e che rende unica l’esperienza di risposta alle domande dell’uomo.
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Postato da: giacabi a 08:00 |
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ragione, cristianesimo, spaeman, scienza - articoli
Il cristianesimo
non è un’ideologia
ma una testimonianza viva
***
«Il
punto centrale è che il cristianesimo non lo difendi brandendolo come
un’ideologia, ma testimoniandolo nella vita quotidiana come risposta
ai bisogni dell’uomo. La
grande forza del cristianesimo, quella che colpisce e “contagia” il
prossimo che incontriamo, è la possibilità per l’uomo di sperimentare
una novità di vita».
«Quello
che fa andare avanti il cristianesimo - continua - è la testimonianza
viva di persone come il Papa, come Madre Teresa, don Giussani, don
Gnocchi. Sono le vite concrete che ci fanno capire che Cristo non è
una cosa di duemila anni fa, ma una cosa viva oggi.
Penso all’esperienza di Rose Busingye, un’infermiera ugandese che a
Kampala prende donne malate di Aids e ridà loro una speranza. E loro
ricominciano a vivere. Qualche anno fa queste donne malate decisero di
spaccare pietre gratis per poter donare tremila dollari agli
alluvionati di New Orleans, cioè a gente della ricca America. Il
console statunitense obiettò: ma voi non dovete aiutarci perché siete
povere. E loro hanno risposto: ma scusi, lei pensa che noi non possiamo
vivere la carità perché siamo povere?».
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Postato da: giacabi a 21:48 |
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cristianesimo, vittadini
***
Pigi Colognesi
lunedì 23 novembre 2009
Terminavo
l’editoriale di quindici giorni fa con alcune frasi in cui Charles
Péguy spiegava che cosa sia una vera rivoluzione, cioè un movimento di
uomini che costruiscono per il benessere di tutti e che quindi
segnano una svolta nel cammino della storia.
Lo scrittore francese diceva che una
rivoluzione autentica è «l’effetto ben ordinato di una lunga e
invincibile pazienza» ed è fatta da «grandi uomini di grande vita
interiore».
Un esempio luminosissimo è l’abbazia di Cluny, della quale sono
iniziati lo scorso mese di settembre le celebrazioni per i mille e
cento anni di fondazione.
Era
infatti il 910 quando Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania, firmava la
carta di donazione di un terreno perché vi sorgesse un monastero che
vivesse in pienezza e libertà la regola di san Benedetto.
In pienezza, cioè senza nessuna edulcorazione degli impegni ascetici,
altrove poco rispettati. In libertà, cioè senza intromissioni dei
poteri esterni, né quelli civili, né quelli ecclesiastici a volte
succubi dei primi.
A
questo scopo Guglielmo pose il nascente monastero dei santi Pietro e
Paolo di Cluny direttamente alle dipendenze del Papa. A dirigere la nuova impresa il duca chiamò un monaco deciso e di provata esperienza: Bernone.
Nessuno
poteva allora immaginare che la piccola fondazione monastica situata
nel cuore della Borgogna sarebbe stata l’inizio di una rivoluzione. Ma
è quel che avvenne. Lo stile di vita dei monaci raccolti intorno a Bernone suscitò in molti il desiderio di imitarli.
Sorsero
nuovi priorati e antiche abbazia si affiliarono a Cluny assumendone
lo stile di vita, fondato sulla priorità assoluta data alla preghiera
comune, intesa come anticipo della gloriosa liturgia del cielo. Nel
giro di pochi decenni Cluny si trovò a capo di una rete impressionante:
circa duemila monasteri diffusi in tutta la cristianità e, secondo le
stime meno azzardate, ventimila monaci.
Gli
storici si sono chiesti quale fosse il motivo di un simile
straordinario sviluppo. Le risposte sono state tante, ma quella che mi
pare più convincente è quella offerta da Raymond Oursel nel suo
splendido Il
segreto di Cluny. Certo è stato decisivo che l’abbazia fosse slegata
dal potere locale; è stata importante la saggia amministrazione di chi
l’ha guidata e la forma della rete di monasteri legati ad un unico
abate.
Ma
il vero segreto di Cluny è stata la santità dei suoi abati. Sì,
proprio la santità personale di uomini che hanno vissuto, coi
differenti temperamenti e coi diversi doni loro dati dalla natura,
l’ideale monastico ha reso possibile costruire un luogo dove regnava,
per usare le parole di Oursel, «reciproca concordia, vicendevole
aiuto, gioia quotidiana», che «sfociavano nell’indulgenza e nella
compassione verso gli altri».
Il
luogo di una civiltà autenticamente umana, di una rivoluzione
compiuta. Vale proprio la pena di elencare i nomi di questi primi grandi
abati di Cluny, che furono in gran parte canonizzati: Bernone, Odone,
Aimardo, Maiolo, Odilone, Ugo, Pietro.
La chiesa di Cluny all’apice del suo splendore era la più grande di tutta la cristianità; sarebbe
stata superata solo dalla rinascimentale basilica vaticana. Il
turista che ci andasse oggi troverebbe però solo dei resti: un
campanile e mozziconi di colonne. I
fanatici di un’altra “rivoluzione”, quella “francese” del 1789,
stabilirono che quell’imponente edificio doveva essere considerato
come una cava di pietra e tutti potevano estrarne materiale per le
proprie costruzioni.
Cluny
moriva così. Ma era già morta da quando invece della santità era
subentrato il calcolo politico, invece della preghiera
l’amministrazione, al posto della concordia l’equilibrismo sociale.
Anche la più autentica delle rivoluzioni può spegnersi. Ma non si
spegne il messaggio e la ricchezza esemplare del suo originale
sgorgare.
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Postato da: giacabi a 22:36 |
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cristianesimo
Romano Scalfi: vi racconto la resistenza della Chiesa clandestina in URSS
***
Romano Scalfi
lunedì 23 novembre 2009
Oggi
è alla portata di tutti, in Russia come da noi, conoscere le vicende
della persecuzione contro la Chiesa e la fede nell’Urss ad opera del
comunismo sovietico; sempre che si sia interessati all’argomento.
Non
si può dire altrettanto dell’attività della Chiesa clandestina, di
cui si sapeva poco e molto confusamente. L’impressione generale era
che si trattasse di un fenomeno di poca rilevanza. A sfatare questa
opinione è uscito recentemente a Mosca il libro di Aleksej Beglov,
membro dell’Accademia delle Scienze, noto studioso del fenomeno
religioso che ha il merito di aver attinto largamente ai documenti
segreti del Soviet per gli affari della religione.
Dal
suo testo risulta che la Chiesa ortodossa russa, così ricca di
martiri, non ha accettato passivamente la persecuzione, ma è stata
molto feconda nell’inventare metodi sempre nuovi per conservare la
fede.
I
primi “monasteri domestici” nascono già nel 1920 e si diffondono
sempre più con la progressiva chiusura dei monasteri da parte dei
comunisti. In un primo tempo i monaci scacciati dalle loro sedi
trovano ospitalità singolarmente in famiglie private, ma ben presto,
per ricomporre la comunità monastica cercano di sistemarsi in gruppi
da tre fino a venti persone. Ogni monaco svolge un lavoro nella
società civile a seconda delle proprie attitudini, e alla sera si
ricompone la vita claustrale. I monasteri domestici, almeno
inizialmente, fanno di tutto per conservare stretti rapporti con i
superiori dell’ex monastero, ma con l’intensificarsi della
persecuzione i legami si indeboliscono fino al punto che la
maggioranza dei monasteri domestici è costretta a gestirsi
autonomamente.
Prima
dell’ottobre 1917 monaci e monache erano 94.477. Nella prima metà
degli anni 1920 i monasteri domestici raccolgono circa 30.000 persone;
soprattutto la parte occidentale del paese è coperta da una rete di
monasteri clandestini.
Contemporaneamente
ai monasteri domestici nascono delle comunità catacombali, che non
provengono da monasteri preesistenti ma sono formate da giovani
preoccupati di vivere seriamente la propria vita spirituale. Del
resto in questo periodo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare,
con l’incalzare della persecuzione crescono le vocazioni monastiche e
sacerdotali. Nello stesso tempo si registra il
ritorno alla Chiesa di diversi intellettuali, prima affascinati e poi
delusi dall’utopismo leninista.
Le
comunità catacombali giovanili sono meno legate alla regola monastica
e più disposte al lavoro pastorale nelle parrocchie (là dove la
chiesa è aperta) o in sostituzione della parrocchia quando la chiesa è
stata chiusa. Le
più famose sono le comunità illegali di Leningrado, promosse dal
metropolita Veniamin Kazanskij, in seguito fucilato (1873-1922), e la
comunità di Mosca guidata dall’arcivescovo Varfolomej Remov (1888-1935)
passato poi alla Chiesa cattolica e pure lui fucilato. Nel 1930 la
comunità arriva a contare 200 membri, impegnati per lo più nella
parrocchia di San Pietro; alcuni vescovi sostengono clandestinamente
le comunità illegali in varie città: Petr Ladygin (a Orenburg), Filipp
Gumilevskij e Pitirim Krylov (a Mosca), Aleksandr Trapicyn (a
Samara), Arsenij, Stadnickij (a Taskent). In base ai dati si può
affermare che l’episcopato ufficiale negli anni 1920-1930 non solo
giudicava positivamente la clandestinità cristiana, ma, nei limiti del
possibile, la sosteneva anche. La cattedra patriarcale era certamente al corrente del rapporto dei vescovi con le comunità clandestine e lo approvava.
Un
altro settore della vita clandestina della Chiesa sono “le parrocchie
non registrate”. Al primo settembre 1936 nella Repubblica russa le
chiese chiuse sono il 64,4 % del totale, in Ucraina il 90 %, in
Bielorussia l’89,1 %. Per questo, dal
1930 in poi, in seguito alla chiusura di moltissime chiese, la
fondazione di parrocchie clandestine diventa una faccenda normale:
quando una chiesa viene chiusa e la comunità parrocchiale smembrata, i
fedeli rimasti continuano a radunarsi in preghiera nelle case private,
oppure all’aperto. Se è presente un sacerdote (anche clandestino),
amministra i sacramenti, altrimenti a dirigere la comunità può essere
un diacono, una monaca o un semplice fedele.
Nel
1916 le parrocchie ortodosse in Russia erano 35.825, nel 1939 quelle
legali sono ridotte a 100, mentre quelle illegali sono 4.153.
Nell’anno 1937 il Soviet per gli affari religiosi è costretto a
constatare che: “I credenti di fede ortodossa hanno incominciato a
riunirsi per conversare, leggere libri religiosi, soprattutto dove sono
state chiuse le chiese”.
Anche
nella vita clandestina non tutto funziona al meglio. La mancanza di
un’autorità centrale effettiva che possa garantire l’unità pur nella
varietà delle sue espressioni lascia alle comunità un’autonomia che in
certi casi finisce per essere in contrasto con la dottrina della
Chiesa.
Nel
1944 il partito decide di mandare al confino nelle estreme regioni
orientale 1.500 membri della Chiesa dei “veri cristiani ortodossi”.
Appartengono a un gruppo staccatosi dalla Chiesa ufficiale perché
compromessa con il regime comunista considerato l’incarnazione
dell’Anticristo. Predicano l’imminente fine del mondo ed arrivano a
dichiarare la Chiesa ortodossa ufficiale serva dell’Anticristo. Partendo
da questa posizione esasperata sentono il dovere di boicottare tutte
le iniziative del governo. Per loro è opera dell’Anticristo andare a
votare, avere il passaporto sovietico, ascoltare la radio, andare al
cinema, pagare le tasse e perfino frequentale le chiese legalizzate
dal governo.
Il
fondamentalismo è sempre segnato, in tutte le correnti e in tutte le
ideologie, dall’ossessione di dover innanzitutto condannare il nemico,
addossare a lui ogni colpa per autogiustificarsi con maggior
facilità; tende a esaurirsi nella protesta illudendosi che qui si
manifesti la vera creatività dell’uomo. In
questo senso i “veri cristiani ortodossi” non si rendono conto di
avere molto in comune con gli ideologi del comunismo, dei quali
acutamente aveva profetizzato Dostoevskij: «Arditi
nella denuncia, eunuchi nella creatività. Sono capaci di distruggere
il mondo, ma incapaci di costruire una catapecchia».
Anche
nel ricco alveo della clandestinità cristiana in Russia, dunque, chi
ha ceduto all’esasperata condanna del nemico ha finito per vanificare
le migliori intenzioni, condannando se stesso alla sterilità.
da : http://www.ilsussidiario.net |
Postato da: giacabi a 22:18 |
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comunismo, dostoevskij, cristianesimo
***
Dio è lontano,
Cristo resta nel passato,
l'evangelo è lettera morta,
la chiesa una semplice organizzazione,
l'autorità dominio,
la missione propaganda,
il culto un'evocazione
e l'agire cristiano una morale da schiavi.
Ma in lui
Il cosmo si solleva
E geme nelle doglie del regno,
Cristo risorto è presente,
l'evangelo è potenza di vita,
la chiesa significa comunione trinitaria,
l'autorità è servizio liberante,
la missione è Pentecoste,
la liturgia è memoria e anticipazione,
l'agire umano è deificato.
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Postato da: giacabi a 07:53 |
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cristianesimo
***
Il Cristianesimo ridotto ai valori, ridotto a dottrina ridotto, ad una morale, ad una coerenza è una cosa insopportabile perché se non c'è l'Avvenimento, è insopportabile.
Jesùs Carrascosa - 29/11/2004 - Sala Saturnia - Trieste
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Postato da: giacabi a 20:08 |
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cristianesimo, avvenimento
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“Nella semplicità del cuore, ti offro tutto lietamente, Signore”
***
“La volontà di Dio, qualunque essa sia: questa è la mia gioia, la mia felicità, la mia pace.”
BEATA M.GABRIELLA SAGHEDDU
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Postato da: giacabi a 06:39 |
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perle, desiderio, santi, cristianesimo
SONO FAVOREVOLE ALL'ORA DI RELIGIONE NELLE SCUOLE.
CHI NON VUOLE SI ASSENTI
***
"Le può sembrare strano, ma sono favorevole all'ora di religione nella scuola come una volta ": lo afferma Antonello Venditti. E spiega: " l'insegnamento
della religione cristiana ha sempre fatto parte della nostra cultura,
delle nostre tradizioni, delle radici cristiane della nostra Italia e
non vedo la ragione per la quale si debba discutere.
Io sono favorevole da questo punto di vista al concordato. Coloro i
quali non vogliono seguirla, possono serenamente farne a meno senza
alcuna discriminazione". Si ferma un attimo e aggiunge: " confermo
quanto dicevo poco prima, ricordando una mia canzone nella quale
identificavo la scuola con tre simboli, la foto del presidente della Repubblica, il maestro e la croce. Ogni
battaglia tendente a eliminare simboli cari alla nostra tradizione, che
è quella cristiana, mi sembra assolutamente intollerante. Nessuno ha mai imposto la religione cattolica agli altri, ma anche loro rispettino le nostre credenze.
Forse si potrebbe allargare ad un insegnamento della storia delle
religioni,ma un poco di cultura cattolica non ha mai ammazzato nessuno".
Lei è un affermato uomo di spettacolo e proprio lo spettacolo con tanto
gossip è finito nell'occhio del ciclone, che cosa sta accadendo?: " che
questa televisione, bisogna parlare chiaro, non ha nulla di
cristiano,insegna i controvalori delle veline e la ricerca della
raccomandazione costi quel che costi.. Oggi la stessa famiglia non basta
più. Quando esistono sistemi come internet, che se mal utilizzati
producono effetti devastanti". Come spiega il fatto, per la verità
insolito, che lei non è stato quasi mai coinvolto nel gossip?: " penso
che alcune volte questo meccanismo piaccia e faccia gioco agli stessi
interessati. Nei limiti del possibile con prudenza cerco di evitare
questo brutto mondo che, lo ribadisco, ha poco di cristiano e sa
travolgere tutto nel nome di un successo effimero e bugiardo. Questa tv
delle veline e della nudità è lontana da Dio e dalla reale identità
cristiana, dispiace dirlo". Venditti, lei si sente peccatore?: " e
quando mai sono stato perfetto?. Anzi dico che il peccato non debba
essere abolito. Senza il peccato l'uomo è imperfetto.Io sono un grande
peccatore, ma mi piace ricordare che nella storia della Chiesa tanti
santi sono stati peccatori impenitenti ed hanno saputo regire alla
tentazione del peccato con la grazia della santità". Che
cosa pensa di Giovanni Paolo II?:" un grande uomo. Non mi interessa il
suo lato politico o storico, questo tema lo lascio agli esperti. Io vedo
la sua enorme spiritualità, fu un grande. Mi ha colpito la sua
vecchiaia, il modo in cui la ha affrontata. Cristo non è stato vecchio,
Giovanni Paolo II sì. Bene attraverso la sua vecchiaia, Cristo si è come materializzato nella fragile figura di Giovanni Paolo II". Tema immigrazione, che pensa?:" la carità deve superare ogni barriera. L'amore, la solidarietà vengono prima di ogni legge umana. Certo, poi si discuta, ma non salvare vite umane di disperati e derelitti è un grave peccato".
- Bruno Volpe - http://www.pontifex.roma.it/
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Postato da: giacabi a 09:28 |
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cristianesimo
La Spagna cattolica ha un nuovo araldo:
Juan Manuel de Prada
***
Da scrittore affermato a strenuo apologeta della Chiesa e del papa, anche su "L'Osservatore Romano".
La sua è una delle tante storie di conversione dall'incredulità alla
fede cristiana, in Europa. Contro la "tirannia" progressista
di Sandro Magister
ROMA,
12 ottobre 2009 – È nelle librerie da alcuni giorni in Italia una
raccolta di interviste con dei convertiti alla fede cattolica, alcuni di
grande notorietà: dal francese Jean-Claude Guillebaud alla norvegese
Janne Haaland Matlary, già viceministro degli esteri del suo paese ed
autrice di libri tradotti in più lingue, uno dei quali con la prefazione
dell'allora cardinale Joseph Ratzinger.
La raccolta di interviste, edita da Lindau, ha per autore Lorenzo Fazzini e per titolo: "Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione". Ma anche "L'Osservatore Romano", il giornale della Santa Sede, ha tra le sue firme di spicco un celebre convertito. È lo scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, qui sopra fotografato con la copertina-manifesto del romanzo che nel 2003 ne consacrò definitivamente il successo: "La vida invisible". De Prada, 39 anni, ha raccolto nel suo ultimo libro gli articoli "di battaglia" che egli ha scritto in difesa del cattolicesimo non solo sui giornali spagnoli "ABC" e "XL Semanal", ma anche su "L'Osservatore Romano", di cui è collaboratore dal 2007. In soli cinque mesi il libro è giunto in Spagna alla quinta edizione. Da un mese, de Prada è anche una delle voci principali di "Cope", la più importante radio cattolica spagnola. Il 2 ottobre scorso "L'Osservatore Romano" ha tradotto e riprodotto la prefazione del libro. In essa, de Prada ricorda come e quando in lui "cambiò il corso della vita". Era la primavera del 2005, erano i giorni della morte di Giovanni Paolo II. De Prada si trovava a Roma e "all'improvviso" volle aderire definitivamente a quella "vecchia libertà" che è il tesoro religioso e culturale della Chiesa cattolica: una libertà che è "l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo". Il libro, infatti, si intitola proprio così: "La nueva tiranía. El sentido común frente al Mátrix progre". La "Matrice progressista" è il nome che de Prada dà al grande inganno che egli vede in opera nella cultura dominante in Europa: "Le dittature del passato reprimevano le libertà personali. Quelle moderne inducono l'uomo ad adorare se stesso e a negare così la sua natura". E ancora scrive: "La battaglia che oggi s'ingaggia tende a restituire agli uomini la loro autentica natura. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo". Ecco qui di seguito la traduzione integrale – a cura de "L'Osservatore Romano" – della prefazione a "La nueva tiranía". Il testo originale è nell'edizione spagnola di questa stessa pagina di www.chiesa. De Prada ha dedicato questo suo libro all'amico Giovanni Maria Vian, direttore del "giornale del papa". __________ La matrice progressista della nuova tirannia di Juan Manuel de Prada "Come si può parlare di 'nuova tirannia', quando mai prima d'ora gli uomini hanno goduto di tanta libertà e tanti diritti?", potrebbe chiedersi un lettore sprovveduto. Le tirannie classiche, in effetti, si caratterizzavano per il fatto di reprimere la libertà e negare i diritti. Gli uomini avevano coscienza di tale usurpazione perché, privati di qualcosa che apparteneva loro per natura, si sentivano sminuiti. La nuova tirannia a cui ci riferiamo, invece, esalta l'uomo fino all'adorazione, dandogli l'opportunità di trasformare i propri interessi e i propri desideri in libertà e diritti, che però non sono più inerenti alla sua natura, ma diventano "gentili concessioni" di un potere che li consacra legalmente. E così, trasformato in un bambino che contempla i suoi capricci mentre vengono ingigantiti e soddisfatti, l'uomo del nostro tempo è più che mai ostaggio di istanze di potere che gli garantiscono il godimento di una libertà onnicomprensiva e diritti in continua espansione. Nelle tirannie classiche al suddito restava almeno la consolazione di sapersi oppresso da un potere che violentava la sua natura; chi è sottomesso a questa nuova tirannia non ha invece altra consolazione che la protezione dello stesso potere che lo ha innalzato sull'altare dell'adorazione. E così l'uomo è divenuto, senza neanche rendersene conto, uno strumento nelle mani di chi lo accudisce con minuziosa cura, come le formiche accudiscono i gorgoglioni prima di mungerli. In cambio di queste "gentili concessioni", l'uomo accetta una visione egemonica del mondo che gli viene imposto e lo trasforma in oggetto d'ingegneria sociale. Chiameremo Matrice progressista questa visione egemonica: un miraggio, una grande illusione o trompe-l'oeil che viene accettata con spirito gregario. Chi osa mettere in dubbio il trompe-l'oeil è immediatamente raggiunto da anatemi, è considerato un reprobo o un blasfemo, un nemico dell'adorazione dell'uomo. La Matrice progressista, utilizzata dalla sinistra, è stata assimilata anche dalla destra, che ha rinunciato a dare battaglia laddove il confronto con l'avversario risulterebbe efficace e lusinghiero: nell'ambito dei principi. Nel suo claudicare, la destra si limita a introdurre varianti insignificanti nel funzionamento della grande macchina, ma non osa utilizzarne gli ingranaggi. Il che è come arare senza buoi. La Matrice progressista è così diventata una specie di fede messianica; ha instaurato un nuovo ordine, ha imposto paradigmi culturali inattaccabili, ha stabilito una nuova antropologia che, promettendo all'uomo la liberazione finale, gli riserva solo il futuro suicidio. E contro questo nuovo ordine, si erge solo l'ordine religioso, che restituisce all'uomo la sua vera natura e gli propone una visione corretta del mondo che mina le fondamenta del trompe-l'oeil su cui poggia la nuova tirannia, dissolvendo le sue falsificazioni. Una visione che il potere combatte con grande sforzo, essendo l'ordine religioso l'unica fortezza che gli resta da espugnare prima che il suo trionfo sia completo. Il laicismo rampante accusa la Chiesa di mischiarsi nella politica, adducendo a pretesto quella sentenza evangelica che sono soliti sbandierare quanti non leggono il Vangelo: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Ma, cos'è proprio di Cesare? Le cose temporali, le realtà terrene; ma non, naturalmente, i principi di ordine morale che nascono dalla stessa natura umana, non i fondamenti etici dell'ordine temporale. La nuova tirannia, tanto attenta a espandere le "libertà" dei suoi sudditi, nega alla Chiesa quella di giudicare la moralità delle azioni temporali, poiché sa che tale giudizio include un radicale sovvertimento del trompe-l'oeil su cui sui fonda la sua stessa esistenza. Il potere anela una Chiesa farisaica e corrotta che rinunci a restituire all'umanità la sua vera natura e accetti quel "mistero d'iniquità" che è l'adorazione dell'uomo; spera in una Chiesa posta in ginocchio dinanzi a Cesare, trasformata in quella "grande meretrice che fornica con i re della terra" di cui parla l'Apocalisse. Oggi in Occidente si sta ingaggiando questo grande scontro, che la nuova tirannia maschera molto abilmente da "battaglia ideologica". Ma se questa fosse veramente una "battaglia ideologica", il potere non la considererebbe un sovvertimento; poiché l'ideologia è proprio il terreno fertile che favorisce il suo dominio, in quanto instaura una "demo-rissa", cioè una lotta "democratica" di tutti contro tutti, capace di trasformare gli uomini in bambini indispettiti che lottano per le loro "libertà" e i loro "diritti", così come i costruttori di Babele lottavano, in mezzo alla confusione, per erigere una torre che raggiungesse il cielo. La battaglia che oggi s'ingaggia non è ideologica, ma antropologica, poiché tende a restituire agli uomini la loro autentica natura, permettendo loro di uscire dalla confusione babelica fomentata dall'ideologia, fino a raggiungere il cammino che conduce ai principi originali. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo. Gli articoli raccolti in questo volume sono bollettini di questa battaglia, emessi dalle tribune che benevolmente il giornale "ABC" e la rivista "XL Semanal" mi concedono ormai da più di 13 anni, e che "L'Osservatore Romano", "Capital" e "Padres y Colegios" hanno inaugurato da poco. Il lettore curioso constaterà che in questi "bollettini di battaglia" convivono la diatriba e l'introspezione, l'invettiva e l'elegia, la riflessione di indole politica e la divagazione artistica; troverà persino una selezione di cronache scritte in una primavera romana che cambiò il corso della mia vita, poiché fu allora – nei giorni che seguirono la morte di Giovanni Paolo II – che aderii definitivamente alla "vecchia libertà", l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo. In un'epoca di incertezze che lasciano l'uomo smarrito in un oceano d'inquietudini, Roma si erse dinanzi a me, all'improvviso, come uno scoglio di salvezza: non mi riferisco solo alla salvezza religiosa, ma anche a quella culturale, poiché considero la fede di Roma una fortezza che chiarisce i termini della nostra genealogia spirituale e ci difende dalle intemperie nelle quali vorrebbe gettarci la nuova tirannia. Rinnegare questo illimitato possesso equivale a firmare un atto di morte sociale; assumerlo come proprio non costituisce un atto di sottomissione, ma di orgogliosa e gioiosa libertà. La rivoluzione eterna del cristianesimo consiste nel rivelarci il significato della vita, restituendoci la nostra natura; da questa scoperta nasce una gioia senza data di scadenza. Quando a questa gioia si aggiunge una minima sensibilità artistica, la vita diviene una festa dell'intelligenza. Scriveva Chesterton che la gioia, che è la piccola pubblicità del pagano, diveniva il gigantesco segreto del cristiano. Io, che sono un cristiano un po' impudico, ho cercato di rendere pubblico in questi articoli, o almeno di far intravedere, questo segreto gigantesco che m'invade e mi trascende. Madrid, marzo 2009 da:www.chiesa.espressonline.it |
Postato da: giacabi a 15:05 |
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laicismo, cristianesimo
Da Wall Street a monaco di periferia
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Henry Quinson
Un
curriculum eccellente, di quelli che fanno gola alle multinazionali
(crisi o non crisi). Triangolazioni continue Parigi, New York, Londra.
L’appartamento parigino, con tanto di vista sulla torre Eiffel. Le porte
di Wall Street che si spalancano. La vertigine che viene dal manovrare
miliardi. La sicurezza che deriva da una competenza costruita con
intelligenza e dedizione. E il conto in banca che lievita, assieme alle
luccicanti promesse del futuro. Un edificio perfetto quello costruito,
mattone dopo mattone, da Henry Quinson.
Agli occhi di tutti – amici, parenti, colleghi – il giovane trader è l’incarnazione dell’uomo di successo. Pur entrando nella stanza dei bottoni di uno degli istituti di credito francesi più importanti, la banca Indosuez, Quinson – franco-americano, classe 1961 – non conosce la voracità del "conquistatore". Il suo profilo non si accorda a quel particolare identikit di manager (la recente crisi che ha infettato le economie di mezzo mondo ne ha svelati tanti), disposto anche a truccare le carte. Anni dopo, quando la sua vita sarà rivoltata come un guanto, Henry Quinson mette a fuoco la sua "malattia", il tarlo che rosicchiava quella vita apparentemente perfetta, l’inquietudine che gli impediva di godere pienamente dei suoi successi. Con candore lo chiama un «handicap spirituale». La sete di ricchezza si sbriciola, l’ansia di potere scoppia come una bolla di fronte a un’invasione che Quinson sperimenta come «una pace indicibile»: la forza della preghiera. Ma all’ex manager non basta essere un religioso, vuole essere un «innamorato». «È – scrive nel suo diario-testimonianza, Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un banchiere di Wall Street diventato monaco di periferia, San Paolo, pag. 214, euro 18) – una cosa assolutamente folle: devo abbandonare tutto per Lui». Dell’uomo che nel 1989 mieteva successi nel mondo – competitivo fino al cannibalismo – della finanza oggi non c’è più quasi traccia. L’agente di Wall Street si è dissolto. Al suo posto c’è il monaco. Monaco «di periferia», come si definisce. Una folgorazione? Piuttosto una scalata. Faticosa. A tratti incerta. Accompagnata da un lavorio intellettuale, un’indagine che lo porta a sperimentare, a entrare nel monastero di Tamié, a soggiornare nella comunità di Bose, a chiedersi continuamente quale sia la propria strada. Quinson si sente sospeso tra la scelta monastica e il tormento per il mondo che lo inchioda e, al tempo stesso, lo spaventa. Una ricerca che finalmente scopre il suo approdo. Marsiglia. Le periferie ingrossate dall’arrivo di immigrati, in gran parte magrebini. Zone di confine nelle quali l’islam diventa ogni giorno di più aggressivo. Quella «linea sismica» lungo la quale Nord e Sud del mondo si annusano, si scontrano, si compenetrano. Degrado. Disoccupazione. Povertà. Sono i mali che si annidano dietro quei casermoni tutti uguali, nei quali ogni idea di bellezza è congedata, nati come soluzione architettonica provvisoria, ma diventati nel tempo «ricettacolo» delle successive ondate migratorie. L’analisi del monaco-banchiere è lucida: le periferie sono il luogo nel quale finiscono per sommarsi «le logiche tribali», delle quali spesso sono portatori gli immigrati, e «la cultura individualista dell’Occidente», una cultura che riduce tutto a guadagno. Come agire? Come trasformare i guasti in risorse? La risposta è netta: mettersi alla pari con chi nelle periferie vive e lotta. Niente superiorità, niente altezzose distanze. Piuttosto sperimentare – giorno per giorno – la vicinanza. Ecco la strada che il monaco sente appartenergli intimamente: fondare una fraternità, la cui prima regola è l’accoglienza. Quinson sa che solo la mutua conoscenza può annullare quella visione dell’altro dietro la quel spesso ci abbarbichiamo, una visione troppe volte «caricaturale, ideologica». Obiettivo numero uno: i giovani. Recuperarli, puntando sull’insegnamento. La lingua è la prima barriera da abbattere: un muro che finisce per separare non solo alunni e genitori tra i banchi di scuola, ma – all’interno delle stesse famiglie – figli e genitori. L’altro punto di forza: la comunione. Dall’isolamento, dalla non conoscenza nasce la diffidenza, l’odio. La ricetta è mescolare i mondi, favorire gli incontri. Ecco allora il programma del monaco delle periferie farsi regola di vita: «Comunione nelle prove difficili e nel reciproco perdono, comunione della preghiera fraterna e nell’accoglienza del prossimo». Wall Street non abita più qui.
di Luca Miele, tratto da [Avvenire.it] 25 settembre 2009
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Postato da: giacabi a 15:20 |
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testimonianza, cristianesimo
Il cristianesimo
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Se il Cristianesimo viene spogliato delle cosiddette sue assurdità, per renderlo gradito al mondo e adatto all’esercizio del potere,cosa rimane?
Voi
sapete che la ragionevolezza, e il buon senso, le virtù naturali
esistevano già prima di Cristo e che si trovano anche ora presso molti
non cristiani. Che
cosa ci ha portato Cristo in più? Appunto alcune apparenti assurdità:
amate la povertà,amate gli umiliati ed offesi, amate i vostri nemici,
non preoccupatevi del potere e della carriera,degli onori, delle cose
effimere indegne di uomini immortali.
Ignazio Silone – L’avventura di un povero cristiano
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Postato da: giacabi a 15:33 |
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cristianesimo
In principio era la carne
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da: www.avvenire.it 09.09.2009)
Esce
in Italia il libro del filosofo Fabrice Hadjadj che rivaluta la
teologia del corpo e della sessualità secondo il pensiero cattolico
di FABRICE HADJADJ
È
stato spesso detto che la Chiesa cattolica riuniva nel suo grembo Atene
e Gerusalemme. In questo grembo, dunque, come in quello di Rebecca, i
due gemelli si confrontano? La rivelazione ebraica porta in sé la gloria della carne. Il
pensiero greco, dapprima, non può contrapporle altro che una forte
resistenza. Per gli epicurei, il corpo è piuttosto luogo di piacere, ma
la morte lo decompone irrimediabilmente.
Per i platonizzanti, il corpo è piuttosto tomba, ma il trapasso opera la liberazione dell’anima. Che imbarazzo per gli apostoli,
se fossero stati filosofi, dover proclamare quella Buona Novella così
tesa che non può accomodarsi a nessuna delle due opposte posizioni. Essi
devono annunciare lo Spirito che libera e, al contempo, predicare il
Verbo fatto carne - peggio: il Messia crocifisso, che resuscita dopo tre
giorni senza che le sue piaghe scompaiano. Al cospetto di una simile
dottrina, il materialista edonista e lo spiritualista etereo,
solitamente avversari tra loro, si spalleggiano immediatamente
facendosene beffe entrambi.
Quando
l’ebreo Paolo parla davanti all’Areopago, tutti lo ascoltano fintanto
ch’egli non testimonia della resurrezione: «Quando sentirono parlare di
resurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: ’Su
questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta’» ( At 17, 32).
Resistono costoro al discorso di Paolo? Non rimangono piuttosto
intrappolati nelle loro reciproche contrapposizioni? La
predicazione dell’apostolo presenta, per gli uni, l’esaltazione del
corpo e, per gli altri, l’esigenza dello spirito. Essa avrebbe potuto
riconciliarli. Ma, per coloro che rimangono presi nei riflessi di una
vecchia polemica, l’annuncio di una concordia superiore risulta
incomprensibile.
Il
mistero dell’Incarnazione entra certamente in risonanza con le
profondità del nostro cuore. Dapprima, però, esso appare assurdo alla
nostra ragione. Gli spiritualisti lo trovano troppo materiale, i
materialisti troppo spirituale, e ognuno attribuisce a esso l’errore del
proprio nemico congenito. La Chiesa, tuttavia, conserva l’estrema tensione della formula giovannea: «E il Verbo si è fatto carne» ( Gv 1, 14).
Perché «carne», e non «uomo»? Si
può osservare che «carne» designa attraverso una sineddoche l’uomo nel
suo complesso, corpo e anima, e comunque è il termine Incarnatio che ha
prevalso, e non Inhumanatio, che l’oggi dimenticato Facondo d’Ermiane
cercò di introdurre nella teologia latina.
Scelta
tanto più difficile in quanto la parola «carne» ha altre accezioni che
danno una strana connotazione alla formula. È la stessa parola usata
quando si parla degli sposi che fanno «una sola carne» (Mc 10,8); è la
stessa usata da Paolo quando nomina ciò che si ribella contro Dio: «La
carne infatti ha desiderio contro lo Spirito» (Ga 5, 17). Contro gli
spiritualisti, sant’Agostino sottolinea che quest’ultima accezione è
equivoca.
Quando Paolo utilizza «carne» per designare ciò che ci spinge al male, bisogna intendere «orgoglio», «l’uomo
è divenuto simile al diavolo, non per il fatto che ha la carne, che il
diavolo non ha, ma poiché vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo» (De civ. Dei, XIV 3, 2).
Il
Nuovo Testamento comunque, invece di usare termini diversi, ne utilizza
uno solo, a rischio di gettare i lettori nello sconcerto e dar adito a
una erronea interpretazione che avvicina il cristianesimo al disprezzo
del corpo. Il testo è dunque scritto male? Non sarebbe stato meglio
distinguere con tre parole diverse la carne che il Verbo assume, la
carne che l’uomo e la donna formano nell’amplesso e quella carne che è
unicamente inclinazione all’ignominia? Non si sarebbero evitate così
sgradevoli confusioni? Certamente. Ma la Sacra Scrittura sarebbe stata
allora soltanto un’opera speculativa, invece di essere, in primo luogo,
un luogo di prova. I suoi diversi usi della parola «carne» dipendono più da un’interrogazione decisiva che da un’approssimazione linguistica: il Verbo fatto carne è
altresì l’Eterno che, sposando l’umanità, costituisce una sola carne,
ed è anche il santo che assume la nostra carne di concupiscenza,
abbassandosi alla condizione del malfattore... Equazione così
sconvolgente che esige da parte del lettore un atto di fede più che
un’interpretazione teorica.
*
L’Incarnazione del pensatore convertito
Come ha detto di lui Alain Finkielkraut, Fabrice
Hadjadj porta un nome arabo, è ebreo di nascita e cattolico per scelta.
Molto stimato anche dal filosofo Remi Brague, Hadjadj, a soli 38 anni
ha già pubblicato in Francia vari volumi di riflessione filosofica e
opere teatrali. «Mistica della carne. La profondità dei sessi», che esce
in questi giorni in libreria per Medusa (pagine 200, euro
17,50) è il primo libro fra quelli che Hadjadj ha scritto che viene
tradotto in Italia. Anticipiamo in questa pagina alcuni brani sul
mistero dell’Incarnazione.
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Postato da: giacabi a 14:30 |
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cristianesimo
Lettera a tutti i peccatori
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Tempi
duri per noi peccatori, per noi che abbiamo infranto la legge, per noi
che portiamo nella carne le ferite inferte dal nostro stesso male, tempi
duri, il puritanesimo ha vinto, le campane del moralismo suonano a
festa. E’ questo il responso del caso Boffo, d’ora in avanti chiunque
abbia qualche colpa non si illuda, se è direttore di giornale dovrà
dimettersi, se è insegnante dovrà andarsene, se è giudice diventerà
imputato, se è imprenditore andrà in rovina, se è attore non troverà più
lavoro, se è operaio rimarrà disoccupato. Solo i puri, solo coloro che
sono capaci di essere moralmente perfetti, saranno degni di lavorare, di
avere cariche pubbliche, di esercitare responsabilità ad alti livelli.
Noi, no! Noi peccatori, noi che ci siamo macchiati di colpe, noi che
abbiamo commesso errori e continuiamo a farli, noi non siamo degni di
stare con i puri, non possiamo sederci alla loro tavola. Il puritanesimo
da oggi ci ha messo al bando, vivremo emarginati, derisi dal potere che
gradisce la compagnia degli uomini etici. Aspettiamoci di tutto, quello
che è stato fatto a Boffo lo subiremo tutti noi peccatori, nessuno
verrà risparmiato. E’ una nuova era quella che è iniziata, una era in
cui non sarà ammessa colpa, tanto meno perdonata, ma nello stesso tempo
come già Kierkegaard aveva preannunciato l’era della disperazione, perché a questo porta la coerenza morale.
Per questo di fronte alla violenza puritana beati noi peccatori, beati
noi che zoppichiamo, beati noi che incespichiamo nelle contraddizioni
della vita, beati noi che ci siamo macchiati di colpe, beati noi che
domandiamo uno sguardo umano che ci liberi dal male. Sì,
beati noi, perché i puri inaridiscono nella loro coerenza, mentre noi
aneliamo alla vita, la cerchiamo, la vogliamo gustare tutta fino
all’ultima goccia. Noi, gli impuri, che troviamo la nostra forza in
Colui che ci libera dal male. Per questo mentre i puri suonano le loro
campane a festa, noi cantiamo con De Andrè “dai diamanti non nasce
niente dal letame nascono i fior”. Oggi il puritanesimo sembra
vincere, ma è già sconfitto, perché l’uomo non è puro, è un grande
bisogno, il bisogno di Qualcuno che si sporga verso di lui e lo tragga
dal male. Tant’è che Gesù ai “puri” del suo tempo che gli hanno portato
l’adultera ha detto: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la
pietra”. E’ di questo sguardo che noi abbiamo bisogno, è questo sguardo
che rende bella la vita e segna per sempre il corso della storia.
Gianni Mereghetti
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Postato da: giacabi a 20:46 |
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cristianesimo
Così il cristianesimo è diventato Parola, parole
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«Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle
leggi del decalogo cristiano, direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso [dal nostro umano]. Abbiamo una
fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più
come dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé. Diceva un mio vecchio
autore, Reinhold Niebuhr: “Nulla è tanto incredibile come la risposta
ad un problema che non si pone”. Cristo
è la risposta al problema, alla sete e alla fame che l’uomo ha della
verità, della felicità, della bellezza e dell’amore, della giustizia,
del significato ultimo. Se questo non è
vivido in noi, se questa esigenza non è educata in noi, che ci sta a
fare Cristo? Cioè, che ci sta a fare la Messa, la confessione, le
preghiere, il catechismo, la Chiesa, preti e Papa? Sono trattati ancora con un certo rispetto a seconda delle aree di vita del mondo, sono conservati per un certo periodo di tempo per forza d’inerzia ma non sono più risposte ad una domanda, perciò non hanno più lunga sopravvivenza [una data di scadenza, appunto]. [...] Così il cristianesimo è diventato Parola, parole».
L. Giussani, «La coscienza religiosa nell’uomo moderno», Centro Culturale “Jacques Maritain”, pro manuscripto, Chieti 1986, p. 15.
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Postato da: giacabi a 14:49 |
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cristianesimo, giussani
Il cattolico
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Chi ha Dio come centro,
ha l'universo intero come circonferenza.
(E. Fromm)
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Postato da: giacabi a 13:56 |
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cristianesimo, fromm
Il catechismo della carne
*** Pigi Colognesi
venerdì 26 giugno 2009
Consiglio
vivamente la lettura dell’ultimo saggio di Timothy Verdon, Il
catechismo della carne (Cantagalli 2009). Lo studioso di storia
dell’arte cristiana, americano di origine ma residente in Italia da
quarant’anni, offre in tre densi capitoli notevoli spunti per
comprendere non solo le caratteristiche di una espressione artistica che
accompagna la civiltà occidentale da due millenni (e senza della quale
quella stessa civiltà risulta meno comprensibile), ma anche la
natura stessa del fatto cristiano che a quell’espressione artistica ha
dato origine. E la natura del cristianesimo è quella di essere
«incarnazionale», cioè fondato sull’accadere di un evento compiutamente
«fisico»: l’incarnazione, appunto, di Dio in un corpo umano. Pertanto
esso è valorizzatore di ogni «carne», quella dell’uomo, e di ogni
«materia», quella del cosmo che circonda l’essere umano. Entrambi sono
«chiamati a salvezza», cioè destinati ad una definitiva bellezza, pur
dovendo ancora nel tempo dibattersi in quelle che san Paolo chiama «le
doglie del parto».
Lascio
al lettore il gusto e la soddisfazione di ripercorrere con Verdon
l’evolversi della carnalissima arte cristiana, dal superamento della
corporeità eroica dell’arte greco-romana all’approfondimento teologico e
simbolico del medio evo, dalla rivoluzione affettiva di san Francesco
alla reinvenzione del modello classico nel rinascimento, dal dramma
barocco alle sue degenerazioni, fino alla strana afasia sul corpo di
molta arte sacra contemporanea.
Mi voglio, invece, soffermare su una delle opere analizzate nel volume. Si tratta del michelangiolesco Tondo Pitti, conservato al Bergello di Firenze. Scrive Verdon (che anni fa ha dedicato un saggio a Michelangelo teologo): «Il
tondo rappresenta Maria, seduta su un blocco di marmo mentre mostra un
libro aperto al bambino Gesù, il quale vi appoggia il braccio destro.
Alle spalle di Maria, l’altro bambino che guarda verso Cristo è san
Giovanni Battista, sovente raffigurato nell’arte fiorentina in quanto
patrono cittadino.
Ma l’intuizione teologica principale del tondo è comunicata in un altro
particolare: il braccio di Gesù poggiante sul grande libro tenuto da
Maria, che comunica l’idea di un’antica cultura “incarnata” nel Verbo
fattosi bambino». Perché si tratta di una grande intuizione teologica?
Appunto perché il cristianesimo non è una «religione del libro»,
l’incontro con esso non avviene per riflessione su una teoria e il suo
mantenersi nella storia non si realizza perché uno stuolo di scribi
commenta e chiosa le parole scritte di una dottrina del passato. Quel
braccino di un sorridente bambino è «la vittoria della carne umana sulla
parola scritta».
Maria
è pensosa, dice Verdon, perché rappresenta tutta l’umanità nel suo
sforzo, intenso e un po’ triste, di comprendere il mistero
dell’esistenza. E come può farlo? Leggendo un libro, cioè paragonandosi
con il meglio che il suo lungo cammino e diuturno sforzo ha saputo
produrre e tramandare. «Ma, al posto delle parole, Dio le ha dato il suo
Verbo come figlio in carne ed ossa».
Maria, però, è anche la Chiesa.
Tra i suoi figli non è mai escluso il pericolo di comportarsi come
scribi, sottili interpreti di un libro, dotti esegeti di una teoria,
ripetitori di un discorso. Ma il braccio un po’ insolente di quel
bambino posato sul libro sta a ricordare che «solo lo stupore conosce» e
che l’unico «catechismo» convincente è quello «della carne».
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Postato da: giacabi a 21:53 |
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cristianesimo
Il Cristianesimo visto da Marx
***
«I pensieri e i cuori degli uomini non sono mai stati,da quando il mondo può pensare, così pieni di qualcosa e messi in movimento come dalle idee della fede cristiana e dall'amore umanitario cristiano. Ciò ti apparirà chiaro se guarderai nelle tavole storiche dell’umanità. Così è accaduto che oggi tutto ciò che noi sintetizziamo sotto il nome della “nostra cultura”, riposi in prima linea sul cristianesimo ».
Karl Marx lettera in occasione della cresima del fratello Alfred
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Postato da: giacabi a 07:08 |
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cristianesimo, marx
La contemporaneità di Cristo oggi
è questo fatto di umanità diversa
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«Qual è la prima caratteristica della fede in Cristo? Per Andrea e Giovanni qual è la prima caratteristica della fede che hanno avuto in Gesù?
[...] La prima caratteristica è un fatto! Qual è la prima caratteristica della conoscenza? È l’impatto della coscienza con una realtà».
Il fatto che continua a sfidare ciascuno di noi è il punto di partenza per cui ancora ritorniamo qui quest’anno: il presentimento di una corrispondenza che non possiamo toglierci di dosso, perché è l’imbattersi in una diversità umana:
«L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita [...]. Quest’imbattersi
della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di
assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi,
riflessione e sviluppo: è qualcosa che non
ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato,
che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo,
muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa
strutturale del cuore»
Senza
questa contemporaneità della Sua presenza nel fenomeno di una umanità
diversa, non sarebbe possibile la fede cristiana. E la contemporaneità
di Cristo oggi è questo fatto di umanità diversa – che tanti di voi mi testimoniate –, fatto che sfida la mia ragione e la mia libertà.
Don Carron «DALLA FEDE IL METODO»
Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione maggio 09
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Postato da: giacabi a 22:36 |
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cristianesimo, giussani, carron
Segno e Mistero coincidono. Nel Presente.
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Cari amici,
oggi dopo 5 giorni bellissimi e commoventi in cui abbiamo rivissuto quella ingenua baldanza dei primi anni del movimento, peró una baldanza matura, sono ripartiti Marcos e Cleuza e i loro, i nostri altri amici: i coordinatori del movimento di Marcos e Cleuza. Con loro abbiamo avuto la grazia di avere fra noi P. Vande e Julián de la Morena, un vero fratello per me. Abbiamo vissuto, sperimentando attimo per attimo quanto loro hanno vissuto agli esercizi di Rimini. Direi abbiamo toccato con mano quanto accaduto a Rimini, perché l'abbiamo verificato giorno dopo giorno nelle circostanze che abbiamo vissuto assieme. Il nostro “io” in azione ha permesso di verificare: “dalla fede un metodo”. Che spessore, parole come “umanitá”, “fede”, “metodo”, “criterio”, “giudizio” hanno avuto per noi in questi giorni. 5 giorni di esplosione umana, condividendo il mangiare, la vita della clinica, degli anziani, dei bambini e delle casita di Betlemme, la vita di questo popolo (150) che lavorano nelle opere della parrocchia, e di tutta la parrocchia. Ogni attimo é stato sperimentare la familiaritá di Cristo. Sintetizzare il vissuto mi é impossibile, l'unica cosa che potrei dire: é che da anni non piangevo per la commozione, per il fatto che la Provvidenza mi abbia dato questi amici, ma, come vorrei che ognuno di voi potesse vivere un rapporto come quello che mi é dato con Marcos e Cleuza, Julián de la Morena e il loro popolo.
1-
in 5 mesi sono venuti qui giá 3 volte. Fra noi da quando ci siamo
conosciuti, grazie alle indicazioni di Carron, ci vediamo ogni mese. Questo é un miracolo che Dio regala quando un uomo é serio in ogni istante con la propria vita. Senza drammaticitá non nasce niente, e tutto diventa banale.
2-
“Incontrando Marcos e Cleuza e gli amici ho capito che il movimento é
per tutti” (Testimonianza di un ragazzino della parrocchia che insieme a
padre Paolino e altri 3 ragazzi hanno fatto 50 ore di strada per andare
dal Paraguay all'incontro di febbraio al palasport di san Paulo).
3- “Noi
veniamo in Paraguay per imparare a come guardare ogni uomo, come qui si
guardano gli ammalati. Qui in San Rafael c'é solo dolore, sofferenza e
uno si dispererebbe nel vedere questo oceano di dolore, qui non c'é
niente di “bello” perché il dolore non é bello, i bambini abbandonati
non sono una cosa bella, gli anziani abbandonati e alcoolizzati non é
bello, i malati aids, di cancro che muoiono non “é bello”. Qui non c'é
niente di bello.
Peró c'é la bellezza: la evidente Presenza di Cristo. Qui é impossibile non vedere, non toccare, abbracciare Cristo. Qui, lo sguardo di Cristo ti prende.
E
per questo in 5 mesi siamo giá venuti 3 volte e questa volta abbiamo
portato anche i nostri amici piú cari, perché vedano, tocchino, la
familiaritá di Cristo” [testimonianza di Marcos]
4-
Carron, seguire Carron é stato il ritornello commovente in ogni
istante. Con Gesú é stato l'uomo più citato in questi giorni. Gesú –
Carron sono stati la presenza piú familiare in questi giorni.
5- Le testimonianze degli amici di Marcos e Cleuza, hanno sconvolto e segnato tutte le persone della parrocchia. Che storie di dolore, di solitudine, ed ora di una bellezza unica!
6 – “Ho
visto gente morire felice, e questo mi aiuta a crescere nella mia
umanita. É impossibile non dire "Tu" davanti a quanto qui accadde.
L'unica cosa che ci interessa é dire sempre con maggior consapevolezza
“Tu” a Cristo. C’é un segreto perché questo passa accadere: la disponibilitá nel dare la vita per gli altri, per l’opera di un ALTRO. sa accadereChi
vuol incontrare la vita dove perderla dice Gesú. Io ho bisogno della
vostra amicizia. É facile dire “”ho tante fede” ma quando poi stiamo
davanti al dolore, uno si perde perché non ha la fede, di fatto. Prima eravamo determinati dei problemi. Adesso partiamo delle Risurrezione di Cristo.
Cristo faceva vedere Dio in tutto, come raccontano i vangeli. I
passeri, i gigli del campo non lavorano, ma il Padre che sta nei cieli
lui lavora sempre e si occupa di ognuno. Carron ci dice che solo le
pietre non si commuovono... per questo [testimonianza di Marcos]
quando sono in Parlamento l'unica cosa che mi interessa é Cristo, le
bellezza di Cristo. Dare la vita per il proprio cuore. Come?
- Stando in questa compagnia, in questa amicizia in cui sono evidenti i segui inconfundibili della Suo Presenza - Obbedire al cuore. Il cuore é il giudizio: “Io sono Tu che mi fai”, come ripete sempre P. Aldo. E lo si vede molto bene qui”
7-
L'altro giorno stavamo andando alla fattoria per una giornata di
convivenza tra i miei coordinatori e Marco e Cleuza con i loro, quando,
stando in macchina con padre Paolino ad un certo punto Cleusa domanda: Ma quanto vi costa un bambino della casa di Betlemme al mese?
Sul momento non ho capito e risposi a caso “piú o meno 30 dollari”.
E
loro : “Padre Aldo abbiamo deciso con la nostra gente di adottare tutti
i tuoi bambini delle casette di Betlemme e ti manderemo 1000 dollari al
mese. “La nostra amicizia che nasce della familiaritá con Cristo e' un
dono e deve arrivare a questo punto. Voi vivete di caritá vivete con chi
non puó aiutarvi, con chi non é autonomo e noi vogliamo aiutarvi”.
Ci guardiamo Paolino ed io con gli occhi umidi.
Che
dire? Solo con amici cosí il mondo cambia, protagonisti in tutto. Non
piú assistenzialismo ma protagonisti, amici. Vi giuro non so descrivere
il resto della giornata, ma sinceramente direi con Gesú “non ho mai
visto tanta fede, tanto amore, come in questa donna”. Vi ricordate il fatto evangelico.
Allora capisco perché Marco
e Cleuza al giornalista che gli chiedeva: “Ma perché siete venuti per
la terza volta in Paraguay” Hanno risposto: “Perché dove vediamo con piú
chiarezza la presenza di Dio, il volto di Cristo, lì corriamo.
Torniamo qui, perché qui possiamo toccare con piú intensitá il manto di Cristo. In nessun altro luogo é cosi evidente, cosí intensa la Presenza di Cristo”.
8-
Cleusa sta cucinando. Arrivo io: “Marcos e Cleusa, é morto Dionisio di
AIDS!?”. Risposta di Cleusa, intenta a preparare il pranzo: “Ha
incontrato Gesú, padre”
Questa é la familaritá con Cristo.
Con affetto, P. Aldo.
postato da AnnaV
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Postato da: giacabi a 20:45 |
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cristianesimo, padre trento
Via Crucis a New York
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per vedere il filmato riportare il 1° cursore all'inizio
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Postato da: giacabi a 17:01 |
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cristianesimo, cl
Il mio prossimo
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Chi
è il mio prossimo? Un tempo il prossimo era il vicino, quello della tua
tribù, del tuo villaggio. Gli altri erano stranieri, estranei, nemici. E´ col cristianesimo che l´imperativo morale si generalizza fino a prescrivere di amare il nemico. Anzi, a non avere più nemici
F. Alberoni
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Postato da: giacabi a 20:57 |
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cristianesimo, alberoni
La datazione dei vangeli
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Stando
alla datazione che sinora fa testo quasi ovunque, Marco sarebbe stato
composto verso l'anno 70, data cruciale perché e quella della
distruzione di Gerusalemme da parte dei romani, con la conseguente
sparizione di quel mondo ebraico che era stato quello di Gesù e dei suoi
primi discepoli; Matteo e Luca fra l'80 e il 90; Giovanni a11a fine del
secolo (anche se qualcuno si era spinto addirittura sino all'anno 170...). Osservava Carmignac (e con lui Robinson, Tresmontant ed altri esegeti che spuntano qua e la) che già
attorno all'anno 50 il Cristianesimo esplode fuori dall'ambito
palestinese. Dunque, a partire da allora sarebbe stato inutile, anzi
dannoso, scrivere in una lingua locale i documenti della fede. Se
l'originale dei vangeli e davvero semita, è perché sono stati scritti
subito, tra il 30 (data probabile della morte di Gesù) e il 50 o poco
più".
(Vittorio Messori, inchiesta sul Cristianesimo, Mondadori, 1993, p. 133).
Da: Dixit Definitivo
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