Perfino il gusto del parmigiano, del prosciutto e dello champagne viene dal cattolicesimo…
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La
Donazzan è entrata nell’occhio del ciclone per questa sua proposta:
rendere obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica nelle
scuole della sua Regione. Dovrebbe essere un’ovvietà se non fossimo un
Paese sciocco e smarrito.
Con
una modesta proposta per la scuola, il nostro Paese potrebbe tornare ad
avere un futuro. Quale proposta? Scoprire Gesù Cristo. Sarebbe la
Rivoluzione. Che significa……
Elena
Donazzan. Ricordatevi questo nome. Potrebbe diventare la nostra Sarah
Palin. Non arriva dal bianco Alaska, ma dal Veneto bianco. Oggi è
assessore regionale e chi la conosce sa che stoffa, che preparazione e
che piglio ha. Pure l’aspetto, alquanto piacevole, e la giovane età ne
fanno un personaggio. Rodato in quel vivaio di passioni politiche che è
Alleanza Nazionale. Dunque la
Donazzan è entrata nell’occhio del ciclone per questa sua proposta:
rendere obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole della sua Regione. Dovrebbe essere un’ovvietà se non fossimo un Paese sciocco e smarrito.
Fortini, Cacciari e Benigni
Franco
Fortini, critico letterario e poeta di estrema sinistra fu il mio
professore (più amato) all’università. Un giorno di febbraio arriva in
aula e comincia a leggere ad alta voce un magnifico poema. Alla fine
chiese se qualcuno sapeva cosa aveva letto. Era il “Mercoledì delle
Ceneri” di T.S.Eliot. In effetti quel giorno si celebrava tale
ricorrenza liturgica. Fortini ne chiese il significato. La gran parte non lo sapeva. Lui cominciò una filippica. In sintesi disse:
“voi siete in una facoltà di lettere a studiare l’arte, la letteratura,
la filosofia, la storia e domani probabilmente andrete nelle scuole a
insegnare. Ebbene, non potrete capire mai niente di tutto questo e
neanche del paese dove vivete e di questa città (Siena), senza conoscere
perfettamente il contenuto della fede cattolica e quello che ha
significato”.
Parola
di un grande professore ebreo e marxista. Più o meno le stesse cose mi
“gridò”, qualche anno dopo, in una intervista per “Il Sabato”, Massimo Cacciari, indignato dalla crassa ignoranza del cattolicesimo che
aveva riscontrato, anche lui, nei suoi studenti. E’ prevedibile che
contro la Donazzan ora l’intellighentsia progressista alzerà gli scudi: è
la stessa intellighentsia che nei mesi scorsi si è spellata le mani,
nelle piazze d’Italia, per applaudire le letture dantesche di Roberto
Benigni. Ebbene la Divina Commedia è un compendio perfetto di teologia
cattolica e non si capisce neanche una terzina senza conoscere il
cattolicesimo.
Il cielo stellato del Gius
Sostanzialmente
eliminata dagli studi scolastici dagli anni Settanta in poi, la
Commedia oggi è stata riscoperta da coloro che l’avevano abolita. Meglio
tardi che mai. Ma intanto abbiamo
derubato i giovani della Bellezza (quella che contiene il Vero e il
Bene) e dobbiamo correre ai ripari almeno da questa generazione in poi. I
giovani soprattutto hanno bisogno della Bellezza come del pane, la
poesia è la loro casa. Noi li abbiamo derubati e sfrattati dalla nostra
storia. E ora si trovano stranieri in questa terra italiana ed europea.
Apolidi della vita, erranti nel deserto che avanza. E spesso si
vendicano del Nulla in cui li fanno vivere con la violenza.
Il più grande educatore del nostro tempo, don Luigi Giussani iniziò le sue “lezioni di religione” al liceo Berchet di Milano, nel 1954, leggendo Leopardi. Pensate un po’: il poeta
“ateo e materialista” era indicato da Giussani come colui che più e
meglio di chiunque coglie l’essenziale della vita, la nostra natura
desiderante, le domande struggenti che vibrano nelle vene dei giovani e
letteralmente ci fanno uomini: chi siamo, che senso ha la vita, perché
“tutto passa e quasi orma non lascia”, che senso ha il cielo stellato,
dov’è la Bellezza le cui scintille si riflettono sul volto di ogni
donna…Gesù Cristo è venuto e ha detto di essere lui la risposta a queste
domande.
Giussani non faceva “propaganda cattolica”. No: insegnava
a ragionare, a decifrare la condizione umana e a valutare le risposte.
Come sa bene chi lo ebbe come professore, lui letteralmente insegnava la
libertà, cioè l’uso della ragione che è la cosa più preziosa. Ma è
quello che il cattolicesimo ha fatto per secoli con i popoli europei.
Tanto è vero che proprio da questi popoli è sbocciata quella
straordinaria capacità di indagine e di conoscenza dell’universo che –
tradottasi in scienza e tecnologia – ha letteralmente civilizzato il
mondo.
La rivoluzione
Lo spiega benissimo il sociologo americano Rodney Stark nel
libro “La vittoria della Ragione”. Sottotitolo: “Come il cristianesimo
ha prodotto libertà, progresso e ricchezza” (Lindau). E anche Thomas E. Woods in “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli). Dobbiamo
ai monaci medievali tutto: perfino il parmigiano, il prosciutto e lo
champagne. “Educatori economici” dell’Europa li definì lo storico
(laico) Henri Pirenne. E i diritti dell’uomo e il diritto internazionale
non sono nati nella teologica “Scuola di Salamanca” ? Perfino Bertrand Russel, nel suo libro più anticristiano, riconosce: “La
libertà che vige nei paesi in cui la civiltà ha origine europea (cioè
la sola libertà esistente nel mondo, nda) si può storicamente far
risalire al conflitto fra Chiesa e Stato nel medioevo”.
Infatti,
si può capire la Costituzione italiana senza le nozioni cattolicissime
di “persona”, corpi intermedi e sussidiarietà? Il comunista (cattolico) Franco Rodano spiegò che perfino la bellezza della campagna umbra (e toscana) si deve al cattolicesimo e specialmente alla Riforma tridentina. Evitiamo
– per favore – il solito piagnisteo laico su questa proposta veneta.
Perché la Donazzan ha dalla sua anche il meglio della cultura laica.
Innanzitutto Kant in quale era convinto che “il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura”. Poi il “papa laico” Benedetto Croce: “Il
Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai
compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di
conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non
meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo”.
Laici cioè cristiani
Un altro grande intellettuale laico, Federico Chabod, nella “Storia dell’idea d’Europa”, scrive: “Non
possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche di
culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e
di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra
noi e gli Antichi, fra il nostro modo di sentire la vita e quello di un
contemporaneo di Pericle e di Augusto, è proprio dovuta a questo gran
fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il
verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli
‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito
europeo”.
Il simbolo del laicismo italiano, Gaetano Salvemini raccontò un giorno di essersi trovato in una stagione della vita come “sperduto
nel buio” e dice di aver trovato una “guida e mi sono trovato bene a
lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo che ha lasciato
il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto. Io non
so se Gesù Cristo sia stato davvero figlio di Dio o no. Su problemi di
questo genere sono cieco nato. Ma sulla necessità di seguire la moralità
insegnata da Gesù Cristo non ho nessun dubbio”.
Guardate un bambino
Infine, per guardare all’estero, Richard Rorty (simbolo del neopragmatismo americano): “se
si guarda a un bambino come a un essere umano, nonostante la mancanza
di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto
all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica
concezione di persona umana”.
E Karl Loewith: “Il
mondo storico in cui si è potuto formare il ‘pregiudizio’ che chiunque
abbia un volto umano possieda come tale la ‘dignità’ e il ‘destino’ di
essere uomo, non è originariamente il mondo, oggi in riflusso, della
semplice umanità, avente le sue origini nell’ ‘uomo universale’ e anche
‘terribile’ del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui
l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di
fronte a sé e al prossimo”.
Elena Donazzan ha colto nel segno. E non va lasciata sola: una nuova scuola produce un’Italia nuova.
Da “Libero” 7 settembre 2008
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Postato da: giacabi a 08:18 |
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cristianesimo, socci
A Roma c'è la tomba di Pietro
di: Marta SORDI
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tratto da: Il Timone, anno 6 (2004) gennaio, n. 29, p. 28s.
Le fonti cristiane dei primi secoli, l'archeologia e l'epigrafia, confermano un dato che non può ancora essere ignorato o messo in discussione: le ossa sotto la Basilica Vaticana appartengono all'Apostolo. Pietro venne due volte a Roma: all'inizio del regno di Claudio, nel 42, quando, sfuggendo all'arresto di Agrippa I, "se ne andò e si mise in viaggio per un altro luogo" (At 12,17); e al tempo di Nerone, intorno al 62, quando scrisse da Roma a sua prima lettera e subì poi il supplizio della croce in seguito all'incendio neroniano. Nella prima occasione, che autorevoli fonti cristiane del II secolo, Papia di Gerapoli (Eusebio, «H.E.» II, 15 e III, 39. 15) e Clemente di Alessandria (Eusebio, «H.E.» VI, 4. 6 e fr. 9 Stahelin), collegano con la predicazione del Vangelo che Marco, su invito dei Romani, mise per iscritto dopo la partenza di Pietro, è evidente la menzione di Roma, definita Babilonia (Ezechiele 12,3 e 13,13), come destinazione dell'Apostolo. Il nome di Babilonia è usato qui allo stesso modo che in 1Petri 5,13, come crittogramma per Roma: il ricorso ad un crittogramma rivela, come è stato giustamente sostenuto, l'antichità degli Atti e l'autenticità della 1Petri, scritti certamente, gli uni e l'altra, mentre Pietro era ancora vivo e presente a Roma. Il 62 è il momento della svolta neroniana: la lettera petrina risente del clima ormai mutato nell'impero e prevede l'imminenza di una persecuzione; di qui il ricorso a un crittogramma mirante a nascondere alla polizia dell'imperatore la presenza a Roma dell'Apostolo. Ma gli eventi precipitarono: Nerone decise di applicare, forse già nel 63, il vecchio senatoconsuito che stabiliva l'illiceità del cristianesimo, e recepì in Giudea, con il cosiddetto editto di Nazareth, le accuse ai discepoli di aver sottratto dal sepolcro il corpo di Cristo, accuse che Matteo dice ancora vive al suo tempo fra i Giudei. Nel 64 infine, per allontanare da sé l'accusa dell'incendio di Roma, Nerone incrimina di esso i Cristiani e ne mise a morte una «multitudo ingens», fra atroci sofferenze, negli «horti Neroniani» in Vaticano (Tacito, «Annali» XV, 44). Il confronto fra Tacito e Clemente Romano (1Cor 5: poly plethos) mostra che Pietro fu messo a morte con gli altri cristiani, il cui supplizio Nerone trasformò in spettacolo con un «circense ludicrum»: nel 64, non nel 67, come si è voluto ricavare attribuendo all'episcopato romano di Pietro i 25 anni che la tradizione più antica attribuiva al periodo fra la crocifissione e Nerone, "durante il quale i discepoli di Cristo posero i fondamenti della Chiesa in tutte le province e città" (Lattanzio, «De mortibus persecutorum» II, 4). La trasformazione del supplizio in spettacolo, con l'accenno di Tacito a uomini dilaniati dai cani «ferarum tergis contecti» e di altri «crucibus adfixi atque flammati», e l'accenno alle donne cristiane camuffate da Dirci e da Danaidi, di cui parla Clemente, fanno pensare, assieme a un «circense ludicrum», a giochi dati dall'imperatore approfittando di una festività particolare, non certamente posteriore di anni all'incendio. La Guarducci ha pensato alle feste del 13 ottobre del 64, alcuni mesi dopo l'incendio, quando il permanere dei malumori popolari contro Nerone poté consigliare all'imperatore di cercare capri espiatori. Si tenga conto che, nel 66, Nerone andò in Grecia, e che già nel 65, con la repressione della congiura di Pisone, ebbe altro a cui pensare. Clemente associa alle molte vittime Pietro e Paolo, e questo rivela che il loro rispettivo martirio, anche se Paolo fu ucciso poco prima e per motivi indipendenti dall'incendio, deve essere avvenuto in epoche molto ravvicinate fra loro. La Chiesa Romana ha sempre associato, del resto, nel martirio e nella venerazione, Pietro e Paolo come suoi cofondatori: infatti, pressoché contemporanea della lettera di Clemente (che io credo di età domiziana) è un'iscrizione certamente cristiana di Ostia (C.XIV, 566), dedicata da un membro della «gens Annea», M. Anneus Paulus, al figlio carissimo M. Anneo Paulo Petro. E nel II secolo, al tempo di papa Zefirino, un presbitero della Chiesa di Roma, Gaio, parlando, in polemica con un montanista, dei luoghi dove erano stati sepolti gli Apostoli, osserva: «Io potrò mostrare i trofei degli Apostoli: se andrai in Vaticano e sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa chiesa» («apud Eus., H.E.» II, 25,7). Il luogo di sepoltura di Pietro è stato ritrovato sotto la Basilica Vaticana, in prossimità di quegli «Horti», che erano stati di Druso, di Agrippina, di Caligola e di Nerone, dove il suo martirio era avvenuto e dove i pellegrini lasciarono con graffiti il segno della loro devozione. È merito soprattutto di Margherita Guarducci (la più grande, forse, epigrafista del nostri tempi, scomparsa da pochi anni) avere individuato, con un'indagine condotta per molti anni in mezzo a difficoltà e a polemiche, e attenta sempre ai dati risultanti dalle fonti e alle conferme emergenti da un lavoro interdisciplinare, la tomba e le reliquie di Pietro. I punti fondamentali della dimostrazione della Guarducci sono i seguenti: 1) Sotto la Basilica costantiniana e nelle sue immediate vicinanze esisteva un sepolcreto le cui tombe più antiche risalgono al I secolo d.C., all'epoca cioè del martirio dell'Apostolo. 2) Sotto il luogo nel quale, nell'attuale basilica, sorge l'altare papale, c'è un'edicola funeraria risalente al 160 circa d.C. e da identificare con il "trofeo" di cui parla Gaio. 3) Sul "muro rosso", a cui l'edicola è addossata, c'è un graffito in greco databile alla stessa epoca dell'edicola, con le parole «Petros eni», "Pietro è qui dentro". 4) Il cosiddetto "muro g", vicinissimo all'edicola, é pieno di graffiti, risalenti al III e IV secolo, che invocano, con un singolare sistema di crittografia mistica (applicando valori simbolici ad alcune lettere, congiungendo due o più lettere per esprimere concetti religiosi, trasfigurando lettere in simboli cristiani) i nomi di Cristo, Maria e Pietro, e rivelano la devozione dei pellegrini. Le ossa di Pietro si trovavano originariamente sotto l'edicola del II secolo, e furono poste, al tempo di Costantino, nel loculo marmoreo apprestato nello spessore del "muro g", avvolte in un drappo di porpora intessuto d'oro di cui sono stati ritrovati, con le ossa, alcuni frammenti: esami merceologici e chimici hanno dimostrato che essi appartengono a una stoffa finissima, tinta di autentica porpora di murice, intessuta di oro purissimo. In quanto alle ossa, esse hanno rivelato un individuo adulto, di sesso maschile, di età senile fra i 60e i 70anni. Il 26 giugno 1968 Paolo VI annunziò pubblicamente l'avvenuto riconoscimento delle reliquie di Pietro. |
Postato da: giacabi a 14:36 |
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cristianesimo
Scuola esegetica di Madrid
***
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Essi,
quindi, si propongono di risolvere le ambiguità e le apparenti
contraddizioni che si presentano nel testo greco dei Vangeli,
spiegandole come errori introdotti nella traduzione dall'aramaico.
Gli
studiosi in generale concordano che i Vangeli siano stati scritti
utilizzando alcune fonti preesistenti, alcune delle quali molto
probabilmente erano scritte in ebraico o in aramaico (si veda l'articolo
Nascita dei Vangeli).
La scuola di Madrid assume questa ipotesi come base del proprio lavoro e
la sviluppa sistematicamente, tentando di ricostruire la "versione
originale" aramaica di numerosi passi evangelici, concentrandosi in
particolare su quelli più oscuri e controversi. Il libro di José Miguel
García che riassume il lavoro fin qui svolto, in termini comprensibili
per i non specialisti, è stato recentemente tradotto in italiano con il
titolo La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli.
Riportiamo alcuni dei problemi che i biblisti della scuola ritengono di avere spiegato:
L'esistenza di testi originali in aramaico ha anche un impatto diretto sul problema della data di composizione dei Vangeli:
questi testi, infatti, devono essere stati scritti nell'ambito della
primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, la quale si disperse prima
del 70, quando la città fu occupata dai Romani. Nel libro La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli
si fa riferimento a due passi della seconda lettera ai Corinzi, scritta
prima dell’autunno del 57 d.C., in cui san Paolo parla di un Vangelo
già scritto e circolante fra le comunità e cita espressamente Luca come il suo estensore.
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Postato da: giacabi a 20:37 |
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cristianesimo, carron
Padre A.Trento
incontro a Cagliari
VIVERE E INVECCHIARE CON L'AIDS 29 Novembre 2007
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^^^^^^^
se vuoi ascoltare solo P. Trento
portare il cursore dov'è la freccia
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Postato da: giacabi a 12:16 |
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cristianesimo, padre trento
Il Vento di Dio
(Storia di una Fraternità)
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presentazione del libro di padre Aldo Trento
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Postato da: giacabi a 08:21 |
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cristianesimo, padre trento
Bagnasco:
la Chiesa, un popolo che fa storia
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NELLA CHIESA MI TROVO A CASA
Così diceva Georges Bernanos! È difficile vivere senza una casa intesa come spazio dove le dimensioni sono a misura d’uomo, sono riconosciute perché familiari, dove si coltivano gli affetti, dove esistono luoghi per raccogliersi, per sentirsi al riparo dalla “strada” pur necessaria e desiderata. Come scriveva Josef Pieper, l’uomo non può vivere sempre “sotto le stelle” (cfr Che cosa significa filosofare): ha bisogno della casa, del finito e del piccolo per ritrovarsi, riposare, ricuperare energie e riprendere il cammino sotto il cielo. Allo stesso modo, l’uomo ha bisogno della volta stellata, degli orizzonti sconfinati, della strada dove tutto si può incontrare e può accadere. Possiamo dire che l’uomo, come ha bisogno del suo “ambiente”, così ha bisogno del “mondo”: il primo per superare la dispersione e fare sintesi, il secondo per superare il ripiegamento e pensare in grande. In entrambi i casi l’uomo costruisce se stesso: egli infatti è un paradosso, creato finito ma programmato per l’infinito. E’ una linea di confine tra il tempo e l’eternità, è un desiderio incompiuto, un intrigo di ombre dove la luce è la stoffa di fondo. La Chiesa è la nostra “casa”, l’ ambiente familiare dove rigeneriamo le forze e la speranza si alimenta. Ma – possiamo dire – che è anche il nostro “mondo” dove il cuore impara a pulsare oltre se stesso, e l’intelligenza è chiamata ad aprire gli orizzonti superando meandri e ottusità, particolarismi e divisioni. Nella Chiesa, infatti, incontriamo Cristo, il Verbo Eterno fatto carne, l’unico Salvatore. Egli ci dona la paternità di Dio, svela il segreto della gioia, il senso del vivere e del morire. Nella Chiesa incontriamo un popolo, corpo di Gesù: facciamo l’esperienza della universalità che ci porta fino ai confini della terra: “Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo” (Atti 2,5). La duplice dimensione – piccolo e grande, finito e sconfinato, terra e cielo, tempo ed eternità – fa parte dell’essere della Chiesa che, come ricorda il Concilio Vaticano II, è “mistero”: mistero non perché realtà oscura e incomprensibile, ma perché è “sacramento”, realtà umana e divina insieme, lo spazio nel quale ogni uomo incontra veramente l’amore di Dio che si è offerto in Cristo: “La Chiesa è in Cristo come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (Lumen Gentium, 1). La Chiesa, dunque, offre ad ogni credente l’esperienza della casa – la parrocchia, il gruppo, la comunità…- dove, a partire da Gesù, i volti noti, la conoscenza personale, l’amicizia concreta, l’ appartenenza cordiale, il confronto, la bellezza e la fatica delle relazioni umane, l’esercizio della pazienza e del perdono, la virtù della fiducia…sono pane quotidiano. Ma offre anche – dicevamo – il respiro dell’universalità perché diffusa sino ai confini della terra secondo il mandato del Signore. Il respiro dell’umanità palpita con un duplice movimento, di ampiezza e di profondità. Il mondo intero – nei diversi popoli, nazioni, culture – approda nel sentire della Chiesa e diventa eco e ricchezza della sua voce. Di questa voce ricca e sinfonica - che il Vangelo illumina, purifica e valorizza attraverso il Magistero autentico - i credenti beneficiano, ne sono protagonisti e portatori. Ma il mondo è presente nel cuore della Chiesa anche oltre la sua dilatazione geografica e temporale: se – per ipotesi – la presenza della Chiesa dovesse contrarsi e ridursi ad un punto ristretto della terra, ugualmente il suo respiro porterebbe l’eco dell’umanità intera, l’universalità del mondo. Infatti, il mandato di Gesù – “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”- non tocca solamente la geografia della terra, ma tocca innanzitutto la geografia dell’anima: i problemi spirituali e materiali, le questioni dell’agire morale, le idee, i grandi interrogativi, le incertezze, i mutamenti culturali, le svolte epocali…non sono solamente fuori dell’uomo, nell’ambiente della cultura e della società; ma sono dentro l’uomo, nel suo mondo interiore. Gli estremi confini della terra sono innanzitutto qui, negli orizzonti sconfinati dello spirito umano. Per questo il Concilio Vaticano II afferma con passione che “la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e dei sofferenti, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia dei discepoli di Cristo, e non c’è nulla di veramente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, 2). Questo orizzonte, che si dilata fino ai confini dell’uomo e dell’umanità, trova la sua radice nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che con l’incarnazione ha assunto l’umanità dell’uomo: “Si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione – scrive Giovanni Paolo II -. Non si tratta dell’uomo , ma reale, dell’uomo e (…) Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero (…), l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana” (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 13). Nulla dunque è estraneo a Dio, al suo interesse d’amore per ciò che è umano, sia nella sua dimensione individuale che pubblica. La Chiesa, che è il prolungamento di Cristo nel tempo, continua l’amore di Dio per il mondo sapendo che “l’uomo è la via della Chiesa” (ib.14); consapevole che “ in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, (ma) è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana” (Gaudium et spes, 76). FARE STORIA Cos’è la storia? Certamente non è la semplice cronaca quotidiana; questo è un aspetto soltanto, di superficie. Neppure , mi sembra, si può ridurre ai grandi eventi del mondo della politica, degli Stati: i trattati, gli incontri ad alto livello, le alleanze di tipo politico o economico, le solenni dichiarazioni, i conflitti e le guerre, gli accordi di pace. La storia è questo certamente, ma non “solo” questo, e neppure “soprattutto” questo. Mi sembra che gli accadimenti fanno storia in quanto sono espressione di ciò che potremmo chiamare un’altra storia, invisibile come sono le idee, ma concreta come i fatti che la cultura ispira. Possiamo dire che la storia è traduzione nei fatti di una visione spirituale e morale della realtà. La storia è compito di ogni uomo. Tenendo conto di una dimensione che mi sembra costitutiva della storia, quella ideale e quella comunitaria, potremmo parlare di differenti livelli: delle singole persone, dei popoli, degli Stati. • Innanzitutto delle persone; è questo il primo affluente della storia universale. La loro vita quotidiana fatta di gioie, speranze e dolori; di lavoro e famiglia; di affetti e rapporti.…non è mai storia solamente individuale. È sempre anche storia di tutti perché nessuno vive solo. Anche il più desolante isolamento esiste comunque dentro ad un contesto di relazioni dalle quali uno si esclude o è escluso, ma dove resta. La vita quotidiana fa storia proprio perché la persona in sé è “relazione”: negare questo è chiudere gli occhi all’evidenza in nome di una esasperazione tale dell’individuo e della sua autodeterminazione, da portare all’individualismo che azzera la persona stessa. Tornando al punto, l’esistenza di ciascuno tocca gli altri in qualche misura, crea legami e situazioni che coinvolgono poco o tanto; alimenta o contrasta la mentalità dominante, il sentire comune; interroga chi ne è testimone diretto o indiretto; testimonia valori, ispira comportamenti generali, crea istituzioni e opere, genera uno stile di vita frutto di un ethos di fondo. In sintesi, rende trasparente una certa visione dell’uomo e del mondo, della vita, della sofferenza e della morte: una visione universale, una weltanshaung. Senza sintesi non c’è storia, ma solo episodi. Nessuno dunque è invisibile: ciascuno partecipa al fluire del grande fiume umano, è protagonista: ed essere protagonista non è voglia di protagonismo, ma amore di identità.. • I popoli. I popoli, nella loro unità profonda, fanno storia avendo un raggio di azione e di efficacia più evidente dei singoli. Ma ci chiediamo, che tipo di efficacia ha un popolo nel contesto del mondo? Che cosa porta alla costruzione della storia umana? Aiuta a rispondere a queste domande l’esempio di grandi popolazioni come i Greci e i Romani. Guardando a questi popoli, ai quali siamo profondamente legati, viene da pensare alla loro cultura prima che alle loro imprese politiche, economiche e militari. E’ su questo piano, fatto di valori e di idee, che queste “genti” hanno inciso sulla storia. Basta pensare ai rapporti tra Roma, la Grecia e i popoli nordici e slavi. Prima che al genio dei capi, la storia è determinata dalle idee e dai valori, come accade per le singole persone. I valori sono l’anima della cultura, la carta d’identità di un popolo, Non sono una sua componente, ma il suo fattore principale. Il senso di appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, dipende dal riconoscersi in un quadro di valori che riguardano la vita e la morte, il loro significato, non tanto i fini ma il fine. Se questo non esiste o è giudicato inconoscibile, quindi consegnato all’individualismo di ciascuno, che cosa potrà attrarre gli uomini perché si sentano appartenenti ad una realtà di popolo? Che cosa li potrà sollecitare a sacrificarsi fino al dono della vita per la comunità? • Gli Stati. L’apparato politico e legislativo, le diverse espressioni dell’autorità statale, fanno storia e – a prima vista – appaiono come i primi e più importanti protagonisti della storia umana. Se questo è vero per un certo aspetto, non dobbiamo dimenticare quanto abbiamo ricordato sopra, gli altri livelli o protagonisti. I livelli sono differenti, ma reale è la loro incisività nel corso delle cose. Tra l’altro, non sempre nella storia i popoli hanno mostrato accondiscendenza verso le decisioni degli Stati, indirizzando gli eventi in modo diverso. Ciò sta a testimoniare quanto ogni Stato debba sapersi e volersi come espressione del popolo, sapendo che questo è specificato da un insieme di idee e valori di tipo spirituale ed etico che costituiscono “l’anima della Nazione”, la sua identità profonda. Qualora uno Stato dovesse tradire quest’anima, tradirebbe la gente in ciò che ha di più intimo e più suo. Colpirebbe ciò che consente ad una moltitudine di sentirsi “popolo” e ad un territorio di essere sentito come “casa”, “patria”. Tradire l’anima di un popolo – magari con processi corrosivi e subdoli – vuol dire sgretolare, in nome di qualche ideologia o disegno politico- economico, ciò che consente ad ognuno di sentirsi parte di un tutto; significa derubarlo di ciò in cui crede, che gli appartiene, che gli è stato tramandato come patrimonio, che è la sua forza unificante. Un patrimonio ideale che, nella pluralità delle forme ma nell’unità fondamentale del pensare e del sentire, permette di percepirsi “famiglia”. Per questo motivo, intaccare direttamente i valori spirituali e morali di una comunità e di un Paese, è attaccare la sua integrità e fare cattiva storia. Ma anche la diffusione di falsi miti, l’esaltazione dell’avere, la propaganda dell’ apparenza e del facile successo – in una parola, della menzogna – aggredisce la base valoriale di un popolo, lo svilisce nel suo sentire, e lo indebolisce nella sua capacità di futuro. Tutto viene confinato nell’angusto perimetro del presente: l’antico motto –“panem et circenses” – è noto come strategia per svuotare la mente e l’anima. Oggi, nello scenario occidentale, al posto di questo criterio – che ha un evidente costo economico - si potrebbe sostituire un altro motto, “fa tutto quello che vuoi”. Inteso in senso assoluto e individualistico, esso disgrega l’anima popolare e il senso di appartenenza ad una identità che crea comunione tra gli uomini e permette la comunità di vita. La storia che manifesta l’eclisse dello spirito va contro l’uomo, diventa “anti-storia”. Le luci e le ombre sono sempre intrecciate nel fluire del tempo, ma è necessario giudicare la storia. E’ necessario un criterio di giudizio per poter discernere i filoni luminosi da quelli oscuri, le linee evolutive e quelle che, invece, segnano retrocessioni anche gravi in ambiti vitali. La convinzione che la direttrice di fondo della storia sia il progresso, e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro, è un pregiudizio diffuso e coltivato. Ma per smascherare il pregiudizio è necessario il giudizio con la sua libertà e il suo coraggio; soprattutto con la sua verità. Il criterio di giudizio non può essere che la verità dell’uomo, il bene autentico suo e della società: questo – il bene - è alla sua radice di natura spirituale ed etica, cioè “culturale”. UNA CHIESA DI POPOLO Il Signore Gesù ha istituito la Chiesa sui Dodici: la nostra fede si fonda, in ultimo, sulla loro esperienza di Cristo. Con Lui hanno condiviso fatica e riposo, fame e sete, successi e rifiuti; hanno ascoltato la sua parola all’aperto delle strade e dei monti, come nell’intimità del cenacolo; sul suo volto hanno fissato gli sguardi a volte fieri e a volte spauriti, alla ricerca dei suoi sentimenti, nel desiderio di scoprire il suo mistero interiore. A loro Egli ha lasciato il suo testamento, e dall’alto della croce ha svelato il vero volto di Dio – amore misericordioso – e il vero volto dell’uomo creato per amore e per amare. Al Padre ha elevato la sua accorata preghiera nella sera infinita e dolente del Cenacolo: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). E’ questa la natura della Chiesa e la prima, necessaria strada dell’evangelizzazione: l’unità dei fratelli che nasce dalla comunione con Cristo. Con il mistero dell’Incarnazione, il Figlio di Dio compie la redenzione e immette nella vita umana la vita divina, svelando che Dio – l’unico che veramente rispetta la libertà dell’uomo – copre l’intero orizzonte dell’esistenza con la verità esigente dell’ amore, e con l’amore caldo della verità. Ricorda che tutta la creazione porta l’impronta del Logos: “E Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,10). La realtà lascia trasparire la luce del bene come il suo ordito più vero, il suo destino, e - quando la realtà è tenebrosa - come nostalgia o angosciata invocazione. Il Signore Gesù è la pienezza di questa luce divina che illumina il mondo, lo riscatta dalle ombre, lo apre alla speranza: grazie a Cristo crocifisso, anche il dolore innocente trova un senso. Alla Chiesa – Corpo mistico – Gesù affida il suo Vangelo, parola di vita eterna, e le vie della grazia, i sacramenti. Al Magistero dei Successori dei Dodici, stretti attorno al Successore di Pietro, affida l’autenticità della fede che sale dalle origini, gli Apostoli. Chi incontra Cristo, il Crocifisso glorioso, scopre il cuore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). In questa sovrabbondanza d’amore, si racchiude il senso della redenzione e il significato della storia umana. E’ una “aletheia”, una verità che si disvela nel Vangelo, ma non è una sorta di gnosi, di conoscenza misterica per pochi iniziati. E’ bensì la conseguenza di un incontro decisivo che cambia la vita del credente. È il frutto di un’amicizia personale con Cristo, un’amicizia che si rinnova ogni giorno; credere non significa aderire ad una dottrina, ma vivere riferiti a Lui che ci dona il suo amore e il suo pensiero: “Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1 Cor 2,16). Quando l’Apostolo Pietro – a Gesù che chiede “Volete andarvene anche voi?” – risponde a nome di tutti – “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,67-68) – non indica solo una nuova dottrina insegnata con autorità (cfr Mc 1,27), ma dice che quella verità che illumina e salva è Lui stesso, il Signore, è la sua persona concreta. Con Lui essi vivono, di Lui sperimentano la compagnia, per Lui lasciano padre, madre, figli e campi (cfr Mt 19,29). Dentro a questa esperienza essi trovano se stessi, il loro presente e il futuro, il tempo e l’eternità. Con Lui, nella luce della sua parola e della sua presenza, scoprono il senso vero dello stare insieme come Chiesa e come società. Scoprono un modo nuovo di vedere le cose, la vita, gli altri, il mondo, i valori. Per questo fanno storia sia come singoli che come gruppo, come popolo di credenti. Gli Atti degli Apostoli testimoniano questo modo diverso di essere nel mondo, di fare storia, una storia più umana perché fatta con Cristo. Un modo che, ad esempio, è rispettoso dell’autorità dell’Imperatore, ma nella verità: solo a Dio va il culto e l’adorazione. Un modo che ha al centro la persona nella sua corporeità e nella sua trascendenza spirituale, che mai può essere ridotta a strumento poiché immagine e somiglianza di Dio, redenta dal sangue di Cristo. Il Vangelo non è per pochi iniziati, ma per tutti; così la Chiesa non è per delle elites ma Chiesa di popolo: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). La sua cattolicità è la sua universalità. SALE E LUCE DELLA STORIA “Voi siete il sale della terra (…) voi siete la luce della mondo” (Mt 5, 13-14). Le parole di Gesù sono chiare e non ammettono sofismi: per annunciare il Vangelo, è necessario che i cristiani siano dentro al mondo pur senza assimilarsi al mondo (cfr Gv 17-14). Il vero, unico sale della storia è Cristo: egli solo preserva dalla corruzione della morte e restituisce all’universo il sapore delle origini, il gusto del pane appena uscito dalle mani del Creatore. Gesù non esorta i discepoli perché “siano” sale e luce, ma dichiara che essi “sono” sale e luce. E’ dunque un dato di fatto che egli indica: dice non ciò che ha fatto per loro, ma ciò che ha fatto di loro. L’immagine del sale indica la via della “discesa”, del nascondimento, della condivisione quotidiana, paziente e fiduciosa, della vita della gente. In una parola suggerisce l’incarnazione nel mondo. Le innumerevoli Parrocchie in Italia, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i diaconi permanenti, i gruppi, le associazioni e i movimenti, i moltissimi laici che – singolarmente o organizzati – sono presenti con la testimonianza e la fantasia della carità, dell’evangelizzazione e della catechesi, le scuole cattoliche, gli ospedali, le molteplici iniziative di incontro, di annuncio, di preghiera, di educazione e di assistenza ai bisognosi…non esprimono forse la realtà del sale di cui parla Gesù? Non sono forse segni permanenti di una prossimità capillare e quotidiana al popolo, che quindi si sente un popolo che è Chiesa? Non sono forse espressione di una storia che nasce e si alimenta del pensiero di Cristo? Non è la voglia di mondano protagonismo che muove la Chiesa fin dalle sue origini, ma il bisogno del cuore: l’amore a Cristo, all’uomo, al mondo nel quale la Chiesa è fatta carne. Cercare di vivere secondo il Vangelo, secondo la visione della vita e del mondo che ha ricevuto, crea una storia che – come il sale – vive nella storia umana, s’ intreccia con essa e la contagia elevandola ad una pienezza altrimenti irraggiungibile: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”, scrive F. Dostoevskij nei “Fratelli Karamazov”. Ma l’immagine del sale deve essere completata da quella della luce: la luce dona alle cose il loro volto. Nel buio tutto è indistinto, regna la confusione, si perde la strada. La luce suggerisce dunque la visibilità della presenza cristiana: se non c’è visibilità senza conoscere e condividere la vita concreta degli uomini, non c’è neppure condivisione senza una qualche visibilità personale e comunitaria che sia risposta e profezia. Le opere della Chiesa, che ho sopra ricordato, sono il segno dell’essere sale per un verso e luce per un altro. Oggi, come in altri periodi della storia, si vuole che la Chiesa rimanga in chiesa. Il culto e la carità sono apprezzati anche dalla mentalità laicista: in fondo – si pensa - la preghiera non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendone la possibilità nel privato. A tutti si riconosce come sacra la libertà di coscienza, ma dai cattolici a volte si pretende che essi prescindano dalla fede che forma la loro coscienza. I credenti sono luce tenendo alta la verità del Vangelo, l’annuncio di Gesù, la grande speranza come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI (cfr Spe salvi, n. 27). Se i mali di oggi derivano dal rifiuto di Cristo, la missione della Chiesa è quella di essere ancor più missionaria ricordando da un lato l’Apostolo Paolo - “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1 Cor 9,16) – e dall’altro l’assicurazione di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il Santo Padre, in una intervista alla televisione tedesca, diceva che è necessario “rendere visibile il Dio col volto umano di Gesù Cristo – poiché quando vediamo Gesù vediamo Dio – offrendo così agli uomini l’accesso a quelle fonti senza le quali la morale si isterilisce e perde i suoi riferimenti” (Intervista 14.8.2006). E urgente che attraverso la testimonianza e l’annuncio emerga “quel grande che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia al mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza” (Benedetto XVI, Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, 19.10.2006). Oggi, però, il popolo di Dio è chiamato a partecipare alla storia umana anche con la difesa della ragione. Può sembrare singolare che la fede difenda la ragione, ma – come già ho detto – Cristo salva l’uomo nella sua interezza. Il relativismo, che il Papa richiama come un tarlo della società e della storia occidentale, richiede la luce della ragione intesa come la facoltà del vero. Affermare l’efficacia della ragione non è “totalmente altro” dall’annuncio evangelico; non significa diminuire il Vangelo per impicciarsi di argomenti di competenza altrui. E’ intrinsecamente connesso: fede e ragione si richiamano a vicenda, sono implicati reciprocamente nell’unità della persona, “ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (Benedetto XVI, Spe salvi, 23). Si potrebbe pensare che nell’epoca del pluralismo culturale sia arrogante giudicare gli eventi della storia con la verità del Vangelo, che sia un atteggiamento di intellettuale fondamentalismo. Ci si chiede se la verità morale, legata ad una scelta religiosa, possa ispirare l’ordinamento civile valido per tutti. E’ una questione giusta e delicata. Se è gravemente ingiusto tradurre in termini di ordinamento pubblico certe scelte etico-religiose, è scorretto ridurre ogni posizione assunta dai credenti a scelta “confessionale”, e quindi totalmente individuale e privata. Certi valori - come nel campo della vita umana e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato - anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Cicerone scrive: “Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione. Essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano ai doveri; i suoi divieti trattengono dall’errore” (La Repubblica, 2, 22, 33). Nel Messaggio per la 40° Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2008), il Santo Padre ha ricordato anche i sessant’anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, e ha scritto: “I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione (…) La norma giuridica (…) ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio (…) Pur con perplessità e incertezze, (l’uomo) può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli essere umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell’ ingiusto” (1.1.2008). Anche l’enciclica Veritatis Splendor afferma che “l’uomo può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene e del male che egli stesso opera mediante la sua ragione” (n. 44). CUSTODIA E MEMORIA La Chiesa fa storia e, come sale e lievito, partecipa alla costruzione della storia universale. La Chiesa custodisce, infatti, la memoria della storia dell’uomo fin dalle origini: la memoria della sua creazione, della sua dignità e della sua caduta. La memoria della sua redenzione in Cristo. E’ da questa memoria che essa guarda la storia vedendola sempre come storia di salvezza. Per questo la visione che ne ha il cristianesimo non è solo “orizzontale”, ma anche “verticale”: a scrivere la storia non sono solo gli uomini. Con loro scrive anche Dio: con l’incarnazione, Dio è entrato nel tempo e da nessun luogo è ormai “assente”. Anche là dove vince il male, Cristo è presente e porta la croce con gli uomini; la porta e le dona un senso di eternità e di vita. La storia da allora è attraversata da una promessa che è anche una presenza: Dio salva gli uomini rispettandone la libertà ma non cessando di amarli. Il tempo non è un eterno ritorno del medesimo, ma una linea aperta che, pur tra errori e incertezze, cammina verso il suo compimento di felicità e di vita. Questa visione di speranza e di fiducia è propria della Chiesa, ma è a disposizione non solo dei credenti, lo è anche del mondo. Sull’esempio di Maria, la Chiesa come madre custodisce nel cuore la storia dei suoi figli e dell’umanità. E’ una memoria viva che cresce con la testimonianza degli apostoli consacrata dai martiri: la Tradizione non è altro, infatti, che l’impegno della Chiesa di tramandare intatto il mistero di Cristo e del suo pensiero: “E lui (lo Spirito Santo) vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). Nella luce di questa memoria - dove fede e ragione si incontrano in modo virtuoso - il popolo di Dio affronta la vita e il mondo; crea opere, pone giudizi, plasma rapporti e gruppi; ispira mentalità e motiva valori, guarda al futuro con fiducia, convinto che tutto si compirà nell’evidenza della luce. Appunto, crea storia. Nessuno è escluso, né persone, né cose, né culture: lo dice il cammino dell’Europa se guardato con occhi sereni. A partire da questa memoria custodita e amata, lo storia ruota attorno alla concezione dell’uomo, che nel Cristianesimo giunge alla sua pienezza e che sta alla base dell’umanesimo europeo. Si può giustamente rilevare che ciò non ha impedito errori e orrori in Europa; ma, a ben pensare, se ciò è accaduto non è stato perché sia stata troppo cristiana, ma perché lo è stata troppo poco. La Chiesa dice al mondo – in particolare oggi all’Europa – che il passato non può essere impunemente negato in nome dell’economia, della tecnologia o dello scientismo. Ricorda che il ruolo del passato ha rilievo ed ha un valore imprescindibile per l’oggi, pena lo sfaldamento dell’identità di una Nazione o di un Continente. Pena lo smarrimento personale e collettivo di un popolo che non sa più chi sia e dove vada. Invita tutti a riprendere il bandolo del proprio passato con i suoi grandi tratti distintivi per potersi pensare di nuovo come un intero, e così progettare il futuro affrontando senza paure o complessi, a viso alto, le sfide della modernità; senza rincorrere i “vicini di casa” considerati sempre e comunque migliori, più avanzati, più moderni di noi. La Chiesa ricorda al secolarismo e al laicismo che pretendere di costruire la storia senza Dio è costruirla contro l’uomo. Ricorda al nostro vecchio e amato continente che il resto del mondo guarda con sospetto questa pretesa, la sente come una presunzione innaturale e pericolosa, intuisce che racchiude in sé il germe del disfacimento spirituale e morale, dell’oscuramento dell’anima, che non riguarda solo gli individui, ma i popoli, la loro stessa possibilità di esistere. Porto, a conclusione di queste considerazioni, due testimonianze: di un convertito al cattolicesimo ( Thomas Eliot), e di un ebreo neo hegeliano, Karl Lovith. “La forza dominante nella creazione di una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto. Non mi interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato con sé (…) Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana (…) Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura” (T.Eliot, Appunti per una definizione della cultura in Opere, Classici Bompiani 2003, pagg. 638-639). “Il mondo storico – scrive Karl Lovith - in cui si è potuto formare il che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la dignità e il destino di essere uomo, non è originariamente il mondo (…) del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo, è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio (…) Questo riferimento storico (…) risulta indirettamente chiaro, per il fatto che soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità” (Karl Lovith, Da Hegel a Nietzsche, Biblioteca Einaudi 1994, pag. 482). Tornando all’Europa, sta qui la radice dell’ umanesimo del quale è in debito con tutti. Un umanesimo non nominalistico ma integrale, concreto e fondato in modo trascendente. “Non tutti gli umanesimi, infatti, sono equivalenti sotto il profilo morale – diceva Benedetto XVI ai Vescovi sloveni in visita ad limina – Non mi riferisco qui agli aspetti religiosi, mi limito a quelli etico-sociali. A seconda della visione di uomo che si adotta, infatti, si hanno conseguenze diverse per la convivenza civile. Se, per esempio, si concepisce l’uomo, secondo una tendenza oggi diffusa, in modo individualistico, come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale?” (24.1.2008). Concludiamo con le parole di Gesù; non “si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa, e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano” (Mt 9,17). Il Vangelo è entrato nella storia come carne e sangue, come vita; e la carica rivoluzionaria del Vangelo non è un messianismo ideologico e utopico, né una riforma stanca e impossibile, potremmo dire un semplice e tiepido aggiustamento. La vera rivoluzione del Vangelo è Cristo in noi: da qui nasce e continuamente si purifica e si alimenta l’autentica riforma. Qui sta la “riforma” prima ed essenziale, il “rinnovamento” dell’uomo, cioè la conversione del cuore. La fede immette nel credente l’amore di Cristo e questo amore ne fa una creatura nuova, capace di pensiero e di vita nuova. Capace di partecipare alla storia umana con qualcosa di proprio e di importante da dire per il bene di tutti nel segno della gratuità, e quindi dell’amore. Capace di partecipare alla vita politica nel segno della democrazia e della verità. (Card. Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova presidente della Conferenza Episcopale Italiana) |
Postato da: giacabi a 20:13 |
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cristianesimo
Da dove nasce la dignità dell’uomo
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È
facile fondare l'ordine di una società sulla sottomissione di ciascuno a
regole fisse. È facile modellare un uomo cieco, che subisca senza
protestare un padrone o un Corano. Ma
il successo é ben più grande quando, per liberare l'uomo, si riesce a
farlo regnare su se stesso. Ma che significa "liberare"? Se io libero,
in un deserto, un uomo che non sente nulla, che vale la sua libertà? La libertà si determina quando é di "qualcuno" che va "verso un dato luogo". Liberare costui significherebbe insegnargli ad aver sete e indicargli la strada verso un pozzo. Soltanto allora si proporrebbero a quell'uomo modi di essere che non mancherebbero più di senso. Liberare
una pietra non significa nulla, se non vi é la forza del peso. Perché
la pietra, una volta libera, non andrà in nessun luogo. La mia civiltà, invece, ha cercato di fondare le relazioni umane sul culto dell'Uomo al di là dell'individuo,
affinché il comportamento di ciascuno di fronte a se stesso o agli
altri, non fosse più conformismo cieco agli usi del termitaio, ma libero esercizio dell'amore. La strada invisibile del peso libera la pietra. Le invisibili inclinazioni dell'amore liberano l'uomo. La mia civiltà ha cercato di fare di ciascun uomo l'Ambasciatore di un medesimo principe. Ha considerato l'individuo come cammino o messaggio di qualcosa che lo trascende, ha offerto alla libertà della sua ascesa direzioni calamitate. Conosco bene l'origine di questo campo di forze. Per secoli e secoli la mia civiltà ha contemplato Dio attraverso gli uomini. L'uomo era creato a immagine di Dio. Nell'uomo
si rispettava Dio. Gli uomini erano fratelli in Dio. Questo riflesso di
Dio conferiva una dignità inalienabile a ciascun uomo. Le relazioni dell'uomo con Dio stabilivano con evidenza i doveri di ciascuno di fronte a se stesso e agli altri. La
mia civiltà è erede dei valori cristiani. Mediterò sulla costruzione
della cattedrale per meglio comprendere la sua architettura.
La contemplazione di Dio faceva gli uomini eguali, perché eguali in Dio.
E questa eguaglianza aveva un significato chiaro. Poiché non si può
essere eguali se non "in qualche cosa". Il soldato e il capitano sono
eguali nella nazione. L'eguaglianza é una parola vuota di senso se non
esiste un punto cui legare questa eguaglianza. Comprendo chiaramente
perché quest'eguaglianza,
che era l'eguaglianza dei diritti di Dio attraverso gli individui, non
permetteva di limitare l'ascesa di un individuo: Dio poteva decidere di
far di lui una strada. Ma siccome si trattava anche dell'eguaglianza dei
diritti di Dio "sopra" gli individui, comprendo perché gli individui,
quali che fossero, erano sottomessi agli stessi doveri e allo stesso
rispetto delle leggi. Esprimendo Dio, erano eguali nei loro diritti.
Servendo Dio, erano eguali nei loro doveri. Comprendo perché
un'eguaglianza stabilita in Dio non implicava né contraddizione né
disordine. La
demagogia s'introduce quando, in mancanza di una misura comune, il
principio di eguaglianza s'imbastardisce in principio d'identità. Allora
il soldato nega il saluto al capitano, poiché il soldato, salutando il
capitano, onorerebbe un individuo e non la Nazione. La mia civiltà,
ereditando da Dio, ha fatto gli uomini eguali nell'Uomo. Comprendo l'origine del rispetto degli uomini gli uni per gli altri. Il
sapiente doveva rispetto al carbonaio perché nel carbonaio rispettava
Dio, di cui il carbonaio era pure l'Ambasciatore. Quali che fossero il
valore dell'uno e la mediocrità dell'altro, nessun uomo poteva
pretendere di ridurre un altro in schiavitù. Non si umilia un
Ambasciatore. Ma questo rispetto dell'uomo non implicava la
prosternazione degradante dinanzi alla mediocrità dell'individuo,
dinanzi alla bestialità o all'ignoranza, poiché prima di tutto era
onorata la qualità di Ambasciatore di Dio. Così l'amore di Dio fondava
fra gli uomini relazioni nobili, perché gli affari si trattavano da
Ambasciatore ad Ambasciatore, al di sopra della qualità degli individui.
La mia civiltà, ereditando da Dio, ha fondato il rispetto dell'uomo
attraverso gli individui. Comprendo l'origine della fraternità degli uomini. Gli
uomini erano fratelli in Dio. Non si può essere fratelli se non in
qualche cosa. Se non esiste un nodo che li unisca, gli uomini sono
sovrapposti, non legati. Non si può essere fratelli in astratto. I miei camerati ed io siamo fratelli nel Gruppo 2/33. I Francesi nella Francia. La
mia civiltà, ereditando da Dio, ha fatto gli uomini fratelli nell'Uomo.
Capisco il significato dei doveri di carità che mi venivano predicati.
La carità serviva Dio attraverso l'individuo. Era dovuta a Dio, quale
che fosse la mediocrità dell'individuo. Questa carità non umiliava il
beneficato, non lo imprigionava nelle catene della gratitudine, perché
non era a lui, ma a Dio che il dono veniva dedicato. L'esercizio di
questa carità, per contro, non era mai omaggio reso alla mediocrità,
alla stoltezza, o all'ignoranza. Il medico aveva verso se stesso il
dovere d'impegnare la propria vita nelle cure al più volgare appestato.
Egli serviva Iddio. Non era menomato dalla notte insonne, trascorsa al capezzale di un ladro. La
mia civiltà, erede di Dio, ha fatto dono in tal modo della carità
all'Uomo attraverso l'individuo. Comprendo il significato profondo
dell'Umiltà che si esigeva dall'individuo. Essa non lo umiliava. Lo
elevava. Lo illuminava sulla sua missione di Ambasciatore. Così come lo
obbligava a rispettare Dio attraverso gli altri, lo obbligava a
rispettarlo in se stesso, a farsi messaggero di Dio, in cammino nel nome
di Dio. Essa gli imponeva di dimenticarsi per accrescersi, poiché se
l'individuo si esalta della propria importanza, la strada immediatamente
si cambia in muro. La mia civiltà, erede di Dio, ha predicato anche il
rispetto dell'Uomo attraverso se stesso. Comprendo,
infine, perché l'amore di Dio ha stabilito che gli uomini siano
responsabili gli uni degli altri e ha imposto loro la Speranza come una
virtù. Poiché, di ciascuno di essi, la Speranza faceva l'Ambasciatore
del medesimo Dio, nelle mani di ciascuno riposava la salvezza di tutti.
Nessuno aveva il diritto di disperare, perché messaggero di qualcosa
più grande di lui. Disperarsi era come rinnegare Dio in se stessi. Il
dovere di Speranza avrebbe potuto tradursi: "Tu ti credi dunque così
importante? Quale fatuità nella tua disperazione!". La mia civiltà,
erede di Dio, ha fatto ciascuno responsabile di tutti gli altri uomini, e
tutti gli uomini responsabili di ciascuno. Un individuo deve
sacrificarsi per la salvezza di una collettività, ma non si tratta di
un'aritmetica imbecille. Si tratta del rispetto dell'Uomo attraverso
l'individuo. Effettivamente,
la grandezza della mia civiltà è che cento minatori hanno verso se
stessi il dovere di rischiare la loro vita per il salvataggio di un solo
minatore sepolto. Essi salvano l'Uomo. Comprendo chiaramente, a questa
luce, il significato della libertà. È
libertà di crescita dell'albero nel campo di forza del suo seme. E’
clima dell'ascesa dell'Uomo. È simile a un vento favorevole. Solo per
virtù del vento i velieri sono liberi in mare. Un uomo così costruito
disporrebbe del potere dell'albero. Quale spazio non coprirebbe con le
sue radici! Quale umana linfa non assorbirebbe, per farla sbocciare nel
sole!
ANTOINE DE SAINT-EXUPERY da: IL PILOTA DI GUERRA
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Postato da: giacabi a 07:06 |
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cristianesimo, saintexupery
L’Europa senza il cristianesimo
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"Per me non c'è politica che non sia contemporaneamente religione. La politica serve la religione. La politica senza la religione è una trappola per gli esseri umani, perchè uccide l'anima. Sono fermamente convinto che oggi l’Europa non stia mettendo in pratica lo spirito di Dio e del cristianesimo, bensì lo spirito di Satana"
Mahatma Gandhi |
Postato da: giacabi a 08:34 |
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gandhi, europa, cristianesimo
Meeting-Si può vivere così- 4
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Meeting 2008 - giovedì 28 agosto 2008 - Ore: 15.00 Sala A1 - Incontro con Aldo Trento (Paraguay) e Rosetta Brambilla (Brasile)
Rosetta Brambilla
Milano 1960. «Rosetta,
domenica c’è una festa a casa di Lucia. Vieni? Si balla». Perché no?
Rosetta, diciassette anni, lavora in fabbrica come decoratrice di
porcellane, e a fine settimana ha voglia di divertirsi. Di soldi poi in
tasca ne ha pochi perché lo stipendio lo dà in casa. Per sé solo 200
lire alla settimana. Giusto il cinema ogni tanto. Accetta. La festa è
come le altre, si scherza, si balla. Rosetta è però colpita da un
gruppetto. Non capisce perché, ma hanno un modo attraente di stare
insieme, le sembra che ballino persino in modo diverso. Incuriosita gli
si avvicina, ci parla. Si sta bene con loro. Salta fuori che sono amici
di Antonio che lei conosce bene, che fanno parte di Gs.
«Ma cosa è Gs?». «Domenica andiamo a fare una gita in montagna? Ti aspettiamo. Il ritrovo è ai piedi della Grigna. Un passo da casa tua. Non sei mica di Bernareggio? Vieni». In funivia, seduta accanto ad Antonio gli aveva chiesto: «Cosa avete di diverso?». «È Cristo, ciò che ci muove è Cristo. In ogni azione: che sia il ballare o l’andare in montagna». «Mi interessa, voglio stare con voi». «Ci vediamo a messa in Santo Stefano». Così di colpo la vita era cambiata. L’incontro con il don Giuss, la Scuola con lui in via Sant’Antonio, mangiare insieme e poi via in Bassa. Ogni istante diventa attraente. E Rosetta per potersi pagare treno, pullman, tram per arrivare a Milano e raggiungere questa compagnia nuova si trova il secondo impiego: tre sere alla settimana lavora in una ditta di gazzosa. Nel ‘62 i primi partono per il Brasile e le decime le inviano là: è il modo concreto per stare vicino agli amici lontani che costruiscono un pezzetto di mondo nuovo, e con la caritativa è il modo per guardare la realtà senza manipolarla. A questo li educa il don Giuss: ad appassionarsi a Cristo. Rosetta, a un certo punto, capisce che vuole abbracciare tutto il mondo: vuole andare in missione. Ne parla con Giussani che le indica le Piccole Suore del Martinengo. Poi nel ‘67 la partenza per il Brasile a raggiungere Pigi, Nicoletta, Luisa, Maria Rita e gli altri. Ma tra alcuni di loro è già in atto la frattura: l’abbandono della Chiesa in favore di una scelta marxista che doveva rispondere, secondo loro, al desiderio della costruzione di un mondo nuovo. Per Rosetta è uno strappo: quelli che erano più madre e padre dei suoi stessi genitori rinnegavano, anzi dicevano che la sua era una posizione infantile che bisognava cambiare. L’Umberto aveva attraversato l’Oceano proprio per spiegarglielo e riportarla a casa, per indicarle “la strada giusta”. Ma c’erano le lettere di Giussani, che mai l’aveva lasciata sola: «Cristo è ciò per cui tutto è fatto, e Cristo è il perché della tua vita: a lui dedicati con devozione totale, e allora anche gli sbagli degli uomini e le incomprensioni con cui ti possono trattare diventeranno pietre per la edificazione d’una tua grande anima». Umberto era ripartito e lei era stata lì con quelli che lui definiva sogni giovanili e lei fedeltà al Signore, unico motivo per cui valeva la pena spendere la propria vita. Nel ‘70 il rientro in Italia e la decisione di entrare nel Gruppo Adulto. E dentro questo desiderio di abbracciare il mondo. Così, nel ‘72 riparte per il Sudamerica. Prima a San Paolo, poi a Macapà, nel cuore dell’Amazzonia, e infine nel ‘78 nelle favelas di Belo Horizonte con Pigi Bernareggi. Sempre per costruire un pezzetto di mondo nuovo. E proprio a Belo Horizonte, seduta in strada su blocchi di cemento, mentre insegna catechismo ai bambini, le viene l’idea: ci vuole un luogo per tutti quei bambini abbandonati per la maggior parte della giornata, un luogo per loro, ma anche per le loro mamme, dove essere guardati come persone. E lì, all’aperto, sotto un telo cerato, dà vita a un asilo con l’aiuto di due ragazze della favela. Di giorno in giorno i bambini aumentano e dopo qualche anno riescono a prendere una baracca con i soldi della mamma di Rosetta, che l’ha sempre sostenuta. Oggi, attraverso Avsi e le adozioni a distanza, i bambini seguiti sono più di 700, dai due mesi ai 15 anni. Alcuni educatori sono stati a loro volta alunni. A tutti Rosetta ripete che educare è comunicare sé in ogni gesto della giornata: dall’apparecchiare la tavola a insegnare a leggere, perché i bambini guardano dove tu guardi. Riverbero di quello che anni prima Giussani le aveva insegnato: vivere è affermare Cristo. Sempre. [Tracce, febbraio 2005] |
Postato da: giacabi a 08:08 |
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cristianesimo, brambilla
Andrea Aziani
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Postato da: giacabi a 15:03 |
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testimonianza, cristianesimo, aziani
Ringrazio Dio
di avere incontrato questa mia malattia
***
“….io,
oltre a fare il medico, sono anche malato di sclerosi laterale
amiotrofica, una malattia neurologica progressiva, degenerativa, che
porta alla distruzione di un gruppo di cellule che si chiamano
motoneuroni, il cui compito è quello di portare gli impulsi a tutta la
nostra muscolatura volontaria. Morendo queste cellule, i nostri muscoli
non si muovono più, dal banalissimo muscoletto del dito del piede o
della mano ai muscoli che ci permettono di parlare correttamente, di
alimentarci, di respirare. E andiamo incontro a una paralisi totale, con
morte per insufficienza respiratoria in pochissimo tempo. Ecco, il
malato di sclerosi laterale amiotrofica vive una situazione di totale
abbandono, proprio perché la scienza dice che non c’è nulla da fare, tu
sei affetto da una malattia inguaribile. Ma
non per questo, non è curabile. Non per questo, non è una malattia con
cui vivere una qualità della vita accettabile, e con una dignità enorme.
I
malati, tutti i malati, affetti da patologie che comportano una certo
grado di disabilità, più o meno importante, i malati affetti da
patologie rare, congenite, acquisite, sono dei tesori, sono valori
aggiunti alla vita di ognuno di noi, alla vita dei familiari, alla vita
di chi li cura, alla vita di chi può aver la fortuna di condividere il
loro percorso di vita. Perché veramente la persona con disabilità, la persona che soffre, capisce e apprezza i veri valori della vita. Io ho fatto questa esperienza da malato, un po’ come Pierre, lui da genitore. Mi
sono buttato nel sociale per cercare di aiutare chi è meno fortunato di
me. Io sì - a volte mi prendono un po’ per folle - mi considero rinato,
da quattro anni a questa parte. Mi considero un uomo molto fortunato.
Si può dire che forse ero malato prima, adesso sono una persona sana
dentro, sono una persona felice dentro. O forse ho incontrato qualcuno,
il vero miracolo è successo quando qualcuno mi ha messo la mano sulla
testa. Guarire, o il miracolo, non significa scendere dalla carrozzella,
significa accettarsi, accettare i propri limiti, essere felici di
vivere, di essere vivi costantemente. Vivere la quotidianità con la
propria sofferenza e fare della sofferenza un’esperienza, un’esperienza
di vita che è utile per te e soprattutto per chi ti è vicino. Quattro anni
fa, come vi dicevo, mi sono lanciato e sono diventato presidente
dell’associazione nazionale dei malati di sclerosi laterale amiotrofica,
che ho l’onore e l’onere di rappresentare. Siamo circa 5.000 malati,
5.000 malati che chiedono di continuare a vivere. E chi meglio di loro può rappresentare un esempio paradigmatico per rispondere, o cercare di rispondere, alla nostra domanda: chi è l’uomo?
Ecco, io vorrei condividere con voi alcune riflessioni che ho fatto,
prima di tutto come uomo, come medico, e poi anche come malato. Se posso
avere la prima diapositiva, la potenza della tecnica!
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Parto da questa frase di Seneca. Seneca diceva: “La vita vale se è degna di essere vissuta”, cioè se è una vita piena. Una vita senza qualità non è più vita. Ma ancor di più se insieme leggiamo questo scritto di Nietzsche tratto dal Crepuscolo degli idoli,
che vive la malattia e vede il malato come “un parassita delle società.
In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a
vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche,
dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita,
dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo”. Sono frasi,
affermazioni estremamente pesanti, che mi fanno riflettere. Mi hanno
fatto riflettere, soprattutto leggendo poi un passo tratto da Smith:
quando oggi sento nuovamente i medici discutere di eutanasia parlando di
uccisioni compassionevoli, l’orrore si impadronisce di me. Un titolo
accademico non è una garanzia contro comportamenti sadici e psicopatici,
come è dimostrato dallo stato dei medici di Arnheim.
Prima i malati incurabili, poi i ritardati, i vecchi, presto tutti
coloro che avranno un qualche genere di disabilità, divennero indegni di
vivere. Ma quando una vita è degna di essere vissuta? Qui mi sono fatto aiutare dalla riflessione di un carissimo amico, in cui la
dignità della vita è un carattere ontologico dell’essere umano e non
può dipendere assolutamente dalla qualità della sua vita, definita in
base a un banalissimo e mero principio utilitaristico.
Questo non dovremmo dimenticarcelo: lo dico ai miei colleghi medici ma
lo dico a tutti, all’uomo di strada. Pensiamo all’altro. Pensiamo a noi
stessi e vediamo noi stessi nell’altro. Anche Pierre prima parlava di
qualità della vita. Qui c’è una frase tratta sempre da questo mio caro
amico, da alcune sue riflessioni, in cui lui afferma che oggi un nuovo
scientismo va affermandosi e vuole definire chi sia o non sia persona
umana. Chi sia o non sia degno di vivere.
Quindi, persona umana può diventare una sorta di titolo, una specie di
patente da dare o da togliere agli esseri umani ad un certo punto della
loro esistenza, in relazione alla comparsa o alla cessazione di una
capacità o di una funzione. A volte, anzi, oserei dire
spesso, questa è la quotidianità, la realtà di come un malato, una
persona fragile, viene visto. Non c’è la cultura dell’altro.
Non c’è la cultura dell’amare, soprattutto da parte di chi dovrebbe
farsi carico, dovrebbe prendersi in cura, non dovrebbe aver paura di
vivere la propria professione, viverla con amore.
E qui vengo alla persona,
una specie di persona, un umano: come lo possiamo definire? Questa è la
definizione banalissima che potete trovare su qualsiasi enciclopedia:
un insieme di tutte le caratteristiche del singolo individuo, fisiche,
tangibili, etiche, comportamentali, morali e spirituali, nonché della
proiezione del singolo nella vita sociale. Ossia della percezione che
ogni persona da di se stessa all’esterno. E’ una definizione talmente
asettica, secondo il mio modestissimo parere, priva di contenuti. Tanto è
vero che mi
sono permesso di fare mia la definizione di persona da parte di
Bendetto XVI: “La persona umana non è d’altra parte soltanto ragione,
intelligenza. Porta dentro di sé, nel più profondo del suo essere, il
bisogno di amare, di essere amata e di amare a sua volta”. Ecco, cominciamo quindi a tracciare un po’ la figura di chi è l’uomo. Chi è l’uomo? Con
un punto di domanda voglio portarvi questo spunto per riflettere e poi
vedere se, alla fine della nostra, anzi della mia chiacchierata con voi,
la potremmo condividere. L’uomo
non è nient’altro, alla luce di quanto vi ho detto poc’anzi, che il più
debole, l’indifeso, colui che non ha né potere né voce per difendersi.
Colui al quale passiamo, e possiamo passare accanto nella vita, nella
quotidianità, facendo finta di non vederlo. Ecco, io mi sono guardato
dentro e ho pensato agli anni precedenti la mia nuova vita. Mi è rimasta
un po’ di presunzione da medico, nel dire questa mia nuova vita, questa
stupenda vita che sto vivendo. In effetti, forse molte volte non mi
sono fermato, non sono mai sceso, non ho mai avuto il coraggio di vedere
nell’altro chi realmente era debole, chi realmente aveva bisogno di me.
Dopo che mi sono ammalato, mi sono chiesto: salute è uguale a qualità
della vita? Per salute vogliamo intendere non soltanto la cura delle
malattie ma la ricerca del pieno benessere fisico, psicologico e
sociale? O tutto questo è pura ambiguità? Certo, se
noi vediamo la qualità della vita, e pensiamo che sia sufficiente per
valutarla considerare esclusivamente l’efficienza economica, la
godibilità consumistica, la bellezza, il livello di prestazione fisica,
ignorando del tutto le dimensioni relazionali, spirituali, religiose
dell’esistenza, ecco, su questo dovremmo fermarci un attimo. Io
quotidianamente ricevo delle lezioni di vita incredibili, da parte dei
miei malati ma soprattutto dei miei compagni di malattia. Miei compagni
di malattia che, pur essendo totalmente prigionieri di un corpo, in
grado di muovere a volte solo i bulbi oculari, a volte neanche quello,
esprimono anche con il loro sguardo una grandissima voglia di vivere, ma
soprattutto esprimono una qualità di vita incredibile. Questa è la
frase di una mia carissima compagnia di malattia, che volutamente ho
invitato al convegno che c’è stato un paio di mesi fa alla federazione
nazionale dell’ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, in cui si
parlava di testamento biologico, direttive anticipate. La federazione
doveva uscire con un documento. Allora, grazie a un collega friulano,
avevo chiesto di far partecipare questa signora che vedete sulla
barella, Maria Pia Pavani. Vi leggo la sua frase: “Ringrazio
Dio per il rinnovato dono della vita, una vita puramente intellettiva
in un corpo totalmente paralizzato e supportato dalle macchine. Molti
non capiscono e non condividono la mia scelta: vita problematica,
sofferta e inutile, sostengono. Stupenda nel suo rinnovarsi e maturare,
che mi permette, attraverso moderne, sofisticate tecnologie, di donarmi e
lottare ancora per gli altri”. Ecco, questa è una frase che mi ha fatto sentire proprio una formichina. Maria
Pia è una malata di SLA dal 1991, pensate, muove solo il mento, un
pochettino, e scrive delle poesie e disegna col computer. Stupendi i
suoi occhi vivi, la sua grandissima fede, ti donano una forza, ti fanno
capire quanto la vita sia estremamente importante viverla in qualsiasi
modo, perché la vita (non dimentichiamoci) è un bene indisponibile, e
non possiamo assolutamente pretendere che qualcun altro possa decidere
per noi.
La
vita è bella, viverla in qualsiasi momento della giornata, con
qualsiasi difficoltà, guardare sempre il lato positivo della vita,
ascoltare la pioggia che cade, essere qua insieme a voi. Questo è un
dono, un dono stupendo, meraviglioso, che ci fa (me e voi), ci deve far
sentire vivi. Ma non possiamo permettere che il singolo, la singola
persona che soffre, il malato, il disabile, dotato di una forte fede, di
un grande spirito, di una grande anima propositiva, possa vivere in
questo modo.
Dobbiamo aiutarlo anche noi, noi medici, noi laici, noi tutti. E qui
rientra il concetto dell’umanizzazione della cura, della presa in
carico. Se ne parla tanto, anche nel nostro servizio sanitario,
l’umanizzazione delle cure soprattutto nel percorso di assistenza del
dolore e della sofferenza. Ma che cosa significa? Significa entrare di
più nell’ottica della cura della persona, che non si riduca solamente a
terapia ma che si apra ad un più
esteso ed ampio prendersi cura della persona. E qui mi rifaccio ad una
frase di Kierkegaard, un filosofo maledetto che però ha scritto una cosa
giusta: “Se davvero si vuole aiutare qualcuno bisogna prima scoprire
dove si trova”. Questo è il
segreto dell’assistenza. Se non si può scoprirlo, è solo un’illusione
credere di poter aiutare un altro essere umano. Ecco, ma come aiutare?
Qui io mi rivolgo a noi operatori sanitari, a noi medici, infermieri.
Quale deve essere il senso e lo scopo di un rapporto, di un rapporto
medico-paziente, operatore sanitario–paziente, in questo nostro tempo?
Questo rapporto fra una persona che ha bisogno di cure e un’altra a cui è
richiesto di rispondere a questo bisogno? Lo sappiamo benissimo, ne
abbiamo sentito parlare tanto, soprattutto oggi la nostra medicina è
chiamata ad arretrare sulla soglia di un principio sovrano di
autodeterminazione dell’individuo. Questo, sì, è facile, perché assolve
tutti dalle responsabilità oggettive di creare nel sistema sanitario e
nella società spazi umani, non solo come luoghi ma anche come
possibilità di relazione, nei quali sia possibile vivere l’esperienza
della malattia. D’altronde, però, non possiamo parlare di tutto ciò se
manca alla base di questo un vero rapporto con una o più persone di cui
potersi fidare, soprattutto quando si è nella fase del vissuto della
malattia: potersi affidare.
E
su questo, come possiamo aiutarci? Sicuramente con una presa in carico,
una presa in cura della persona. E questo lo dico ai miei colleghi. Se
noi curiamo le malattie, possiamo vincere o perdere, ma se curiamo la
persona vinciamo sempre. La persona prima di tutto, perché si insegna
tanto ma noi come professionisti vinciamo. E soprattutto senza ricorrere
molto alla ipertecnologia. Basta a volte un semplice sguardo. Questo
è un lavoro riportato su una nostra rivista scientifica per addetti ai
lavori. Un neuropsichiatria ha pubblicato su un giornale internazionale
di oncologia un articolo sulla dignità e lo sguardo del curante: è
riprodotto benissimo in questa fotografia presa in prestito da un caro
amico. A questo punto mi sento di dire che la definizione di persona può
essere solo, esclusivamente questa: la
persona umana porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo
essere, il bisogno di amore, di amare e di essere amata. Soprattutto, lo
sguardo che liberamente porto sull’altro decide della mia stessa
dignità. Dovremmo tenerlo presente, dovremmo imparare ad ascoltare e far
tesoro anche della bellissima frase di Madre Teresa di Calcutta
sull’imparare ad ascoltare: “Non potremo mai parlare prima di avere
ascoltato. Quando avremo ascoltato il nostro cuore sarà colmo, la nostra
mente penserà e allora potremo parlare”. Ecco, questo è importante,
dovremmo tenerlo tutti presente.
E questo lo dico perché, non solo nel nostro Paese, non solo noi qui ci troviamo, per fortuna, con determinati valori, ma anche a livello internazionale qualcuno si sta muovendo. Perché
si sta perdendo di vista quello che è stato e che è il cuore della
professione medica: l’umanità, soprattutto, la gentilezza, l’umanità e
il rispetto. Questo neuropsichiatria ha pubblicato recentemente questo lavoro, dicendo che
la dignità è l’essenza della medicina. Propone anche di imparare con
una specie di sillabario: a, b, c e d, dignità per le cure. a) le
attitudini, b) i comportamenti, c) la compassione, d) il dialogo.
Dobbiamo a dedicarci all’altro e dedicare il tempo ad ascoltarlo. Ma
dobbiamo stare attenti alla compassione, nel vero senso della parola.
Perché la compassione - è una
frase bellissima del nostro carissimo Santo Padre Giovanni Paolo II –
“quando è priva della volontà di affrontare la sofferenza e di
accompagnare chi soffre, porta alla cancellazione della vita per
annientare il dolore, stravolgendo così lo statuto etico della scienza
medica”. Quello che diceva anche prima Pierre, dobbiamo avere il coraggio di vivere con la sofferenza. La
sofferenza è un dono. Può essere veramente il valore aggiunto nella
nostra quotidianità. Non occorre essere ammalati per essere sofferenti,
non occorre avere una malattia congenita: ognuno di noi può avere nel
cuore la sua sofferenza. Basta saperla usare nel modo giusto: accettarla, viverla, non vederla come un evento negativo ma come qualcosa che ti può migliorare. Ti
può migliorare, tenendo conto di quello che è emerso dalle parole di
Pierre, la speranza. Ecco, noi a volte, ricercatori e scienziati, ci
chiudiamo dentro questa parola, speranza, perché abbiamo paura. La speranza può essere qualcosa di concreto. Ad
esempio, la speranza io la definisco come quel sentimento confortante
che proviamo quando possiamo scorgere con l’occhio della mente quel
cammino che ci può condurre ad una condizione migliore. E questo è vero,
è realtà. Bisogna essere felici, felici di vivere: questa è una frase
mia, vabbè, potevo evitare di dirlo, e questa è una foto mia con un
compagno di malattia. Adesso forse si vede male, ma lui sorride, è
felice di stare al mondo, anzi è uno degli attori di un libro che ha scritto un mio caro amico: “Un’inguaribile voglia di vivere”. Vi
inviterò a vederci ad acquistarlo. Perché è un libro che parla di
avventure - io le chiamo così - di queste persone affette da patologie
incredibili ma che hanno una grandissima voglia di vivere. Quando mi
chiesero: “Ma
lei è affetto da una malattia inguaribile?”, li ho fermati subito. Ho
detto a questo giornalista: “Io di inguaribile ho solo la voglia di
vivere, tutto il resto non mi interessa”.
Facendo
una riflessione con un mio carissimo amico, che è presente stasera in
sala, parlavamo dell’accanimento terapeutico. In effetti, oggi non è
l’accanimento terapeutico che ci deve spaventare, ma l’accanimento con
cui si cerca di censurare, in questa ultima frontiera, la domanda di
senso dell’esperienza dell’uomo che, ormai soffocata in tutti gli ambiti
della vita, emerge irriducibile nella malattia. La malattia è veramente
un valore aggiunto, signori miei, è veramente un valore aggiunto. E a
questo punto mi avvio un po’ alla conclusione. La domanda: “Chi è l’uomo
perché io lo curi?”. Alla prima frase, che avevamo letto insieme prima,
sul più debole, l’indifeso, colui che non ha voce per difendersi, colui
al quale possiamo passare accanto nella vita facendo finta di non
vederlo, io aggiungerei questo: che occorre fermarsi, avvicinarsi a
colui che ha bisogno, prendersi cura di lui. Bisogna avere il coraggio
di fermarsi veramente e chiederci “Chi è il prossimo?”. Non
dimentichiamoci quella famosa, bellissima frase: “Ama il prossimo tuo
come te stesso”. Chi è il prossimo? Cominciamo a scendere anche noi e
metterci dalla parte del prossimo. Questo è estremamente importante, ma
vi dico soprattutto che non occorre avere delle esperienze bellissime
come ha vissuto Pierre, o un’esperienza meravigliosa come quella che sto
vivendo io, con la mia quotidianità. Dobbiamo
solo avere il coraggio di fermarci e chiedere: “Chi è il mio
prossimo?”. Dobbiamo avere il coraggio di fermarci e accettare di farci
prossimi. Avvicinarci a colui che ha bisogno e prenderci cura di lui. E
soprattutto dobbiamo avere il coraggio di chiederci come può essere
possibile all’uomo questo sguardo, capace nello stesso tempo di cogliere
e rispettare la dignità dell’altra persona e di garantirgli la propria.
Io
penso che il dramma del nostro tempo - e dobbiamo correggerlo, dobbiamo
farcela - consista proprio nell’incapacità di guardarci così. Per cui, a
volte, lo sguardo dell’altro può diventare una minaccia da cui
difenderci: non deve essere così. Lo sguardo dell’altro, carico di
tenerezza, può farci riacquistare dignità, può farci ritornare quella
voglia, può essere la benzina che ci permette di continuare a vivere la nostra difficoltà.
Ecco, io ho voluto rubare, fra virgolette, al mio carissimo Felice
Achilli, questa sua diapositiva in cui rappresenta il mantello. Se noi
tutti riuscissimo a vedere la nostra vita in questo modo! Tutti
abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo bisogno di essere accettati,
indipendentemente che possiamo avere una disabilità o meno. Abbiamo
sempre bisogno di un mantello sotto il quale sentirci sicuri, presi in
cura, in carico da qualcun altro. Dobbiamo avere il coraggio e il
coraggio l’abbiamo avuto, in questo tempo, noi, un gruppo di amici.
Abbiamo cercato di lanciare un manifesto proprio per il coraggio di
vivere e di far vivere. Perché,
sapete, ci vuole il coraggio per vivere, ce ne vuole molto di più che
per morire. Bisogna avere il coraggio però di continuare a far vivere,
contro tutto quello che può essere l’abbandono terapeutico, contro
quello che è l’accanimento terapeutico ma soprattutto tutto ciò che può
essere un’istigazione al suicidio assistito o all’eutanasia. No!
Bisogna vivere! Non possiamo disporre della nostra vita. Ecco, è per
questo che io cito sempre l’inguaribile voglia di vita. L’inguaribile
voglia di vivere, che io voglio condividere con voi. E’ bellissimo
vedere una sala così colma per ascoltare delle esperienze, delle
riflessioni, di persone che si pensa sempre abbiano vissuto, abbiano
incontrato il dolore e la sofferenza. No, io
vi posso garantire che ringrazio Dio di avere incontrato questa mia
malattia, di averlo incontrato tardi, ma non è mai troppo tardi. Di aver
imparato quali sono i veri valori della vita. E la verità forse sta
proprio qui: avere il coraggio di amare e di farsi
amare, di accettare i propri limiti e di condividerli con gli altri.
Vivere, veramente, e qui poi mi fermo se no Felice mi sgrida. Vivere è la
cosa indispensabile. L’amore per la vita è la benzina che mi permette
di affrontare con serenità queste mie difficoltà, che vi posso garantire
sono parecchie. Perché a volte mi dimentico anche di avere qualche
problemino, ma lo faccio involontariamente perché è talmente bello
vivere che io, come vi dicevo, non sono malato. Sì, ho la sclerosi
laterale amiotrofica, però fino a quando ci sono io ci sarà anche lei.
Quindi andiamo avanti, cammino insieme a lei, e grazie.
CHI E’ L’UOMO PERCHE’ IO LO CURI? Giovedì, 23 agosto 2007
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Postato da: giacabi a 00:10 |
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eutanasia, cristianesimo
LA NUOVA AUSCHWITZ
***
Claudio Chieffo
Io suonavo il violino ad Auschwitz mentre morivano gli altri ebrei; io suonavo il violino ad Auschwitz mentre uccidevano i fratelli miei.(3 v) Ci dicevano di suonare, suonare forte e non fermarci mai, per coprire l'urlo della morte, suonare forte e non fermarci mai.(3 v) Non è possibile essere come loro.(2 v) Nel mondo nuovo che ora abbiamo creato c'è la miseria, c'è l'odio ed il peccato.(3 v) Ora siamo tornati ad Auschwitz dove ci è stato fatto tanto male, ma non è morto il male del mondo e noi tutti lo possiamo fare.(3 v) Non è difficile essere come loro.(2 v) Ora suono il violino al mondo mentre muoiono i nuovi ebrei; ora suono il violino al mondo mentre uccidono i fratelli miei La nuova Auschwitz ”Ricordiamo che «non è difficile essere come loro», che è possibile essere come loro. (...) Il tempo di questa violenza, di questa distruzione, comunque sempre serpeggia: nella nostra vita personale, per il rapporto con la ragazza o con il ragazzo, con i genitori, coi compagni di scuola, con tutto ciò che ci circonda, quanto in noi sa del veleno della violenza, della strumentalizzazione! C’è solo un modo per evitarlo: accostare l’uomo, chiunque sia, dal più vicino e preoccupante fino al più estraneo e lontano, con un amore al suo destino, questo rispetto profondo, questa passione per la sua libertà, per la sua energia in cammino,”
Giussani tracce09-07
“Il
Beato P. Tito Brandsma, nel campo di Dachau, all’infermiera odiata e
disprezzata da tutti i prigionieri che doveva iniettargli l’acido fenico –a Dachau, il medico del campo parlava sarcasticamente dell’«iniezione di grazia»– donò la sua povera corona del Rosario., fatta nascostamente con pezzetti di rame e di legno.
«No so pregare!» –fu la risposta irritata della donna. Le rispose con mitezza: «Non occorre che tu dica tutta l’Ave Maria; di’ soltanto: "Prega per noi peccatori"».
Ed
ella non riuscì più a dimenticare il volto di quell’anziano prete al
quale aveva dato la morte. Dirà poi: «Lui aveva compassione di me!».
L’aveva ucciso, ma Egli l’aveva generata alla grazia.”
Padre A. Sicari
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Postato da: giacabi a 15:01 |
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cristianesimo, giussani, chieffo
I cristiani nel mondo
***
" Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano. Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa,ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno del bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio. Insomma, per parlar chiaro, i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo. L’anima poi dimora nel corpo, ma non proviene da esso; ed anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo che si vede; anche i cristiani li vediamo abitare nel mondo, ma la loro pietà è invisibile. La carne, anche se non ha ricevuto alcuna ingiuria, si accanisce con odio e fa’ la guerra all’anima, perché questa non le permette di godere dei piaceri sensuali; allo stesso modo anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto nessuna ingiuria, per il solo motivo che questi sono contrari ai piaceri. L’anima ama la carne, che però la odia, e le membra; e così pure i cristiani amano chi li odia. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono detenuti nel mondo come in una prigione, ma sono loro a sostenere il mondo. L’anima immortale risiede in un corpo mortale; anche i cristiani sono come dei pellegrini che viaggiano tra cose corruttibili, ma attendono l’incorruttibilità celeste. L’anima, maltrattata nelle bevande e nei cibi, diventa migliore; anche i cristiani, sottoposti ai supplizi, aumentano di numero ogni giorno più. Dio li ha posti in un luogo tanto elevato, che non e loro permesso di abbandonarlo." Dall'Epistola a Diogneto (Cap. 5-6; Attribuita a Giustino) |
Postato da: giacabi a 16:43 |
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cristianesimo
Il Cristianesimo
***
•
• Se qualcuno mi chiedesse perché ritengo il cristianesimo la più alta e l'unica religione,
lascerei tranquillamente perdere tutto quello che si è appreso sul
rapporto e sulla graduatoria delle religioni e sul modo di rinvenire i
pregi della migliore e direi soltanto una ragione: perché nel primo precetto, che Iddio ha dato sulla terra, appare una sola parola: "Uomo". Egli non parla di religione, di fede, di anima o d'altro, ma unicamente dell'uomo. Voglio farvi pescatori d'uomini. E'
come se dicesse a tutti i secoli venturi: in primo luogo preoccupatevi
che l'uomo non mi vada perduto. Seguitelo, come io l'ho seguito e
trovatelo là dove gli altri non lo trovano più, nella sporcizia, nella
bestialità, nel disprezzo, avvicinatevi a lui e aiutatelo fino a che sia
di nuovo uomo.
Albert Schweitzer |
Postato da: giacabi a 09:10 |
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cristianesimo, schweitzer
Brave persone o uomini nuovi?
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“Non
dobbiamo meravigliarci, dunque, se alcuni, benché cristiani, sono
tuttavia persone «inamabili» e poco «perbene». C’è perfino, a pensarci,
un motivo per aspettarsi che costoro si volgano a Cristo più numerosi
delle persone amabili e «perbene». Proprio questo veniva rimproverato a Cristo durante la Sua vita sulla terra: che Egli sembrava attirare «certa gentaglia».
E un’obiezione che viene fatta anche oggi, e lo sarà sempre. Non
vedete perché? Cristo ha detto «beati i poveri», ha detto quanto è
difficile per i ricchi entrare nel Regno: e senza dubbio Egli intendeva
anzitutto gli economicamente ricchi e gli economicamente poveri. Ma le
Sue parole non valgono anche per un altro genere di ricchezza e di
povertà? Uno dei pericoli dell’avere molti soldi è di essere
soddisfatti del genere di felicità che il denaro può dare, e quindi di
non rendersi conto del bisogno che si ha di Dio. Se ci sembra di poter
avere tutto semplicemente firmando degli assegni, forse dimenticheremo
che in ogni momento dipendiamo totalmente da Dio. Ebbene,
è chiaro che le doti naturali portano con sé un rischio analogo. Se hai
nervi saldi, intelligenza, salute, popolarità, buona educazione, è
probabile che tu sia soddisfatto della tua persona così com’è. «Perché
tirare in ballo Dio?» chiederai. Un certo livello di buon
comportamento ti riesce abbastanza facile. Non sei una di quelle
sciagurate creature sempre alle prese col sesso, l’alcool, il
nervosismo, il malumore. Tutti
ti considerano una persona amabile e come si deve, e tu (detto fra
noi) sei d’accordo con loro. E molto probabile che tu sia convinto che
tutta questa amabilità è opera tua: ed è facile che tu non senta il
bisogno di un tipo migliore di bontà. Spesso chi è dotato di queste
buone qualità naturali non arriva a riconoscere il proprio bisogno di
Cristo, finché un bel giorno la bontà naturale lo abbandona e il suo
autocompiacimento va in frantumi. In altre parole, è difficile per chi è
“ricco” in questo senso entrare nel Regno.
Le cose stanno molto diversamente per le persone «inamabili» — le nature grame, meschine, timide, viziate, fiacche, solitarie, o le nature passionali, sensuali, squilibrate. Se costoro fanno tanto di provare a essere buoni, imparano, due volte più alla svelta, di avere bisogno di aiuto. Per loro, è Cristo o niente. Prendere la croce e seguirLo — oppure disperare. Sono le pecore smarrite: Egli è venuto specialmente per loro. Sono (in un senso molto reale e terribile) i «poveri»: Egli li ha benedetti. Sono la «gentaglia» con cui Egli va in giro; e naturalmente i farisei dicono ancora, come dicevano all’inizio: «Se nel cristianesimo ci fosse qualcosa di buono, gente simile non sarebbe cristiana ». Qui c’è un monito, o un incoraggiamento, per ognuno di noi. Se sei una brava persona, «come si deve», se la virtù ti riesce facile, stai in guardia! Molto ci si aspetta da coloro a cui molto è stato dato. Se scambi per tuoi meriti quelli che sono in realtà doni ricevuti da Dio tramite la natura, e se ti accontenti di essere semplicemente una brava persona, sei ancora un ribelle, e tutti quei doni non faranno che rendere la tua caduta ancora più terribile, la tua corruzione più intricata, il tuo cattivo esempio più disastroso. Il Diavolo un tempo era un arcangelo: le sue doti naturali erano superiori alle tue quanto le tue sono superiori a quelle di uno scimpanzé. Ma se sei una povera creatura — avvelenata da una trista educazione in una casa piena di volgari gelosie e di insensati litigi; afflitta, non per tua scelta, da qualche repellente perversione sessuale; tormentata giorno dopo giorno da un complesso di inferiorità che ti fa trattare con asprezza i tuoi migliori amici — ebbene, non disperare. Dio sa tutto questo. Tu sei uno dei poveri che Egli ha benedetto. Egli sa quale miserabile macchina tu cerchi di guidare. Tieni duro. Fa’ quello che puoi. Un giorno (forse in un altro mondo, ma forse molto prima) Egli la getterà tra i rottami e te ne darà una nuova. E allora tu potrai stupire noi tutti — e non da ultimo te stesso: perché avrai imparato a guidare a una dura scuola. (Alcuni degli ultimi saranno i primi e alcuni dei primi saranno gli ultimi). Una buona indole, una personalità sana e integra, è un’ottima cosa. Dobbiamo cercare, con tutti i mezzi in nostro potere sanitari, scolastici, economici, politici di produrre un mondo in cui il maggior numero possibile di persone cresca ricco di buone qualità; così come dobbiamo cercare di produrre un mondo in cui tutti abbiano da mangiare in abbondanza. Ma non dobbiamo supporre che anche se riuscissimo a rendere tutti buoni in questo senso, avremmo salvato le loro anime. Un mondo di brave persone, contente delle loro buone qualità, che non cercano altro, che hanno voltato le spalle a Dio, sarebbe altrettanto disperatamente bisognoso di salvezza quanto un mondo miserabile — e salvarlo potrebbe essere ancora più difficile. Il semplice miglioramento, infatti, non è redenzione, sebbene la redenzione migliori sempre le persone, anche qui e ora, e alla fine le migliorerà fino a un punto che noi non possiamo ancora immaginare. Dio si è fatto uomo per trasformare delle creature in figli: non per produrre uomini migliori del vecchio tipo ma per produrre un nuovo tipo di uomo. Non è come insegnare a un cavallo a saltare sempre meglio, ma come trasformare un cavallo in una creatura alata. Ed è ovvio che il cavallo, quando avrà le ali, si librerà alto sopra steccati che prima non avrebbe mai potuto saltare, e così batterà il cavallo «naturale» al suo stesso gioco. Ma può esserci un periodo, mentre le ali cominciano appena a spuntare, in cui ciò non gli sarà possibile; in quella fase le protuberanze sulle sue spalle (nessuno direbbe, vedendole, che diventeranno ali) potranno dargli perfino un aspetto goffo e impacciato. Ma forse ci siamo già soffermati troppo a lungo su questo tema. Se ciò che volete è un argomento contro il cristianesimo (e io ricordo bene con quanto zelo cercavo argomenti simili quando cominciavo a temere che il cristianesimo fosse vero), vi sarà facile trovare qualche cristiano ottuso e scadente, e dire: «Dunque questo sarebbe il vantato uomo nuovo! Preferisco il vecchio modello». Ma se avete cominciato a vedere che altre ragioni rendono il cristianesimo probabile, saprete in cuor vostro che state solo eludendo il problema. Cosa possiamo sapere realmente delle anime altrui, delle loro tentazioni, delle loro opportunità, delle loro lotte? Un’anima sola, in tutta la creazione, ci è dato conoscere: ed è l’unica la cui sorte sta nelle nostre mani. Se c’è un Dio, noi siamo, in un certo senso, soli con Lui. Non possiamo liberarcene almanaccando sul vicino di casa o sui ricordi di ciò che abbiamo letto nei libri. Cosa conteranno tutte queste chiacchiere e dicerie (saremo in grado, perfino, di ricordarle?) quando la nebbia anestetica che chiamiamo «natura» o «mondo reale» si dissiperà, e la Presenza davanti alla quale siamo sempre stati diventerà tangibile, immediata e inevitabile?".
C.S.Lewis, da Il cristianesimo così com’è Adelphi,
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Postato da: giacabi a 14:49 |
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cristianesimo, lewis
Lo svantaggio di essere cristiani
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C'è un solo svantaggio a seguire Gesù, ad essere cristiani, ad essere nella Chiesa: lo svantaggio che si è obbligati a rendersi coscienti di tutto quello che si fa, lo svantaggio di dover essere intelligenti, insomma. Ma non intelligenti nel senso della scuola, bensì intelligenti come uso dell'intelligenza che, in fondo, è dentro la frase che Cristo ripeteva sempre: «Vigilate, state all'erta».
Tutti vanno avanti con la testa nel sacco e ripetono.....
Ieri andavamo in macchina e c'era lì in mezzo alla strada un ragazzo in
bicicletta che aveva la lingua fuori fin qui e cantava «Oooooh!»... un
troglodita. Ma la maggior parte dei ragazzi,
se non sono proprio così materialmente -moltissimi sono così
materialmente, sempre di più -, tutti sono così di dentro: fanno
«Oooooh» dentro! Ripetono le canzoni che sentono dire o, peggio ancora, fanno
solo andare la testa... vale a dire la riduzione più meccanica
possibile di quel che sentono, neanche quel che sentono ripetono.
Luigi Giussani da: Si può vivere così? Rizzoli a P.
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Postato da: giacabi a 09:39 |
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cristianesimo, giussani, imbecillità giovanile
Il cristianesimo è ragionevole
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“Ho
voluto (...) a lungo (...) esaminare il tema principale: come, cioè la
mia posizione verso il Cristianesimo sia razionale. Razionale è, ma non è
semplice: è come un'accumulazione di fatti svariati, come
l'atteggiamento dell'agnostico, con la differenza che l'agnostico ha preso tutti i suoi fatti alla rovescia. Egli è un incredulo, per moltissime ragioni, ma sono tutte ragioni false. Egli dubita perché dice che il medio evo era barbarico, e non è vero; dice che il darwinismo è dimostrato - e non è; che i miracoli non sono accaduti - e invece sono accaduti; che i frati erano oziosi - ed erano laboriosissimi; che le monache sono infelici - e sono allegre e contente; che l'arte cristiana fu triste e pallida - ed ebbe i coloro più vividi e la gaiezza dell'oro;
che la scienza moderna rifugge dal soprannaturale - e non è esatto:
essa va verso il soprannaturale con la rapidità del treno lampo".
G. K. Chesterton, Ortodossia
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Postato da: giacabi a 22:35 |
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ragione, bellezza, cristianesimo, chesterton
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Cosa
ha apportato Gesù Cristo ad Atene e Roma che ha alterato il concetto
della politica economica? La domanda suona alquanto strana. È una
domanda insolita. Tuttavia, proprio per la sua novità, suggerisce un
modo diverso per guardare la storia politica. Consentitemi di proporre
alla vostra considerazione la seguente tesi: almeno
sette contributi apportati dai pensatori cristiani, meditando sulle
parole ed opere di Gesù Cristo, hanno modificato la visione della buona
società proposta dagli scrittori classici della Grecia e Roma, ed hanno
reso possibili alcune moderne aspettative. Affronterò
l'argomento in modo soddisfacente per gli onesti pensatori laici. Non
occorre credere in Gesù Cristo per condividere le mie affermazioni.
1. Il primo contributo di Gesù fu quello di avvicinare il Giudaismo ai Gentili; e in almeno tre aspetti chiave, il Giudaismo ha modificato i concetti allora in vigore nell'area del Mediterraneo circa la politica economica.
In primo luogo, da Gerusalemme, crocevia fra tre continenti verso
l'Oriente e l'Occidente, il Nord ed il Sud, Gesù affermò il
riconoscimento dell'unico Dio, il Creatore. In secondo luogo, il termine
"Creatore" implica una persona libera; suggerisce che la creazione fu
un atto libero, non un atto scaturito da una necessità. Fu un atto
dell'intelligenza; il Creatore sapeva cosa stava facendo, ed Egli lo
volle; «Egli vide che era cosa buona». Da questa nozione del Dio Unico-Creatore scaturiscono alcuni corollari dell'azione umana.
In terzo luogo, proseguendo quest'ultimo punto, come molti studiosi hanno notato, l'idea di "progresso", così come quella di "creazione", non è una idea greca e neppure romana.
I greci preferivano il concetto di una necessaria processione del mondo
dal Primo Inizio. Concepivano la storia come un ciclo con un ritorno
senza fine. Il concetto di storia come una categoria diversa da quella
della natura è ebraico piuttosto che greco.
Quali
sono le implicazioni per l'economia politica che scaturiscono dal fatto
che la storia comincia con un atto libero del Creatore, che ha fatto
gli esseri umani a Sua immagine, e che ha dato loro fin dal primo
respiro sia l'esistenza che l'impulso verso la libertà e la comunione?
2. La rivelazione che Dio è Trino: Padre, Figlio e Spinto Santo. Quando
Gesù parlava di Dio, Egli parlava della comunione di tre persone in
una. A differenza dei greci (Parmenide, Platone, Aristotele), che
parlavano di Dio o dell'Intelletto come di Uno che vive isolatamente e
solitariamente, Gesù ha insegnato ai cristiani che Dio è comunione di
tre persone. In altre parole, il mistero, della comunità è un tutt'uno con il mistero dell'essere.
Così, l'Occidente contemplò il fatto che siamo parte del lungo processo
di una comunità umana nel tempo; e che siamo, per grazia di Dio, uno
insieme ad un altro ed a Dio. Esistere è sempre qualcosa che meraviglia; e la comunione universale lo è ancora di più. Questo punto di vista della comunità ha insegnato, all'Occidente che le persone raggiungono il loro vero sviluppo, soltanto in comunità con gli altri.
Per
quanto si possa raggiungere un elevato sviluppo, colui che si richiude
in se stesso, come persona totalmente isolata, tagliata fuori dagli
altri, è visto come una specie di mostro. Cattolici, ebrei e socialisti
hanno sottolineato questa mezza verità. Il punto di vista personalistico
ha insegnato all'Occidente che una
comunità che rifiuta il riconoscimento della personalità degli
individui spesso li utilizza come pretesto per "il bene comune",
piuttosto che trattare le persone come fini a se stesse. Tali comunità
sono coercitive e tiranniche. I protestanti, i cattolici personalisti e i liberali hanno accettato questa mezza verità.
3. L'uguaglianza-unicità (non l'uguaglianza-identicità) dei figli di Dio. Nella
Repubblica di Platone i cittadini venivano divisi in questo modo:
alcuni erano d'oro, altri un po' più numerosi erano d'argento, e la
stragrande maggioranza di piombo. Questi ultimi avevano l'animo degli
schiavi, ed erano fatti per essere schiavizzati. Soltanto le persone d'oro erano trattate come fini a se stessi. Per
il Giudaismo e il Cristianesimo, invece, Iddio che ha fatto ogni
singola creatura l'ha dotata di valore e dignità, per quanto debole e
vulnerabile essa sia. «Quello che fate al più piccolo di essi,
l'avrete fatto a me». Iddio identifica Se stesso con il più umile e il
Più vulnerabile. Il nostro Creatore conosce ognuno di noi per nome, e
capisce la nostra individualità con maggiore chiarezza di quanto
facciamo noi stessi. Ognuno di noi rispecchia, un piccolo frammento
dell'identità di Dio. Se uno di noi si perde, l'immagine di Dio che si
doveva riflettere in lui si perde, e la Sua immagine viene distorta in
tutta la sua stirpe.
Il
Giudaismo e il Cristianesimo asseriscono una fondamentale uguaglianza
agli occhi di Dio per tutti gli uomini, qualunque sia il loro talento o
condizione, sociale. Questa uguaglianza scaturisce dal fatto che Dio penetra in ogni condizione, onore o situazione sociale che possa differenziare in superficie l'uno dagli altri.
Egli vede al di là di queste differenze Egli vede dentro di noi. Egli
ci vede nella nostra unicità, ed è proprio quella unicità quella che
Egli valuta. Noi possiamo definire questa uguaglianza come unicità. Dinanzi a Dio, noi abbiamo lo stesso valore nella nostra unicità,
non perché siamo la stessa cosa, ma perché ognuno di noi è differente.
Questo concetto è del tutto diverso da quello del moderno "progressismo"
o dal concetto socialista di uguaglianza-identicità. La nozione cristiana non è una nozione di appiattimento. Tanto meno si compiace dell'uniformità.
Lungo
la propria storia, il Cristianesimo così come il Giudaismo hanno
prodotto società gerarchiche. Pur riconoscendo che tutti gli umani sono
uguali in quanto ogni singolo individuo vive e agisce sotto il Giudizio
di Dio, il
Cristianesimo esalta anche le differenze che vi sono fra noi. Dio non
ci ha fatti uguali in talenti, abilità, vocazione, mestiere, ricchezza, o
grazia.
Uguaglianza-unicità
non è la stessa cosa che uguaglianza-identicità. La prima riconosce il
nostro diritto ad avere un'unica identità e dignità. La seconda
appiattisce ciò che è unico nell'uniformità. "Così", i movimenti moderni
come il Socialismo hanno deturpato l'originale impulso cristiano di
uguaglianza. Così come il Cristianesimo, i movimenti socialisti moderni rifiutano la divisione stratificata di Platone dei cittadini in oro, argento e piombo. Ma la loro spinta materialistica li ha condotti ad appiattire le persone verso il basso, per piazzarli tutti allo stesso livello.
4. Compassione.
È vero che virtualmente tutti i popoli si preoccupano di coloro che
sono nel bisogno. Tuttavia, nella maggior parte delle tradizioni
religiose, questi movimenti del cuore sono limitati a qualcuno della
propria famiglia, stirpe o nazione. In alcune culture antiche, i giovani
venivano addestrati ad essere duri e insensibili alla pietà, per poter
essere sufficientemente crudeli con i nemici. Il Terrore era lo
strumento utilizzato per tenere gli estranei lontano dal territorio
della tribù. In principio (sebbene non sempre nella pratica), il Cristianesimo
contrastò queste limitazioni, incoraggiando l'impulso di protendersi
verso gli altri, in particolare verso il più vulnerabile, verso il
povero, l'affamato, lo sventurato, verso coloro che sono in prigione,
disperati, malati, e tutti quelli che soffrono. Insegnò agli uomini ad
amare i propri nemici. Questa è la "solidarietà"
che Rorty percepisce come necessaria per la modernità. In nome della
compassione, il Cristianesimo cerca di umiliare il potente, e di fare
che il ricco si preoccupi per il povero. Non si limita a distogliere
l'uomo dall'ideale del guerriero, ma gli presenta come modello Cristo,
perché divenga un nuovo tipo di uomo: il cavaliere che riconosce un
codice di compassione, il gentiluomo. Insegna
al guerriero che deve essere mite, umile, pacifico, benevolo e
generoso. Introduce una nuova e feconda tensione fra il guerriero e il
gentiluomo, fra la magnanimità e l'umiltà, fra la gentilezza e la fiera
ambizione. Nietzsche contestava falsamente che il Cristianesimo
portava alla femminilizzazione del maschio. Esso invece ha contribuito
alla formazione dei gentiluomini.
5. Comunità universale, incarnala nella comunità (locale). Il
Cristianesimo ha insegnato alle creature umane che alla base degli
imperativi della storia vi sono la giustizia, la pace della comunità, e
fra tutte le persone di buona volontà nell'intero pianeta. Questa fu
l'impulso che mosse il Sacro Romano Impero, malgrado ingenuamente fosse
concepito come Impero. Il Cristianesimo propose un nuovo ideale per la
politica economica: l'intera stirpe umana come una famiglia universale,
creata dallo stesso unico Dio, esortando ad amare quel Dio.
Inoltre,
allo stesso modo, il Cristianesimo (come il Giudaismo prima di esso) è
anche la religione di un particolare tipo di Dio. Non quel dio che
guarda tutte le cose da una altezza olimpica, bensì il
Dio di un popolo eletto e, nel caso del Cristianesimo, un Dio che si è
incarnato. Il Dio cristiano fu portato nel grembo di una donna, in mezzo
ad un popolo particolare, in una precisa intersezione di tempo e
spazio, e allevato in una comunità locale praticamente sconosciuta agli
altri popoli del pianeta. Il Cristianesimo è una religione del concreto e dell'universale. Attenta agli uomini, al particolare, al concreto,
e ad ogni singola intersezione di spazio e tempo; il suo Dio è il Dio
di quella «alba colorata che si prolunga» del poema di Gerard Manley
Hopkins, della «prudenza» di San Tommaso d'Aquino, e del rispetto delle nationes dell'Università
di Parigi. Il suo Dio è il Dio dei singoli, il Dio che divenne Egli
stesso un uomo singolo. E allo stesso modo, il Dio cristiano è il
Creatore di tutto.
Con Edmund Burke, il Cristianesimo
vede il bisogno di porre la propria attenzione su ogni «piccolo gruppo»
della società, su colui che ci è più vicino, sulla famiglia. In pari modo, il Cristianesimo dirige la propria attenzione verso le piccole comunità così come verso quelle più ampie.
Il Cristianesimo vieta loro di essere soltanto parrocchiali o xenofobi,
ma ammonisce anche contro il divenire indiscriminatamente
universalisti, appartenenti a un solo mondo, gnostici che pretendono
di essere puri spiriti distaccati da tutti i limiti concreti della
carne. Il Cristianesimo ci istruisce circa il precario bilancio fra il
concreto e l'universale nella nostra propria natura. Questo è il mistero
della cattolicità. In questo senso, il Cristianesimo va oltre le concezioni contemporanee dell'«individualismo» e del «collettivismo».
6. «Io sono la Verità». La difesa dell'intelletto. La Verità è qualcosa di importante. Il Creatore di tutte le cose ha il totale discernimento di ogni cosa. Egli sa cosa Egli ha creato. Questo dà
alla debole e modesta mente delle creature umane la vocazione di
esercitarsi senza sosta, per poter addentrarsi nelle misteriose pieghe
del l'intelligibilità che Iddio ha scritto nella Sua creazione. La meditazione su questo tema nel corso di diversi secoli, secondo Alfred North Whitehead, ha preparato il terreno alla scienza moderna.
Ogni cosa nel creato è in principio comprensibile: in effetti, in ogni
momento ogni cosa è capita da Lui che è eterno e allo stesso tempo
simultaneamente presente in ogni cosa. (In Dio non vi è storia, né
passato-presente-futuro. Nel Suo discernimento della realtà, tutte le
cose sono come simultanee).
John
Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, scrisse che nel darci
una nozione di Dio come la Fonte di tutta la verità, e il Giudice di
tutto, gli ebrei deposero al cospetto della razza umana la possibilità
della civilizzazione. Dinanzi all'inequivocabile Giudizio di Dio, la
Luce della Verità non può essere sviata dalle ricchezze, dall'abbondanza
o dal potere temporale. Armati di questa convinzione,
gli ebrei e i Cristiani sono in grado di impiegare il loro intelletto e
di ricercare senza timore le cause delle cose, i loro rapporti, i loro
poteri e i loro propositi. Questa comprensione della Verità rende liberi
gli uomini. Il Cristianesimo non insegna che la Verità è un'illusione
basata sulle opinioni di quelli che detengono il potere, o semplicemente
una razionalizzazione degli interessi di potere in questo mondo. Il
Cristianesimo non è disfattista, e di certo non è neanche
totalitaristico. Il suo impegno per la Verità al di là dei propositi
umani è, in effetti, una contestazione di tutti gli schemi
totalitaristici e di tutti i cinismi nichilistici.
Per di più, nel porre la Verità (con la V maiuscola) in Dio, totalmente al di là dei nostri poveri poteri di comprensione, il Cristianesimo conferisce potere alla ragione umana. Lo fa invitandoci a usare le nostre teste nel miglior modo possibile, per
discernere le evidenze che ci danno l'opportunità di avvicinarci alla
Verità nel modo in cui le creature umane la possono raggiungere.
Consente alle creature umane di avere coscienza della propria finitudine
allo stesso tempo della propria partecipazione all'infinito.
La nozione di Verità è cruciale per la civiltà. Come Tommaso d'Aquino riteneva, la civiltà è costituita dal dialogo. Le persone civilizzate persuadono gli altri mediante argomenti. I barbari usavano la violenza per assoggettare gli altri. La civiltà richiede dei cittadini che riconoscano di non possedere la verità, ma di essere posseduti da essa,
fin dove è possibile per loro. La Verità è molto importante, è più
grande di ognuno di noi. Perciò, gli uomini devono imparare determinate
condotte civilizzatrici come essere rispettosi e aperti verso gli altri,
ascoltatori attenti, cercando di capire gli aspetti della Verità che
ancora non hanno percepito. Perché la ricerca della Verità è vitale per
ognuno di noi, gli uomini devono ragionare con gli altri, esortare gli
altri ad andare avanti, rilevare le deficienze degli argomenti altrui, e
aprire la strada verso una maggior partecipazione alla Verità per
ognuno di noi. In questo contesto, la ricerca della Verità ci fa non
soltanto umili ma anche civili. Ci
insegna perché riteniamo che ogni persona ha una dignità inviolabile:
perché ognuno è fatto a immagine del Creatore per attuare il nobile
gesto della comprensione: riflettendo, scegliendo, amando.
Queste nobili attività delle creature umane non possono essere represse
senza reprimere con loro l'immagine di Dio. Ogni repressione è
doppiamente peccaminosa. Essa viola l'altra persona, ed è un'offesa
contro Dio.
Una
delle ironie del nostro tempo è che la grande corrente filosofica
dell'Illuminismo non crede più nella ragione. Gli illuministi hanno
rinunciato alla loro fiducia nella vocazione della Ragione dei cinici,
dei postmoderni e dei filosofi destrutturalisti (Socrate li definiva
sofisti), ritengono che non vi sia Verità, che tutte le cose siano
relative, e che le grandi realtà della vita sono il potere e l'interesse. Così arriviamo a un passaggio ironico. I figli dell'Illuminismo
hanno abbandonato la Ragione, mentre quelli che loro consideravano non
illuminati e viventi nel buio, i popoli di fede ebrea e cristiana,
rimangono ancora come i migliori difensori della Ragione. I credenti
ebrei e cristiani fondano la loro fiducia nella ragione nel Creatore di
ogni ragione, e la loro fiducia nella comprensione in Uno che comprende
ogni cosa Egli abbia fatto - e in più -, la ama. Non vi può essere
civiltà della ragione (o dell'amore) senza fede nella vocazione della
ragione.
7. Giudizio-Risurrezione. Il
Cristianesimo insegna realisticamente non solo le glorie delle creature
umane - se siano stati creati a immagine di Dio - ma anche i loro
peccati, debolezze, e le loro tendenze al male.
Il Giudaismo e il Cristianesimo non sono utopistici; cercano di capire
gli uomini così come sono fatti, come Dio li vede con i loro peccati e
con le virtù che Egli ha donato loro.
Questa elevata consapevolezza del peccato è stata molto importante per i
Padri fondatori americani. Il Cristianesimo insegna che in ogni momento
il Dio che ci ha fatti giudica come agiamo nell'esercizio della nostra
libertà. E la prima parola del Cristianesimo in questo contesto è: «Non
temere. Non aver paura». Il Cristianesimo insegna che la Verità è ordinata alla misericordia. La Verità non è, grazie a Dio, ordinata prima di tutto alla giustizia. Se la Verità fosse ordinata alla giustizia in senso stretto, nessuno di noi sarebbe salvo. Dio è giusto, sì, ma il miglior nome per Lui non è giustizia, ma misericordia. (La radice latina di questa parola fornisce l'idea con maggior chiarezza: Misericordia deriva da miseriscor dare il proprio cuore ai miserabili, agli infelici). Questo
nome di Dio, Misericordia, secondo San Tommaso d'Aquino è il nome che
più si addice a Dio. Dinanzi alla nostra miseria, Egli apre il Suo
cuore. Charles Pèguy scrisse: «Nel cuore del Cristianesimo c'è il peccatore».
Il
giorno del Giudizio è la Verità sulla quale è fondata la civiltà. A
prescindere dalle correnti di opinione del nostro tempo o di ogni tempo;
o da cosa possano fare o dire i potenti e i governanti; dalle forti
pressioni che riceviamo dalle nostre famiglie, dagli amici e dalla
cultura; così come a prescindere da qualunque condizionamento,
noi saremo sottoposti al Giudizio di Uno che è infallibile, che conosce
ciò che c'è in noi, e conosce i moti delle nostre anime con molta più
chiarezza di quanto possiamo conoscere noi stessi. Nella
Sua Luce, siamo chiamati a osservare l'onestà nelle nostre vite, e il
nostro rispetto verso la Luce che Dio ha impresso in ogni vita umana. Su
queste basi le creature umane possono asserire di avere diritti
inalienabili, dignità, e valore infinito. Questi
sette contributi sono alla radice della civiltà Giudeo-Cristiana,
quella che oggi viene chiamata genericamente "civiltà occidentale".
Da essi sono derivate le nostre più profonde nozioni di verità, libertà, compassione, progresso e giustizia.
Queste sono le energie più potenti che fermentano la nostra cultura,
come il lievito fermenta l'impasto, come un seme che cade sulla terra e
morendo diventa poi un rigoglioso albero che distende i suoi rami.
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Postato da: giacabi a 19:54 |
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cristianesimo
Il Senso della caritativa
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SCOPO
Innanzi tutto la natura nostra ci dà l’ esigenza di interessarci degli altri. Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’ esistenza. Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza. Quanto più noi viviamo questa esigenza questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l’ esperienza di completare noi stessi. Tanto è vero che, se non riusciamo a dare, ci sentiamo diminuiti. Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi. Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò svelandoci la legge ultima dell’ essere e della vita: la carità. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l’essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Solo Gesù Cristo ci dice tutto questo, perchè Egli sa cos’è ogni cosa, che cos’è Dio da cui nasciamo, che cos’è l’Essere. Tutta la parola «carità» riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità. Noi andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo. CONSEGUENZE I. La carità è legge dell’ essere e viene prima di ogni simpatia e di ogni commozione. Perciò il fare per gli altri è nudo e può essere privo di entusiasmo. Potrebbe benissimo non esserci nessun risultato cosiddetto «concreto» per noi l’unico atteggiamento «concreto» è l’attenzione alla persona, la considerazione della persona, cioè l’amore. Tutto il resto può venire di conseguenza: l’unico «concreto» che ci sia: la persona, come Gesù che, dopo, fece i miracoli e sfamò la gente. Due punti di partenza non chiari, per la nostra apertura agli altri, noi dobbiamo notare: 1. Sovvenire ai bisogni altrui. E’ un punto di partenza ancora incompleto! Qual è il bisogno altrui? Questa impostazione è ambigua, dipende da cosa noi crediamo che sia il bisogno altrui: e se ciò che io porto non è veramente quello di cui essi hanno bisogno? Ciò di cui hanno veramente bisogno non lo so io, non lo misuro io, non ce l’ho io. E’ una misura che non possiedo io: è una misura che sta in Dio. Perciò le «leggi» e le «giustizie» possono schiacciare, se dimenticassero o pretendessero sostituirlo, l’unico «concreto» che ci sia: la persona, e l’amore alla persona. 2. L’ amicizia. Anche cominciare puntando sull’amicizia con tutta l’ambiguità che ci può comportare, è incompleto. L’amicizia è una corrispondenza che si può trovare o no, un avvenimento non essenziale per la nostra azione di oggi, anche se essenziale per il nostro destino finale. L’andare agli altri liberamente, il condividere un po’ della loro vita e il mettere in comune un po’ della nostra, ci fa scoprire una cosa sublime e misteriosa (si capisce strada facendo!). E’ la scoperta del fatto che proprio perchè li amiamo, non siamo noi a farli contenti; e che neppure la più perfetta società, l’organismo legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà e più educata li potrà mai fare contenti. È un Altro che li può fare contenti. Chi è la ragione di tutto? Chi ha fatto tutto? Dio. E’ bellissima la testimonianza di chi ha sperimentato questo valore: “io continuo ad andare in caritativa perchè tutta la mia e la loro sofferenza hanno un senso» Sperando in Cristo, tutto ha un senso: Cristo. Questo scopro, finalmente, nell’ambito dove vado in «caritativa», proprio attraverso l’impotenza finale del mio amore: ed è l’ esperienza in cui l’intelligenza affonda nella saggezza, nella cultura vera. 3. Ma Cristo è presente adesso: non «è stato», non «è nato», ma «c’è», «nasce» oggi: è la Chiesa. La Chiesa è Cristo, presente adesso, come Lui ha voluto. E la Chiesa è la comunità di noi, proprio di noi, poveri e attaccati a Lui. o infedeltà. Perciò la speranza ci sostiene; Dio stesso è tra noi, è presente tra noi. Uno di noi, in una discussione ha detto: frutto. «Continuo ad andare a. .., perchè ci siete voi». È verissimo: proprio il senso del nostro essere insieme, della comunità ecclesiale, ci fa tirare avanti oggi fra gli handicappati, negli ospizi, con chiunque è bisognoso e, domani, nella fabbrica, nella città, in Europa, nel Mondo che è così grande e Lo aspetta.
DIRETTIVE
Riferirsi continuamente al movimento, altrimenti è più grande il pericolo di smarrire la ricerca dell’ idea profonda che ci sostiene nel fare per gli altri; e più grande è il pericolo di scoraggiamenti, stanchezza o infedeltà. La fedeltà nel fidarsi delle indicazioni del movimento e di coloro che ne sono i responsabili è il primo merito e avrà il suo frutto. Le direttive che, al riguardo, Comunione e Liberazione dà sono tre: 1) Sapere perchè. Finche non sapremo bene, con chiarezza e semplicità, il perchè ultimo, lo scopo del nostro fare, fino allora non bisognerà mai stare quieti. Il nostro scopo è tirar fuori da quel che facciamo il senso, l’idea per la quale esclusivamente potremo riuscire ad essere fedeli, quando non saremo più entusiasti o non provassimo più gusto. Occorrerà quindi dialogare nelle nostre assemblee, a gruppetti, con i responsabili della comunità, con le persone più mature e vive. Soprattutto revisionarsi ogni tanto attraverso contatti «centrali». 2) Fare per comprendere. Per capire non basta sapere, occorre fare,con quel coraggio della libertà, che è aderire all’essere che si vede, cioè alla verità. Questa è la maturità suprema, che si chiama umanità o santità. Per educarci a questo ideale, l’esserci costretti dalle circostanze (il «dovere» nel senso solito) serve molto più difficoltosamente. E il piccolo tempo libero che mi educa; ciò che dà l’esatta misura della mia disponibilità agli altri è l’uso di quel tempo che è solo mio, in cui posso fare «ciò che ho voglia». Ci formiamo così una mentalità, un modo quasi istintivo di concepire la vita tutta come un condividere. Il piccolo tempo libero redime tutto il resto. E, adagio adagio, andando in “caritativa” si incomincia a capire di più il compagno di banco, il papà e la mamma, il collega di lavoro. E’ soprattutto l’età della giovinezza il momento in cui possiamo con agilità, almeno normalmente, assimilare questa mentalità. Ed è solo cominciando a fare, a donare del tempo libero come integrale gesto di libertà, che la carità cristiana diventerà mentalità, convinzione, dimensione permanente. E’ da notare che a noi non interessa tanto la molteplicità delle attività, la quantità del tempo libero che si dedica. A noi interessa che nella nostra vita e nella nostra coscienza si affermi il principio del condividere attraverso almeno qualche gesto, anche minimo, purchè sia sistematicamente messo in preventivo e realizzato. Per questo basterebbe, come inizio, anche una volta al mese. Anche per quanto riguarda la periodicità dell’impegno è bene consultare chi nella comunità può correttamente consigliarci. 3) Ordine. È il tempo libero che dobbiamo impegnare (e il più a fondo possibile). Duplice è il limite che mantiene nell’ ordine la genialità del tempo libero: a. Non ledere lo studio (o il lavoro). b. non venir meno alla discrezione in famiglia. Anche qui sarà il personale dialogo con l’ autorità familiare e con l’ autorità nel movimento che ti aiuterà a raggiungere un criterio per definire il tuo tempo libero.
Don Giussani
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Postato da: giacabi a 13:53 |
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cristianesimo, giussani
Se vuoi essere te stesso abbandonati a Lui
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I
nostri veri “io” sono tutti in attesa di noi in Lui. Non giova cercare
di “essere me stesso” senza di Lui. Più io Gli resisto e cerco di vivere
per conto mio, più divento succube della mia eredità, educazione,
ambiente, desideri naturali.
Ciò che io chiamo orgogliosamente “me stesso” diventa in effetti solo
il punto d’incontro di sequele di eventi a cui io non ho dato origine e
che non posso fermare. Quelli
che chiamo “miei desideri” diventano soltanto i desideri suscitati dal
mio organismo fisico o inculcati in me da pensieri altrui, o magari
suggeritimi da esseri diabolici. Uova, alcool e una buona notte
di sonno saranno la vera origine della decisione (che io mi lusingo di
credere personalissima e ponderata) di amoreggiare con la ragazza seduta
di fronte a me in uno scompartimento ferroviario. La propaganda sarà la vera origine di quelle che io considero mie personali idee politiche.
Nel mio stato naturale, io sono una persona molto meno di quanto amo
credere: gran parte di ciò che chiamo “me stesso” può essere spiegata
molto facilmente. E’
quando mi volgo a Cristo, quando mi abbandono alla Sua Personalità, che
comincio ad avere una vera personalità mia... Ho detto che in Dio ci
sono delle Personalità. Ora andrò oltre: non ci sono vere personalità altrove. Finché non Gli avrai dato tutto te stesso non sarai veramente te stesso. L’uniformità si trova soprattutto tra gli uomini più “naturali”, non tra quelli che si arrendono a Cristo. Come sono monotonamente simili tutti i grandi tiranni e conquistatori, come sono gloriosamente differenti i santi!
Ma ci deve essere una reale rinuncia al proprio io. Devi gettarlo via, per così dire, “alla cieca”. Cristo ci darà una vera personalità: ma non dobbiamo andare a Lui con questo fine. Finché ciò che ci preme è la nostra personalità, non andiamo affatto a Lui. Il primo passo è tentare di dimenticare completamente noi stessi. Il nostro io nuovo e vero (che è di Cristo e anche nostro, e nostro perché Suo) non verrà fin tanto che lo cerchiamo. Verrà quando cerchiamo Lui. Sembra una stranezza? Lo stesso principio, sapete, vale per cose più banali. Anche nella vita sociale, non faremo mai una buona impressione agli altri finché continuiamo a preoccuparci dell’impressione che facciamo. Anche nella letteratura e nell’arte, chi si preoccupa dell’originalità non sarà mai originale, mentre se uno cerca semplicemente di dire la verità (senza curarsi né punto né poco di quante volte sia già stata detta) diventerà, in nove casi su dieci, originale, senza nemmeno accorgersene. Questo principio pervade tutta la vita, da cima a fondo. Rinuncia a te stesso, e troverai il tuo vero io. Perdi la tua vita e la salverai. Sottomettiti alla morte – alla morte, ogni giorno, delle tue ambizioni e dei tuoi desideri prediletti e alla morte di tutto il tuo corpo alla fine; sottomettiti con ogni fibra del tuo essere, e troverai la vita eterna. Non trattenere nulla. Soltanto ciò che avrai donato sarà realmente tuo. Soltanto ciò che in te è morto risorgerà dai morti. Cerca te stesso, e al lungo andare troverai solo odio, solitudine, disperazione, rabbia, rovina, disfacimento. Ma cerca Cristo e Lo troverai, e con Lui tutto il resto per soprappiù.
C. S. Lewis da: Il cristianesimo così com’è
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Postato da: giacabi a 15:25 |
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cristianesimo, lewis
Il Giubileo e la vita
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Tracce N. 11 > dicembre 1999
Parola tra noi
Il Giubileo e la vita
Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in preparazione al Giubileo della Redenzione.
Duomo di Palmanova, 15 giugno 1983
Ognuno
sa che il primo gesto ufficiale e clamoroso del pontificato di Giovanni
Paolo II è stata l'enciclica che incominciava con la formula Redemptor
hominis, Gesù Redentore dell'uomo. Redentore
dell'uomo significa innanzitutto che Cristo assicura il significato
della vita e quindi chiarisce il destino e dà la forza per raggiungerlo.
Una volta si sarebbe detto: "È Redentore perché è salvatore dell'anima,
perché salva l'anima". Ma il Papa non ha usato l'espressione "salvare
l'anima"; ha usato invece il termine "Redentore dell'uomo". E l'uomo
è indubbiamente colui che ha l'eternità dentro le sue viscere, dentro
la sua natura immortale, ma è prima di tutto colui che deve percorrere
il suo cammino su questa terra, deve vivere un'esistenza nel tempo e
nello spazio.
Cristo Redentore dell'uomo
non significa, dunque, soltanto Colui che assicura all'uomo il suo
destino eterno, la salvezza eterna, come diceva il catechismo antico, ma
anche Colui che salva,
cioè redime, la vita dell'uomo quaggiù, la vita dell'uomo in quanto
cammina, dell'uomo che si alza al mattino, va a lavorare, e si corica
alla sera: Cristo è il Salvatore dell'uomo intero, oggi e domani.
Forse, un tempo, si sottolineava esclusivamente il domani. E, infatti,
il presente per che cosa ci è dato, se non per il domani? Un cammino che
cosa significa se non la fine, il fine, il traguardo, il destino? Ma,
oggi, credo che l'uomo abbia bisogno di completare, di sentirsi
completata la proposta e di capire innanzitutto in che modo Cristo sia
il Salvatore della sua vita presente.
Mi
hanno spiegato che i Veneziani, che hanno costruito Palmanova come
fortezza di fronte al pericolo turco e all'imperialismo nordico,
definivano questa città, costruita apposta, "propugnaculum Patriae,
propugnaculum Italiae et propugnaculum Fidei": avamposto difensivo per
la Patria, per il nostro Friuli, per l'Italia, e per la Fede. A noi
sembra strana questa unità profonda che una volta, invece, nella
coscienza cristiana era abituale, perché la Fede, che vibra nella
coscienza della persona, sempre diventa luce ed energia per i rapporti
e, perciò, sorgente di vita sociale, legando così nel tempo il destino
dell'individuo con il destino della sua gente, del suo popolo.
Io
credo che nessuno abbia fatto risorgere questa visione unitaria -
perché la possiede fin nel midollo e nel cuore - come Giovanni Paolo II.
Egli la possiede nel profondo del cuore, perché la fede, nella
tradizione polacca, non è mai venuta meno a questa unità, a questa
profondità e unità di concezione.
Destino di felicità
Ma io vorrei dapprima soffermarmi sull'aspetto tradizionale, immediato e ultimo della prima enciclica di Giovanni Paolo II: Cristo Redentore dell'uomo, come Colui che salva l'uomo e il suo destino;
perché, come dice il grande filosofo ebreo americano Heschel, all'uomo
non interessa tanto approfondire le sue origini quanto capire bene dove
va a finire, qual è il suo destino.
Se
una donna fosse così riflessiva che, dando alla luce il proprio
bambino, guardandolo o tenendolo nelle mani per la prima volta, si
domandasse dove egli andrà a finire, qual è il suo fine, che ne sarà di
lui, se nell'intensa emozione di quel momento pensasse questo, se in
quel momento una donna pensasse così, sarebbe assalita da un timore
improvviso, perché non può proteggerlo, perché non può proteggere la sua
creatura come la proteggeva nel suo seno e in tutto rassicurarla. Io mi
ricordo di una signora che veniva a confessarsi, tantissimi anni fa,
regolarmente tutte le settimane; aveva una bambina, e a un certo punto
non è più venuta. È ritornata dopo un mese e mi ha detto: "Sa, ho avuto
un secondo bambino". E prima che io le facessi le mie congratulazioni mi
disse: "Sa qual è il primo sentimento che ho avuto non appena mi sono
accorta che era nato? Non ho pensato se stava bene, se era un bimbo o
una bambina, ma: "Ecco, incomincia ad andarsene"". È questo il
sentimento più drammatico che, consapevole o no, vige nel cuore di una
donna che diventi madre, perché, man mano che il tempo avanza, quella
creatura, che è così sua, è come se diventasse sempre di più non sua,
proprio come destino. Se,
dunque, facendo nascere un bimbo, una donna pensasse: "E adesso dove
andrà a finire?", se non ci fosse un destino di felicità, sarebbe un
delitto aver fatto nascere, perché è un delitto non solo uccidere, ma
anche mettere nelle condizioni che uno venga ucciso; senza un destino di
felicità, non sarebbe un delitto soltanto infliggere pene e dolori a un
essere vivente, ma anche metterlo nelle condizioni che dolori, anche
atroci, gli avvengano. Chi lo può sapere o chi lo può evitare con certezza? Chi può fare un progetto che non implichi questa possibilità? L'unica
cosa che rende ragionevole il nascere è l'annuncio e la sicurezza di un
fine buono, del fine buono o, come ho detto prima, è la parola che solo
la Fede pronuncia con serietà, la parola più seria della vita che, al
di fuori della Fede, viene svigorita e svuotata di tutto il suo
contenuto grande: la parola "Felicità".
Solo
la sicurezza di un destino di felicità rende ragionevole l'essere
madre. E c'è un gesto più naturale che l'essere madre? No! Dunque non
esiste nulla di più necessario, di più consono, di più vicino alla carne
di una madre, e perciò all'espressione più originale della natura, di
quella Voce che è entrata nel mondo e che non va più via: nessuno più
strapperà dalle orecchie dell'uomo questa voce "fisica", che assicura
all'uomo il suo destino felice. "Che importa - disse una volta questa
voce fra la gente che lo rinserrava in una piazzola - se tu ti prendi
tutto il mondo e poi perdi te stesso? O che darà l'uomo in cambio di se
stesso?"1. Ed è questo valore supremo della persona che una madre, in
concreto, in pratica, sente e vive quando guarda e si rivolge al proprio
bambino - anche se ne ha sette, anche se ne ha dodici, perché è
inconfondibile il "tu" che riferisce a ognuno. Ciò che essa avverte è
proprio l'irriducibilità di questo mistero del destino di felicità che è
l'uomo!
Per amore del singolo uomo
Io mi ricordo, e me lo ricorderò per sempre, tanto è vero che ai miei amici giovani ogni tanto lo racconto, di quella
volta che sono andato a visitare una missione sul Rio delle Amazzoni,
all'Equatore, un territorio immenso che i Padri del Pime coprivano a
pezzi; ognuno si prendeva una zona, cosicché in un anno rivedevano
almeno una volta tutti gli abitanti di quel territorio in cui non ci
sono strade, ma soltanto fiumi nella foresta e che, pur essendo grande
quasi quanto l'Italia, contava sessantamila abitanti. Quando uno di
questi padri andava, come loro lo chiamavano, in "desobriga", riceveva
l'assoluzione in articulo mortis, perché era un pericolo mortale quel
viaggio in mezzo alle foreste infestate di serpenti e di animali. Un
giorno, un certo padre Titta doveva partire per il suo turno e mi disse:
"Vieni anche tu". Io non ho capito l'umorismo con cui me lo disse;
risposi subito di sì e andai. Venne la sera e lo vidi, a un certo punto,
mettersi dei gambali che gli arrivavano fino all'anca e poi,
sorridendo, introdursi in un pantano. La melma gli arrivava sopra il
ginocchio. Impiegava un minuto per fare un metro e c'era già una nuvola
di insetti che gli dava fastidio. Ero lì fermo a guardarlo e lui mi
disse: "Non puoi venire più avanti". Doveva fare otto ore di notte di
quella fatica per andare a trovare uno, che lì chiamano "caboclo" (vale a
dire uno di quegli indigeni che vivono tirando fuori la gomma dagli
alberi, guadagnandosi pochi centesimi), per andare a trovare uno, uno!
Io mi rivedo ancora in quella posizione, mentre il padre missionario se
ne andava con quella fatica e ogni tanto si voltava a salutarmi con un
sorriso ironico. Pensavo: "Rischia
tutta questa fatica, rischia la vita per andare a trovare un uomo che
non ha forse mai visto e mai rivedrà: un solo uomo". E di fronte al sole
cadente, io mi ricordo che avevo negli occhi molto più che la luce
accecante, avevo negli occhi l'idea grande che mi venne su nell'anima: "Che cos'è il cristianesimo? È l'amore all'uomo, non all'umanità, ma all'uomo, cioè a ogni figlio di madre".
Come
dice il Papa - che quando parla di umanità ripete sempre: "Parlo di
ogni uomo", e ogni tanto dice: "tu" -, il cristianesimo è l'amore
all'uomo che solo Dio poteva avere, può avere (un amore più grande di
quello di una madre). "Cristo, Dio fatto uomo per amore dell'uomo, ha
dato se stesso per me ed è morto per me"2, diceva Paolo. Non
esiste nessuna realtà umana, nessuna impresa umana che guardi all'uomo
in questo modo, che guardi all'uomo come persona e guardi alla persona
come essere che ha un destino non paragonabile, irriducibile, un destino
eterno. Tutto
ciò che l'uomo fa, qualsiasi uomo per l'altro uomo, in fondo, anche nel
migliore dei casi non può evitare quello che osservava un filosofo
laico come Kant:
"Non può fare l'uomo per l'altro uomo qualche cosa senza che ci sia una
sfumatura di interesse, un criterio di contropartita, un'aspettativa".
La
purità assoluta, la vera gratuità, si chiama "carità", nel senso
letterale della parola, perché in greco gratuità si dice charis. Questo
è possibile solo per chi cerca veramente di seguire Cristo come quel
padre che mi sta ancora nella coscienza e negli occhi. Cristo è la
salvezza dell'uomo, Colui che assicura alla madre che
farà un figlio la ragionevolezza dell'avvenimento, Colui che assicura
all'uomo l'eternità del suo destino e il compimento della sua
inesauribile sete di perfezione o di soddisfazione (due parole che in
latino vogliono dire la stessa cosa), o di felicità.
Un avvenimento che tocca il tempo, l'istante
Per
questo, quella sera nella sinagoga, quando tutti se ne erano andati
scandalizzati dal modo di dire di Cristo: "Mangerete la mia carne", alla
domanda che ruppe il silenzio pesante, di fronte ai pochissimi rimasti:
"Anche voi volete andarvene?", san Pietro sbottò a rispondere: "Anche
noi non comprendiamo quello che tu dici, ma se andiamo via da te, dove
andremo? Tu solo hai parole che danno senso al vivere".
Ecco:
Cristo è redentore dell'uomo, non solo per la sua salvezza finale, ma
anche per questo tempo di esistenza che percorre nelle più varie
condizioni, proprio perché questa certezza solleva l'anima, conforta
l'anima, il cuore dell'uomo che cammina ogni giorno; perché non c'è
niente che faccia respirare ora, nel preciso momento in cui uno lo pensa
o lo ascolta, non c'è niente che faccia respirare, che faccia
riconfortare e vivere, come questo annuncio sicuro e certo: "Venite a me
voi che siete logorati dalla vita e io vi restaurerò; io vi ristoro,
prendete su di voi il mio giogo, venite con me, perché il mio giogo è
soave e il mio peso è leggero"4. Per questo, dunque, dal fondo del
cuore, questa Redenzione tocca il tempo, tocca l'istante in ogni
condizione.
Non
c'è alcun suggerimento, ho detto prima, che faccia respirare
totalmente, a pieni polmoni, non c'è alcuna promessa e alcuna gioia al
di fuori dell'orizzonte di questa certezza: la gioia che l'uomo riesce a
ottenere è una gioia falsa, non nel senso cattivo del termine, ma
perché, per mantenersi anche quelle poche ore, ha bisogno di dimenticare
o di rinnegare qualcosa.
Ma
di fronte a quell'Uomo e alla promessa che lui era (la gente gli andava
dietro per questo, per questa promessa che lui era!) la gente diceva:
"Questo sì che parla con autorità!"5. L'autorità, ognuno di noi lo sa, è l'esperienza di un incontro che fa riprendere vita, fa risentire più profondamente se stessi.
Dicevano: "Nessuno ha mai parlato come quest'Uomo!"6, perché il grande
criterio che si applica nella meschinità delle nostre scelte quotidiane
(un film da andare a vedere, l'andare o no a scuola, il modo con cui uno
decide di stare a casa dal lavoro) è unico: è questa sete di felicità
che ci sospinge dal fondo. Nessuna promessa, se non Quella, spalanca il
cuore e i polmoni, ristora, restaura. Dentro quell'aura, dentro quel
clima che essa instaura, allora anche i pesi diventano tollerabili.
In
questo istante mi ritorna alla mente una ragazza, morta alcune
settimane fa, che fino a tre o quattro anni fa si ribellava
profondamente a tutta la sua vita, che era stata un martirio da un punto
di vista fisico e familiare e che, poi, acquistata la fede, si era
placata. Sei mesi fa scoppiò il cancro, e quando due mesi prima lo seppe
con chiarezza telefonò a tutti i suoi amici che non vedeva da dieci,
vent'anni dicendo: "Vienimi a trovare, perché tra poco morirò". E mi
disse, quando le espressi l'edificazione che mi incuteva: "Ma
io sono felice e anche ai miei compagni di lavoro dico: "Ma voi, che
siete intelligenti, non avete qualcosa per cui l'istante è pieno, è
pieno di godimento. Per me l'istante diventa pieno e io so - aggiungeva -
che cosa voglia dire offrire"".
Non
esiste nessuna promessa più umana, non esiste nessuna promessa umana,
se non Quella. Per questo vale ciò che diceva san Paolo: l'aderire a
Cristo, la Pietas (pietas è una parola latina che significa il rapporto
che ci lega con i principi del nostro essere e per questo si dice che si
ha pietà dei genitori, pietas in parentes, oppure della terra, pietas
in patria, oppure di Dio, pietas in Deum), cioè il rapporto con Cristo,
"ad omnia utilis est", 8 è utile per tutte le cose, avendo in sé la
promessa per i secoli futuri e per il presente. È questo che Giovanni
Paolo II ha, soprattutto, davanti agli occhi proponendo Cristo
Redentore.
Una sproporzione radicale
Vorrei
che comprendessimo meglio tutto ciò, indicando i due fattori che
Cristo, entrando nella nostra vita, mette in gioco. Innanzitutto Cristo
richiama l'uomo a ciò che anche tanti teologi sembrano aver dimenticato
dopo il Concilio Vaticano II (raramente, molto raramente se ne è sentito
parlare nei venti anni dopo il Concilio): l'uomo non è capace da solo di essere uomo. Io lo spiego ai miei amici giovani così: "Ditemi se ci sono tre esperienze più umane di queste: l'amore dell'uomo alla donna, l'amore dei genitori ai figli, e l'amore, la passione, per la vita degli uomini nel suo senso generale,
cioè la politica (la politica è interessarsi agli uomini perché stiano
meglio). E ditemi, per favore, se ci sono tre sorgenti di egoismo più
grandi di queste, perché l'uomo ha in fondo a sé la divisione". La
dottrina cristiana lo chiama "peccato originale".
Io mi permetto di leggere alcuni brani del Papa su questo tema: "[L'uomo]
deve fare i conti con la povertà radicale della sua condizione di
creatura, stretta fra limiti di ogni sorta; egli deve altresì brancolare
fra le dense ombre che ostacolano il cammino sul quale s'affatica la
sua intelligenza assetata di verità; egli soprattutto sperimenta i
vincoli pesanti di una fragilità morale, che lo espone ai più umilianti
compromessi [e all'egoismo]. Non abbiate paura di richiamare gli uomini
di oggi alle loro responsabilità morali! Tra i tanti mali, che
affliggono il mondo contemporaneo, quello più preoccupante è costituito
da un pauroso affievolimento del senso del male [l'abbiamo detto prima:
l'uomo, per stare tranquillo, ha come arma il rinnegare o il
dimenticare, ma questo è contro la ragione]. Per alcuni la parola
"peccato" è diventata un'espressione vuota, dietro la quale non devono
vedersi che meccanismi psicologici devianti, da ricondurre alla
normalità mediante un opportuno trattamento terapeutico [basta un po' di
psicanalisi e tutto si rimedia]. Per altri il peccato si riduce
all'ingiustizia sociale, frutto delle degenerazioni oppressive del
[cosiddetto] "sistema" e imputabile pertanto a coloro che contribuiscono
alla sua conservazione [perciò basta cambiare sistema, scriveva
cinquant'anni fa un grande poeta inglese, profeta della nostra epoca,
Eliot: "Essi cercano sempre d'evadere/dal buio esterno e
interiore/sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno/avrebbe
bisogno d'essere buono"8, eliminando, cioè, la responsabilità della
persona]. Per altri, ancora, il peccato è una realtà inevitabile, dovuta
alle non vincibili inclinazioni della natura umana e non ascrivibile
perciò al soggetto come personale responsabilità. Vi sono, infine,
coloro che, pur ammettendo un genuino concetto di peccato, interpretano
in modo arbitrario la legge morale e, distaccandosi dalle indicazioni
del Magistero della Chiesa, si allineano pedissequamente alla mentalità
permissiva del costume corrente"9.
L'uomo
di oggi, dice il Papa, cerca in tutti i modi di evitare la
responsabilità, che è personale, proprio eliminando il peccato. La
considerazione di questi diversi atteggiamenti rivela quanto sia
difficile arrivare a un autentico senso del peccato, se ci si chiude
alla luce che viene dalla parola di Cristo.
"Quando
si poggia unicamente sull'uomo, sulle sue limitate e unilaterali
vedute, si raggiungono forme di liberazione che finiscono per preparare
nuove e spesso più gravi condizioni di schiavitù morale". È quello che disse il Papa nella finale del discorso fatto al Meeting di Rimini del 1982, quando affermò che l'uomo,
nell'epoca moderna, ha fatto di tutto per rendere più umana, più
vivibile la terra e la vita, ma l'esito è stato che l'uomo sta sempre
peggio come uomo; e disse anche che questa degradazione appare
inarrestabile.
La prima verità che l'Anno Santo richiama a noi, che Cristo Redentore ci impone è che l'uomo è peccatore. "Peccato",
in tutte le lingue occidentali, qualunque sia la formulazione, vuol
dire "venir meno", tanto è vero che è uguale a "difetto", che in latino
vuol proprio dire "venir meno", come quando uno è in deliquio. Il
peccato è venir meno a se stessi. Il
peccato è dire di amare la donna, mentre non è vero, è dire di amare i
figli, mentre non è vero, è dire di volere il bene dell'umanità, mentre
non è vero; è il "non vero", tant'è che san Giovanni, nel Quarto Vangelo, identifica la parola "peccato" con la parola "menzogna"10. Quando
Cristo disse: "Tutti voi siete cattivi"11, voleva dire che l'uomo è
incapace di realizzare quello di cui sente l'esigenza come natura, è
incapace di realizzare se stesso.
L'uomo
che guardi se stesso non può evitare la tentazione di uno scoramento e,
proprio per evitare questo, la mentalità sociale dominante cerca di
eliminare la considerazione nella sua sostanza e di bocciare l'idea di
peccato, mentre senza l'idea del peccato (che paradosso!) l'uomo è una
marionetta, senza l'idea di peccato è un meccanismo, perché non avrebbe
libertà.
Il
Papa ha avuto il coraggio di dire, nel discorso all'Unesco del 2 giugno
1980, che senza il compiersi in Cristo la ragione non resta ragione.
La prima cosa che l'Anno Santo deve produrre in noi è, dunque, il
risveglio del senso del proprio essere peccatori, della incapacità
dell'uomo ad arrivare a ciò cui pure aspira in qualche sussulto ideale
del cuore.
Io ripeto sempre un brano dello scrittore protestante Ibsen, in cui egli narra
di un uomo che cerca in tutta la sua vita l'onestà assoluta.
Nell'ultima scena, mentre sta ritto in mezzo al palco, vicino alla sua
capanna a metà sul declivio del monte, improvvisamente sente staccarsi
l'immane valanga che sta precipitandogli addosso e grida, mentre il
frastuono della valanga diventa sempre più grande, a Dio: "Rispondimi, o
Dio, nell'ora in cui la morte mi travolge! Può l'uomo, con tutta la sua
volontà, riuscire a compiere un solo gesto perfetto?"12.
Non credo che queste siano delle astrattezze o delle sottigliezze
proprie di certi spiriti: questo, a mio avviso, è il veleno o il rimorso
che striscia dentro di noi ogni giorno e che ci beve le migliori
energie. È
il richiamo, innanzitutto, a ciò che siamo: sete di Infinito, impeto
ideale, ma incapaci, anche nel più breve gesto di ogni giorno, di essere
così gratuiti com'è legge per noi, per l'essere spirituale, d'avere
l'amore gratuito, la capacità dell'amore gratuito, vero, netto, in
tutto, all'uomo e alle cose, a se stesso. Dobbiamo continuamente
coprirci con la menzogna per poterci sopportare, dobbiamo dimenticare o
rinnegare per sopportarci.
Il
Protestantesimo arriverebbe a questo punto e poi direbbe: "Però,
nonostante noi siamo così, Cristo alla fine ci salverà". Chi ha visto il
film Dies irae, di quell'altro grande artista protestante, Dreyer,
certamente ne sarà stato colpito, perché questa è l'idea fondamentale
del grande spirito di Martin Lutero: un senso vivissimo di quello che
l'uomo è e che Cristo ha svelato con chiarezza, dell'uomo peccatore;
però questo Cristo, che ti svela come peccatore, quando morirai ti
salverà lo stesso!
Misericordia, giustizia che ricrea
Non
è così l'annuncio cristiano: infatti l'annuncio cristiano non è
soltanto Cristo, Dio che arriva per te perché sei colpevole e peccatore,
ma è Dio che muore e risorge e pone nella carne e nelle ossa
dell'umanità la possibilità di appartenere a questa Resurrezione. La
Resurrezione di Cristo costituisce l'inizio di un mondo nuovo,
costituisce l'origine di una possibilità di ripresa non per l'uomo
nell'aldilà, ma per l'uomo nell'aldiquà. Cristo risorto è più potente
del peccato e della morte, insieme a Cristo noi possiamo -questa è la
parola - cambiare. Siamo
come ammalati da lungo tempo che non sono capaci di stare in piedi, ma
che, con le braccia sulle spalle di un infermiere o di un familiare,
possono incominciare a fare ancora dei primi passi.
Solo
nella compagnia di quest'Uomo, che è Dio, l'uomo può cambiare e per
questo la virtù propria, la caratteristica propria del cuore del
cristiano è la speranza. La speranza non come è normalmente nella vita
del mondo, che per affermarsi ha bisogno di mettere la censura, cioè di
dimenticare, ma quella che nasce dalla considerazione chiara della
propria miseria, del proprio peccato. San Giovanni ai primi cristiani dice, nella sua Prima Lettera, che noi abbiamo creduto all'Amore13. Il
riconoscere la Presenza di questo Dio diventato uno fra noi, di Te, o
Cristo, questo mi riconforta e mi fa riprendere: mille volte sbaglio,
mille volte io sono certo di Te, o Cristo, mille volte Tu mi ridai il
coraggio di riprendermi. Quante volte dovremo perdonare? Sempre!
Perdonare non vuol dire: "Mettiamoci una pietra sopra". Perdonare vuol
dire far rivivere, far rinascere. La parola vera che il Papa usa per
l'Anno Santo, la parola grande, la parola con cui Dio ha definitivamente definito se stesso (non il Dio del pensiero, non il Dio dei morti, ma il Dio dei vivi, il Dio vero, quello che è entrato nella storia) è la parola Misericordia.
Una
ragazza, una volta, mi ha telefonato dalla casa di cura in cui era
stata ricoverata e mi ha detto: "Sa, don Giussani, ho capito che cos'è
la misericordia". Io ho chiesto, un po' stranito: "Cos'è?". "È la Giustizia che ricrea" e poi ha attaccato. Raramente i miei maestri mi hanno detto una verità così. "Giustizia
che ricrea", perché non oscura ciò che sono, ma mi dà la forza di una
Presenza, per cui mi ricostituisce mille volte al giorno. L'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito da questa Presenza, riconosce questa Presenza come tutto di sé.
Questo si chiama "amore", perché l'amore è affermare un Altro. Perciò
l'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito dall'amore, vale
a dire dal riconoscere Te, o Cristo.
Una
volta hanno trovato san Francesco d'Assisi nel sottobosco della Verna
con la faccia per terra che ripeteva continuamente: "Chi sono io, chi
sei Tu?". È questo l'annuncio dell'Anno Santo: una rinnovata speranza.
La speranza in una Presenza
In Guatemala, durante la visita pastorale del marzo 1983, Giovanni Paolo II ha detto che Cristo
è la nuova arma di un mondo nuovo. Ma questa speranza non è poggiata
sulle mie risorse o sulle risorse di quell'io proiettato che sono la
società, i capi, le cose che l'uomo crea; questa nuova vita, questa
speranza è fondata su questa Presenza. In fondo la fede è riconoscere
una Presenza, e riconoscere questa Presenza ridà animo mille volte al
giorno, in qualunque posizione ci si trovi, perfino nella morte, e
quindi dà la capacità di aprirsi agli altri con purità, cioè con
gratuità. Per questo Cristo, Redentore dell'uomo, non vale per l'aldilà
solo, ma per l'aldiquà che è l'oggi, l'aldiquà che è quest'ora, che è
tra un'ora, dentro la compagnia in cui sono, dentro la compagnia in cui
sarò; perciò questa speranza non ha sponde, abbraccia il mondo.
Per
sua natura questa speranza è sociale, per sua natura non esiste
problema o esigenza o situazione umana da cui non si senta percossa e a
cui non si senta interessata positivamente. La grande formula della vita
cristiana detta da san Paolo è: "In spe contra spem"14. Per questo il
cristiano è eminentemente un uomo che si impegna nell'impatto con le
persone e con le cose in qualunque condizione, anche quella politica,
perché questa Presenza ha mosso le acque della nostra grande, terribile,
orribile condizione, della nostra grande palude di impotenza, questa
Presenza vi è entrata e ha mosso tutto, e queste onde vanno fino alle
sponde estreme, vale a dire abbracciano il mondo fino agli estremi
confini della terra. Per
questo motivo non c'è più niente che al mio istante concreto sia
estraneo; vivo, allora, il mio istante concreto con un tentativo di
amore che si chiama, nel linguaggio cristiano, "offerta", per il mondo
intero. Questa offerta mi fa piangere con dolore della mia meschinità e
mi spalanca nella gioia di una speranza proprio perché non poggia su di
me, ma passa attraverso di me, usa di me. Perciò, anche se sono così
meschino da poter dare pochissimo, do questo poco.
L'essenza più intima di ogni Anno Santo sta proprio in un movimento
spirituale di fede e speranza, che fa convergere i fedeli, con un
rinnovato slancio, verso Cristo Redentore. Un pezzo di questo movimento
spirituale siete voi qui, ma questo movimento non può sussistere se non
con la responsabilità di ognuno così com'è.
§ a cura di Andrea Tornielli
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cristianesimo, giussani
I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
***
Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia
Roma 10-13 aprile 2003
Don Giorgio Pontiggia
Rettore dell'Istituto Sacro Cuore di Milano I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
LA PERSONA RINASCE DA UN INCONTRO
2^parte
- Se
Dio si è fatto un uomo, è entrato nella storia, il metodo per
conoscerlo non può più essere quello di prima della sua venuta, quello
di tutte le altre religioni fondate sulla ricerca, sul tentativo
dell'uomo. Prima
era poggiato tutto sullo sforzo, lo studio, la genialità, il sentimento
religioso, ora è Qualcuno da incontrare, non esige particolari capacità
ma la semplicità di un incontro.
Come ha scritto il Santo Padre a don Giussani per i vent'anni della Fraternità di Comunione e Liberazione "Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è l'"avvenimento" di un incontro . E'
questa l'intuizione e l'esperienza che Ella ha trasmesso in questi anni
a tante persone che hanno aderito al movimento di Comunione e
Liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la
Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di
parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo".
- L'io
ritrova se stesso nell'incontro con una presenza che porta con sé
questa affermazione: "Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi,
in me, per esempio esiste".
L'incontro con una presenza non costituisce ontologicamente la persona nella sua soggettività: l'incontro risveglia qualcosa che era oscuro, qualcosa che era esistenzialmente impensato ed impensabile.
L'uomo
riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che
suscita un'attrattiva e provoca un ridestarsi delle esigenze
costitutive della sua natura, un sommovimento pieno di ragionevolezza,
in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo
la totalità delle sue dimensioni - dalla nascita alla morte.
Paradossalmente, l'originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini.
- Quindi si tratta di una esperienza da fare. Ha detto il grande biblista Ignace de la Potterie: "La fede cristiana è un cammino dello sguardo"
Senza
l'impegno esperienziale non si può capire cos'è il cammino dello
sguardo. La cosa più difficile da accettare è che ciò che ci risveglia a
noi stessi, ciò che ci risveglia alla verità della nostra vita, al
nostro destino, alla speranza, alla moralità sia un avvenimento.
Perché
la parola avvenimento, di cui l'incontro è la forma, indica una
"coincidenza" fra il reale sperimentabile e il soprannaturale.
Il più grande fatto non è l'esistere ma l'incontro: quel frangente unico da cui tutta una storia dipende, un momento nel tempo, in cui un essere dice "Io sono Tu che mi fai"
- La nostra responsabilità è rendere possibile l'incontro con Cristo presente nella nostra testimonianza.
Occorre
dunque immedesimarsi bene con il valore dell'affermazione che il
cristianesimo "è" un avvenimento, non "fu" un avvenimento; non "è stato" un avvenimento ma "è"; adesso.
E'
una presenza paterna che genera un Incontro, cioè l' impatto con un
Avvenimento che ti comunica una vita, perché la vera paternità e quando
si comunica una proposta per la vita. E' una paternità e perciò incontro
se è proposta di una risposta a quello che l'altro è.
-
L'incontro si dilata in una compagnia: l'incontro genera una compagnia
come certezza affettiva, una famiglia, un luogo in cui ci sia una
speranza per la vita. Questa certezza affettiva per i giovani sta negli
adulti.
Come ha affermato il Papa due anni fa: "L'incontro
con certe persone genera affinità e quest'affinità genera una
compagnia, una comunione, un movimento. Vivere questa comunione è
partecipare al Mistero dello Spirito".
Dall'incontro con queste persone noi ci sentiamo sollecitati ed attratti, e ad esse spinti ad unirci.
L'incontro
permane dunque come compagnia. Essa è il luogo dell'umano, è il luogo
geografico e sociale in cui siamo richiamati a Ciò cui ci ha ridestato
l'incontro: Cristo, il destino fatto uomo.
La
compagnia è il luogo di un'amicizia che nasce dal presentimento del
destino e sostiene nel cammino del destino che è Cristo. Questa amicizia
è aiuto nell'itinerario che porta alla realizzazione di sé e non
alienazione di sé.
Questo è quello che noi dobbiamo provocare, altrimenti è inutile: facciamo solo riunioni.
E' l'esperienza di un Qualcosa che portiamo dentro, cui apparteniamo
così profondamente che investe la vita con proposte, che già come
parole, come organizzazione del tempo, come iniziative che si prendono e
soprattutto come rapporti che si stabiliscono, così che l'altro si può
accorgere che non ha mai trovato cose in cui l'umanità è più umana.
Vale a dire, lì si sperimenta, in senso analogico il miracolo.
Pressappoco
quello che avveniva con Gesù quando Egli faceva i miracoli. Lui non è
venuto per fare i miracoli, ma ha fatto miracoli per far capire ciò per
cui era venuto e chi era Lui, così il nostro scopo è di vivere questa
Presenza per diventare la Presenza che prenda tutti gli uomini.
Il metodo è un incontro esistenziale come ha detto Giovanni Paolo I "il
vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di
correggere lo stupore dell'evento di Cristo con delle regole"
L'AMBIENTE
Una presenza non può che essere nell'ambiente.
Così
lo descriveva don Giussani già all'inizio di Comunione e Liberazione
ne' "Il cammino al vero è un'esperienza" ed SEI : "Il nostro richiamo
non può andare direttamente alla coscienza: per giungere all'io genuino
deve perforare una mentalità che ne è come l'involucro. Tale
soprastruttura è costruita in gran parte dall'esasperazione
dell'influenza ambientale odierna attraverso i modernissimi mezzi di
invasione della persona: propaganda, scuola, televisione ecc. Pretendere
di resistere o neutralizzare questa influenza è vana cosa se non si
riesce a raggiungere la persona proprio là dove essa è più influenzata,
cioè nel suo ambiente. Tale "ambiente" non coincide evidentemente con un
"luogo" nel senso materiale della parola: assai più che un luogo è un
ambito, cioè tutto un modo di vivere, una trama di condizioni
dell'esistenza. Pure nella società attuale tale ambito di vita ha il suo
fulcro proprio in un luogo materiale, fisico, che diventa come il punto
di riferimento o il crocevia obbligato di tutto quell'insorgere di
rapporti e il conseguente prorompere di idee e di sentimenti. I luoghi
di riferimento sono la scuola e, secondo proporzioni diverse, il lavoro.
La capacità educativa è in crisi, quando non crea ambiente e non passa attraverso il confronto con l'ambiente. Non
è una capacità educativa quella di far discorsi e di organizzare, ma è
il confronto con l'ambiente, cioè la trama di problemi umani che la
convivenza pone, come riflesso della società.
- l'impegno
con l'ambiente, cioè l'incontro , è generatore di cultura, cioè fa
giudicare la realtà alla luce della fede, di un orizzonte totale che
avvalora il particolare e manifesta la menzogna della pretesa
totalizzante dell'ideologia.
Come diceva il Papa al congresso del MEIC nel 1982 "Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta"
- e
fa crescere la convinzione attraverso la verifica, cioè accorgersi
della corrispondenza fra la proposta di Cristo e le esigenze della
persona.
Perché che Dio sia Dio si manifesta come capacità di rispondere all'uomo più che come spiegazione della dottrina
E'
il centuplo quaggiù, che non è quello che inventa l'uomo ma è la vita
vissuta con la coscienza della grande Presenza come fu per Pietro
"Signore, dove andremo, solo tu hai parole che spiegano la vita"
DA DOVE PARTIRE
- Un
cristiano, uno che vive i problemi di tutti, che soffre
dell'ingiustizia di tutti, che è implicato nelle contraddizioni di tutta
la società e che sperimenta in questa esperienza una corrispondenza
alla sua umanità, chiedersi che cosa può fare per il mondo?
Può fare qualcosa di diverso che vivere e rendere presente ciò che ha incontrato ?
Il
cristianesimo autentico è l'annuncio dell'Incarnazione: il mistero e
l'infinito si incontra in una realtà spazio-temporale precisa: la
persona.
Per
poter cominciare non servono altri elementi: non serve un'analisi già
compiuta, non serve raggiungere una determinata forza e capacità, non
serve essere sicuri che si verrà ascoltati e che l'intrapresa andrà a
buon fine.
Allora la
prima condizione è che questa coscienza dell'avvenimento deve produrre
un cambiamento di noi: devono accorgersi i compagni di scuola, la gente
che incontriamo, gli amici e i colleghi, cioè che anche noi siamo
personalmente coinvolti in questo cammino di realizzazione di sé: educa
chi si lascia educare.
Se
non si parte da qui il resto rotola nel nulla: può aver qualche momento
di efficacia se c'è una personalità umanamente affascinante e
attivamente costruttiva, ma passata lei, passato l'inganno.
-
I giovani hanno bisogno di uomini che abbiano la statura delle loro
esigenze umane sapendo dare ragione della fede che è in loro
Ci sono due sintomi che ci segnalano se siamo con loro in questa posizione:
- che i ragazzi stessi diventino partecipi di questa esperienza, cioè missionari
Una
volta che si scopre per sé come l'intensità della vita cristiana
coincide con l'intensità della passione per sé stessi, in quanto esseri
che camminano verso il proprio destino, una volta scoperto questo sé, ci
si accorge che questa coincidenza vale per qualunque persona che si
incontri, fosse anche per il proprio nemico e non si può non
comunicarla.
- che noi impariamo da loro
Perché
il rapporto educativo è una reciprocità: non fare per, ma fare con,
così che l'adulto è chiamato a verificare lui quello che propone
all'altro.
La
scoperta più grande che ho fatto e faccio tutti i giorni è che
insegnando si cresce, ci si accorge di imparare anzitutto noi e si
vorrebbe che quello che si impara diventasse trasparente e persuasivo
anche per coloro che sono con noi.
Come diceva Pier Paolo Pasolini "Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare" (da Gennariello in Lettere Luterane).
-fine primaparte
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Postato da: giacabi a 14:26 |
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cristianesimo, giussani, don pontiggia
I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
***
Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia
Roma 10-13 aprile 2003
Don Giorgio Pontiggia
Rettore dell'Istituto Sacro Cuore di Milano I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
Non
ho trovato una descrizione più sintetica e immaginativa della
situazione dei giovani d'oggi che quella emersa in un dialogo di don
Giussani con un gruppo di universitari: " E'
come se tutti i giovani d'oggi fossero stati investiti da una sorta di
Cernobyl, di un' enorme esplosione nucleare: il loro organismo
strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato
come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. E'
come se oggi non vi fosse più alcuna evidenza reale se non la moda - che
è un concetto e uno strumento del potere. Mai come oggi l'ambiente,
inteso come clima mentale e modo di vita, ha avuto a disposizione
strumenti di così dispotica invasione delle coscienze. Oggi più che
mai l'educatore, o il diseducatore sovrano è l'ambiente con tutte le sue
forme espressive. Così anche l'annuncio cristiano stenta molto di più a
diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che
si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la
mentalità dominante, la cultura onniinvandente, il potere, realizzano
in noi una estraneità rispetto a noi stessi, si rimane cioè, da una
parte, astratti nel rapporto con sé stessi e affettivamente scarichi
(come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall'altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione".
- una estraneità rispetto a noi stessi, si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con sé stessi
Perché
si è sostituita la ragione come esigenza di conoscenza della realtà,
cioè dell'esperienza, secondo tutti i fattori, con il sentimento; la persona non è quello che è ma è ciò che si sente e la ragione diventa la capacità di giustificazione di questa reazione: "Và dove ti porta il sentimento", e così ciò che prevale è l'opinione, non il giudizio.
Si
è tolta l'evidenza di una debolezza originale in cui vive la persona.
E' stata presa come dogma e diffusa dai mezzi di comunicazione sociale
l'affermazione di Rousseau
"Fa' quello che vuoi perché per natura l'uomo è spinto ad atti
virtuosi" E quindi la fatica, il sacrificio, sono diventati una
obiezione e non più la condizione del vivere.
- e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti);
L'affezione diventa la soddisfazione di un piacere e non più l'attrattiva del vero, così tutto è volubile, insicuro
e le pile scariche fanno diventare la vita non un cammino verso
qualcosa ma un vagabondaggio, una intermittenza invece di un albore.
Anche
la religiosità giovanile spesso è il fluttuare del sentimento di Dio
più che il suo riconoscimento per cui tutte le religioni sono
uguali perché corrispondono alla propria spontaneità e non perché
realizzano di più la propria natura.
- e, dall'altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione".
Così
le aggregazioni giovanili nascono per una prossimità di sensazioni e
mode più che per un aiuto al crescere della persona diventando così la
nuova forma dell'ideologia, la cinghia di trasmissione della moda e
della mentalità dominante.
Ma
sempre don Giussani scriveva in "Porta la speranza" ed. Marietti di cui
vi allego un capitolo "Ma per il luogo che occupa nella cronologia di
ogni vita, in tutti i tempi la gioventù avrà presentato spettacolo di
crisi. Perciò, se ora si parla di una crisi dei giovani, particolare ed
eccezionale, questa, in ultima analisi, deve essere ricercata in una
crisi dell'educazione, dei fattori educativi. La crisi degli educatori
si profila:
- in
primo luogo come inconsapevolezza che rende gli educatori stessi
collaboratori magari incoscienti delle deficienze dell'ambiente
C'è
una perdita del significato personale del fatto cristiano che è il
costituirsi di un soggetto nuovo nella storia e non uno come gli altri
con qualche impegno in più come ha detto il Cardinal Ratzinger al
Meeting di Rimini del 1990: "E'
diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea
che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in
attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica
dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un
comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della
Chiesa. (...) Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente
attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto
cristiano. (...) La Chiesa non esiste allo scopo di tenerci occupati
come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita
essa stessa ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita
eterna".
All'interno
della società contemporanea spesso il cristianesimo appare legato a
delle strutture. Non essendo sempre queste strutture vivificate da una
testimonianza personale, il rifiuto o l'indifferenza nei confronti di
queste strutture coincidono col rifiuto o l'indifferenza nei confronti
del fatto cristiano, come se la partecipazione ad esse bastasse a
giustificare il proprio essere cristiani.
Manca
in molti cristiani la testimonianza della soggettività nuova che è il
cristianesimo così da rendere occasione di vita queste strutture: si è
persa la coscienza del significato personale del richiamo cristiano,
come corrispondente all'umano.
Così il fatto cristiano rimane astratto, estraneo alla vita, al mondo normale.
- e, in secondo luogo, come
mancata vitalità nell'atteggiamento educativo che non li fa combattere
con sufficiente energia la negatività dell'ambiente, in quanto li
attesta su posizioni schematicamente tradizionali, formalistiche, invece
che portarli a rinnovare l'eterno Verbo redentore nello spirito della
nuova lotta".
Si favorisce la frattura fra cristianesimo e vita.
La
società tende a rifiutare o a relegare nell'ambito di una dimensione
privata il cristianesimo: cioè un distacco da Dio come origine e senso
della vita, quindi dall'esperienza.
Come se
Dio rispondesse alla "religiosità" e non alle esigenze della vita.
Così, inconsapevolmente, si accetta il ruolo che la società vorrebbe
riservare ai cristiani che è quello di essere il supplemento religioso,
l'anima per la realizzazione del proprio progetto invece di essere
giudizio e quindi collaboratori originali dell'aspirazione comune degli
uomini alla loro felicità.
Le
difficoltà dei figli sono un interrogativo drammatico per i padri; per
questo dobbiamo domandarci con T.S. Eliot "E' l'umanità che ha
abbandonato la Chiesa ?" o "E' la Chiesa che ha abbandonato l'umanità?"
(T.S. Eliot - I cori de la Rocca)
CRISTO E LA CHIESA
Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento
Il Cristianesimo è un evento; una persona è entrata nella storia: Gesù Cristo, che alcuni hanno incontrato ed accettato.
E
la Chiesa è la possibilità di ripetere oggi questo incontro, la
possibilità che si ripeta per tutti, come ha detto il Santo Padre per la
XVIII° Giornata Mondiale della Gioventù: "Cari
giovani, lo sapete: il Cristianesimo non è un opinione e non consiste
in parole vane. Il Cristianesimo è Cristo! E' una Persona, è il
Vivente".
Non
dunque una teoria, ma un fatto che ci riguarda, un fatto la cui portata
è data da una Presenza personale, la Presenza di Cristo: dell' Emmanuele, "Dio-con-noi", di Dio che si è fatto Compagno, amico dell'uomo.
Come scriveva Fedor Dostoevskij ne' "I Demoni" "Molti
credono che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere
cristiani; non la morale di Cristo, né l'insegnamento di Cristo
salveranno il mondo ma precisamente questo: che il Verbo si è fatto
carne"
L' avvenimento è il metodo
L'
"Avvenimento" non è solo il momento in cui questo fatto si è posto ma
indica un metodo, il metodo scelto e usato da Dio per salvare l'uomo:
l'Incarnazione, Dio salva l'uomo attraverso l'umano.
Il Cristianesimo non è la rivelazione dell'esistenza di Dio ma lo stupore che Dio è un Uomo, lo stupore di Kafka:
"Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo con vera
bramosia, che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile
per sempre, eccolo qui seduto" (F. Kafka - Il Castello)
La salvezza non ci sarà: c'è, il valore del presente
- Se
Dio è con noi la salvezza c'è; e non solo c'è, ma é tra noi; perciò è
utilizzabile, é sperimentabile già adesso, perché Dio che é salvezza, si
compromette con l'uomo, con tutta la sua vita e con la storia. La
salvezza é una compagnia: la compagnia di Dio all'uomo, nella quale
l'uomo trova la possibilità della sua realizzazione, la consistenza
della sua vita e di sé stesso, la sua vera fisionomia, l'unità della sua
persona.
La nostra realizzazione, redenzione, non é il risultato del nostro sforzo di coerenza umana, ma é conseguenza dell' accettazione di quella compagnia.
"Salvare"
vuol dire che l'uomo capisca chi è, capisca il suo destino, sappia come
condurre i passi verso il suo destino e vi possa camminare.
E'
incontrando questa Presenza che la persona incomincia a capire se
stessa, a capire qual' è il suo destino, a capire come andare al suo
destino e con quale energia camminare.
- Aderire al fatto cristiano, procedere in esso ha come modalità quella della conversione. Convertirsi non è analizzare l'annuncio, ma compromettersi con esso, cioè con un Fatto, un avvenimento.
La
consistenza dell'annuncio è tutta nel fatto che esso penetri nell'
esistenza e la cambi. L'esperienza di un rinnovamento della vita, di
una fisionomia personale imprevista è la prova esistenziale che l'opera
della salvezza si sta compiendo, è il centuplo quaggiù.
Come ancora ricordava il Santo Padre ai giovani per la prossima giornata mondiale della gioventù "Cari
giovani, solo Gesù conosce il vostro cuore, i vostri desideri più
profondi. Solo Lui, che vi ha amati fino alla morte (cfr. Gv 13, 1), è
capace di colmare le vostre aspirazioni. Le sue sono parole di vita
eterna, parole che danno senso alla vita. Nessuno all'infuori di Cristo
potrà darvi la vera felicità."
O come diceva il Cardinale Giacomo Biffi ad un convegno di teologi a Bologna "Noi non siamo il "popolo del libro", a rigore non siamo neppure il "popolo della parola": siamo il "popolo dell'Avvenimento" (...) "Sventurato
quel teologo, quel esegeta, quel lettore della sacra pagina per il
quale Gesù è primariamente un personaggio letterario, e perciò egli
parla del Cristo dei sinottici, del Cristo paolino, del Cristo
giovanneo, e non del suo Salvatore".
Non
esiste possibilità di capire il cristianesimo se non si intuisce che il
cristianesimo nasce interamente come passione per l'uomo, per il
singolo uomo, meglio dalla passione per il destino del singolo uomo.
1^ Parte
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cristianesimo, giussani, don pontiggia
Pavese,
confessione di un rifugiato
DI GIOVANNI BARAVALLE (sacerdote amico dello scrittore)
La sera del 29 gennaio 1944,
io stavo nella cappella del collegio. Erano le cinque del pomeriggio.
Stavo dicendo quello che si dice il 'breviario dei sacerdoti', la
preghiera dei sacerdoti. Ero solo. Sento un piccolo rumore, qualcuno che
si avvicina. Non mi muovo. Continuo a leggere il mio breviario, come se
non avessi sentito niente. I passi si avvicinano sempre più e una
persona si siede accanto a me. Con la coda dell’occhio ho sbirciato. Era Pavese, il quale si era seduto, aveva messo la testa tra le mani e stava lì. Quest’uomo vuole parlarmi. Allora faccio presto a terminare il mio breviario e gli dico: «Professore, cos’ha?» e lui mi dice: «Padre, mi aiuti. Ho bisogno di lei».
Io ero giovane, avevo 28 anni. Ero prete da due anni. E
lui mi dice: «Devo sfogarmi. Devo narrarle tutto». E incominciò a
raccontare la sua vita per due ore, il bene e il male, tutto quello che
poteva dire. Io gli facevo qualche domanda in più per capire esattamente
le cose. Due ore!
Alla
fine mi dice: «Padre cosa può fare per me?» E io gli rispondo:
«Professore, io sono un prete. Se lei ha dispiacere di quello che è
accaduto contro la legge di Dio, io le posso dare l’assoluzione». E lui: «Mi spiace se ho offeso Dio».
Non
potevo capire che valore avessero queste parole. E allora gli ho detto:
«Va bene, io le do l’assoluzione ». L’ho confessato. Due ore di
confessione; e ne ha dette di cose!
Non si era più confessato da quando aveva fatto la prima comunione. Allora mi dice: «Ma lei potrebbe anche darmi la comunione?»
«Ma certo, non adesso. Domani mattina alle sei e mezza io celebro messa
nella chiesa che sta dietro quella parete » «Ma non so come fare, non
so come comportarmi». Allora io gli dico: «Lei non deve fare niente.
Faccio tutto io».
Alle sette di quel giorno, 30 gennaio, gli ho dato la comunione.
Quel giorno, 29gennaio1944, è una data terribile per Pavese. Se voi leggete Il mestiere di vivere, trovate una pagina che è stata giudicata meravigliosa per contenuto religioso: «Ci
si umilia per chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza di
giungere alla fede, il modo di essere fedele rinuncia a tutto, una
sommersione in un mare di amore, un mancamento di barlume di questa
possibilità: forse è tutto qui».In questo tremito del «Se fosse vero… se
davvero fosse vero…» Pavese non aveva dubbi sull’esistenza di Dio. Era
stato in gioventù lontano da ogni principio religioso e forse anche un
po’ agnostico, ma quando l’ho conosciuto io, non aveva più dubbi. Quella
data del 29 gennaio, quella seguente del primo febbraio, sono rimaste
scritte nell’animo di Pavese e lo accompagneranno per tutta la vita.
Davide
Lajolo dice che Pavese ha cercato un po’ di conforto leggendo la
Bibbia, parlando con dei frati, ma ha detto una sciocchezza. Quel
momento è stato per Pavese il momento decisivo di tutta la sua vita. Il problema di Pavese non era Dio, il problema di Pavese era il Cristianesimo.
Il
Cristianesimo o è una religione come tutte le altre, cioè una
purificazione di una religione pagana che si è presentata al mondo in un
determinato momento e ha conquistato i suoi adepti, oppure è una religione rivelata da Dio. Questo è il problema. Lui
propendeva in un certo momento a considerare il Cristianesimo come una
sublimazione di una religione pagana che è stata però purificata.
Naturalmente io non potevo accettare questa spiegazione della
religione e le nostre discussioni erano diventate sempre più frequenti.
Un
giorno gli dico: «Professore, lei sa come me che Gesù Cristo è risorto,
lei sa che i Vangeli sono stati scritti nel primo secolo d.C. e i
Vangeli parlano tutti della Resurrezione di Cristo: che cosa è avvenuto?
Gli Ebrei perseguitarono i Cristiani. Ma lei mi trovi un solo libro
scritto di quel secolo in cui qualche ebreo osi contestare la
Resurrezione di Cristo. Lei non ne trova, perché gli Ebrei sapevano che
Cristo era risorto, ma non volevano che se ne parlasse. Non era un
Messia politico, quindi era inutile farne un’apologia».
Un
ragionamento molto popolare, ma Pavese mi disse: «Toh! Non ci avevo mai
pensato!» La nostra vita comunque, si svolgeva tranquillamente. Io
ricorrevo a Pavese anche per aiuto. Oltre a fare il padre spirituale
dovevo anche curare gli studenti del liceo classico e scientifico di
Casale Monferrato. Adesso parlo di quarant’anni fa, bisogna tenerlo
presente. Allora un ragazzo e una ragazza prima di leggere un romanzo o
vedere un film andava dal prete per chiedere il permesso. Ora i tempi
sono cambiati (...) Sabato, 26 agosto: chi in ferie, chi in weekend. Non
c’era nessuno.
Pavese quel giorno chiede di non essere disturbato: viene lasciato solo.
La
sera del 27 agosto, non vedendo comparire questo ospite, il cameriere
prova ad aprire la porta, chiusa dall’interno. Nessun segno di vita, si
avverte la polizia.
Lajolo ha falsificato tutta la morte di Pavese. Afferma che lo trovarono sul letto composto. ( Tenete presente che Pavese il 18 agosto nel suo diario scrive : «Oh Tu, abbi pietà di me».) Pavese
ha bruciato una lettera, non si saprà mai a chi fosse indirizzata né
cosa contenesse; c’era la cenere sul davanzale della finestra. Sul
davanzale c’erano anche le bustine delle pastiglie inghiottite. Ma
cos’è successo? Il giornale ha scritto: «Si è avvelenato». Ma cosa c’è
dietro a quell’avvelenamento?
C’è
una disperazione infinita. Pavese si è sentito solo, fallito
completamente, sotto ogni aspetto. E allora a chi si rivolge? Non ha
mai dimenticato quella sera in quella cappella, e io gli dicevo :
«Ricordati di quello che hai passato nella cappella del collegio
Trevisio quando hai incontrato Dio». In quel momento Pavese ha compiuto
un’opera incomprensibile: è abbandonato da tutti, non se la sente più
di vivere. Scrive: «O Tu abbi pietà» e decide di suicidarsi. Ma il
suicidio è male. Ma per lui era l’unica via rimastagli. Dagli uomini non aveva più nulla da aspettarsi. Uno solo poteva ancora dargli fiducia, e si è rivolto a Dio : «O Tu abbi pietà», e ha compiuto quel gesto.
Ma
durante la morte che cosa deve essere avvenuto? A un certo momento
(l’ho ricostruito io sulla base di notizie che ho ricevuto) Pavese deve
aver recuperato per qualche istante, non so per quanto, la lucidità
mentale : ha tentato di andare verso la porta e di aprirla, forse per
chiamare aiuto. È caduto per terra, si è fatto una ferita al ginocchio e
al braccio, quindi, non potendo arrivare alla porta, ha tentato di
ritornare sul letto a distendersi, non ci è riuscito, si è seduto sul
letto ed è caduto riverso col torso appoggiato al letto e coi piedi a
penzoloni. Così è stato trovato la sera del 27 agosto 1950. Viene
avvertita la sorella. Quello che poi è avvenuto lo lascio immaginare a
voi.
Il
pomeriggio del 28 agosto apro 'La Stampa Sera' e trovo: ' «Cesare
Pavese si è suicidato». Non vi dico che cosa ho provato. Mi pareva che
mi fosse caduto addosso il mondo, mi sono sentito annientato, sono stato
attaccato da un senso di rimorso: io ero forse l’unico prete che sapeva
tutto di Pavese, che sapeva anche quella tentazione del suicidio, e io
non l’ho fermato. Spero di non avere colpa davanti a Dio, però nel mio
cuore ho sofferto realmente molto. E ho pianto. Poi gli ho celebrato una
messa e ho pregato per lui diario29
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Postato da: giacabi a 18:55 |
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cristianesimo, pavese
Magdi Cristiano Amico *** |
Postato da: giacabi a 17:31 |
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cristianesimo, magdi allam
Così Cl ha convertito Magdi e sfidato Ratisbona
di Paolo Rodari da: Il riformista 25-03-2007
C’è il movimento di Cl dietro la conversione di Magdi Allam al cattolicesimo.
Conversione sancita la notte di Pasqua da battesimo, cresima ed
eucaristia impartitegli dal Papa, l’assunzione del nome Magdi Cristiano
Allam e l’implicita rinuncia alla fede islamica.
Che ci sia dietro Cl lo testimoniano i nomi che lo stesso Magdi Allam ha voluto citare domenica sul Corriere quali «punti di riferimento» sulla strada della conversione: don Juliàn Carròn (guida di Cl), don Gabriele Mangiarotti e suor Maria Gloria Riva (due religiosi vicini a Cl), monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino e tra i responsabili storici di Cl. E poi, anche se non è stato citato sul Corriere, l’onorevole Maurizio Lupi, da sempre nelle fila cielline, colui che Madgi Allam ha scelto come padrino per il rito della notte di Pasqua. Nei giorni precedenti la funzione, in pochissimi erano a conoscenza della volontà di conversione di Magdi Allam. In Vaticano c’è chi si è mostrato preoccupato del fatto che fosse lo stesso Pontefice a impartirgli i sacramenti. L’effetto Ratisbona, infatti, e le conseguenti accuse al Papa di voler fare proselitismo nel mondo islamico, avrebbero potuto riproporsi una seconda volta viste anche le posizioni molto dure che lo stesso Allam ha sempre preso nei confronti dell’islam più fondamentalista. Qualcuno ha pure sottolineato come sarebbe stata meglio una conversione low profile, nel segreto cioè di un’anonima parrocchia romana. Ma pare sia stato lo stesso Benedetto XVI a mostrarsi deciso. Forse, sullo sfondo, c’è anche la volontà di mostrare una Chiesa che non teme la conversione al cattolicesimo di nessuno, tanto meno dei musulmani. Una Chiesa che nei confronti dell’islam ha sempre chiesto, prima e dopo Ratisbona, la reciprocità: se in tanti si convertono dal cattolicesimo all’islam senza problemi, la stessa libertà deve essere garantita per coloro che intendono fare il percorso inverso. Luigi Negri, vescovo di San Marino, è legato da stretta amicizia con Magdi Allam. Già qualche mese fa fu lui a battezzare alla fede cattolica il figlio di Magdi Allam in una parrocchia della sua diocesi. Spiega Negri al Riformista: «L’amicizia è nata in scia a un dialogo maturo tra laici e cattolici che ho messo in campo con l’istituzione della Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa. Magdi Allam, negli incontri formali e informali che abbiamo avuto, ha sempre mostrato una straordinaria acutezza nell’individuare la crisi della società occidentale nell’assenza di valori fondamentali che, di fatto, riduce l’Occidente a essere succube e impaurito di fronte all’islam. È un islam, quello che lui vede innanzi a sé, in cui prevale l’aspetto ideologico-politico. E in questo senso la “mossa” del Papa di battezzarlo è stata arguta perché ha mostrato che è più politico avere coraggio che essere reticenti. Tanto le reazioni di parte del mondo islamico ci sarebbero state comunque. E, infatti, già ci sono». E per il Papa, più che per se stesso e per le accuse di «apostasia» mossegli da parte del mondo islamico (ambienti radicali e jihadisti hanno anche più volte criticato il suo appoggio a Israele e alla politica dell’amministrazione americana), era preoccupato lo stesso Magdi Allam. Lo dice suor Maria Gloria Riva in una missiva affidata ieri al sito culturacattolica.it: «Un giorno, a casa sua - racconta -, ci ha preso in disparte: “Voglio essere di Cristo”, ci disse. Poi con voce pacata e profonda ci ha confessato quanto questo Papa abbia inciso sul suo percorso e abbia introdotto la sua profonda riflessione attorno all’islam entro la necessità di una fede che sia sostenuta dalla ragione. Ciò che ci sgomentò fu il pericolo a cui egli sarebbe andato incontro con una dichiarazione pubblica della sua conversione. Ma sapevamo che non sarebbe potuto essere che così. La determinazione e la serietà con cui Magdi affronta ogni cosa non poteva che accordarsi con questo nuovo e importante passo della sua vita. Eppure alla soglia del grande passo, quando ci informò che il Santo Padre aveva deciso di battezzarlo nella notte di Pasqua, Magdi con uno sguardo da fanciullo ci disse: “Il pericolo c’è, ma non per me. Per il Papa. Dovete pregare per il Papa”». Parole che Magdi Allam riferì anche a don Gabriele Mangiarotti, il quale racconta al Riformista come l’amicizia col vice direttore del Corriere sia iniziata «dopo i fatti di Ratisbona». «Da subito - spiega Mangiarotti - mi ha impressionato la sua rettitudine morale: mi ricordava mio padre. Lo invitammo nella diocesi di San Marino per tenere una conferenza in merito. Lui spiegò come le parole del Papa a Ratisbona avessero avuto sull’islam un effetto addirittura maggiore di quello che ebbe per l’Occidente l’attacco alle Torri Gemelle». Maurizio Lupi ritiene che il Papa «abbia fatto molto bene a battezzarlo personalmente». «È stata la meta di un percorso naturale - dice al Riformista -, e che ogni anno anche per altri catecumeni della diocesi di Roma sfocia con il battesimo nella basilica vaticana. Quello di Magdi Allam è stato un cammino personale di conversione illuminato dall’incontro con una fede, quella cattolica, dove la ragione non viene mai messa da parte, ma anzi ne è da questa illuminata. L’amicizia con Magdi è nata al Meeting di Rimini e poi durante la manifestazione “Salviamo i cristiani” che lui stesso organizzò a Roma lo scorso 4 luglio. Insomma, furono le sue battaglie per la libertà religiosa e per un fede che non escluda la ragione a trovare con me e con tante altre persone un’affinità che definirei naturale». |
Postato da: giacabi a 21:32 |
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cristianesimo, magdi allam
Grazie!della tua testimonianza
Cristiano Magdi
***
Testimonianza
|
Postato da: giacabi a 18:03 |
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cristianesimo, magdi allam
"L’uomo
di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con
persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la
vita loro è cambiata"
“Che
cos’è il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per
sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo?
La questione eminente di tutto il problema cristiano è l’accadere anche
per i laici della creatura nuova di cui parla san Paolo.
È a tale uomo che vengono dati compiti e funzioni diverse: ma questo,
in fondo, rispetto al primo è problema secondario. Tale infatti è il
contenuto di ogni impegno cristiano: quello della preghiera di Gesù:
«Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). 2. L’uomo
di oggi, dotato di possibilità operative come mai nella storia, stenta
grandemente a percepire Cristo come risposta chiara e certa al
significato della sua stessa ingegnosità. Le istituzioni spesso non
offrono vitalmente tale risposta. Ciò
che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio.
L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza
dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così
presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può
scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento
iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: «Zaccheo scendi subito, vengo a casa tua» (Cfr. Lc 19,5). 3. In
questo modo il mistero della Chiesa, che da duemila anni ci è
tramandato, deve sempre riaccadere per grazia, deve sempre risultare
presenza che muove, cioè movimento, movimento che per sua natura rende
più umano il modo di vivere l’ambiente in cui accade. Per quanti sono
chiamati avviene qualcosa di analogo a quel che il miracolo fu per i
primi discepoli. Sempre l’esperienza di una liberazione dell’umano
accompagna l’incontro con l’evento redentivo di Cristo: «Chi mi segue
avrà la vita eterna, e il centuplo quaggiù»
(Cfr. Mt 19,28-29; Mc 10,28-30; Lc 18,28-30). 4. Come il Battesimo è
grazia dello Spirito, così ogni realizzarsi del Battesimo è dono dello
Spirito che si incarna nel temperamento e nella storia di ognuno. Questo
dono dello Spirito può comunicarsi con una forza particolarmente
persuasiva, pedagogica e operativa così da suscitare un coinvolgimento
di persone, un ambito di affinità e di rapporti, per cui si realizza una
dinamica stabile di comunione, «vivere la quale è un aspetto della obbedienza al grande mistero dello Spirito» (Giovanni Paolo II)”
don Giussani un
brano dell’intervento di al Sinodo dei Vescovi sui laici (Roma, 9
ottobre 1987, pubblicato in L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur,
Milano 2003,
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Postato da: giacabi a 20:37 |
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cristianesimo, giussani
LA PRIMA OPERA DI GIUSTIZIA «DARE CRISTO AL POPOLO»
***
Cristo
ritorna, e tornerà sempre finche la terra avrà lacrime e schiavi;
tornerà a dare pienezza di libertà alla sua Chiesa, tornerà in trionfo,
portato a braccia di popoli, su un trono di cuori.
Quando il popolo sembrerà strappato per sempre a Dio, allora si risveglierà come un forte e comprenderà che solo Cristo è la sua vita e la sua felicità, e a voce grande e angosciosa invocherà il Signore, il Dio della misericordia.
Basterà
allora alzare un Crocifisso, che il popolo gli cadrà ai piedi, per
risorgere a vita più alta; che neanche gli altari andranno rovesciati, e
le pietre del santuario disperse. E peggio finchè sulle ruine resti un troncone di Colui che noi adoriamo o un lembo del manto di Maria, basterà, o fratelli basterà quello!
E il popolo tornerà a credere, ad amare e ad adorare, a vivere, e il
mondo avrà un nuovo e più vasto. risorgimento cristiano e civile.
Coll'odio non si vive e Gesù sta preparando un grande ritorno. L' ora si avvicina: tutto ce lo dice.
L 'ultimo a vincere e sempre Dio, e Dio vincerà da Salvatore e da
Padre, e sarà un' ora grande di universale misericordia. Vogliamo portare Cristo al cuore degli umili e dei piccoli, del popolo e portare il popolo ad amare ognora più Cristo, la famiglia e la patria.
Instaurare omnia in Christo: e necessario fare cristiano l'uomo e il popolo, e necessaria una restaurazione cristiana e sociale della umanità. (...) Ma bisogna educare sempre più a Dio la gioventù e andare al popolo, vivere la sua vita, soffrire le sue sofferenze.
E
in quest' ora del mondo, ora tanto dolorosa, tanto triste, risolviamo, o
Amici, di conservare inestinguibile e ognor più divampante il sacro
fuoco dell'amore a Cristo e agli uomini. E
realizziamo la carità, in special modo con lo stendere fraternamente la
mano e il cuore alle classi del proletariato, ai poveri operai, ai pù
umili e più infelici.
Spargiamo nel popolo, nella gioventù, nella patria questo vivificante cristiano amore.
Senza questo sacra fuoco, che e amore e luce, che resterebbe della umanità? Ottenebrata
la intelligenza, il cuore fatto freddo, gelido più che il marmo di una
tomba, l'umanità vivrebbe convulsa tra dolori d'ogni genere senza alcun
altro conforto, solo abbandonata ai tradimenti, ai vizi, alle
scelleraggini senza nome.
Che
sarebbe dell'uomo e della civiltà quando, dominata dall'egoismo, da
basse cupidigie, avvelenata da deleterie teorie comuniste, le masse
popolari rompessero ogni legge, ogni freno di onesto vivere cristiano e
civile? (...) Il mondo ne andrebbe incendiato, gli uomini finirebbero a
sbranarsi come mai s'e visto, neppure tra le belve.
Che guadagnerebbe l'umanità rinnegando la carità di Cristo?
Con
Cristo tutto si eleva, tutto si nobilita: famiglia, amore di patria,
ingegno, arti, scienze, industria, progresso, organizzazione sociale:
senza Cristo tutto si abbassa, tutto si offusca, tutto si spezza: il lavoro, la civiltà, la libertà, la grandezza, la gloria del passato, tutto va distrutto, tutto muore.
Don Orione Nel nome della Divina Provvidenza Piemme
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Postato da: giacabi a 08:43 |
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cristianesimo, don orione
Da ieri dunque mi chiamo
«Magdi Cristiano Allam».
Per me è il giorno più bello della vita
***
«Approdo di un lungo cammino
Decisivo l’incontro con il Papa»
Caro
Direttore, ciò che ti sto per riferire concerne una mia scelta di fede
religiosa e di vita personale che non vuole in alcun modo coinvolgere il
Corriere della Sera di cui mi onoro di far parte dal 2003 con la qualifica di vice-direttore ad personam. Ti scrivo pertanto da protagonista della vicenda come privato cittadino. Ieri sera mi sono convertito alla religione cristiana cattolica, rinunciando alla mia precedente fede islamica. Ha così finalmente
visto la luce, per grazia divina, il frutto sano e maturo di una lunga
gestazione vissuta nella sofferenza e nella gioia, tra la profonda e
intima riflessione e la consapevole e manifesta esternazione. Sono
particolarmente grato a Sua Santità il Papa Benedetto XVI che mi ha
impartito i sacramenti dell’iniziazione cristiana, Battesimo, Cresima ed
Eucarestia, nella Basilica di San Pietro nel corso della solenne
celebrazione della Veglia Pasquale. E ho assunto il nome cristiano più semplice ed esplicito: «Cristiano».
Da ieri dunque mi chiamo «Magdi Cristiano Allam». Per
me è il giorno più bello della vita. Acquisire il dono della fede
cristiana nella ricorrenza della Risurrezione di Cristo per mano del
Santo Padre è, per un credente, un privilegio ineguagliabile e un bene
inestimabile.
A quasi 56 anni, nel mio piccolo, è un fatto storico, eccezionale e
indimenticabile, che segna una svolta radicale e definitiva rispetto al
passato. Il
miracolo della Risurrezione di Cristo si è riverberato sulla mia anima
liberandola dalle tenebre di una predicazione dove l’odio e
l’intolleranza nei confronti del «diverso», condannato acriticamente
quale «nemico», primeggiano sull’amore e il rispetto del «prossimo » che
è sempre e comunque «persona»; così come la mia mente si è affrancata
dall’oscurantismo di un’ideologia che legittima la menzogna e la
dissimulazione, la morte violenta che induce all’omicidio e al suicidio,
la cieca sottomissione e la tirannia, permettendomi di aderire
all’autentica religione della Verità, della Vita e della Libertà. Nella
mia prima Pasqua da cristiano io non ho scoperto solo Gesù, ho scoperto
per la prima volta il vero e unico Dio, che è il Dio della Fede e
Ragione.
Il punto d’approdo
La mia conversione al cattolicesimo è il punto d’approdo di una graduale e profonda meditazione interiore a cui non avrei potuto sottrarmi, visto che da cinque anni sono costretto a una vita blindata, con la vigilanza fissa a casa e la scorta dei carabinieri a ogni mio spostamento, a causa delle minacce e delle condanne a morte inflittemi dagli estremisti e dai terroristi islamici, sia quelli residenti in Italia sia quelli attivi all’estero. Ho dovuto interrogarmi sull’atteggiamento di coloro che hanno pubblicamente emesso delle fatwe, dei responsi giuridici islamici, denunciandomi, io che ero musulmano, come «nemico dell’islam», «ipocrita perché è un cristiano copto che finge di essere musulmano per danneggiare l’islam», «bugiardo e diffamatore dell’islam », legittimando in tal modo la mia condanna a morte. Mi sono chiesto come fosse possibile che chi, come me, si è battuto convintamente e strenuamente per un «islam moderato », assumendosi la responsabilità di esporsi in prima persona nella denuncia dell’estremismo e del terrorismo islamico, sia finito poi per essere condannato a morte nel nome dell’islam e sulla base di una legittimazione coranica. Ho così dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale.
Parallelamente
la Provvidenza mi ha fatto incontrare delle persone cattoliche
praticanti di buona volontà che, in virtù della loro testimonianza e
della loro amicizia, sono diventate man mano un punto di riferimento sul
piano della certezza della verità e della solidità dei valori. A cominciare da tanti amici di Comunione e Liberazione con in testa don Juliàn Carròn; a
religiosi semplici quali don Gabriele Mangiarotti, suor Maria Gloria
Riva, don Carlo Maurizi e padre Yohannis Lahzi Gaid; alla riscoperta dei
salesiani grazie a don Angelo Tengattini e don Maurizio Verlezza
culminata in una rinnovata amicizia con il Rettore maggiore Don Pascual
Chavez Villanueva; fino all’abbraccio di alti prelati di grande umanità
quali il cardinale Tarcisio Bertone, monsignor Luigi Negri, Giancarlo
Vecerrica, Gino Romanazzi e, soprattutto, monsignor Rino Fisichella che
mi ha personalmente seguito nel percorso spirituale di accettazione
della fede cristiana. Ma indubbiamente l’incontro
più straordinario e significativo nella decisione di convertirmi è
stato quello con il Papa Benedetto XVI, che ho ammirato e difeso da
musulmano per la sua maestria nel porre il legame indissolubile tra fede
e ragione come fondamento dell’autentica religione e della civiltà
umana, e a cui aderisco pienamente da cristiano per ispirarmi di nuova
luce nel compimento della missione che Dio mi ha riservato.
La scelta e le minacce
Caro Direttore, mi hai chiesto se io non tema per la mia vita, nella consapevolezza che la conversione al cristianesimo mi procurerà certamente un’ennesima, e ben più grave, condanna a morte per apostasia. Hai perfettamente ragione. So a cosa vado incontro ma affronterò la mia sorte a testa alta, con la schiena dritta e con la solidità interiore di chi ha la certezza della propria fede. E lo sarò ancor di più dopo il gesto storico e coraggioso del Papa che, sin dal primo istante in cui è venuto a conoscenza del mio desiderio, ha subito accettato di impartirmi di persona i sacramenti d’iniziazione al cristianesimo. Sua Santità ha lanciato un messaggio esplicito e rivoluzionario a una Chiesa che finora è stata fin troppo prudente nella conversione dei musulmani, astenendosi dal fare proselitismo nei Paesi a maggioranza islamica e tacendo sulla realtà dei convertiti nei Paesi cristiani. Per paura. La paura di non poter tutelare i convertiti di fronte alla loro condanna a morte per apostasia e la paura delle rappresaglie nei confronti dei cristiani residenti nei Paesi islamici. Ebbene oggi Benedetto XVI, con la sua testimonianza, ci dice che bisogna vincere la paura e non avere alcun timore nell’affermare la verità di Gesù anche con i musulmani.
Basta con la violenza
Dal canto mio dico che è ora di porre fine all’arbitrio e alla violenza dei musulmani che non rispettano la libertà di scelta religiosa. In Italia ci sono migliaia di convertiti all’islam che vivono serenamente la loro nuova fede. Ma ci sono anche migliaia di musulmani convertiti al cristianesimo che sono costretti a celare la loro nuova fede per paura di essere assassinati dagli estremisti islamici che si annidano tra noi. Per uno di quei «casi» che evocano la mano discreta del Signore, il mio primo articolo scritto sul Corriere il 3 settembre 2003 si intitolava «Le nuove catacombe degli islamici convertiti». Era un’inchiesta su alcuni neo-cristiani che in Italia denunciavano la loro profonda solitudine spirituale ed umana, di fronte alla latitanza delle istituzioni dello Stato che non tutelano la loro sicurezza e al silenzio della stessa Chiesa. Ebbene mi auguro che dal gesto storico del Papa e dalla mia testimonianza traggano il convincimento che è arrivato il momento di uscire dalle tenebre dalle catacombe e di affermare pubblicamente la loro volontà di essere pienamente se stessi. Se non saremo in grado qui in Italia, nella culla del cattolicesimo, a casa nostra, di garantire a tutti la piena libertà religiosa, come potremmo mai essere credibili quando denunciamo la violazione di tale libertà altrove nel mondo? Prego Dio affinché questa Pasqua speciale doni la risurrezione dello spirito a tutti i fedeli in Cristo che sono stati finora soggiogati dalla paura.
Magdi Allam
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