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domenica 5 febbraio 2012

cristianesimo, 6

Il Cristianesimo
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 il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”
 C.Péguy

Postato da: giacabi a 18:51 | link | commenti
cristianesimo, peguy

sabato, 01 dicembre 2007

Il cristianesimo è Cristo

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Fratelli, come vorrei incidere nel cuore di ognuno questa grande idea: il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, di proibizioni. Così sarebbe molto ripugnante. Il cristianesimo è una persona, che mi ha amato tanto, che reclama il mio amore. Il cristianesimo è Cristo.         
Oscar Romero

Postato da: giacabi a 20:30 | link | commenti
cristianesimo

giovedì, 29 novembre 2007
Cos'è il cristianesimo: una passione per l'uomo
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«la prima volta, venticinque anni fa, che sono andato nell'America del Sud sono arrivato con una grossa nave; mille chilometri dentro il Rio delle Amazzoni in quella regione che si chiama Macapà e che è tutta fatta di foreste impenetrabili; non ci sono strade, bisogna andare sempre sulla barca oppure attraversare paludi immense. Allora c'erano su un territorio così grande settantamila persone circa, ma moltissimi di questi si chiamavano "Siringheros", perché vivevano nella foresta vergine tirando fuori la gomma dall'albero della gomma. Vivevano mesi e mesi da soli, in pericolo di morte continuo ed io non ho mai visto sorridere un Caboclo - si chiamano, infatti, anche Cabocli -, non ho mai visto sorridere nessuno. C'è un gruppo di sacerdoti miei amici e si dividono il territorio, così che per un tempo dai venti ai quaranta giorni ognuno percorre un pezzo del territorio per andare a trovare anche il Siringhero più lontano. Un pomeriggio uno doveva partire per questo terribile giro su cui sempre incombe il pericolo della morte e mi disse: «Vieni con me» e io spontaneamente ho detto: «Vengo». Arrivati sull'imbrunire all'inizio della palude egli si è messo delle calosce, si è calzato degli stivali alti e mi ha detto sorridendo: «Adesso tu fermati e torna indietro» e io mi sono fermato e per tutta la mia vita ricorderò quella sera quando il sole cade in dieci minuti sull'equatore, in dieci minuti dal sole pieno si passa all'oscurità e ho visto quell'uomo alto, grande che si allontanava e, ogni tanto, nella semioscurità, si voltava e mi salutava ridendo. E io ero lì, impalato, a guardarlo mentre dicevo a me stesso: «Quest'uomo rischia la vita per andare a trovare un solo altro uomo che forse mai più rivedrà!». Rischiava la vita per un uomo. Capii in quell'istante che cos'è il cristianesimo: una passione per l'uomo, un amore all'uomo. Non all'uomo dei filosofi liberal-marxisti, prodotto della loro testa, ma all'uomo che sei tu, che sono io.
E siccome il significato della natura non posso essere io così piccolo e effimero,
il significato di tutta la natura è il mio rapporto con l'infinito, il mio rapporto con il mistero che fa tutte le cose.»
Don Giussani
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Postato da: giacabi a 15:11 | link | commenti
cristianesimo, giussani

sabato, 24 novembre 2007

COLLETTA ALIMENTARE 2007

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Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più. E d'un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno - uno sguardo umano - ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice.ANDREJ TARKOVSKIJ
 
Partecipare a un gesto di carità cristiana come la colletta, così semplice e concreto, accessibile a tutti, svela la legge della vita che è amare, dono di sé. Se uno vede che quanto più ama, tanto più è se stesso e che in questo darsi non si perde, ma si guadagna, allora tutta la vita diventa desiderio di condividere il bisogno degli altri per condividere il senso della vita.

Postato da: giacabi a 11:06 | link | commenti (2)
cristianesimo

venerdì, 23 novembre 2007
Chi   origina il popolo è Cristo
Tempi num.47 del 22/11/2007 0.00.00
Interni

Servire il popolo oggi
Difendeva «la teoria della classe operaia». Poi ha scoperto la realtà. L'ex sedicenne del Sessantotto Brandirali continua la sua battaglia di frontiera
di Brandirali Aldo

Questa mattina, in un nuovo giorno, ho potuto verificare l'infallibilità del cuore. Chi mi conosce rimarrà sorpreso che io possa dire infallibilità, avendo io una storia di continuo cambiamento, dunque di evidenza di un precedente errore. Eppure dico infallibilità perché dopo 50 anni, per Grazia, posso ridire quello che dicevo a 16 anni: «Voglio dare la vita per il mio ideale».
Ore 9, mia moglie Teresa riceve una telefonata sul telefono della sua associazione, con dolce pazienza ascolta il dolore di un'altra donna, mi racconta poi che si tratta di una vedova con figlio di 35 anni malato psichico, che le provoca un dolore indicibile. Di queste storie la Teresa me ne ha già raccontate decine, una più dolorosa dell'altra. E Teresa fa compagnia a queste persone, ristabilisce una speranza, rende ragione dell'attesa. E io vivo della luce di Teresa. Ma sono un politico, non posso non farci sopra tutti i miei ragionamenti. A 16 anni ho cercato per chi battermi, ho trovato una teoria che diceva di dare la vita per la classe operaia, ci ho provato, ma ho dovuto scoprire che la classe operaia non è una realtà è solo una teoria. Allora a 27 anni ho detto: «Servire il popolo». Ci ho messo tutto me stesso e infine, sbagliando e riprovando
, a 42 anni ho trovato chi origina il popolo: Cristo.
Dunque avevo trovato l'ideale per cui dare la vita. Ma ero ancora io che mi facevo da me, come mi si poneva culturalmente l'ideale a 16 anni. Mi ci sono voluti altri venti anni per farmi fare da Cristo, ovvero per cambiare posizione verso l'ideale: non io porto la bandiera rossa nella piazza, ma Cristo mi mette in mano la sua croce e mi dice «portala». è una diversità culturale sconvolgente.
Ma perché chi mi legge capisca, deve considerare che la passione ideale dei miei 16 anni era suscitata dal secolo delle ideologie, ovvero il secolo che ha capovolto le radici cristiane dell'Europa togliendo Dio dalle vicende umane.
Rimaneva il dare la vita per un altro, ma questo altro era diventata una idea astratta, il cui solo fatto reale era la lotta per il potere. Ed ora guardo mia moglie e vedo che lei dà la vita per un Altro, ovvero è motivata dal suo rapporto con Cristo e si pone con realismo davanti alla persona bisognosa di aiuto. Che spettacolo, che vittoria, essere come a 16 anni. Allora è proprio la salvezza quello che andavamo cercando: una preghiera ci ha condotto in tutta la nostra storia, «Signore salva il nostro cuore buono».
E io in politica? è dura da spiegare. Dai 16 ai 35 anni ho utilizzato un dono che mi era stato dato dalla nascita: avevo carisma, convincevo, attraevo, scaldavo i cuori. E mi sono abituato a fare il capo. Quando, a 35 anni, li ho mandati a casa tutti e quindicimila, dicendo che tutto era sbagliato, ma non sapevo spiegare perché, sono diventato un niente che rotolava sulla terra.
Dalla terra mi ha raccolto don Giussani. Mi ha rimesso in piedi, è ricominciata la mia libertà, infine sono tornato a fare politica su posizioni molto diverse dalle precedenti. Ma ancora mi portavo dietro la pretesa di essere uno che, con scarsa misura della realtà, voleva guidare l'affronto della lotta per il potere. Per questo sono stato continuamente ridimensionato, come se fossi sempre uno sconfitto. E invece di volta in volta ho verificato che il Signore mi conduceva sulla sua strada, e che lì dove mi aveva messo avevo veramente la battaglia giusta da fare.
Eccomi ora, consigliere comunale a Milano, presidente della commissione servizi sociali, affronto in questi giorni la discussione in Consiglio della delibera di programmazione dell'insieme dei servizi alla persona. I miei colleghi del centrodestra si assentano distratti, perché giustamente non credono alla programmazione, credono maggiormente alle singole azioni. Intanto la sinistra conduce una furiosa battaglia, incomprensibile perché in fondo la delibera corrisponde alle loro idee, ma loro combattono per imporre il fatto che le azioni devono essere concordate con il loro mondo associativo, come concertazione del potere.
Io voglio difendere la concretezza della azioni dell'amministrazione e nel contempo il riconoscimento del mondo associativo, come sussidiarietà e non come concertazione. Faccio un esempio: sostegno alle persone con disagio psichico. Il Comune ha pochi soldi su questa voce, e li usa per dare piccoli contributi economici ai malati che non sono in grado di lavorare. Siccome i soldi sono pochi, la questione diventa che si possono aiutare solo alcuni. Allora la sinistra propone di fare progetti sperimentali concordati al tavolo del Terzo Settore. La delibera propone di cercare criteri oggettivi per riconoscere i più bisognosi. Io dico che il criterio oggettivo è fare affidamento sulle famiglie e i gruppi associativi che riconoscono i diversi gradi di gravità della malattia. Nel contempo bisognerebbe aumentare i fondi.

Un atto di costruzione duratura
La destra mi viene dietro, ma non capisce, la differenza fra concertazione e sussidiarietà è praticamente fra sperimentazione e abbraccio concreto del bisogno. La sinistra aiuterebbe qualcuno nel quartiere dove sono forti loro, noi aiuteremmo quelli che si sono rivolti a una associazione o a un servizio che è in rete con fatti associativi capaci di abbraccio amorevole. I progetti sperimentali prima o poi finiscono e lasciano le cose come erano prima. Il sostegno a un popolo in azione è un atto di costruzione duratura. E così via.
La mia battaglia è volta a fare della politica un servizio per un popolo in azione, il che comprende anche una piena responsabilità degli atti di governo.
è una battaglia così di frontiera che mi rendo conto di essere molto utile per formare una nuova classe dirigente che in futuro possa governare il paese secondo questo realismo. Spero veramente di riuscire a dare la vita per questo cambiamento del mondo.
Capite adesso perché il gesto mattiniero di mia moglie mi ha messo in pace con tutto e ha tolto il mio atteggiamento da disperato nell'azione. In battaglia e in pace, ditemi voi se esiste altro da Cristo che permette questa apparente antinomia.
Aldo Brandirali *consigliere comunale a Milano (Forza Italia)

Postato da: giacabi a 16:43 | link | commenti
testimonianza, cristianesimo, brandirali

giovedì, 22 novembre 2007
"La carità cambia la vita”

colletta07
Comunicato stampa
“La carità cambia la vita”

Milano, 14 novembre 2007


Sabato 24 novembre si svolgerà in tutta Italia la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus e dalla Federazione dell’Impresa Sociale Compagnia delle Opere. Sarà possibile in quell’occasione aiutare concretamente i poveri del nostro Paese che, secondo le ultime rilevazioni Istat (ottobre 2007), sono quasi il 13% della popolazione italiana. In oltre 6800 supermercati più di 100.000 volontari, tra i quali Marcello Lippi, Paolo Brosio e Giancarlo Fisichella, inviteranno le persone a donare alimenti non deperibili – preferibilmente olio, omogeneizzati ed alimenti per l’infanzia, tonno e carne in scatola, pelati e legumi in scatola - che saranno distribuiti a più di 1.360.000 indigenti attraverso gli oltre 8.100 enti convenzionati con la rete Banco Alimentare (mense per i poveri, comunità per minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza, ecc.).
In occasione della “Colletta Alimentare” del 2006 gli italiani hanno donato più di 8422 tonnellate di cibo per un valore economico superiore a 26.200.000 euro; l’obiettivo per l’undicesima edizione è di coinvolgere sempre più persone in questo gesto di gratuità incrementando così il quantitativo di alimenti raccolti.
Anche quest’anno, per introdurre al significato della Colletta Alimentare, viene proposta una frase che sottolinea il valore educativo dell’iniziativa:


Tu lo sai bene:
 non ti riesce qualcosa,
 sei stanco, non ce la fai più.
 E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno
 – uno sguardo umano –
 ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto.
 E tutto diventa improvvisamente più semplice.
ANDREJ TARKOVSKIJ

Partecipare a un gesto di carità cristiana come la colletta, così semplice e concreto, accessibile a tutti, svela la legge della vita che è amare, dono di sé.
Se uno vede che quando più ama, tanto più è se stesso e che in questo darsi non si perde, ma si guadagna, allora tutta la vita diventa desiderio di condividere il bisogno degli altri per condividere il senso della vita.


A beneficiare della “Colletta” non sono esclusivamente i poveri ma anche i donatori che, attraverso un semplice gesto di carità, condividono i bisogni primari di chi è emarginato.
La Giornata Nazionale della Colletta Alimentare è resa possibile grazie alla collaborazione con l’Associazione Nazionale Alpini e la Società San Vincenzo De Paoli, e gode dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica e del patrocinio del Segretariato Sociale della Rai.
Per informazioni su quali punti vendita aderiscono all’iniziativa oppure su come dare la propria disponibilità per fare il volontario è possibile chiamare lo 02.67.100.410 oppure visitate il sito www.bancoalimentare.it.
Si ringraziano: Intesa Sanpaolo, Fastweb, Aurora Assicurazioni, Arvedi, Gruppo FNM e Comieco

Per ulteriori informazioni: Francesco Montini cell. 328.21.32.308 ufficiostampa@bancoalimentare.it

Postato da: giacabi a 21:01 | link | commenti
cristianesimo

Cristo trasforma l’uomo:
da oggetto lo rende persona
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Lo «stato gesuita» dei Guaranì
di Piero Gheddo
Nel momento di massima espansione, all'inizio del 1700, le Riduzioni gesuitiche comprendevano trenta (alcune fonti parlano di 33 o 36) cittadine con 150.000 abitanti al massimo: ogni centro aveva dai 2.000 agli 8.000 abitanti e due o tre Gesuiti, che non furono mai più di un centinaio in tutto. Confrontato con i numeri di oggi, il sistema delle Riduzioni sarebbe una piccola minoranza in qualunque stato moderno. Al tempo della colonizzazione spagnola nelle Americhe, rappresentava invece un blocco di popolo rispettabile per numero e compattezza, ben organizzato e autosufficiente, che pagava le sue tasse alla Corona di Spagna e offriva anche militari preparati ai governatori della Colonia, in caso di bisogno. Suscitava invidie e opposizioni nei coloni spagnoli proprio per questo indubbio successo.
"Il più perfetto sistema agricolo dell'America"
Com'erano organizzate le Riduzioni? Visitando oggi le rovine, ci si accorge subito che la pianta delle singole "Riduzioni" era sempre uguale: al centro la grande piazza principale (quadrata o rettangolare, ogni lato misura più di 100 metri) con la chiesa, la casa dei missionari, la sala delle riunioni comunitarie, il "cabildo" (sede del municipio), la casa degli anziani e quella delle vedove, la scuola, i magazzini, i laboratori, il granaio comunitario, il cimitero. Poi le vie rettilinee con le abitazioni delle singole famiglie, costruite in pietra, una meraviglia per quel tempo. Uno storico afferma che "le abitazioni degli indios delle Riduzioni erano meglio di quanto immaginiamo. Gli spagnoli avevano case peggiori, anche a Buenos Aires, che allora era un ammasso informe di capanne e aveva meno abitanti di una Riduzione" (Maxime Haubert, La vie quotidienne au Paraguay sous le Jésuites, Hachette, 1967, pag. 241). La chiesa era sempre l'edificio più importante e solenne, dove indios e spagnoli esprimevano al meglio le loro doti artistiche: plastiche e musicali. La chiesa era ricca di paramenti ricamati con motivi dell'arte guaranì, di mobili scolpiti, di statue, di arredi d'argento. Il campanile ospitava anche otto o dieci campane che lanciavano concerti nelle foreste.
La religione era il principale fattore educativo delle persone e delle comunità e dominava la vita pubblica: le funzioni sacre iniziavano e concludevano la giornata ed erano intese anche per creare spazi di partecipazione e di fraternità. La forza educativa della religione, e l'esempio dei padri (per le Riduzioni erano scelti i migliori Gesuiti e non tutti resistevano), spiegano il fatto miracoloso e quasi incredibile che due-tre missionari abbiano potuto, con la sola forza morale del loro esempio e il richiamo alla fede, tenere assieme 2.000-8.000 indios, educarli, farli passare dal nomadismo alla vita sedentaria e comunitaria, senza l'uso della forza. E non per alcuni anni, ma per un secolo e mezzo! Questo è il vero miracolo delle Riduzioni, nelle quali esisteva anche una polizia e alcuni locali di carcere. Ma le condanne e le punizioni erano rarissime (la pena di morte era abolita, quando in tutti gli Stati di quel tempo era comunemente praticata), come confermano tutte le testimonianze dell'epoca. "L'omicidio è sconosciuto e la discordia è rara. I neofiti vivono fra di loro come buoni fratelli", si legge in una cronaca del tempo.
La terra apparteneva al villaggio, i piccoli appezzamenti affidati alle singole famiglie ridotti al minimo. Non esisteva proprietà privata, né possibilità di lasciare in eredità proprietà immobiliari. Alloggio, vestito e nutrimento dati secondo le necessità delle singole famiglie. La direzione era in mano ai Gesuiti, che delegavano il comando ai capi eletti dagli indigeni, eccetto i sindaci che erano nominati dall'Imperatore spagnolo su una terna proposta dai padri. I prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento animali venivano portati nei mercati degli spagnoli, per venderli o scambiarli con metalli, attrezzi, sale, medicine, ecc.
L'agricoltura era l'attività principale, alla base di tutta la vita sociale. L'abilità e il successo dei Gesuiti fu di far cambiare stile di vita ai Guaranì: da nomadi a sedentari, da cacciatori e pescatori ad agricoltori. Non è stata un'impresa facile. Nelle "encomiendas" degli spagnoli, per farli lavorare, in genere si tenevano gli indios come schiavi, frustati e messi a morte per futili mancanze. D'altra parte, un colono spagnolo che aveva una immensa "encomienda" da mettere a coltivazione, come poteva trattenere gli indigeni (con i quali era difficile intendersi perché, senza educazione, conoscevano poche parole di spagnolo), farli lavorare e produrre, evitare che si ribellassero, se non con la violenza e il terrore delle punizioni fisiche? L'atmosfera che si respirava nelle Riduzioni era del tutto diversa: non violenza e odio, ma educazione, fraternità, eguaglianza, perdono. I padri conoscevano la lingua guaranì e vivevano la vita dei Guaranì, fraternizzando con loro.
Le Riduzioni rappresentarono ben presto "il più perfetto e il meglio organizzato complesso agricolo dell'America" dice uno storico (Clovis Lugon, La Repubblica guaranitica dei Gesuiti, AVE, Roma 1976, pag. 128). Vi si produceva mais, grano, mandioca, patata dolce, orzo e riso, che erano alla base dell'alimentazione; e poi cotone, canna da zucchero, tabacco, viti (due raccolti l'anno), tè (chiamato anche "mate" o "yerba"). Il tè fu fin dall'inizio la maggior fonte di reddito ed è ancor oggi la bevanda nazionale di argentini e paraguayani. Altra attività in campo agricolo fu l'allevamento di animali (fino a raggiungere centinaia di migliaia di capi bovini, ovini ed equini) e la raccolta del miele selvatico. Ogni villaggio aveva scorte di grani sufficienti per coprire anche un anno di completa carestia ed allevava dai 50.000 agli 80.000 capi bovini, con tale margine di sicurezza che le 30 Riduzioni potevano abbattere circa 300.000 bestie all'anno (la carne, come ancor oggi in Argentina e in Paraguay, era l'alimento di base con la mandioca, il mais, il riso, il frumento).
Eppure il lavoro non era pesante: si lavorava dalle nove alle quattro del pomeriggio, con due ore di interruzione per preparare e consumare il pranzo, eccetto la domenica e il giovedì considerati giorno festivo e semi-festivo. Gli indios dovevano avere il tempo per la vita familiare, il canto, la danza, i divertimenti comuni, le funzioni religiose, e poi la scuola e la lettura. Nelle famiglie si faceva la lettura spirituale in comune! Quando veniva il momento del raccolto, tutti abbandonavano le altre attività industriali e artigianali, l'arte e la burocrazia, e andavano nei campi ad aiutare gli agricoltori.
Un altro storico (Alberto Armani, Città di Dio e Città del Sole, Studium, Roma 1977, pagg. 128-130) aggiunge che per ottenere i buoni risultati di produttività agricola i padri dovettero far lavorare gli indios non solo nei loro appezzamenti privati, ma nelle terre che appartenevano al villaggio (chiamate "proprietà di Dio"), che erano la quasi totalità. Gli indios, essendo nomadi, non conoscevano la proprietà privata di terre e case. I Gesuiti tentarono di introdurre la proprietà privata, ma i terreni affidati alle singole famiglie non venivano curati e a volte nemmeno seminati. Allo stesso modo, bovini, asini, pecore, cavalli dati in proprietà ad una famiglia, morivano perché li tenevano legati giorni e giorni senza dargli da mangiare e da bere, non mungevano le vacche, ecc.
Difficile per noi, che abbiamo alle spalle secoli e millenni di cammino verso la modernità, renderci conto di cosa vuol dire per un popolo nomade che vive all'età neolitica (cioè l'età della pietra, come i Guaranì alla venuta degli spagnoli), passare di colpo all'uso del ferro, all'agricoltura, all'allevamento animali, all'industria, alla proprietà privata... Passare dal baratto al commercio e alla moneta. I prodotti agricoli e artigianali delle Riduzioni venivano venduti ai mercati delle città spagnole, specie Santa Fé, Asunciòn, Buenos Aires. I Gesuiti tentarono di affidare questa attività ai Guaranì, per evitare i fulmini del diritto ecclesiastico contro i preti che si dedicavano al commercio, ma con risultati disastrosi. Anche se debitamente istruiti, i Guaranì ritornavano alle Riduzioni non con moneta legale, ma con qualsiasi oggetto che colpisse la loro fantasia, campanelli, trombe, broccati, fibbie e bottoni colorati... I commercianti spagnoli, vista l'ingenuità degli indios, si arricchivano alle loro spalle. I Gesuiti dovettero assumere personalmente il commercio esterno.
Sensibilità artistica degli indios
La prosperità delle Riduzioni veniva anche dall'artigianato e dall'industria soprattutto tessile. Nelle cittadine esistevano fonderie di metalli, laboratori di falegnameria, forni per la cottura di vasellame, stabilimenti per la filatura e tessitura delle fibre vegetali e animali (lana, cotone, lino), cantieri per la fabbricazione di canoe e zattere, laboratori artigianali per la produzione di cappelli, scarpe, strumenti musicali. L'industria grafica ebbe grande sviluppo: quando Buenos Aires era ancora priva di una stamperia (la prima venne impiantata nel 1780), nelle Riduzioni già si pubblicavano ottimi libri. Questa la grande rivoluzione dei missionari, rispetto alle "encomiendas" spagnole: la scuola nelle lingua degli indios, debitamente scritta e stampata. Il Guaranì, che ancor oggi è una lingua praticata dagli indios (molte lingue indie sono scomparse), venne studiato dai padri e scritto in caratteri latini; poi si avviò la stampa di sillabari, grammatiche, vocabolari, raccolte di proverbi, favole e miti della tribù, oltre che catechismi (il cosiddetto "Catechismo breve" in lingua guaranì è ancor oggi un modello classico di sintesi del cristianesimo), traduzioni del Vangelo, libri di devozione, testi religiosi e civili anche tecnici (sull'agricoltura e la medicina).
I padri apprendevano il guaranì, insegnavano e predicavano in guaranì. Va notato che ancor oggi il guaranì, grazie all'opera di Gesuiti e Francescani nelle loro Riduzioni (anche i Francescani ebbero Riduzioni in Paraguay, oltre che in altri paesi latino-americani), è riconosciuto lingua nazionale del Paraguay assieme allo spagnolo e parlato anche dagli indigeni di tribù diverse. E gli indios guaranì hanno acquisito, grazie alla loro lingua e cultura salvate dalle Riduzioni, una coscienza della loro unità e dignità come popolo, che mantengono ancor oggi. Nelle Riduzioni, lo spagnolo era insegnato solo a pochi elementi che ricevevano un'educazione superiore (alcuni giovani venivano inviati a studiare nel Collegio dei Gesuiti ad Asunciòn) e restò comunque una lingua straniera.
La liturgia, i canti, la danza, il teatro, l'arte sacra, l'artigianato erano molto curati ed avevano lo scopo di educare gli indios (che vivevano, ricordiamolo, in epoca preistorica) a sentimenti di umanità e di fede e alla vita comunitaria (fraternità, aiuto vicendevole, ecc.). Il canto e la danza erano il passatempo favorito, a servizio della cultura religiosa: vi erano cori polifonici, orchestre con musiche strumentali; le danze e il teatro erano simbolici di soggetti sacri (la lotta di San Michele col Drago, la visita dei Magi a Gesù) o della storia locale. Nella scultura e pittura, gli indios diedero prova di qualità insospettabili. I due Musei delle Riduzioni che ho visitato, a S. Ignazio Guazù e a Santa Rosa (ambedue in Paraguay), conservano meravigliose sculture in legno, argilla, metallo, pietra, e pitture su tela e su tavole di legno. Tutta questa produzione artistica artigianale rivela negli indios un alto grado di sensibilità e una prodigiosa abilità manuale: notevoli soprattutto i volti di Gesù, di Maria, dei santi rappresentati, con espressioni intense.
I Guaranì si distinguevano anche nella musica e nel canto. Nella Riduzione di Yapeyù il padre Antonio Sepp (di Brixen-Bressanone) creò un vero centro di educazione musicale, la cui fama si estese a tutto il Rio de la Plata, fino a Buenos Aires, dove cantanti e compositori di musica indios venivano chiamati per rappresentazioni in teatri. Nella Riduzione di Yapeyù si producevano strumenti musicali (violini, arpe, flauti, pifferi) e persino organi. Come tutti i "primitivi" negati alla speculazione, i Guaranì erano perfetti imitatori di modelli europei, che arricchivano con la loro sensibilità e tradizione artistica. Sotto la guida di esperti fratelli coadiutori gesuiti, diventarono non solo agricoltori e allevatori, ma tessitori, muratori, scultori, pittori, muratori, fonditori di campane. Stampavano essi stessi i libri, incidendo i caratteri ed i disegni nel legno. Nelle Riduzioni è nata, all'inizio del 1700, la prima tipografia del Sud America!
Le Riduzioni erano un "comunismo cristiano"?
Il sistema educativo delle "Riduzioni" può essere definito di "paternalismo illuminato". Oggi, naturalmente, è improponibile. Però funzionò benissimo per un secolo e mezzo. In tre-quattro generazioni, i missionari portarono gli indios da uno stato del tutto primitivo (tra l'altro, praticavano l'antropofagia rituale) ad un livello di civiltà piuttosto elevato e ad una sicurezza di vita, che mai prima avevano conosciuto. Due inchieste, condotte dalle autorità civili spagnole e dalle autorità ecclesiastiche del tempo (alla fine del 1600), stabilirono che gli indios delle Riduzioni vivevano "senza opulenza ma in decorosa autosufficienza".
I proventi dell'agricoltura e dell'artigianato erano impiegati non solo per potenziare le strutture produttive, ma anche per incrementare la cultura e l'istruzione degli indios. Le Riduzioni riassumono bene il "metodo missionario" che ho visto tante volte nelle missioni in ogni parte del terzo mondo, a contatto con popolazioni "primitive"; ultimamente ancora in Amazzonia dai missionari del Pime che vi lavorano da 50 anni. Uno dei quali mi diceva: "Se arrivi in un popolo che non ha la scuola, prima costruiamo la scuola e poi la chiesa. Perché la chiesa senza la scuola non produce buoni cristiani".
Ecco dove, soprattutto, le Riduzioni sono esemplari ancor oggi. Il padre José Marx, studioso delle Riduzioni nei testi antichi dei Gesuiti (Mi riferisco soprattutto alle sue "Reducciones Jesuiticas Guaranies", pubblicate annualmente dal 1988 al 1992 come "calendari", con foto originali e ampi testi di ricostruzione storica. Vedi pure il suo "Las Misiones Jesuiticas", Capiovy 1994), mi dice che una delle preoccupazioni dei padri era che ogni cittadina avesse scuole e una buona biblioteca di libri in guaranì e in spagnolo. La "Riduzione di Santa Maria la Mayor" aveva una biblioteca di 445 volumi; quella dei Santi Martiri 382; Nostra Signora di Loreto (oggi si visita con difficoltà perché totalmente sommersa dalla selva, in Argentina) 315; Corpus Christi 460, La Candelaria 4.725 volumi. Pare impossibile che, nel bel mezzo della foresta tropicale, indios che venivano dall'età della pietra fossero educati a leggere opere che prendevano a prestito da una biblioteca! Si trattava certo di alcuni elementi più preparati, che collaboravano con i padri per opere di studio e scientifiche.
Ancora padre Marx ricorda che nella Riduzione di San Cosma e Damiano (oggi molto ben restaurata, in Paraguay) si costruì un Osservatorio astronomico. Il padre Bonaventura Suarez lavorò per trent'anni con gli indios, all'inizio del 1700, fabbricando telescopi, un pendolo astronomico con l'indicazione dei minuti e dei secondi, un quadrante astronomico, ecc. Le osservazioni astronomiche di questo missionario dalle Riduzioni del Paraguay, le prime fatte con metodo scientifico dal Sud del globo, venivano pubblicate dagli Annali dell'Università di Uppsala in Svezia.
Com'era la vita nella Riduzioni?
Come si svolgeva la vita quotidiana nelle "Riduzioni"? Come in un collegio o in un seminario, ma in un'atmosfera non di costrizione, sebbene di partecipazione, di condivisione. Le famiglie che non accettavano di vivere con i padri potevano andarsene liberamente (anche se ciò era molto difficile, quando tutto il clan restava). La giornata era regolata da un orario molto preciso. Si è parlato di un "socialismo" o "comunismo" cristiano. Definizione certamente errata, se la prendiamo in senso politico o ideologico. Abbastanza vicina al vero in senso culturale-sociale. Più giusto parlare di un "sistema teocratico" nel quale tutta la vita individuale e sociale girava attorno al perno della religione cristiana. Questo non era contrario alla cultura dei Guaranì, impregnata di religiosità e di vita comunitaria.
Il problema affrontato dai missionari era come educare gli indios al cristianesimo non solo con la predicazione e la catechesi, la liturgia, i canti e le sacre rappresentazioni, ma anche modificando a poco a poco, senza violenza ma con il consenso e la pressione della comunità, i costumi degli indios che non si accordavano con la legge naturale e il cristianesimo. Ad esempio, la poligamia, che era regola generale: i cacicchi avevano anche venti mogli o concubine obbligate alla fedeltà, pena gravi punizioni compresa la morte. Attraverso l'educazione dei giovani, la solennità dei matrimoni fra i cristiani, la tolleranza verso i poligami che però si sentivano fuori posto, nel giro di due-tre generazioni i padri riuscirono ad introdurre e ad affermare il matrimonio monogamico.
Il segreto del successo fu, ancora una volta, l'educazione, la scuola. Le città nella selva contavano 400-500 alunni su 5-6.000 abitanti, un vero primato per quell'epoca, anche in confronto all'Europa del seicento. La scuola impegnava i ragazzi e le ragazze dal mattino alla sera. La vita dei villaggi incominciava presto: i Guaranì erano spontaneamente mattinieri, si alzavano prima del sole e andavano a dormire al tramonto. Alle quattro e un quarto in estate, alle cinque e un quarto in inverno, le campane o i tamburi suonavano la sveglia. Poco dopo, gli "alcaldes" giravano per le vie gridando: "Fratelli, è l'ora, mandate i vostri figli alla preghiera!". I ragazzi andavano in chiesa a cantare la dottrina cristiana fino al levar del sole, quando venivano anche gli adulti per le preghiere del mattino. Seguiva la colazione comunitaria e poi la scuola, che aveva fini essenzialmente pratici: insegnamento della lingua guaranì e della matematica, ma anche dell'agricoltura, tessitura, falegnameria, artigianato; taglio, cucito e ricamo per le bambine e ragazze. Musica e canto avevano largo spazio nell'educazione delle Riduzioni. La scuola, rigorosamente separata per maschi e femmine, durava fino a pomeriggio inoltrato, con l'interruzione per il pranzo.
Per gli adulti la giornata lavorativa durava dalle quattro alle sei ore: erano impegnati soprattutto nella coltivazione dei campi comunitari e nell'allevamento degli animali, ma non pochi attendevano alla tessitura e ad altre forme di lavori manufatturieri o al servizio sanitario: ogni Riduzione aveva i suoi infermieri, la sua farmacia, a Yapeyù e Candelaria furono costruiti veri e propri ospedali. Il tempo libero durante la giornata era molto, per le faccende di casa e la vita familiare, la coltivazione dei piccoli appezzamenti privati, la caccia e la pesca, il canottaggio molto praticato dai guaranì.
Alla domenica il lavoro era proibito (anche il giorno di giovedì era considerato semi-festivo, si lavorava solo per particolari urgenze): si dava molta importanza alla Messa solenne del mattino, con canti, danze, processioni, catechesi; poi si celebravano giochi e gare sportive (specie tiro con l'arco), parate militari, danze, teatri ed esecuzioni musicali per le quali i Guaranì erano particolarmente dotati. I teatri consistevano in rappresentazioni religiose, ma anche in commedie tratte dalla vita di tutti i giorni e farse, comiche. Per quasi ogni festa si organizzavano grandi banchetti per il villaggio. Le tavole erano preparate nella grande piazza , ogni tavolata era presieduta da un notabile. Si servivano "carni, polli arrosto, legumi, panini, miele, arance, pesche e maté".
In tali occasioni si beveva un po' di vino o di "chica" (una specie di birra locale), fatto eccezionale perché i Gesuiti avevano proibito l'uso di bevande alcoliche ed erano riusciti ad estirpare una delle piaghe più gravi degli indios, l'ubriacatura di "chica". L'orchestra suonava fino a sera. Di notte vigeva il coprifuoco e tre volte durante la notte risuonavano i tamburi per indicare i turni di veglia delle sentinelle. Le Riduzioni vivevano nel perenne timore di essere assaltate dall'esterno!
Articolo tratto da MONDO E MISSIONE 
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Postato da: giacabi a 18:56 | link | commenti
cristianesimo, gheddo

Cristo trasforma l’uomo: da oggetto lo rende persona
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Le "Reducciones"
di Piero Gheddo
Muraglie diroccate, blocchi di pietra rossastra finemente lavorati ricoperti di muschio e licheni, pareti e colonne mangiate e sommerse dalla fitta vegetazione, enormi chiese abbandonate e perse nella selva, città con ampie vie e piazze ridotte a imponenti rovine di pietra: è quanto rimane delle "Reducciones" dei gesuiti, tra il Paraguay e la provincia argentina di Misiones. Solo il silenzio percorre ancora i solitari cammini di pietra. Le voci e i canti degli indios si sono estinti. La foresta ha sommerso i resti dell'esperienza missionaria più interessante nella storia moderna delle missioni. I Gesuiti (e altri missionari perché le Riduzioni ebbero per due secoli vasta diffusione in tutta l'America spagnola) tentarono di ripetere l'opera di colonizzazione e civilizzazione dei monasteri benedettini nell'Europa del Medio Evo, quando i monaci salvavano la cultura antica greco-romana, predicavano il Vangelo, ma insegnavano anche l'agricoltura e l'artigianato a popoli nomadi che venivano ad abitare in villaggi, con strade, botteghe, commerci, scuole, persino università.
celebrazioni dei 500 anni della evangelizzazione dell'America
Il viaggiatore che va da Iguazù a Posadas, in Argentina, su una strada dritta come la spada di un "conquistador", passa tra foreste foltissime di araucarie ed eucalipti che rendono il paesaggio un graduale inserimento nell'ambiente delle "Riduzioni", cioè nella natura com'era tre-quattro secoli fa, quando i Gesuiti giunsero da queste parti. Il governo argentino ha giustamente conservato intatto un vastissimo parco naturale che parte dalle "cataratas" di Iguazù (le grandiose cascate da cui ha inizio il film "Mission") e arriva fin quasi al primo gruppo di rovine dello "Stato gesuitico dei Guaranì".
 L'arrivo a S. Ignacio Minì e l'entrata nel villaggio costruito quasi quattro secoli fa nella selva mettono davanti a resti imponenti, che subito fanno capire cos'erano le "Riduzioni". Non villaggi con casupole di paglia e fango, com'era e com'è ancor oggi nel costume degli indios, ma cittadine costruite in pietra e legno, per durare nel tempo. Nell'architettura massiccia di queste case, chiese, magazzini, laboratori, c'è un'armonia vigorosa che non tende verso l'alto, ma è fermamente orientata alla terra, alla vita, alla fondazione di una civiltà nuova, alternativa a quella che i colonizzatori spagnoli costruivano, con tutt'altro spirito, a poca distanza.
Ero già stato in Argentina e Paraguay, ma in questo viaggio ho avuto l'unico scopo di visitare le "Reducciones", dopo alcuni resti che avevo visto in Uruguay (la capitale Montevideo è stata fondata dai Gesuiti e dagli indios delle "Reducciones") e nel Brasile del sud. Guidato dall'amico padre José Marx, S.V.D., che vive qui da più di trent'anni ed è uno studioso fra i più esperti delle "Reducciones", ho visitato le rovine nella provincia argentina di Misiones e in Paraguay, divise dal Rio Paranà. Delle circa venti "Reducciones" ne ho viste una decina, con i due Musei di S. Ignacio Guazù e di Santa Rosa in Paraguay. Le rovina sono grandiose, anche se in buona parte ancor sommerse dalla foresta. Tre-quattro secoli di abbandono, con saccheggi, incendi, distruzioni programmate e l'usura del tempo e del clima non sono bastati a far scomparire le tracce di quell'esperienza. Come sono nate e si sono sviluppate le "Reducciones"?

"Gli indios sono uomini come i bianchi?"

Nel novembre dell'anno 1609, sei gesuiti partono da Asunciòn, dividendosi in tre gruppi e dirigendosi verso la regione abitata dagli indios Guaranì, le foreste di cui era circondato il Rio Paranà, vera spina dorsale del Sud America. Dieci anni prima, altri missionari avevano portato ad Asunciòn la notizia di una straordinaria scoperta: nelle selve tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay viveva una razza di indios valorosi, fieri della loro lingua e cultura, i Guaranì, un materiale umano ben più prezioso, per i missionari, che gli abbaglianti sogni delle miniere d'oro e di pietre preziose che stimolavano i "conquistadores" spagnoli.
Studiata l'impresa, la Compagnia di Gesù aveva chiesto alla Corona di Spagna il permesso di lavorare fra quegli indios, riservandoli alle loro cure, per farne cittadini dell'Impero spagnolo e buoni cristiani. Il 26 novembre 1609, data che è considerata l'inizio di questa esperienza, il luogotenente generale del governatore del Paraguay e del Rio de la Plata, emanò un'ordinanza con la quale proibiva agli spagnoli di entrare nella zona del Rio Paranapanema (in lingua Guaranì) per reclutarvi indios per il servizio personale; gli indigeni erano affidati alla sola Compagnia di Gesù.
Nel 1609 è passato più d'un secolo dalla scoperta dell'America, ma l'immenso continente è ancora quasi inesplorato. La vera colonizzazione spagnola (e portoghese in Brasile) incomincia nel secolo XVII, il 1600. In Europa nasce (in Inghilterra nel 1616) la prima idea di democrazia ("one man, one vote", ogni uomo un voto), ma nelle Americhe si discute ancora se gli indios hanno un'anima o no, se sono uomini come i bianchi o no. Discussione che oggi appare assurda, inverosimile. Ma viene da un'interpretazione letterale della Bibbia, che non parla di questo nuovo continente da poco scoperto. Allora, gli indios sono uomini come i cristiani d'Europa destinati alla redenzione in Cristo o sono "homines silviculi" (uomini della selva), a metà strada fra il genere umano e gli animali selvatici? Hanno capacità intellettuali e morali o agiscono per istinto come gli animali? Hanno veramente un'anima immortale o qualcosa d'altro?
La Chiesa e i teologi si pronunziano chiaramente sulla natura umana di indios e neri, anche se alcuni teologi sostenevano che gli indios andavano sì battezzati, ma le loro capacità intellettuali limitate sconsigliavano di dar loro gli altri Sacramenti. Lo stesso Re di Spagna pubblica numerose leggi e decreti per condannare la schiavitù e i cattivi trattamenti a cui gli indios erano sottoposti. Ma i pregiudizi sono duri a morire, specie quando c'è sotto un grosso interesse economico. Nel diritto coloniale spagnolo (e portoghese) gli indios erano equiparati a minori bisognosi di protezione, di stimolo al lavoro organizzato, di organizzazione della loro vita sociale secondo schemi europei. Non si concepiva altra "civiltà" che quella europea, cui anche gli indios dovevano accedere: ma, essendo primitivi e selvatici, bisogna condurveli con metodi paternamente costrittivi, come si fa con i ragazzi, mentre li si istruisce nel cristianesimo e quindi si civilizzano i loro costumi.
Partendo da questi presupposti, la Corona di Spagna affida gli indios ai colonizzatori (assistiti dai missionari per la parte religiosa), affinché li inquadrino nel lavoro, insegnando loro a lavorare la terra, istruendoli nella dottrina cristiana e avviandoli alla "civiltà". Nasce così l'istituto della "encomienda", per cui ad un colono viene affidato un vasto territorio da colonizzare: gli indios che vi sono dentro sono sotto la sua autorità e protezione. Naturalmente l'"encomienda" ha delle regole ben precise (proibito ridurre gli indios in schiavitù, chi non vuole starci può andarsene, proibito l'uso della frusta o altri maltrattamenti, ecc.) e si conoscono anche casi di coloni spagnoli condannati dai tribunali spagnoli per abusi sugli indios (quasi sempre in seguito a denunzie di missionari). Però, in pratica, nell'immenso continente quasi spopolato e senza strade, nella sua "encomienda" il colono era re e signore assoluto.

Una colonizzazione alternativa degli indios

Si può notare la differenza sostanziale fra la colonizzazione spagnola (e portoghese) dell'America centrale e meridionale e la colonizzazione inglese nel Nord America. Mentre nell'America Latina bianchi e indios si sono mescolati, creando il meticciato (data la scarsezza di donne spagnole, i coloni ed i militari spagnoli finivano per sposare donne indie), nell'America del Nord i coloni scacciano i pellerossa dalle loro terre, conducendo vere guerre di sterminio per occupare tutto il territorio (come è pure accaduto in Australia e in Sud Africa con altri colonizzatori anglosassoni e protestanti!).
Nell'America spagnola, le navi e le armate dei "conquistadores" erano sempre accompagnate dai missionari, anch'essi inviati dalla Corona spagnola, che concepiva la colonizzazione come un'opera di fede e di civiltà. È noto il travagliato rapporto fra missionari e colonizzatori spagnoli (e portoghesi in Brasile). Soprattutto sono note le proteste di non pochi missionari contro i metodi schiavisti dei coloni (Bartolomeo de las Casas è solo uno fra i tanti) e l'azione dei Papi (bolle e scomuniche contro chi praticava la schiavitù) per mitigare i metodi della colonizzazione. Com'è noto il grande lavoro teologico e giuridico della Chiesa per scalzare alla base le teorie razziste che guidavano i coloni: Francesco de Vitoria sostiene, nella prima metà del 1500 (prima ancora di Las Casas), la tesi secondo cui gli indios (anche se infedeli e primitivi) sono uomini come i bianchi, hanno i diritti dei bianchi e devono essere rispettati da tutti, soprattutto dai cristiani.
Meno nota è l'epopea delle "Riduzioni" che ha rappresentato il tentativo riuscito di creare un altro tipo di colonizzazione, rispettosa dell'uomo e delle culture, in alternativa a quella praticata da spagnoli e portoghesi nelle Americhe. Stranamente, questo capitolo glorioso delle missioni è dimenticato, mentre, credo, rappresenta bene lo spirito, gli scopi, i metodi dei missionari del passato, quando si incontravano con popoli diversi e di civiltà orale (o "primitivi").
Riprendiamo il racconto dei sei Gesuiti che, partiti da Asunciòn nel novembre 1609, arrivano nelle foreste del Rio Paranà dove vivono i Guaranì. Due di questi (Marziale Lorenzana e Francisco di San Martìn), con l'aiuto di alcuni Guaranì già convertiti, entrano in contatto con un clan della tribù e spiegano loro i vantaggi di una volontaria sottomissione alla Corona di Spagna attraverso i Gesuiti, evitando così la "encomienda" che li avrebbe messi nelle mani dei coloni spagnoli. Il 29 dicembre 1609 si fonda la prima "Riduzione" 200 chilometri a sud di Asunciòn, intitolata a S. Ignazio Guazù (maggiore, oggi in Paraguay), per distinguerla dall'altra Riduzione intitolata a S. Ignazio Mini (minore, oggi in Argentina) fondata nel 1610 da due altri Gesuiti (Simone Mascetti e Giuseppe Cataldini).
L'anno seguente (1611), visti i buoni risultati delle prime due Riduzioni, le autorità spagnole emanano vari decreti che esentano dall'"encomienda" gli indios sottomessi ai Gesuiti, vietano l'accesso di spagnoli e meticci ai territori affidati ai Gesuiti; e fissano norme precise per le "encomiendas" spagnole (ad esempio, gli indios hanno diritto ad un salario fissato dalla legge), proibendo ancora la schiavitù, anche con schiavi comperati legalmente (le tribù Guaycurùs e Tupì catturavano indiani di altri gruppi tribali e li vendevano agli spagnoli). Interessante notare che ci fu, nella regione del Paraguay, una levata di scudi da parte dei coloni spagnoli ed i Gesuiti, accusati di essere all'origine di queste norme troppo garantiste per gli indios, reagirono proclamando peccato mortale la non osservanza di quei decreti del governatore spagnolo!

Le Riduzioni si difendono da indios e portoghesi

Così incomincia l'esperienza delle "Riduzioni". Rimandando alla seconda parte del nostro servizio la descrizione dell'organizzazione interna di queste comunità, vediamo come cresce e si afferma il sistema dello "Stato gesuita", tra pericoli da parte degli indios e dei portoghesi. I primi attacchi vengono da parte degli stessi indios Guaranì delle foreste. Il "cacicco" (capo) Carupé e lo stregone Nezù, invidiosi dell'ascendente dei nuovi capi e stregoni bianchi, nel novembre 1628 fanno uccidere tre Gesuiti a Candelaria (la Riduzione centrale in cui vivevano i missionari a capo di tutto il sistema) e scatenano una vera guerra contro la missione: circa 1.500 indios chiamati da gruppi nell'interno della foresta si avvicinano al villaggio, seminando morte e distruzione. I Gesuiti organizzano la difesa e mandano messaggeri per chiedere aiuto: ottengono dieci archibugieri spagnoli e oltre mille guerrieri indios provenienti da altre Riduzioni dei Gesuiti e dei Francescani. La guerriglia dura circa un mese e si conclude con lo scontro decisivo del 20 dicembre 1628, vittorioso per la difesa di Candelaria. Le centinaia di prigionieri sono quasi tutti liberati e ritornano ai loro clan magnificando la potenza dei Gesuiti e il loro perdono. Solo dodici vengono impiccati dal "braccio secolare", non senza essere prima convinti dai missionari a pentirsi ed a farsi battezzare!
Molto più grave il pericolo degli assalti portoghesi, provenienti da San Paolo, città fondata nel 1554 da due Gesuiti portoghesi, José Anchieta e Manuel da Nobrega, proprio come "Riduzione" per l'istruzione e la conversione degli indiani, ma presto affermatasi come centro propulsore della conquista portoghese verso l'interno del continente e come crogiolo di razze dove nasce la nazionalità brasiliana. La popolazione paulista si è formata fin dall'inizio con un meticciato tra portoghesi, indios e altri gruppi di immigrati europei. Nel 1600 i paulisti (chiamati "mamaluchi" cioè meticci) erano un popolo forte e numeroso che, pur sottomesso alla Corona di Lisbona, avevano una loro autonomia e dimostravano una potente vitalità espansionistica verso ovest. Alleatisi con gli indios Tupì, nemici tradizionali dei Guaranì, estendono il dominio portoghese con delle spedizioni armate chiamate "bandeiras" (di qui il nome di "bandeirantes" dato ancora oggi ai paulisti) che avevano due scopi: esplorare il territorio scoprendo eventuali ricchezze minerarie (soprattutto oro!), affermando il possesso dei portoghesi sulle terre scoperte; e trovare indios da portare a San Paolo come schiavi. Queste spedizioni fanno indietreggiare a poco a poco, a favore del Portogallo, i confini stabiliti dal Trattato di Tordesillas (1493) fra i domini spagnoli e portoghesi in America.
A partire dal 1612-1615, i paulisti incominciano ad assaltare le Riduzioni dei Gesuiti del Guayrà. La Spagna aveva proibito agli indios di usare le armi. Le Riduzioni non potevano difendersi ed essendo ben stabilite sul territorio in una regione abbastanza ristretta, rappresentavano per i mamaluchi una preda ambita (gli altri indios da catturare erano dispersi nelle foreste!). Secondo notizie del tempo, i paulisti avevano catturato, dal 1612 al 1639, ben 300.000 indios nei territori spagnoli; secondo un'altra relazione, dal 1628 al 1630 i Gesuiti perdevano 60.000 neofiti per opera dei "bandeirantes"; nel 1635-1637, ben trenta Riduzioni erano saccheggiate e distrutte dai paulisti: decine di migliaia di indios dispersi, uccisi o catturati come schiavi. Gli spagnoli del Paraguay non intervenivano, per la lontananza dei posti, per l'insufficienza delle loro forze armate e anche per l'antipatia verso l'esperienza dei Gesuiti che molti si auguravano venisse interrotta.

La battaglia sul Rio Uruguay e un secolo di pace

I missionari decidono di reagire nell'unico modo possibile, cioè rendendo autonome anche nella difesa le loro Riduzioni, come già lo erano in campo produttivo, amministrativo, commerciale, ecc. Nel 1638 il gesuita Ruiz de Montoya, il missionario più importante nella storia delle Riduzioni, viene mandato in Spagna per ottenere il permesso di armare gli indios. La Corte rimanda la decisione al Viceré di Lima (sensibile alle ragioni dei Gesuiti perché difendono i possedimenti spagnoli dai paulisti): Le Riduzioni si armano e gli indios vengono addestrati all'uso delle armi moderne. Nel 1639 per la prima volta gli indios Guaranì si difendono e volgono in fuga gli assedianti paulisti a Caapaza Guazù.
La sconfitta brucia ai paulisti che preparano una maxi spedizione per finirla con i Gesuiti spagnoli e i loro Guaranì. Nel 1641, 500 mamalucos con 2.500 Tupì, su 900 canoe e un poderoso armamento, scendono il corso del Rio Uruguay. Ma non sanno di essere attesi e che le Riduzioni hanno organizzato bene l'avvistamento e la difesa. 4.000 guerrieri guaranì, organizzati dal fratello gesuita Domingo Torres, veterano dell'esercito spagnolo, sono pronti ad accorrere al primo cenno. L'11 marzo 1641 i paulisti subiscono un imprevisto attacco a fuoco sul Rio Uruguay: i Guaranì, con 300 fucili e persino un rudimentale cannone, sbaragliano gli attaccanti. Un massacro. Dispersi nelle foreste circostanti, i paulisti chiedono una tregua che è loro rifiutata. La battaglia prosegue in acqua e per terra: alla fine, si contano circa duemila morti fra i Tupì e i mamalucos, che abbandonano ai Guaranì 600 canoe e 300 fucili e archibugi.
Questa battaglia sull'alto Rio Uruguay ha cambiato la mappa politica del Sud America: se avessero vinto i paulisti, non solo l'esperimento delle "Reducciones" sarebbe finito 127 anni prima di quanto poi è successo, ma il dominio portoghese si sarebbe esteso fino a tutto il Paraguay attuale, tagliando le comunicazioni fra i possedimenti spagnoli sul Rio de la Plata (Buenos Aires), il Perù e la Bolivia. La battaglia segna l'inizio, per le Riduzioni gesuitiche, di una pace che dura più di un secolo. Incomincia la fase di espansione e di consolidamento della missione gesuitica.
 Articolo tratto da MONDO E MISSIONE  

Postato da: giacabi a 16:48 | link | commenti
cristianesimo, gheddo

Cristo trasforma l’uomo:
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 P.Trento

Postato da: giacabi a 16:00 | link | commenti
bellezza, cristianesimo

domenica, 18 novembre 2007
Lettera di Vicky, sieropositiva accolta al Meeting Point di Kampala,
letta  da don Julián Carrón alla giornata d'inizio anno di CL a Roma
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Mi chiamo Vicky, ho 42 anni e vengo dalla regione orientale dell’Uganda. Voglio ringraziare voi e Dio per la vita preziosa che mi ha dato. Nel 1992, quando rimasi incinta del mio ultimo figlio, Brian, mio marito mi pose davanti alla scelta se rimanere sua moglie, rinunciando alla gravidanza, o separarmi da lui se volevo tenere il bambino. A quell’epoca avevo solo due figli, e decisi di portare avanti la gravidanza, cosa che segnò la fine della mia relazione con lui. Davvero non capivo perché lui fosse così crudele e intransigente. Poi nel 1997 persi il lavoro a causa della malattia, e nello stesso tempo il mio bambino, Brian, manifestò sintomi di tubercolosi, ed ebbi i primi sospetti. L’anno seguente mi aggravai e nell’ospedale di Nsambiya fui visitata e sottoposta al test Hiv, che risultò positivo. Fu allora che ricordai e capii perché mio marito non aveva voluto la gravidanza di Brian: perché all’epoca anche lui era sieropositivo.
La vita in casa con i miei tre bambini si fece difficile. I due ragazzi erano sani, ma non avevamo i soldi per la scuola; non avevamo da mangiare, né soldi per le medicine, e peggio di tutto non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero. Nel 2001, qualcuno mi ha indirizzato
al Meeting Point International, dove ho incontrato donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate anche loro di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso; ballavano ed erano liete, e io mi chiedevo come uno che aveva questa malattia potesse cantare e ballare. Al Meeting Point vi accolgono con musiche e canzoni di popoli differenti, africani, europei, indiani, ho persino trovato qualcuno della mia stessa tribù. Dopo lungo tempo ho cominciato a vedere una luce far capolino nel mio essere a pezzi, così ho preso a stare con loro.
Una cosa importante, che non ho mai dimenticato, è il giorno in cui qualcuno mi ha guardato con uno sguardo che aveva in sé i raggi della speranza e dell’amore.
In tutto questo tempo io ero costretta a letto, e tutti i miei amici, i parenti, persino i vicini guardavano con rifiuto e disprezzo me e i miei bambini. Con questo sguardo di amore e speranza che qualcuno mi ha rivolto, mi ha mostrato qualcosa che ha portato la vita nel mio spirito e nel mio corpo a pezzi. Mi ha detto: “Vicky! Tu hai un valore, e il tuo valore è più grande del peso della tua malattia e della morte”.
Nel 2002 iniziai a comprare farmaci per il mio bambino che stava per morire, dopo averlo tolto dalla scuola per il marchio di discriminazione con cui era bollato: lo avevano soprannominato “scheletro”. Nel 2003 cominciai a comprare farmaci anche per me. Allora pesavo 45 chili, oggi ne peso 75. Brian adesso è davvero sano e ha ripreso la scuola secondaria. Il mio ragazzo più grande è all’università, il secondo fa la quarta superiore.
Dov’è il potere della morte? È nella perdita della speranza e nella mancanza d’amore. Ora sono volontaria al Meeting Point, e ogni volta che ricevo delle persone dico loro che il valore della vita è più grande di quello del virus che portano dentro di sé. Questa affermazione nutre la speranza di una persona che soffre e sta per morire, e la riporta alla vita. Tutti i miei risultati sono stati possibili perché mi sono rivestita di qualcosa oltre la morte, e in particolare d’amore. Grazie a tutte le persone che ci hanno educato anche se non li abbiamo visti in faccia; ma oggi, nel nome di Giussani, Carrón è venuto fra noi che eravamo poveri e dimenticati: chi è più ricco di noi adesso? Siamo i più ricchi del mondo, perché qualcuno ha recato un sorriso almeno sul volto di una persona. Ringrazia tutti loro che ci sono cari, e dì loro che li amiamo.»
 a P.

foto Vicky al Meeting Point:

Postato da: giacabi a 19:34 | link | commenti
testimonianza, cristianesimo

sabato, 10 novembre 2007

La religione non è un fatto privato

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"La tradizione laico-liberale, che anche noi abbiamo assorbito in ciò che ci sembrava la sua positività, ha sempre detto che la religione è un fatto privato, che non si devono fare persecuzioni religiose, che ognuno è libero nella propria coscienza di adorare il Dio che vuole; che la religione è un fatto privato e che la vita pubblica invece è un'altra cosa: i rapporti pubblici, sociali fra gli uomini si regolano appunto in modo laico, cioè senza riferimento ad alcuna dimensione religiosa o trascendente; questa cosa fa parte ormai della coscienza comune, e se provi a dire il contrario diventi immediatamente un integralista; ebbene, io comincio ad avere dei dubbi su questo, rispetto ai problemi che la società contemporanea pone; e certe volte mi sembra il contrario.

 Claudio Napoleoni

 

 

 

Postato da: giacabi a 15:17 | link | commenti
comunismo, cristianesimo

venerdì, 09 novembre 2007
Perché la cura della malattia ha potuto nascere e svilupparsi tra Logos greco e Caritas cristiana
di Francesco Agnoli
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Tratto da
Il Foglio del 8 novembre 2007

La medicina, come ogni altra scienza, nasce da un atto di fede nella ragione, nel Logos, nella possibilità cioè di risalire dagli effetti alle cause, seguendo un filo logico, causale e non casuale.

Per questo la sua patria è anzitutto la Grecia, che fa dell’idea di ordine e di armonia della natura il fondamento delle sue riflessioni filosofiche. Per I
ppocrate, come nota Michelangelo Peláez, “il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali”. Analogamente Galeno si ispira al finalismo platonico e al principio di Aristotele secondo cui “la natura non fa nulla invano”, riconoscendo dunque come base dell’indagine medica la fiducia nel senso e nell’ordine della realtà, l’idea di cosmos contrapposta a quella di caos. Nulla a che vedere dunque con la realtà come illusione, propria della filosofia induista, o con lo scetticismo gnoseologico di un David Hume.

Ma perché la medicina si sviluppi veramente, oltre a un riconoscimento pieno del Logos, occorre anche quello della Caritas. Diversamente da altre scienze, infatti, essendo una scienza “applicata” all’uomo, la medicina non risponde solo al desiderio infinito di conoscenza, ma affronta anche il cuore della natura corporale, la sua fragilità e finitezza. Se infatti il desiderio di conoscere è innato, perché risponde alla nostra natura razionale, la misericordia e la pazienza, virtù rispettivamente del medico e del malato, richiedono invece, spesso, uno sforzo, una fatica, perché combattono con la natura umana decaduta.

Ebbene, non è un caso che la medicina sorga, dopo l’alba greca, nella Cristianità, in cui il Logos incontra la Caritas, prende una carne che patisce e si fa “infermo tra gli infermi”.
“Curate infirmos” è il comandamento straordinariamente nuovo di Cristo, antitetico a un ideale di liberazione dualista o spiritualista; un comandamento che va insieme all’esortazione ad annunciare la Verità.

Il Logos manifesta dunque se stesso nella carità, e chiede che ogni uomo faccia altrettanto, facendosi prossimo, nel corpo e nello spirito: veritatem  facientes, in caritate. Per questo assistenza ai poveri, ai malati, agli orfani, sono sin dall’origine nel cuore della chiesa, e proprio per questo l’Italia e l’Europa saranno la culla di ospizi, xenodochi, ordini ospedalieri, confraternite e ospedali, che sorgono in tutto il medioevo sulle vie dei pellegrini, oltre che delle università di medicina, dalla Schola medica di Salerno, alle università pontificie di Bologna e Ferrara, sino all’università di Padova, nelle quali nascerà, appunto, la medicina moderna.

La carità verso i poveri e i malati, sin dal medioevo, è così importante che il re stesso, in Francia e Inghilterra, è anche taumaturgo: san Luigi di Francia, ad esempio, incontrava e benediceva scrofolosi e malati tutti i giorni, dopo la Messa, alloggiava a palazzo e nutriva i ritardatari e poiché tra i “malati che venivano a chiedere ai re la guarigione si trovavano molti bisognosi”, i re inglesi e francesi provvidero, sino all’età moderna, con grande generosità, al loro mantenimento (Marc Bloch, “I re taumaturghi”). Il sommo potere regale era dunque legato, nella mentalità di quell’epoca, al servizio, e chi era capo era chiamato a prendersi cura della abiezione e della miseria dei ultimi.

L’ospedale Santo Spirito
Ma l’esempio più interessante storicamente della carità medievale, che esploderà ancor più dopo il Concilio di Trento, con le figure di Camillo de Lellis, Giovanni di Dio e Vincenzo de Paoli, è l’ospedale di Santo Spirito, istituito a Roma con la protezione dei Papi, e “vero precursore dell’assistenza ospedaliera e sociale” moderna. I suoi statuti, tramandati nel famoso “Liber Regulae Sancti Spiritus” ci dicono quanta fosse l’attenzione verso il dolore fisico dell’uomo. Santo Spirito era un ospedale organizzato in modo straordinario, con un reparto di maternità, un brefotrofio, il baliatico, la ruota per i bambini abbandonati, il gerontocomio, il lazzaretto, il pronto soccorso… I frati che vi operavano, in grande povertà, si consideravano “servi” del loro “signore”, il malato, in cui vedevano lo stesso Cristo sofferente; giravano periodicamente per la città con una specie di carriola per raccogliere malati e poveri nelle vie e nelle piazze; provvedevano ad affidare, se possibile, i trovatelli presso famiglie che li adottassero e accoglievano le prostitute, in alcuni periodi dell’anno, nelle loro case, specie su esortazione di Innocenzo III, che aveva elargito speciali indulgenze a chi le avesse sposate e le avesse così ricondotte a una vita dignitosa. Qui, a Santo Spirito, avrebbe fatto il suo tirocinio anche Camillo de Lellis, qualche centinaio di anni più tardi, dopo aver abbandonato la sua vita di mercenario e di giocatore incallito. Mentre san Filippo Neri, suo confessore, invitava i giovani sbandati di Roma, col celebre detto “state buoni se potete, tutto il resto è vanità”, Camillo esortava i suoi frati a domandare la grazia a Dio di ottenere un “affetto materno verso il prossimo infermo”, per poterlo servire, con carità, sia nell’anima che nel corpo. Migliaia di persone, da allora, lo avrebbero seguito, in mezzo a ogni difficoltà, sino alle persecuzioni dei sovrani assolutisti e di Napoleone, sino alla rinascita. Sempre, per quanto possibile all’uomo, col carisma dell’amore, che rende anche l’occhio del clinico, dello scienziato, più acuto e penetrante, perché gli fa intravedere, dietro il corpo, l’anima, e il peso anche morale della sofferenza. Perché la sapienza del medico, senza la carità, è come la cultura

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medioevo, cristianesimo

giovedì, 08 novembre 2007
ALLA FACCIA DELL’OSCURANTISMO
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I monaci furono pionieri anche nella produzione del vino, che usavano sia per la celebrazione della Santa Messa sia per il loro consumo quotidiano, che la Regola di san Benedetto espressamente permetteva. La stessa scoperta dello champagne si può far risalire a un monaco benedettino, Dom Perignon, dell'abbazia di Saint Pierre a Hautvillers sulla Marna.. Nominato cellario dell'abbazia nel 1688, Dom Perignon arrivò allo champagne a forza di mescolare vini. I principi fondamentali da lui stabiliti continuano a governare la manifattura dello champagne.
T.Woods  Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale.Cantagalli

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cristianesimo, wodds

martedì, 30 ottobre 2007
La sedia di Péguy
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«Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone né per gli intenditori né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta per sé, in sé, nella sua stessa natura. Esigevano che quella gamba fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio con cui costruivano le cattedrali». E sono solo io - io ormai così imbastardito - a farla adesso tanto lunga. Per loro,  in loro non c'era allora neppure l'ombra di una riflessione. il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sè che doveva essere ben fatto."
Charles Péguy
 

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bellezza, cristianesimo, peguy

lunedì, 29 ottobre 2007
Omar e il sacro vino
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Dionisio faceva del vino non una medicina, ma un sacramento.
Omar, invece, ne fa non un sacramento, ma una medicina.
Egli si dà al piacere perché la vita non è gioiosa;
gozzoviglia perché non è lieto.
“Bevi” dice “poiché non sai donde vieni né perché.
Bevi, perché non sai quando te ne andrai né dove.
Bevi, perché le stelle sono crudeli
e il mondo è vano come una trottola musicale.
Bevi, perché non c’è nulla degno di fiducia, nulla degno di lotta.
Bevi perché tutte le cose sono scivolate
 in una meschina uniformità e in una pace maligna”.
Così si leva offrendoci la coppa nella sua mano.
E sull’eccelso altare del cristianesimo si leva un’altra figura,
nella cui mano è un’altra coppa di vino.
Bevete”dice “perché l’intero mondo è rosso come questo vino,
per il vermiglio dell’amore e della collera divina.
Bevete, perché le trombe chiamano alla battaglia
 e questo è il bicchiere della staffa.
Bevete per questo mio sangue del nuovo testamento
che è sparso per voi.
Bevete, perché io so donde venite e perché.
Bevete, perché io so quando ve ne andrete e dove”.
Chesterton  Eretici


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cristianesimo, chesterton

Il vero volto del comunismo

LA LEZIONE DEL 28 OTTOBRE…
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Il 28 ottobre prossimo in Vaticano saranno beatificati 498 martiri della feroce persecuzione religiosa esplosa in Spagna dopo il 1931 e specialmente fra il 1934 e il 1936. Una cerimonia di massa di tali proporzioni non ha precedenti. Aveva cominciato Giovanni Paolo II beatificando nel 1987 tre suore carmelitane che erano state crudelmente massacrate per le strade di Madrid. Poi papa Wojtyla celebrò altre undici cerimonie di beatificazione per un totale di 465 martiri spagnoli. Domenica prossima saranno dichiarati beati 2 vescovi, 24 preti, 462 religiosi e religiose, 2 diaconi, 1 seminarista e 7 laici, tutti vittime di quella persecuzione. Sarà l’occasione per conoscere una delle più sanguinarie tempeste anticristiane scatenate nell’Europa del nostro tempo ad opera dei rivoluzionari repubblicani (una miscela di comunismo, socialismo, anarchia e laicismo).Mai nella storia d’Europa e forse in quella del mondo” ha scritto Hugh Thomas “si era visto un odio così accanito per la religione e per i suoi uomini”. Chiese e conventi (con una quantità di opere d’arte) furono incendiati e distrutti. In pochi mesi furono ammazzati 13 vescovi, 4.184 sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 suore e un numero incalcolabile di semplici cristiani la cui unica colpa era portare un crocifisso al collo o avere un rosario in tasca o essersi recati alla messa o aver nascosto un prete o essere madre di un sacerdote come capitò a una donna che per questo fu soffocata con un crocifisso ficcato nella gola.

Molti vescovi o sacerdoti sarebbero potuti fuggire, ma restarono al loro posto, pur sapendo cosa li aspettava, per non abbandonare la loro gente. Non colpisce solo l’accanimento con cui si infierì sulle vittime, inermi e inoffensive (per esempio c’è chi fu legato a un cadavere e lasciato così al sole fino alla sua decomposizione, da vivo, con il morto).

Ma colpisce ancora di più la volontà di ottenere dalle vittime il rinnegamento della fede o la profanazione di sacramenti o orribili sacrilegi. Qua c’è qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza. Faccio qualche esempio. I rivoluzionari decisero che il parroco di Torrijos, che si chiamava
Liberio Gonzales Nonvela, data la sua ardente fede, dovesse morire come Gesù. Così fu denudato e frustato in modo bestiale. Poi si cominciò la crocifissione, la coronazione di spine, gli fu dato da bere aceto, alla fine lo finirono sparandogli mentre lui benediva i suoi aguzzini. Ma è significativo che costoro, in precedenza, gli dicessero: “bestemmia e ti perdoneremo”. Il sacerdote, sfinito dalle sevizie, rispose che era lui a perdonare loro e li benedisse. Ma va sottolineata quella volontà di ottenere da lui un tradimento della fede. Anche dagli altri sacerdoti pretendevano la profanazione di sacramenti. O da suore che violentarono. Quale senso poteva avere, dal punto di vista politico, per esempio, la riesumazione dei corpi di suore in decomposizione esposte in piazza per irriderle? Non c’è qualcosa di semplicemente satanico?

E il giovane
Juan Duarte Martin, diacono ventiquattrenne, torturato con aghi su tutto il corpo e, attraverso di essi, con terribili scariche elettriche? Pretendevano di farlo bestemmiare e di fargli gridare “viva il comunismo!”, mentre lui gridò fino all’ultimo “viva Cristo Re!”. Lo cosparsero di benzina e gli dettero fuoco. Qua non siamo solo in presenza di un folle disegno politico di cancellazione della Chiesa. C’è qualcosa di più. A definire la natura e la vera identità di questo orrore ha provato Richard Wurmbrand, un rumeno di origine ebraica che in gioventù militò fra i comunisti, nel 1935 divenne cristiano e pastore evangelico, quindi subì 14 anni di persecuzione, molti dei quali nel Gulag del regime comunista di Ceausescu.

Anch’egli aveva notato – nei lager dell’Est – questo oscuro disegno nella persecuzione religiosa. In un suo libro scrive: “
Si può capire che i comunisti arrestassero preti e pastori perché li consideravano contro rivoluzionari. Ma perché i preti venivano costretti dai marxisti nella prigione romena di Piteshti a dir messa sullo sterco e l’urina? Perché i cristiani venivano torturati col far prendere loro la Comunione usando queste materie come elementi?”. Non era solo “scherno osceno”. Al sacerdote Roman Braga “gli vennero schiantati i denti uno ad uno con una verga di ferro” per farlo bestemmiare. I suoi aguzzini gli dicevano: “se vi uccidiamo, voi cristiani andate in Paradiso. Ma noi non vogliamo farvi dare la corona del martirio. Dovete prima bestemmiare Iddio e poi andare all’inferno”. A un prigioniero cristiano del carcere di Piteshti, riferisce Wurmbrand, i comunisti ogni giorno ripetevano in modo blasfemo il rito del battesimo immergendogli la testa nel “bugliolo” dove tutti lasciavno gli escrementi e costringevano in quei minuti gli altri prigionieri a cantare il rito battesimale. Altri cristiani “venivano picchiati fino a farli impazzire per obbligarli a inginocchiarsi davanti a un’immagine blasfema di Cristo”.

Si chiede Wurmbrand, “cos’ha a che fare tutto ciò con il socialismo e col benessere del proletariato?
Non sono queste cose semplici pretesti per organizzare orge e blasfemie sataniche? Si suppone che i marxisti siano atei che non credono nel Paradiso e nell’Inferno. In queste estreme circostanze il marxismo si è tolto la maschera ateista rivelando il proprio vero volto, che è il satanismo”.

In effetti il libro di Wurmbrand s’intitola “Was Karl Marx a satanist?” ed è stato tradotto in italiano dall’ “editrice uomini nuovi” col titolo “L’altra faccia di Carlo Marx”. L’autore si spinge, indagando negli scritti giovanili di Marx e nelle sue vicende biografiche, fino a ritenere che trafficasse con sette sataniste. Peraltro nel brulicare di sette e società esoteriche di metà Ottocento sono tante le personalità che hanno avuto strane frequentazioni. E su Marx anche altri autori hanno fatto ipotesi del genere. Wurmbrand sostiene soprattutto che la filantropia socialista non era l’ispirazione vera di Marx, ma solo lo schermo, il pretesto per la sua vera motivazione che era la guerra contro Dio. Realizzata poi su larga scala con la Rivoluzione d’ottobre e quel che è seguito (nei regimi comunisti fatti, correnti, episodi e personaggi che portano in quella direzione sono chiari).

Sul satanismo non so pronunciarmi, ma
gli effetti satanici dell’esperimento marxista (planetario) sono sotto gli occhi di tutti anche se rimossi clamorosamente dalla riflessione pubblica: la più colossale e feroce strage di esseri umani che la storia ricordi e la più vasta guerra al cristianesimo di questi duemila anni. Siccome capita di sentir formulare, in ambienti cattolici, giudizi indulgenti sugli “ideali dei comunisti”, che sarebbero poi stati traditi nella pratica o mal tradotti, è venuto il momento di definire una buona volta la natura satanica dell’ideologia in sé e di tutto quel che è accaduto. Visto che un grande filosofo come Augusto Del Noce da anni ha dimostrato quanto l’ateismo sia fondamentale nel marxismo e niente affatto marginale o facoltativo. La tragedia spagnola, su cui il popolo cristiano non sa quasi niente (e che fu perpetrata anche da altre forze rivoluzionarie e laiciste) dovrebbe far riflettere, se non altro per le proporzioni di quel martirio.

Antonio Socci

Da “Libero”, 21 ottobre 2007


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comunismo, santi, cristianesimo, ateismo, socci

La «lieta novella» dell'Avvento
***
Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, «naturale» rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l'azione di cui essi sono capaci in virtù dell'esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane la fede e la speranza, le due essenziali caratteristiche dell' esperienza umana che l'antichità greca ignorò completamente. E questa fede e speranza nel mondo che trova la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con i cui il vangelo annunciò la «lieta novella» dell'Avvento:
«Un bambino è nato fra noi».
Hannah Arendt   da: Vita activa

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cristianesimo, gesù, arendt, avvenimento

domenica, 28 ottobre 2007
Quando uno ama Cristo
***
1. Cercate anime non denari;
2. Usate carità e somma cortesia con tutti;
3. Prendete cura degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini;
4. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini;
5. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti, le pene e le sofferenze di uno considerate come pene e sofferenze di tutti e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle;
6. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata

S. Giovanni Bosco Raccomandazioni ai missionari


 

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santi, cristianesimo

Col cristianesimo termina la schiavitù
 ***
Alcuni storici negano che la schiavitù fosse terminata nel Medioevo e ritengono che si trattò solamente di uno slittamento linguistico per il quale la parola «schiavo» fu sostituita dalla parola «servo» . Ma, in questo caso, sono gli storici e non la storia a giocare con le parole. I servi infatti non erano beni; avevano dei diritti e un sostanziale grado di discrezionalità. Sposavano chi volevano e le loro famiglie non erano " soggette a vendita o dispersione. Pagavano degli affitti che permettevano loro di poter controllare tempi e ritmi del lavoro . Se, come avveniva in alcuni luoghi, i servi dovevano ai padroni un certo numero di giornate di lavoro all' anno, i loro obblighi erano comunque limitati e più simili al lavoro dipendente che alla schiavitù. I servi erano certamente legati al padrone da molti vincoli, ma allo stesso modo il padrone aveva obblighi non solo nei loro confronti ma anche verso un' autorità superiore e così via, perché la natura del feudalesimo si fondava su reciproci accordi d'obbligo. Non si può certo affermare che i contadini medievali fossero liberi nel senso moderno del termine, ma non erano nemmeno schiavi e, per la fine del X secolo, la brutale istituzione era fondamentalmente sparita dall'Europa.
Rodney Stark. Lindau "La vittoria della Ragione"


 

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medioevo, cristianesimo, stark

sabato, 27 ottobre 2007
Il medioevo
 ***
 «Gli uomini di oggi cominciano ad accorgersi che è più facile distruggere la civiltà che ricostruirla. Furono necessari sei secoli alle genti del Medioevo per ritrovare, dopo il disastro  delle invasioni, lo slancio creatore della Grecia e di Roma. Questa rinascita dell'Europa, che ebbe come animatrice la chiesa, iniziò nell'XI secolo. Come tutti i movimenti analoghi, si manifestò in ogni campo: riforma cluniacense, arte romanica, reconquista spagnola, crociate. Spontaneamente la chiesa ritornava alla austerità delle sue origini mentre si adoperava al tempo stesso, con spirito generosamente umano, nell'organizzazione di un mondo il cui: avvenire riposava ormai su di lei. A questo mondo diviso dallo smembramento feudale, esaurito  dalle eterne guerre dinastiche e in cui il Faustrecht si era sostituito all'antico concetto del diritto, restituiva l'unità romana, la pace romana, il bell'ordinamento latino dello spirito. Da Gregorio VII a Innocenzo IV affrontò l'egemonia germanica e la spezzò. Di fronte alla minaccia asiatica fu, durante tutta l'epoca delle crociate (e fino alla battaglia di Lepanto), la coscienza stessa dell'Europa. Nella pace dei suoi chiostri, ricomparve la grande filosofia. La  ragione umana si confrontò di nuovo con l'universo. [...] A questo impeto metafisico corrisponde lo slancio delle cattedrali. Dapprima lo slancio romanico, che si potrebbe anche chiamare francese e lo è talmente, infatti, per la sua stessa misura, per l'equilibrio fra l'ardore (dell'ispirazione e la solidità dell'architettura. [...] Ma la cattedrale vuoI slanciarsi ancora più in alto nel cielo. L'architettura gotica, scaturita da questo slancio verticale, è anch'essa specificamente francese per la sua logica e il suo idealismo -logica ascensionale, partito preso di alleggerimento che, sembrando disprezzare le leggi della gravità, approdano ai grandi reliquari aerei di Notre-Dame e di Reims, di Chartres e di Arniens. "Musica di pietra" è stato
detto di queste cattedrali».
R.Grossuet, Bilancio della storia, Jaca Book
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bellezza, medioevo, cristianesimo, grossuet

Mendicanti davanti ad una Presenza
***
 
luigi giussani e carron 
  don Carron 24 marzo 2007 davanti al Santo Padre Benedetto XVI
 
Da: youluire           
 

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cristianesimo, benedettoxvi, carron

sabato, 20 ottobre 2007
La fede cristiana
illumina la vita
***
Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:
La piccola mia lampa
Non, come sol, risplende,
Né, come incendio, fuma; Non stride e non consuma
Ma con la cima tende
Al ciel che me la diè.

       Starà su me, sepolto,
Viva; né pioggia o Vento,
Né in lei le età potranno;
E quei che passeranno
Erranti, a lume spento,
Lo accenderan da me
.

       Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: «Dio mi vede!» per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. «Dio mi vede...» perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione.
Luigi Pirandello :Il fu Mattia Pascal



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fede, cristianesimo, pirandello

venerdì, 19 ottobre 2007
Un uomo per la Chiesa
***

Si cerca per la Chiesa un uomo...
 Si cerca per la Chiesa un uomo
senza paura del domani, senza paura dell'oggi,
 senza complessi del passato.
Si cerca per la Chiesa un uomo,
che non abbia paura di cambiare,
 che non cambi per cambiare,
 che non parli per parlare.
Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di vivere insieme agli altri,
di lavorare insieme, di piangere insieme,
 di ridere insieme, di amare insieme,
di sognare insieme.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di perdere
senza sentirsi distrutto, di mettersi in dubbio
senza perdere la fede, di portare la pace
dove c'è inquietudine e l'inquietudine dove c'è pace.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente,
nostalgia della povertà di Gesù,
nostalgia dell'obbedienza di Gesù.
 Si cerca per la Chiesa un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette d'abitudine,
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse,
il servizio con la sistemazione.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei
ma ancora di più capace di vivere per la Chiesa;
un uomo capace di diventare ministro di Cristo,
profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.
Si cerca per la Chiesa un uomo.
Primo Mazzolari



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santi, cristianesimo, don mazzolari

sabato, 13 ottobre 2007
Fissando lo sguardo su Lui diventiamo come Lui
*** 
“guardando Lui si riceve sempre più la somiglianza di Colui nel quale uno fissa lo sguardo, fissando lo sguardo su Lui diventiamo come Lui
 M. Luzi

 

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luzi, cristianesimo

venerdì, 12 ottobre 2007
La costruzione di nuove forme di comunità
***
 «È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo storico e un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono quelli che sono stati tracciati fra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra consapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso» [...]
MacIntyre  da: Dopo la virtù

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cristianesimo, macintyre

mercoledì, 10 ottobre 2007
Il cristianesimo
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Il cristianesimo non è una dottrina,non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà dell’anima umana, bensì la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo.
Ludwig Wittgenstein



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cristianesimo, wittgenstein

lunedì, 08 ottobre 2007
L’umanità cristiana
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«Al mondo antico era sufficiente contemplare la Divinità come idea; il nuovo mondo, che ha già visto la Divinità come manifestazione reale, non può limitarsi alla contemplazione, ma deve vivere e agire in virtù del principio divino che si rivela in esso, trasformandosi a immagine e somiglianza del Dio vivente. L'umanità non è tenuta a contemplare la divinità ma a rendere se stessa divina. Non si tratta di una creazione dal nulla, ma di una trasformazione, di una transustanziazione della materia nello spirito, della vita carnale nella vita divina».  Vladimir Solov’ev,

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cristianesimo, soloviev

domenica, 07 ottobre 2007
Il cristianesimo è l'unica via sicura per la felicità
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Dio e il senso della vita

Mi ripeto sempre le parole di Tolstoj: «
L'uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito». Possa lo spirito essere in me.

Ho comprato l'ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero. Certamente il cristianesimo è l'unica via sicura per la felicità. Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito - esserne sempre cosciente.

(Da L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1968, pp.173-182).              a P.


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cristianesimo, wittgenstein

II mio cuore a nudo
***
II mio cuore a nudo, si può vedere quanta sincerità e quanta debolezza era in quest'anima cristiana, prigioniera in un corpo di peccato; i suoi propositi generosi, i suoi sforzi, le preghiere accorate.
 C. Baudelaire (Giornali intimi, Einaudi, Torino 1942).


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baudelaire, cristianesimo

venerdì, 28 settembre 2007
Beato Faà di Bruno
***
 
 
da :   http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/santi/faadibruno.htm

Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli

Nel frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco, tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio", poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte, "beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.
Personaggio singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile. Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.
La chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era chiamata in causa, qui, perché il Francesco Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.
Quanto allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende, il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al contempo un grande studioso, un famoso scienziato.




LA VITA
Nasce nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno, nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi. Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo: il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati Uniti in milioni di esemplari.
Nel 1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846, terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si perfeziona nelle lingue straniere.
Nel 1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio, che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba. Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel 1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St. Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata. Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi" (P.Palazzini).
Tra i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto, come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854 ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo diretto da un giovane laico.
Fidando in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel 1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel 1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:
"Per me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e non sono che giochi da ragazzi".
Nel 1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta, dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.
Nel 1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre, sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite, per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in vendita. Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:
"Son pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità, sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle proposte dal Beato.
Il 2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà (polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle giovani".
Nella Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni) lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il cristiano radicale e gli indicò la sua strada.
L'Opera di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna (e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le operaie - del proletariato urbano.
Una delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero (sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle famiglie in cui lavorano".
Al rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli, ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle grandi città.
In effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di rimediarvi.
A queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione, internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali, dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo: formare al bene, allontanare dal male"
Alle Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato, scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che la verità stava nel contrario.
Sempre nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza), sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.
Nel 1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.
Nello stesso anno fonda l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto, convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici, rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che, anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è, anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con 40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che "si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo, il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.
Quanto agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore al fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in ordine e muove come un orologio". All'Opera di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni ecclesiastici.
Nel 1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di "moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua straniera.
Nel 1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di giovani povere con corsi triennali di economia domestica.
Nel 1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia - lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo
Nel 1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto qualunque bandiera.
Poiché, come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una successione di bene, non può far senza di religiose".
Nel 1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia, non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a conferma della forza di un carisma singolare.
Le Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio (ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione originaria di Opera di Santa Zita).
Per venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici, pubblicazioni religiose.
Nel 1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel 1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno in America Latina, dove tuttora lavorano.
Negli istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita (novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa. Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel 1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel 1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.
Nel 1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II 27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito, disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia, raccolta in 38 anni di studio e di lavoro". …….
Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo, l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale, immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi, riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.
C'è una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli, quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.
Fecondità che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie; assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco leggiamo:
"Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa, che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
"Santità" ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".
Certo è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo) trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O - marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica internazionale.
Dietro tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato, carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure, aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere scusa").
I famigliari e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce, in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha spesso l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma che tormento!".
E così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".
Nella famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale. Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E, invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera" nello stato ecclesiastico.
Ma nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti, che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come lui.
"Devo fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole" (P. Palazzini).
In realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia, di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava immantinente al lavoro".
In realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese, conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.
Dopo la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel 1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo pieno della congregazione" (P. Palazzini)
Avendo infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.
L'opera iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera della donna.
E ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle "sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori maschili delle loro scelte.
Torniamo alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita. Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo, alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.
Stanze dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita militare della prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.
Divenuto sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori, le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di "essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio, tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.
Ma che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo, dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace, limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono, sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco: "In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben fatte".
In effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che divergevano.
Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il mondo con una religione vissuta profondamente".
Sapeva che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il colto - era il primo a dimostrarlo.
Né si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel 1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi, in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche, sudamericane.
È solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici. Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse, riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano, minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e terribile: l'inferno.
Altro non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo, nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).
Ed è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia: "C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).
In quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)
Da queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:
E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).
Espressioni, come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al contempo tenesse buoni i poveri.
Faà di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E, altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".
Nutrito di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma, allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi, allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra condizione mi fa paura!".
Sentiamo, al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:
Uno avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere; orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta, non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei non possidebit.
"Ma la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete, entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate, qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre sostanze, né vi levate il necessario.
"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"
"Ecco: è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure sono predette nella eternità, senza limite né fine.
Ma l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia, diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che, superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri: volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e inappellabili.
Intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò che nasce dalla forza. 183
E come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.
Seguaci di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre Nostro"
La tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma, non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare, con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.
Invece, le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo, del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola, dell'amore.
Ma, questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo. Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".
Sapevano, come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni".
Erano scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza) come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che, dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo".
Si spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo. Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo, dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del peccato.
Diffidavano poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie - dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente, al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità, difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.
E, dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel caso del nostro Beato.
Ricordiamo tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".
Gesù rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?
Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi, sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"), quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:
un'azione dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e direzione pubbliche, apposite comunità;
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta;
creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici;
stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità;
manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante;
istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti...
Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante" e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".
Proprio per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate.
Alzarono la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza; minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti, distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa.
Puntarono sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona essi stessi.
Gli ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia.
Faà di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi, comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà) che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano, almeno di uomini.
I politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta" Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per renderlo subito e il più possibile meno disumano.
Esemplare, al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e meteorologico alla sommità.
Dunque, la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità "spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni, molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici": categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in Cielo.
Sulla base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà necessariamente legale tra di loro.
Nel 1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione cattolica"".
Insegnava che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che "l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a sua volta alla teologia". Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte le contiene.
Ma, al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.
Tra i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti - causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il "pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un orologio era allora un lusso per privilegiati.
In attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone. Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del 1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e inquisizioni varie.
Ora, forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di torinesi senza altro orologio lo fecero.
Secondo lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.
Ma sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e, soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale, la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo, come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando, precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.
Durissimo col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto "condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono di Karl Popper, il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però, ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale (come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.
Da quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente, pagato con il denaro pubblico.
Stando a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra quelle vie dai grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro. Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge di violenza.
A quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire dei cattolici, dei preti).
Quanto a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice, testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava: "assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle "serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia, malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso", diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei "democratici", era S. Giovanni Bosco.

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