Il Cristianesimo
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“il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”
C.Péguy
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Postato da: giacabi a 18:51 |
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cristianesimo, peguy
Il cristianesimo è Cristo
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Fratelli, come vorrei incidere nel cuore di ognuno questa grande idea: il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, di proibizioni. Così sarebbe molto ripugnante. Il cristianesimo è una persona, che mi ha amato tanto, che reclama il mio amore. Il cristianesimo è Cristo.
Oscar Romero
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Postato da: giacabi a 20:30 |
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cristianesimo
Cos'è il cristianesimo: una passione per l'uomo
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«la
prima volta, venticinque anni fa, che sono andato nell'America del Sud
sono arrivato con una grossa nave; mille chilometri dentro il Rio delle
Amazzoni in quella regione che si chiama Macapà e che è tutta fatta di
foreste impenetrabili; non ci sono strade, bisogna andare sempre sulla
barca oppure attraversare paludi immense. Allora c'erano su un
territorio così grande settantamila persone circa, ma moltissimi
di questi si chiamavano "Siringheros", perché vivevano nella foresta
vergine tirando fuori la gomma dall'albero della gomma. Vivevano mesi e
mesi da soli, in pericolo di morte continuo ed io non ho mai visto
sorridere un Caboclo - si chiamano, infatti, anche Cabocli -, non ho mai
visto sorridere nessuno. C'è un gruppo di sacerdoti miei amici
e si dividono il territorio, così che per un tempo dai venti ai
quaranta giorni ognuno percorre un pezzo del territorio per andare a
trovare anche il Siringhero più lontano.
Un pomeriggio uno doveva partire per questo terribile giro su cui
sempre incombe il pericolo della morte e mi disse: «Vieni con me» e io
spontaneamente ho detto: «Vengo». Arrivati sull'imbrunire all'inizio
della palude egli si è messo delle calosce, si è calzato degli stivali
alti e mi ha detto sorridendo: «Adesso tu fermati e torna indietro» e io
mi sono fermato e per tutta la mia vita ricorderò quella sera quando il
sole cade in dieci minuti sull'equatore, in dieci minuti dal sole pieno
si passa all'oscurità e ho visto quell'uomo alto, grande che si
allontanava e, ogni tanto, nella semioscurità, si voltava e mi salutava
ridendo. E io ero
lì, impalato, a guardarlo mentre dicevo a me stesso: «Quest'uomo rischia
la vita per andare a trovare un solo altro uomo che forse mai più
rivedrà!». Rischiava
la vita per un uomo. Capii in quell'istante che cos'è il cristianesimo:
una passione per l'uomo, un amore all'uomo. Non all'uomo dei filosofi
liberal-marxisti, prodotto della loro testa, ma all'uomo che sei tu, che
sono io.
E siccome il significato della natura non posso essere io così piccolo e effimero, il significato di tutta la natura è il mio rapporto con l'infinito, il mio rapporto con il mistero che fa tutte le cose.»
Don Giussani
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Postato da: giacabi a 15:11 |
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cristianesimo, giussani
COLLETTA ALIMENTARE 2007
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Tu
lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più. E
d'un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno - uno sguardo
umano - ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto. E tutto
diventa improvvisamente più semplice.ANDREJ TARKOVSKIJ
Partecipare
a un gesto di carità cristiana come la colletta, così semplice e
concreto, accessibile a tutti, svela la legge della vita che è amare,
dono di sé. Se uno vede che quanto più ama, tanto più è se stesso e che
in questo darsi non si perde, ma si guadagna, allora tutta la vita
diventa desiderio di condividere il bisogno degli altri per condividere
il senso della vita.
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Postato da: giacabi a 11:06 |
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cristianesimo
Chi origina il popolo è Cristo
Tempi num.47 del 22/11/2007 0.00.00
Interni Servire il popolo oggi Difendeva «la teoria della classe operaia». Poi ha scoperto la realtà. L'ex sedicenne del Sessantotto Brandirali continua la sua battaglia di frontiera di Brandirali Aldo Questa mattina, in un nuovo giorno, ho potuto verificare l'infallibilità del cuore. Chi mi conosce rimarrà sorpreso che io possa dire infallibilità, avendo io una storia di continuo cambiamento, dunque di evidenza di un precedente errore. Eppure dico infallibilità perché dopo 50 anni, per Grazia, posso ridire quello che dicevo a 16 anni: «Voglio dare la vita per il mio ideale». Ore 9, mia moglie Teresa riceve una telefonata sul telefono della sua associazione, con dolce pazienza ascolta il dolore di un'altra donna, mi racconta poi che si tratta di una vedova con figlio di 35 anni malato psichico, che le provoca un dolore indicibile. Di queste storie la Teresa me ne ha già raccontate decine, una più dolorosa dell'altra. E Teresa fa compagnia a queste persone, ristabilisce una speranza, rende ragione dell'attesa. E io vivo della luce di Teresa. Ma sono un politico, non posso non farci sopra tutti i miei ragionamenti. A 16 anni ho cercato per chi battermi, ho trovato una teoria che diceva di dare la vita per la classe operaia, ci ho provato, ma ho dovuto scoprire che la classe operaia non è una realtà è solo una teoria. Allora a 27 anni ho detto: «Servire il popolo». Ci ho messo tutto me stesso e infine, sbagliando e riprovando, a 42 anni ho trovato chi origina il popolo: Cristo. Dunque avevo trovato l'ideale per cui dare la vita. Ma ero ancora io che mi facevo da me, come mi si poneva culturalmente l'ideale a 16 anni. Mi ci sono voluti altri venti anni per farmi fare da Cristo, ovvero per cambiare posizione verso l'ideale: non io porto la bandiera rossa nella piazza, ma Cristo mi mette in mano la sua croce e mi dice «portala». è una diversità culturale sconvolgente. Ma perché chi mi legge capisca, deve considerare che la passione ideale dei miei 16 anni era suscitata dal secolo delle ideologie, ovvero il secolo che ha capovolto le radici cristiane dell'Europa togliendo Dio dalle vicende umane. Rimaneva il dare la vita per un altro, ma questo altro era diventata una idea astratta, il cui solo fatto reale era la lotta per il potere. Ed ora guardo mia moglie e vedo che lei dà la vita per un Altro, ovvero è motivata dal suo rapporto con Cristo e si pone con realismo davanti alla persona bisognosa di aiuto. Che spettacolo, che vittoria, essere come a 16 anni. Allora è proprio la salvezza quello che andavamo cercando: una preghiera ci ha condotto in tutta la nostra storia, «Signore salva il nostro cuore buono». E io in politica? è dura da spiegare. Dai 16 ai 35 anni ho utilizzato un dono che mi era stato dato dalla nascita: avevo carisma, convincevo, attraevo, scaldavo i cuori. E mi sono abituato a fare il capo. Quando, a 35 anni, li ho mandati a casa tutti e quindicimila, dicendo che tutto era sbagliato, ma non sapevo spiegare perché, sono diventato un niente che rotolava sulla terra. Dalla terra mi ha raccolto don Giussani. Mi ha rimesso in piedi, è ricominciata la mia libertà, infine sono tornato a fare politica su posizioni molto diverse dalle precedenti. Ma ancora mi portavo dietro la pretesa di essere uno che, con scarsa misura della realtà, voleva guidare l'affronto della lotta per il potere. Per questo sono stato continuamente ridimensionato, come se fossi sempre uno sconfitto. E invece di volta in volta ho verificato che il Signore mi conduceva sulla sua strada, e che lì dove mi aveva messo avevo veramente la battaglia giusta da fare. Eccomi ora, consigliere comunale a Milano, presidente della commissione servizi sociali, affronto in questi giorni la discussione in Consiglio della delibera di programmazione dell'insieme dei servizi alla persona. I miei colleghi del centrodestra si assentano distratti, perché giustamente non credono alla programmazione, credono maggiormente alle singole azioni. Intanto la sinistra conduce una furiosa battaglia, incomprensibile perché in fondo la delibera corrisponde alle loro idee, ma loro combattono per imporre il fatto che le azioni devono essere concordate con il loro mondo associativo, come concertazione del potere. Io voglio difendere la concretezza della azioni dell'amministrazione e nel contempo il riconoscimento del mondo associativo, come sussidiarietà e non come concertazione. Faccio un esempio: sostegno alle persone con disagio psichico. Il Comune ha pochi soldi su questa voce, e li usa per dare piccoli contributi economici ai malati che non sono in grado di lavorare. Siccome i soldi sono pochi, la questione diventa che si possono aiutare solo alcuni. Allora la sinistra propone di fare progetti sperimentali concordati al tavolo del Terzo Settore. La delibera propone di cercare criteri oggettivi per riconoscere i più bisognosi. Io dico che il criterio oggettivo è fare affidamento sulle famiglie e i gruppi associativi che riconoscono i diversi gradi di gravità della malattia. Nel contempo bisognerebbe aumentare i fondi. Un atto di costruzione duratura La destra mi viene dietro, ma non capisce, la differenza fra concertazione e sussidiarietà è praticamente fra sperimentazione e abbraccio concreto del bisogno. La sinistra aiuterebbe qualcuno nel quartiere dove sono forti loro, noi aiuteremmo quelli che si sono rivolti a una associazione o a un servizio che è in rete con fatti associativi capaci di abbraccio amorevole. I progetti sperimentali prima o poi finiscono e lasciano le cose come erano prima. Il sostegno a un popolo in azione è un atto di costruzione duratura. E così via. La mia battaglia è volta a fare della politica un servizio per un popolo in azione, il che comprende anche una piena responsabilità degli atti di governo. è una battaglia così di frontiera che mi rendo conto di essere molto utile per formare una nuova classe dirigente che in futuro possa governare il paese secondo questo realismo. Spero veramente di riuscire a dare la vita per questo cambiamento del mondo. Capite adesso perché il gesto mattiniero di mia moglie mi ha messo in pace con tutto e ha tolto il mio atteggiamento da disperato nell'azione. In battaglia e in pace, ditemi voi se esiste altro da Cristo che permette questa apparente antinomia. Aldo Brandirali *consigliere comunale a Milano (Forza Italia) |
Postato da: giacabi a 16:43 |
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testimonianza, cristianesimo, brandirali
"La carità cambia la vita”
Comunicato stampa
“La carità cambia la vita”
Milano, 14 novembre 2007
Sabato 24 novembre si svolgerà in tutta Italia la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare
organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus e dalla Federazione
dell’Impresa Sociale Compagnia delle Opere. Sarà possibile in
quell’occasione aiutare concretamente i poveri del nostro Paese che,
secondo le ultime rilevazioni Istat (ottobre 2007), sono quasi il 13%
della popolazione italiana. In oltre 6800 supermercati più di 100.000
volontari, tra i quali Marcello Lippi, Paolo Brosio e Giancarlo
Fisichella, inviteranno le persone a donare alimenti non deperibili –
preferibilmente olio, omogeneizzati ed alimenti per l’infanzia, tonno e
carne in scatola, pelati e legumi in scatola - che
saranno distribuiti a più di 1.360.000 indigenti attraverso gli oltre
8.100 enti convenzionati con la rete Banco Alimentare (mense per i
poveri, comunità per minori, banchi di solidarietà, centri
d’accoglienza, ecc.).
In
occasione della “Colletta Alimentare” del 2006 gli italiani hanno
donato più di 8422 tonnellate di cibo per un valore economico superiore a
26.200.000 euro; l’obiettivo per l’undicesima edizione è di coinvolgere
sempre più persone in questo gesto di gratuità incrementando così il
quantitativo di alimenti raccolti.
Anche
quest’anno, per introdurre al significato della Colletta Alimentare,
viene proposta una frase che sottolinea il valore educativo
dell’iniziativa:
Tu lo sai bene:
non ti riesce qualcosa,
sei stanco, non ce la fai più.
E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno
– uno sguardo umano –
ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto.
E tutto diventa improvvisamente più semplice.
ANDREJ TARKOVSKIJ
Partecipare
a un gesto di carità cristiana come la colletta, così semplice e
concreto, accessibile a tutti, svela la legge della vita che è amare,
dono di sé.
Se
uno vede che quando più ama, tanto più è se stesso e che in questo
darsi non si perde, ma si guadagna, allora tutta la vita diventa
desiderio di condividere il bisogno degli altri per condividere il senso
della vita.
A
beneficiare della “Colletta” non sono esclusivamente i poveri ma anche i
donatori che, attraverso un semplice gesto di carità, condividono i
bisogni primari di chi è emarginato.
La
Giornata Nazionale della Colletta Alimentare è resa possibile grazie
alla collaborazione con l’Associazione Nazionale Alpini e la Società San
Vincenzo De Paoli, e gode dell’Alto Patronato della Presidenza della
Repubblica e del patrocinio del Segretariato Sociale della Rai.
Per
informazioni su quali punti vendita aderiscono all’iniziativa oppure su
come dare la propria disponibilità per fare il volontario è possibile
chiamare lo 02.67.100.410 oppure visitate il sito www.bancoalimentare.it.
Si ringraziano: Intesa Sanpaolo, Fastweb, Aurora Assicurazioni, Arvedi, Gruppo FNM e Comieco |
Postato da: giacabi a 21:01 |
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cristianesimo
Cristo trasforma l’uomo:
da oggetto lo rende persona
***
Nel
momento di massima espansione, all'inizio del 1700, le Riduzioni
gesuitiche comprendevano trenta (alcune fonti parlano di 33 o 36)
cittadine con 150.000 abitanti al massimo: ogni centro aveva dai 2.000 agli 8.000 abitanti e due o tre Gesuiti, che non furono mai più di un centinaio in tutto.
Confrontato con i numeri di oggi, il sistema delle Riduzioni sarebbe
una piccola minoranza in qualunque stato moderno. Al tempo della
colonizzazione spagnola nelle Americhe, rappresentava invece un
blocco di popolo rispettabile per numero e compattezza, ben organizzato
e autosufficiente, che pagava le sue tasse alla Corona di Spagna e
offriva anche militari preparati ai governatori della Colonia, in caso
di bisogno. Suscitava invidie e opposizioni nei coloni spagnoli proprio per questo indubbio successo.
"Il più perfetto sistema agricolo dell'America"
Com'erano organizzate le Riduzioni? Visitando oggi le rovine, ci si accorge subito che la
pianta delle singole "Riduzioni" era sempre uguale: al centro la grande
piazza principale (quadrata o rettangolare, ogni lato misura più di 100
metri) con la chiesa, la casa dei missionari, la sala delle riunioni
comunitarie, il "cabildo" (sede del municipio), la casa degli anziani e
quella delle vedove, la scuola, i magazzini, i laboratori, il granaio
comunitario, il cimitero. Poi le vie rettilinee con le abitazioni delle
singole famiglie, costruite in pietra, una meraviglia per quel tempo.
Uno storico afferma che "le abitazioni degli indios delle Riduzioni erano meglio di quanto immaginiamo. Gli
spagnoli avevano case peggiori, anche a Buenos Aires, che allora era un
ammasso informe di capanne e aveva meno abitanti di una Riduzione" (Maxime Haubert, La vie quotidienne au Paraguay sous le Jésuites, Hachette, 1967, pag. 241).
La chiesa era sempre l'edificio più importante e solenne, dove indios e
spagnoli esprimevano al meglio le loro doti artistiche: plastiche e
musicali. La chiesa era ricca di paramenti ricamati con motivi dell'arte
guaranì, di mobili scolpiti, di statue, di arredi d'argento. Il
campanile ospitava anche otto o dieci campane che lanciavano concerti
nelle foreste.
La religione era il principale fattore educativo delle persone e delle comunità e dominava la vita pubblica:
le funzioni sacre iniziavano e concludevano la giornata ed erano intese
anche per creare spazi di partecipazione e di fraternità. La
forza educativa della religione, e l'esempio dei padri (per le Riduzioni
erano scelti i migliori Gesuiti e non tutti resistevano), spiegano il
fatto miracoloso e quasi incredibile che due-tre missionari abbiano
potuto, con la sola forza morale del loro esempio e il richiamo alla
fede, tenere assieme 2.000-8.000 indios, educarli, farli passare dal
nomadismo alla vita sedentaria e comunitaria, senza l'uso della forza. E
non per alcuni anni, ma per un secolo e mezzo! Questo è il vero
miracolo delle Riduzioni, nelle quali esisteva anche una polizia e
alcuni locali di carcere. Ma le condanne e le punizioni erano rarissime (la pena di morte era abolita, quando in tutti gli Stati di quel tempo era comunemente praticata), come confermano tutte le testimonianze dell'epoca. "L'omicidio
è sconosciuto e la discordia è rara. I neofiti vivono fra di loro come
buoni fratelli", si legge in una cronaca del tempo.
La
terra apparteneva al villaggio, i piccoli appezzamenti affidati alle
singole famiglie ridotti al minimo. Non esisteva proprietà privata, né
possibilità di lasciare in eredità proprietà immobiliari. Alloggio,
vestito e nutrimento dati secondo le necessità delle singole famiglie. La
direzione era in mano ai Gesuiti, che delegavano il comando ai capi
eletti dagli indigeni, eccetto i sindaci che erano nominati
dall'Imperatore spagnolo su una terna proposta dai padri. I
prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento animali venivano portati
nei mercati degli spagnoli, per venderli o scambiarli con metalli,
attrezzi, sale, medicine, ecc.
L'agricoltura era l'attività principale, alla base di tutta la vita sociale. L'abilità e il successo dei Gesuiti fu di far cambiare stile di vita ai Guaranì: da nomadi a sedentari, da cacciatori e pescatori ad agricoltori. Non è stata un'impresa facile. Nelle "encomiendas"
degli spagnoli, per farli lavorare, in genere si tenevano gli indios
come schiavi, frustati e messi a morte per futili mancanze.
D'altra parte, un colono spagnolo che aveva una immensa "encomienda" da
mettere a coltivazione, come poteva trattenere gli indigeni (con i quali
era difficile intendersi perché, senza educazione, conoscevano poche
parole di spagnolo), farli lavorare e produrre, evitare che si
ribellassero, se non con la violenza e il terrore delle punizioni
fisiche? L'atmosfera
che si respirava nelle Riduzioni era del tutto diversa: non violenza e
odio, ma educazione, fraternità, eguaglianza, perdono. I padri
conoscevano la lingua guaranì e vivevano la vita dei Guaranì,
fraternizzando con loro.
Le Riduzioni rappresentarono ben presto "il più perfetto e il meglio organizzato complesso agricolo dell'America" dice uno storico (Clovis Lugon, La Repubblica guaranitica dei Gesuiti,
AVE, Roma 1976, pag. 128). Vi si produceva mais, grano, mandioca,
patata dolce, orzo e riso, che erano alla base dell'alimentazione; e poi
cotone, canna da zucchero, tabacco, viti (due raccolti l'anno), tè
(chiamato anche "mate" o "yerba"). Il tè fu fin dall'inizio la maggior
fonte di reddito ed è ancor oggi la bevanda nazionale di argentini e
paraguayani. Altra attività in campo agricolo fu l'allevamento di
animali (fino a raggiungere centinaia di migliaia di capi bovini, ovini
ed equini) e la raccolta del miele selvatico. Ogni
villaggio aveva scorte di grani sufficienti per coprire anche un anno
di completa carestia ed allevava dai 50.000 agli 80.000 capi bovini, con
tale margine di sicurezza che le 30 Riduzioni potevano abbattere circa
300.000 bestie all'anno (la carne, come ancor oggi in Argentina e in
Paraguay, era l'alimento di base con la mandioca, il mais, il riso, il
frumento).
Eppure
il lavoro non era pesante: si lavorava dalle nove alle quattro del
pomeriggio, con due ore di interruzione per preparare e consumare il
pranzo, eccetto la domenica e il giovedì considerati giorno festivo e
semi-festivo. Gli indios dovevano avere il tempo per la vita familiare,
il canto, la danza, i divertimenti comuni, le funzioni religiose, e poi
la scuola e la lettura. Nelle famiglie si faceva la lettura spirituale
in comune! Quando veniva il momento del raccolto, tutti abbandonavano le
altre attività industriali e artigianali, l'arte e la burocrazia, e
andavano nei campi ad aiutare gli agricoltori.
Un altro storico (Alberto Armani, Città di Dio e Città del Sole, Studium, Roma 1977, pagg. 128-130) aggiunge
che per ottenere i buoni risultati di produttività agricola i padri
dovettero far lavorare gli indios non solo nei loro appezzamenti
privati, ma nelle terre che appartenevano al villaggio (chiamate
"proprietà di Dio"), che erano la quasi totalità. Gli indios,
essendo nomadi, non conoscevano la proprietà privata di terre e case. I
Gesuiti tentarono di introdurre la proprietà privata, ma i terreni
affidati alle singole famiglie non venivano curati e a volte nemmeno
seminati. Allo stesso modo, bovini, asini, pecore, cavalli dati in
proprietà ad una famiglia, morivano perché li tenevano legati giorni e
giorni senza dargli da mangiare e da bere, non mungevano le vacche, ecc.
Difficile
per noi, che abbiamo alle spalle secoli e millenni di cammino verso la
modernità, renderci conto di cosa vuol dire per un popolo nomade che
vive all'età neolitica (cioè l'età della pietra, come i Guaranì alla
venuta degli spagnoli), passare di colpo all'uso del ferro,
all'agricoltura, all'allevamento animali, all'industria, alla proprietà
privata... Passare dal baratto al commercio e alla moneta.
I prodotti agricoli e artigianali delle Riduzioni venivano venduti ai
mercati delle città spagnole, specie Santa Fé, Asunciòn, Buenos Aires. I
Gesuiti tentarono di affidare questa attività ai Guaranì, per evitare i
fulmini del diritto ecclesiastico contro i preti che si dedicavano al
commercio, ma con risultati disastrosi. Anche se debitamente istruiti, i
Guaranì ritornavano alle Riduzioni non con moneta legale, ma con
qualsiasi oggetto che colpisse la loro fantasia, campanelli, trombe,
broccati, fibbie e bottoni colorati... I commercianti spagnoli, vista
l'ingenuità degli indios, si arricchivano alle loro spalle. I Gesuiti
dovettero assumere personalmente il commercio esterno.
Sensibilità artistica degli indios
La prosperità delle Riduzioni veniva anche dall'artigianato e dall'industria soprattutto tessile. Nelle
cittadine esistevano fonderie di metalli, laboratori di falegnameria,
forni per la cottura di vasellame, stabilimenti per la filatura e
tessitura delle fibre vegetali e animali (lana, cotone, lino), cantieri
per la fabbricazione di canoe e zattere, laboratori artigianali per la
produzione di cappelli, scarpe, strumenti musicali. L'industria grafica
ebbe grande sviluppo: quando Buenos Aires era ancora priva di una
stamperia (la prima venne impiantata nel 1780), nelle Riduzioni già si
pubblicavano ottimi libri. Questa la grande rivoluzione dei missionari, rispetto alle "encomiendas" spagnole: la
scuola nelle lingua degli indios, debitamente scritta e stampata. Il
Guaranì, che ancor oggi è una lingua praticata dagli indios (molte
lingue indie sono scomparse), venne studiato dai padri e scritto in
caratteri latini; poi si avviò la stampa di sillabari, grammatiche,
vocabolari, raccolte di proverbi, favole e miti della tribù, oltre che
catechismi (il cosiddetto "Catechismo breve" in lingua guaranì è ancor
oggi un modello classico di sintesi del cristianesimo), traduzioni del
Vangelo, libri di devozione, testi religiosi e civili anche tecnici
(sull'agricoltura e la medicina).
I
padri apprendevano il guaranì, insegnavano e predicavano in guaranì. Va
notato che ancor oggi il guaranì, grazie all'opera di Gesuiti e
Francescani nelle loro Riduzioni (anche i Francescani ebbero Riduzioni
in Paraguay, oltre che in altri paesi latino-americani), è riconosciuto
lingua nazionale del Paraguay assieme allo spagnolo e parlato anche
dagli indigeni di tribù diverse.
E gli indios guaranì hanno acquisito, grazie alla loro lingua e cultura
salvate dalle Riduzioni, una coscienza della loro unità e dignità come
popolo, che mantengono ancor oggi. Nelle
Riduzioni, lo spagnolo era insegnato solo a pochi elementi che
ricevevano un'educazione superiore (alcuni giovani venivano inviati a
studiare nel Collegio dei Gesuiti ad Asunciòn) e restò comunque una
lingua straniera.
La liturgia,
i canti, la danza, il teatro, l'arte sacra, l'artigianato erano molto
curati ed avevano lo scopo di educare gli indios (che vivevano,
ricordiamolo, in epoca preistorica) a sentimenti di umanità e di fede e
alla vita comunitaria (fraternità, aiuto vicendevole, ecc.). Il canto e
la danza erano il passatempo favorito, a servizio della cultura
religiosa: vi erano cori polifonici, orchestre con musiche strumentali;
le danze e il teatro erano simbolici di soggetti sacri (la lotta di San
Michele col Drago, la visita dei Magi a Gesù) o della storia locale.
Nella scultura e pittura, gli indios diedero prova di qualità
insospettabili. I due Musei delle Riduzioni che ho visitato, a
S. Ignazio Guazù e a Santa Rosa (ambedue in Paraguay), conservano
meravigliose sculture in legno, argilla, metallo, pietra, e pitture su
tela e su tavole di legno. Tutta questa produzione artistica artigianale
rivela negli indios un alto grado di sensibilità e una prodigiosa
abilità manuale: notevoli soprattutto i volti di Gesù, di Maria, dei
santi rappresentati, con espressioni intense.
I
Guaranì si distinguevano anche nella musica e nel canto. Nella
Riduzione di Yapeyù il padre Antonio Sepp (di Brixen-Bressanone) creò un
vero centro di educazione musicale, la cui fama si estese a tutto il
Rio de la Plata, fino a Buenos Aires, dove cantanti e compositori di
musica indios venivano chiamati per rappresentazioni in teatri. Nella
Riduzione di Yapeyù si producevano strumenti musicali (violini, arpe,
flauti, pifferi) e persino organi. Come tutti i "primitivi" negati alla
speculazione, i Guaranì erano perfetti imitatori di modelli europei, che
arricchivano con la loro sensibilità e tradizione artistica.
Sotto la guida di esperti fratelli coadiutori gesuiti, diventarono non
solo agricoltori e allevatori, ma tessitori, muratori, scultori,
pittori, muratori, fonditori di campane. Stampavano
essi stessi i libri, incidendo i caratteri ed i disegni nel legno.
Nelle Riduzioni è nata, all'inizio del 1700, la prima tipografia del Sud America!
Le Riduzioni erano un "comunismo cristiano"?
Il
sistema educativo delle "Riduzioni" può essere definito di
"paternalismo illuminato". Oggi, naturalmente, è improponibile. Però
funzionò benissimo per un secolo e mezzo. In
tre-quattro generazioni, i missionari portarono gli indios da uno stato
del tutto primitivo (tra l'altro, praticavano l'antropofagia rituale)
ad un livello di civiltà piuttosto elevato e ad una sicurezza di vita,
che mai prima avevano conosciuto.
Due inchieste, condotte dalle autorità civili spagnole e dalle autorità
ecclesiastiche del tempo (alla fine del 1600), stabilirono che gli
indios delle Riduzioni vivevano "senza opulenza ma in decorosa
autosufficienza".
I
proventi dell'agricoltura e dell'artigianato erano impiegati non solo
per potenziare le strutture produttive, ma anche per incrementare la
cultura e l'istruzione degli indios. Le Riduzioni riassumono bene il
"metodo missionario" che ho visto tante volte nelle missioni in ogni
parte del terzo mondo, a contatto con popolazioni "primitive";
ultimamente ancora in Amazzonia dai missionari del Pime che vi lavorano
da 50 anni. Uno dei quali mi diceva: "Se
arrivi in un popolo che non ha la scuola, prima costruiamo la scuola e
poi la chiesa. Perché la chiesa senza la scuola non produce buoni
cristiani".
Ecco
dove, soprattutto, le Riduzioni sono esemplari ancor oggi. Il padre
José Marx, studioso delle Riduzioni nei testi antichi dei Gesuiti (Mi
riferisco soprattutto alle sue "Reducciones Jesuiticas Guaranies",
pubblicate annualmente dal 1988 al 1992 come "calendari", con foto
originali e ampi testi di ricostruzione storica. Vedi pure il suo "Las
Misiones Jesuiticas", Capiovy 1994), mi dice che una
delle preoccupazioni dei padri era che ogni cittadina avesse scuole e
una buona biblioteca di libri in guaranì e in spagnolo. La "Riduzione
di Santa Maria la Mayor" aveva una biblioteca di 445 volumi; quella dei
Santi Martiri 382; Nostra Signora di Loreto (oggi si visita con
difficoltà perché totalmente sommersa dalla selva, in Argentina) 315;
Corpus Christi 460, La Candelaria 4.725 volumi. Pare
impossibile che, nel bel mezzo della foresta tropicale, indios che
venivano dall'età della pietra fossero educati a leggere opere che
prendevano a prestito da una biblioteca! Si trattava certo di alcuni
elementi più preparati, che collaboravano con i padri per opere di
studio e scientifiche.
Ancora padre Marx ricorda che nella
Riduzione di San Cosma e Damiano (oggi molto ben restaurata, in
Paraguay) si costruì un Osservatorio astronomico. Il padre Bonaventura
Suarez lavorò per trent'anni con gli indios, all'inizio del 1700,
fabbricando telescopi, un pendolo astronomico con l'indicazione dei
minuti e dei secondi, un quadrante astronomico, ecc. Le
osservazioni astronomiche di questo missionario dalle Riduzioni del
Paraguay, le prime fatte con metodo scientifico dal Sud del globo,
venivano pubblicate dagli Annali dell'Università di Uppsala in Svezia.
Com'era la vita nella Riduzioni?
Come si svolgeva
la vita quotidiana nelle "Riduzioni"? Come in un collegio o in un
seminario, ma in un'atmosfera non di costrizione, sebbene di
partecipazione, di condivisione. Le famiglie che non accettavano di
vivere con i padri potevano andarsene liberamente (anche se ciò era
molto difficile, quando tutto il clan restava). La giornata era
regolata da un orario molto preciso. Si è parlato di un "socialismo" o
"comunismo" cristiano. Definizione certamente errata, se la prendiamo in
senso politico o ideologico. Abbastanza vicina al vero in senso
culturale-sociale. Più giusto parlare di un "sistema teocratico" nel
quale tutta la vita
individuale e sociale girava attorno al perno della religione cristiana.
Questo non era contrario alla cultura dei Guaranì, impregnata di
religiosità e di vita comunitaria.
Il
problema affrontato dai missionari era come educare gli indios al
cristianesimo non solo con la predicazione e la catechesi, la liturgia, i
canti e le sacre rappresentazioni, ma anche modificando a poco a poco,
senza violenza ma con il consenso e la pressione della comunità, i
costumi degli indios che non si accordavano con la legge naturale e il
cristianesimo. Ad esempio, la poligamia,
che era regola generale: i cacicchi avevano anche venti mogli o
concubine obbligate alla fedeltà, pena gravi punizioni compresa la
morte. Attraverso l'educazione dei giovani, la solennità dei matrimoni
fra i cristiani, la tolleranza verso i poligami che però si sentivano
fuori posto, nel giro di due-tre generazioni i padri riuscirono ad
introdurre e ad affermare il matrimonio monogamico.
Il
segreto del successo fu, ancora una volta, l'educazione, la scuola. Le
città nella selva contavano 400-500 alunni su 5-6.000 abitanti, un vero
primato per quell'epoca, anche in confronto all'Europa del seicento. La scuola impegnava i ragazzi e le ragazze dal mattino alla sera.
La vita dei villaggi incominciava presto: i Guaranì erano
spontaneamente mattinieri, si alzavano prima del sole e andavano a
dormire al tramonto. Alle quattro e un quarto in estate, alle cinque e
un quarto in inverno, le campane o i tamburi suonavano la sveglia. Poco
dopo, gli "alcaldes" giravano per le vie gridando: "Fratelli, è l'ora,
mandate i vostri figli alla preghiera!". I ragazzi andavano in chiesa a
cantare la dottrina cristiana fino al levar del sole, quando venivano
anche gli adulti per le preghiere del mattino. Seguiva la colazione
comunitaria e poi la scuola, che aveva fini essenzialmente pratici:
insegnamento della lingua guaranì e della matematica, ma anche
dell'agricoltura, tessitura, falegnameria, artigianato; taglio, cucito e
ricamo per le bambine e ragazze. Musica e canto avevano largo spazio
nell'educazione delle Riduzioni. La scuola, rigorosamente separata per
maschi e femmine, durava fino a pomeriggio inoltrato, con l'interruzione
per il pranzo.
Per
gli adulti la giornata lavorativa durava dalle quattro alle sei ore:
erano impegnati soprattutto nella coltivazione dei campi comunitari e
nell'allevamento degli animali, ma non pochi attendevano alla tessitura e
ad altre forme di lavori manufatturieri o al servizio sanitario: ogni
Riduzione aveva i suoi infermieri, la sua farmacia, a Yapeyù e
Candelaria furono costruiti veri e propri ospedali. Il tempo libero
durante la giornata era molto, per le faccende di casa e la vita
familiare, la coltivazione dei piccoli appezzamenti privati, la caccia e
la pesca, il canottaggio molto praticato dai guaranì.
Alla
domenica il lavoro era proibito (anche il giorno di giovedì era
considerato semi-festivo, si lavorava solo per particolari urgenze): si
dava molta importanza alla Messa solenne del mattino, con canti, danze,
processioni, catechesi; poi si celebravano giochi e gare sportive
(specie tiro con l'arco), parate militari, danze, teatri ed esecuzioni
musicali per le quali i Guaranì erano particolarmente dotati. I teatri
consistevano in rappresentazioni religiose, ma anche in commedie tratte
dalla vita di tutti i giorni e farse, comiche. Per quasi ogni festa si
organizzavano grandi banchetti per il villaggio. Le tavole erano
preparate nella grande piazza , ogni tavolata era presieduta da un
notabile. Si servivano "carni, polli arrosto, legumi, panini, miele,
arance, pesche e maté".
In
tali occasioni si beveva un po' di vino o di "chica" (una specie di
birra locale), fatto eccezionale perché i Gesuiti avevano proibito l'uso
di bevande alcoliche ed erano riusciti ad estirpare una delle piaghe
più gravi degli indios, l'ubriacatura di "chica". L'orchestra
suonava fino a sera. Di notte vigeva il coprifuoco e tre volte durante
la notte risuonavano i tamburi per indicare i turni di veglia delle
sentinelle. Le Riduzioni vivevano nel perenne timore di essere assaltate
dall'esterno!
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Postato da: giacabi a 18:56 |
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cristianesimo, gheddo
Cristo trasforma l’uomo: da oggetto lo rende persona
***
Le "Reducciones"
di Piero Gheddo
Muraglie
diroccate, blocchi di pietra rossastra finemente lavorati ricoperti di
muschio e licheni, pareti e colonne mangiate e sommerse dalla fitta
vegetazione, enormi chiese abbandonate e perse nella selva, città con
ampie vie e piazze ridotte a imponenti rovine di pietra: è quanto rimane
delle "Reducciones" dei gesuiti, tra il Paraguay e la provincia
argentina di Misiones. Solo il silenzio percorre ancora i solitari
cammini di pietra.
Le voci e i canti degli indios si sono estinti. La foresta ha sommerso i
resti dell'esperienza missionaria più interessante nella storia moderna
delle missioni. I Gesuiti (e altri missionari perché le
Riduzioni ebbero per due secoli vasta diffusione in tutta l'America
spagnola) tentarono di ripetere l'opera di colonizzazione e
civilizzazione dei monasteri benedettini nell'Europa del Medio Evo,
quando i monaci salvavano la cultura antica greco-romana, predicavano il
Vangelo, ma insegnavano anche l'agricoltura e l'artigianato a popoli
nomadi che venivano ad abitare in villaggi, con strade, botteghe,
commerci, scuole, persino università.
Il
viaggiatore che va da Iguazù a Posadas, in Argentina, su una strada
dritta come la spada di un "conquistador", passa tra foreste foltissime
di araucarie ed eucalipti che rendono il paesaggio un graduale
inserimento nell'ambiente delle "Riduzioni", cioè nella natura com'era
tre-quattro secoli fa, quando i Gesuiti giunsero da queste parti. Il governo argentino ha giustamente conservato intatto un vastissimo parco naturale che parte dalle "cataratas" di Iguazù (le grandiose cascate da cui ha inizio il film "Mission") e arriva fin quasi al primo gruppo di rovine dello "Stato gesuitico dei Guaranì".
L'arrivo
a S. Ignacio Minì e l'entrata nel villaggio costruito quasi quattro
secoli fa nella selva mettono davanti a resti imponenti, che subito
fanno capire cos'erano le "Riduzioni". Non villaggi con casupole di
paglia e fango, com'era e com'è ancor oggi nel costume degli indios, ma cittadine
costruite in pietra e legno, per durare nel tempo. Nell'architettura
massiccia di queste case, chiese, magazzini, laboratori, c'è un'armonia
vigorosa che non tende verso l'alto, ma è fermamente orientata alla
terra, alla vita, alla fondazione di una civiltà nuova, alternativa a
quella che i colonizzatori spagnoli costruivano, con tutt'altro spirito,
a poca distanza.
Ero
già stato in Argentina e Paraguay, ma in questo viaggio ho avuto
l'unico scopo di visitare le "Reducciones", dopo alcuni resti che avevo
visto in Uruguay (la capitale Montevideo è stata fondata dai Gesuiti e
dagli indios delle "Reducciones") e nel Brasile del sud. Guidato
dall'amico padre José Marx, S.V.D., che vive qui da più di trent'anni ed
è uno studioso fra i più esperti delle "Reducciones", ho visitato le
rovine nella provincia argentina di Misiones e in Paraguay, divise dal
Rio Paranà. Delle circa venti "Reducciones" ne ho viste una decina, con i
due Musei di S. Ignacio Guazù e di Santa Rosa in Paraguay. Le rovina
sono grandiose, anche se in buona parte ancor sommerse dalla foresta.
Tre-quattro secoli di abbandono, con saccheggi, incendi, distruzioni
programmate e l'usura del tempo e del clima non sono bastati a far
scomparire le tracce di quell'esperienza. Come sono nate e si sono
sviluppate le "Reducciones"?
"Gli indios sono uomini come i bianchi?"
Nel novembre dell'anno 1609,
sei gesuiti partono da Asunciòn, dividendosi in tre gruppi e dirigendosi
verso la regione abitata dagli indios Guaranì, le foreste di cui era
circondato il Rio Paranà, vera spina dorsale del Sud America. Dieci anni
prima, altri missionari avevano portato ad Asunciòn la notizia di una
straordinaria scoperta: nelle selve tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay
viveva una razza di indios valorosi, fieri della loro lingua e cultura, i
Guaranì, un materiale umano ben più prezioso, per i missionari, che gli
abbaglianti sogni delle miniere d'oro e di pietre preziose che
stimolavano i "conquistadores" spagnoli.
Studiata
l'impresa, la Compagnia di Gesù aveva chiesto alla Corona di Spagna il
permesso di lavorare fra quegli indios, riservandoli alle loro cure, per
farne cittadini dell'Impero spagnolo e buoni cristiani. Il
26 novembre 1609, data che è considerata l'inizio di questa esperienza,
il luogotenente generale del governatore del Paraguay e del Rio de la
Plata, emanò un'ordinanza con la quale proibiva agli spagnoli di entrare
nella zona del Rio Paranapanema (in lingua Guaranì) per reclutarvi
indios per il servizio personale; gli indigeni erano affidati alla sola
Compagnia di Gesù.
Nel
1609 è passato più d'un secolo dalla scoperta dell'America, ma
l'immenso continente è ancora quasi inesplorato. La vera colonizzazione
spagnola (e portoghese in Brasile) incomincia nel secolo XVII, il 1600.
In Europa nasce (in Inghilterra nel 1616) la prima idea di democrazia
("one man, one vote", ogni uomo un voto), ma nelle Americhe si discute ancora se gli indios hanno un'anima o no, se sono uomini come i bianchi o no.
Discussione che oggi appare assurda, inverosimile. Ma viene da
un'interpretazione letterale della Bibbia, che non parla di questo nuovo
continente da poco scoperto. Allora,
gli indios sono uomini come i cristiani d'Europa destinati alla
redenzione in Cristo o sono "homines silviculi" (uomini della selva), a
metà strada fra il genere umano e gli animali selvatici? Hanno capacità
intellettuali e morali o agiscono per istinto come gli animali? Hanno
veramente un'anima immortale o qualcosa d'altro?
La
Chiesa e i teologi si pronunziano chiaramente sulla natura umana di
indios e neri, anche se alcuni teologi sostenevano che gli indios
andavano sì battezzati, ma le loro capacità intellettuali limitate
sconsigliavano di dar loro gli altri Sacramenti. Lo
stesso Re di Spagna pubblica numerose leggi e decreti per condannare la
schiavitù e i cattivi trattamenti a cui gli indios erano sottoposti. Ma
i pregiudizi sono duri a morire, specie quando c'è sotto un grosso
interesse economico. Nel diritto coloniale spagnolo (e portoghese) gli
indios erano equiparati a minori bisognosi di protezione, di stimolo al
lavoro organizzato, di organizzazione della loro vita sociale secondo
schemi europei. Non si concepiva
altra "civiltà" che quella europea, cui anche gli indios dovevano
accedere: ma, essendo primitivi e selvatici, bisogna condurveli con
metodi paternamente costrittivi, come si fa con i ragazzi, mentre li si
istruisce nel cristianesimo e quindi si civilizzano i loro costumi.
Partendo
da questi presupposti, la Corona di Spagna affida gli indios ai
colonizzatori (assistiti dai missionari per la parte religiosa),
affinché li inquadrino nel lavoro, insegnando loro a lavorare la terra,
istruendoli nella dottrina cristiana e avviandoli alla "civiltà". Nasce
così l'istituto della "encomienda", per cui ad un colono viene affidato
un vasto territorio da colonizzare: gli indios che vi sono dentro sono
sotto la sua autorità e protezione. Naturalmente l'"encomienda"
ha delle regole ben precise (proibito ridurre gli indios in schiavitù,
chi non vuole starci può andarsene, proibito l'uso della frusta o altri
maltrattamenti, ecc.) e si conoscono anche casi di coloni spagnoli
condannati dai tribunali spagnoli per abusi sugli indios (quasi sempre
in seguito a denunzie di missionari). Però, in pratica, nell'immenso
continente quasi spopolato e senza strade, nella sua "encomienda" il
colono era re e signore assoluto.
Una colonizzazione alternativa degli indios
Si può notare la differenza sostanziale fra la colonizzazione spagnola (e portoghese) dell'America centrale e meridionale e la colonizzazione inglese nel Nord America. Mentre nell'America
Latina bianchi e indios si sono mescolati, creando il meticciato (data
la scarsezza di donne spagnole, i coloni ed i militari spagnoli finivano
per sposare donne indie), nell'America
del Nord i coloni scacciano i pellerossa dalle loro terre, conducendo
vere guerre di sterminio per occupare tutto il territorio (come è pure
accaduto in Australia e in Sud Africa con altri colonizzatori
anglosassoni e protestanti!).
Nell'America
spagnola, le navi e le armate dei "conquistadores" erano sempre
accompagnate dai missionari, anch'essi inviati dalla Corona spagnola,
che concepiva la colonizzazione come un'opera di fede e di civiltà. È noto il travagliato rapporto fra missionari e colonizzatori spagnoli (e portoghesi in Brasile).
Soprattutto sono note le proteste di non pochi missionari contro i
metodi schiavisti dei coloni (Bartolomeo de las Casas è solo uno fra i
tanti) e l'azione dei Papi (bolle e scomuniche contro chi praticava la
schiavitù) per mitigare i metodi della colonizzazione.
Com'è noto il grande lavoro teologico e giuridico della Chiesa per
scalzare alla base le teorie razziste che guidavano i coloni: Francesco de Vitoria sostiene,
nella prima metà del 1500 (prima ancora di Las Casas), la tesi secondo
cui gli indios (anche se infedeli e primitivi) sono uomini come i
bianchi, hanno i diritti dei bianchi e devono essere rispettati da
tutti, soprattutto dai cristiani.
Meno nota è l'epopea
delle "Riduzioni" che ha rappresentato il tentativo riuscito di creare
un altro tipo di colonizzazione, rispettosa dell'uomo e delle culture,
in alternativa a quella praticata da spagnoli e portoghesi nelle
Americhe. Stranamente, questo capitolo glorioso delle
missioni è dimenticato, mentre, credo, rappresenta bene lo spirito, gli
scopi, i metodi dei missionari del passato, quando si incontravano con
popoli diversi e di civiltà orale (o "primitivi").
Riprendiamo il racconto dei sei
Gesuiti che, partiti da Asunciòn nel novembre 1609, arrivano nelle
foreste del Rio Paranà dove vivono i Guaranì. Due di questi (Marziale
Lorenzana e Francisco di San Martìn), con l'aiuto di alcuni Guaranì già
convertiti, entrano in contatto con un clan della tribù e spiegano loro i
vantaggi di una volontaria sottomissione alla Corona di Spagna
attraverso i Gesuiti, evitando così la "encomienda" che li avrebbe messi
nelle mani dei coloni spagnoli. Il 29 dicembre 1609 si fonda la prima
"Riduzione" 200 chilometri a sud di Asunciòn, intitolata a S. Ignazio
Guazù (maggiore, oggi in Paraguay), per distinguerla dall'altra
Riduzione intitolata a S. Ignazio Mini (minore, oggi in Argentina)
fondata nel 1610 da due altri Gesuiti (Simone Mascetti e Giuseppe
Cataldini).
L'anno
seguente (1611), visti i buoni risultati delle prime due Riduzioni, le
autorità spagnole emanano vari decreti che esentano dall'"encomienda"
gli indios sottomessi ai Gesuiti, vietano l'accesso di spagnoli e
meticci ai territori affidati ai Gesuiti; e fissano norme precise per le
"encomiendas" spagnole (ad esempio, gli
indios hanno diritto ad un salario fissato dalla legge), proibendo
ancora la schiavitù, anche con schiavi comperati legalmente (le tribù
Guaycurùs e Tupì catturavano indiani di altri gruppi tribali e li
vendevano agli spagnoli). Interessante notare che ci fu, nella regione
del Paraguay, una levata di scudi da parte dei coloni spagnoli ed i
Gesuiti, accusati di essere all'origine di queste norme troppo
garantiste per gli indios, reagirono proclamando peccato mortale la non
osservanza di quei decreti del governatore spagnolo!
Le Riduzioni si difendono da indios e portoghesi
Così
incomincia l'esperienza delle "Riduzioni". Rimandando alla seconda
parte del nostro servizio la descrizione dell'organizzazione interna di
queste comunità, vediamo come cresce e si afferma il sistema dello
"Stato gesuita", tra pericoli da parte degli indios e dei portoghesi. I
primi attacchi vengono da parte degli stessi indios Guaranì delle
foreste. Il "cacicco"
(capo) Carupé e lo stregone Nezù, invidiosi dell'ascendente dei nuovi
capi e stregoni bianchi, nel novembre 1628 fanno uccidere tre Gesuiti a
Candelaria (la Riduzione centrale in cui vivevano i missionari a capo di
tutto il sistema) e scatenano una vera guerra contro la missione: circa
1.500 indios chiamati da gruppi nell'interno della foresta si
avvicinano al villaggio, seminando morte e distruzione. I Gesuiti
organizzano la difesa e mandano messaggeri per chiedere aiuto: ottengono
dieci archibugieri spagnoli e oltre mille guerrieri indios provenienti
da altre Riduzioni dei Gesuiti e dei Francescani. La guerriglia dura
circa un mese e si conclude con lo scontro decisivo del 20 dicembre
1628, vittorioso per la difesa di Candelaria. Le centinaia di
prigionieri sono quasi tutti liberati e ritornano ai loro clan
magnificando la potenza dei Gesuiti e il loro perdono. Solo dodici
vengono impiccati dal "braccio secolare", non senza essere prima
convinti dai missionari a pentirsi ed a farsi battezzare!
Molto
più grave il pericolo degli assalti portoghesi, provenienti da San
Paolo, città fondata nel 1554 da due Gesuiti portoghesi, José Anchieta e
Manuel da Nobrega, proprio come "Riduzione" per l'istruzione e la
conversione degli indiani, ma presto affermatasi come centro propulsore
della conquista portoghese verso l'interno del continente e come
crogiolo di razze dove nasce la nazionalità brasiliana. La popolazione
paulista si è formata fin dall'inizio con un meticciato tra portoghesi,
indios e altri gruppi di immigrati europei.
Nel 1600 i paulisti (chiamati "mamaluchi" cioè meticci) erano un popolo
forte e numeroso che, pur sottomesso alla Corona di Lisbona, avevano
una loro autonomia e dimostravano una potente vitalità espansionistica
verso ovest. Alleatisi con gli indios Tupì, nemici tradizionali dei
Guaranì, estendono il dominio portoghese con delle spedizioni armate
chiamate "bandeiras" (di qui il nome di "bandeirantes" dato ancora oggi
ai paulisti) che avevano due scopi: esplorare il territorio scoprendo
eventuali ricchezze minerarie (soprattutto oro!), affermando il possesso
dei portoghesi sulle terre scoperte; e trovare indios da portare a San
Paolo come schiavi. Queste spedizioni fanno indietreggiare a poco a
poco, a favore del Portogallo, i confini stabiliti dal Trattato di
Tordesillas (1493) fra i domini spagnoli e portoghesi in America.
A
partire dal 1612-1615, i paulisti incominciano ad assaltare le
Riduzioni dei Gesuiti del Guayrà. La Spagna aveva proibito agli indios
di usare le armi. Le Riduzioni non potevano difendersi ed essendo ben
stabilite sul territorio in una regione abbastanza ristretta,
rappresentavano per i mamaluchi una preda ambita (gli altri indios da
catturare erano dispersi nelle foreste!). Secondo notizie del tempo, i
paulisti avevano catturato, dal 1612 al 1639, ben 300.000 indios nei
territori spagnoli; secondo un'altra relazione, dal 1628 al 1630 i
Gesuiti perdevano 60.000 neofiti per opera dei "bandeirantes"; nel
1635-1637, ben trenta Riduzioni erano saccheggiate e distrutte dai
paulisti: decine di migliaia di indios dispersi, uccisi o catturati come
schiavi. Gli spagnoli del Paraguay non intervenivano, per la lontananza
dei posti, per l'insufficienza delle loro forze armate e anche per
l'antipatia verso l'esperienza dei Gesuiti che molti si auguravano
venisse interrotta.
La battaglia sul Rio Uruguay e un secolo di pace
I missionari decidono di
reagire nell'unico modo possibile, cioè rendendo autonome anche nella
difesa le loro Riduzioni, come già lo erano in campo produttivo,
amministrativo, commerciale, ecc. Nel 1638 il gesuita Ruiz de Montoya,
il missionario più importante nella storia delle Riduzioni, viene
mandato in Spagna per ottenere il permesso di armare gli indios. La
Corte rimanda la decisione al Viceré di Lima (sensibile alle ragioni dei
Gesuiti perché difendono i possedimenti spagnoli dai paulisti): Le
Riduzioni si armano e gli indios vengono addestrati all'uso delle armi
moderne. Nel 1639 per la prima volta gli indios Guaranì si difendono e
volgono in fuga gli assedianti paulisti a Caapaza Guazù.
La
sconfitta brucia ai paulisti che preparano una maxi spedizione per
finirla con i Gesuiti spagnoli e i loro Guaranì. Nel 1641, 500 mamalucos
con 2.500 Tupì, su 900 canoe e un poderoso armamento, scendono il corso
del Rio Uruguay. Ma non sanno di essere attesi e che le Riduzioni hanno
organizzato bene l'avvistamento e la difesa. 4.000 guerrieri guaranì,
organizzati dal fratello gesuita Domingo Torres, veterano dell'esercito
spagnolo, sono pronti ad accorrere al primo cenno. L'11 marzo 1641 i
paulisti subiscono un imprevisto attacco a fuoco sul Rio Uruguay: i
Guaranì, con 300 fucili e persino un rudimentale cannone, sbaragliano
gli attaccanti. Un massacro. Dispersi nelle foreste circostanti, i
paulisti chiedono una tregua che è loro rifiutata. La battaglia prosegue
in acqua e per terra: alla fine, si contano circa duemila morti fra i
Tupì e i mamalucos, che abbandonano ai Guaranì 600 canoe e 300 fucili e
archibugi.
Questa
battaglia sull'alto Rio Uruguay ha cambiato la mappa politica del Sud
America: se avessero vinto i paulisti, non solo l'esperimento delle
"Reducciones" sarebbe finito 127 anni prima di quanto poi è successo, ma
il dominio portoghese si sarebbe esteso fino a tutto il Paraguay
attuale, tagliando le comunicazioni fra i possedimenti spagnoli sul Rio
de la Plata (Buenos Aires), il Perù e la Bolivia. La
battaglia segna l'inizio, per le Riduzioni gesuitiche, di una pace che
dura più di un secolo. Incomincia la fase di espansione e di
consolidamento della missione gesuitica.
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Postato da: giacabi a 16:48 |
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cristianesimo, gheddo
Cristo trasforma l’uomo:
***
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Postato da: giacabi a 16:00 |
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bellezza, cristianesimo
Lettera di Vicky, sieropositiva accolta al Meeting Point di Kampala,
letta da don Julián Carrón alla giornata d'inizio anno di CL a Roma
***
Mi
chiamo Vicky, ho 42 anni e vengo dalla regione orientale dell’Uganda.
Voglio ringraziare voi e Dio per la vita preziosa che mi ha dato. Nel
1992, quando rimasi incinta del mio ultimo figlio, Brian, mio marito mi
pose davanti alla scelta se rimanere sua moglie, rinunciando alla
gravidanza, o separarmi da lui se volevo tenere il bambino. A
quell’epoca avevo solo due figli, e decisi di portare avanti la
gravidanza, cosa che segnò la fine della mia relazione con lui. Davvero non capivo perché lui fosse così crudele e intransigente.
Poi nel 1997 persi il lavoro a causa della malattia, e nello stesso
tempo il mio bambino, Brian, manifestò sintomi di tubercolosi, ed ebbi i
primi sospetti. L’anno seguente mi aggravai e nell’ospedale di
Nsambiya fui visitata e sottoposta al test Hiv, che risultò positivo.
Fu allora che ricordai e capii perché mio marito non aveva voluto la
gravidanza di Brian: perché all’epoca anche lui era sieropositivo.
La vita in casa con i miei tre bambini si fece difficile. I due ragazzi erano sani, ma non avevamo i soldi per la scuola; non avevamo da mangiare, né soldi per le medicine, e peggio di tutto non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero. Nel 2001, qualcuno mi ha indirizzato al Meeting Point International, dove ho incontrato donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate anche loro di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso; ballavano ed erano liete, e io mi chiedevo come uno che aveva questa malattia potesse cantare e ballare. Al Meeting Point vi accolgono con musiche e canzoni di popoli differenti, africani, europei, indiani, ho persino trovato qualcuno della mia stessa tribù. Dopo lungo tempo ho cominciato a vedere una luce far capolino nel mio essere a pezzi, così ho preso a stare con loro. Una cosa importante, che non ho mai dimenticato, è il giorno in cui qualcuno mi ha guardato con uno sguardo che aveva in sé i raggi della speranza e dell’amore. In tutto questo tempo io ero costretta a letto, e tutti i miei amici, i parenti, persino i vicini guardavano con rifiuto e disprezzo me e i miei bambini. Con questo sguardo di amore e speranza che qualcuno mi ha rivolto, mi ha mostrato qualcosa che ha portato la vita nel mio spirito e nel mio corpo a pezzi. Mi ha detto: “Vicky! Tu hai un valore, e il tuo valore è più grande del peso della tua malattia e della morte”. Nel 2002 iniziai a comprare farmaci per il mio bambino che stava per morire, dopo averlo tolto dalla scuola per il marchio di discriminazione con cui era bollato: lo avevano soprannominato “scheletro”. Nel 2003 cominciai a comprare farmaci anche per me. Allora pesavo 45 chili, oggi ne peso 75. Brian adesso è davvero sano e ha ripreso la scuola secondaria. Il mio ragazzo più grande è all’università, il secondo fa la quarta superiore. Dov’è il potere della morte? È nella perdita della speranza e nella mancanza d’amore. Ora sono volontaria al Meeting Point, e ogni volta che ricevo delle persone dico loro che il valore della vita è più grande di quello del virus che portano dentro di sé. Questa affermazione nutre la speranza di una persona che soffre e sta per morire, e la riporta alla vita. Tutti i miei risultati sono stati possibili perché mi sono rivestita di qualcosa oltre la morte, e in particolare d’amore. Grazie a tutte le persone che ci hanno educato anche se non li abbiamo visti in faccia; ma oggi, nel nome di Giussani, Carrón è venuto fra noi che eravamo poveri e dimenticati: chi è più ricco di noi adesso? Siamo i più ricchi del mondo, perché qualcuno ha recato un sorriso almeno sul volto di una persona. Ringrazia tutti loro che ci sono cari, e dì loro che li amiamo.»
a P.
foto Vicky al Meeting Point: |
Postato da: giacabi a 19:34 |
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testimonianza, cristianesimo
La religione non è un fatto privato***"La tradizione laico-liberale, che anche noi abbiamo assorbito in ciò che ci sembrava la sua positività, ha sempre detto che la religione è un fatto privato, che non si devono fare persecuzioni religiose, che ognuno è libero nella propria coscienza di adorare il Dio che vuole; che la religione è un fatto privato e che la vita pubblica invece è un'altra cosa: i rapporti pubblici, sociali fra gli uomini si regolano appunto in modo laico, cioè senza riferimento ad alcuna dimensione religiosa o trascendente; questa cosa fa parte ormai della coscienza comune, e se provi a dire il contrario diventi immediatamente un integralista; ebbene, io comincio ad avere dei dubbi su questo, rispetto ai problemi che la società contemporanea pone; e certe volte mi sembra il contrario.”Claudio Napoleoni |
Postato da: giacabi a 15:17 |
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comunismo, cristianesimo
Postato da: giacabi a 14:53 |
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medioevo, cristianesimo
ALLA FACCIA DELL’OSCURANTISMO
***
I monaci furono pionieri anche nella produzione del vino,
che usavano sia per la celebrazione della Santa Messa sia per il loro
consumo quotidiano, che la Regola di san Benedetto espressamente
permetteva. La stessa scoperta dello champagne si può far risalire a un monaco benedettino, Dom Perignon, dell'abbazia di Saint Pierre a Hautvillers sulla Marna.. Nominato cellario dell'abbazia nel 1688, Dom
Perignon arrivò allo champagne a forza di mescolare vini. I principi
fondamentali da lui stabiliti continuano a governare la manifattura
dello champagne.
T.Woods Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale.Cantagalli
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Postato da: giacabi a 18:50 |
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cristianesimo, wodds
La sedia di Péguy
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«Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone né per gli intenditori né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta per sé, in sé, nella sua stessa natura. Esigevano che quella gamba fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio con cui costruivano le cattedrali». E
sono solo io - io ormai così imbastardito - a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c'era allora neppure l'ombra di una riflessione.
il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o
di non essere visti. Era il lavoro in sè che doveva essere ben fatto."
Charles Péguy
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Postato da: giacabi a 14:38 |
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bellezza, cristianesimo, peguy
Omar e il sacro vino
***
Dionisio faceva del vino non una medicina, ma un sacramento.
Omar, invece, ne fa non un sacramento, ma una medicina.
Egli si dà al piacere perché la vita non è gioiosa;
gozzoviglia perché non è lieto.
“Bevi” dice “poiché non sai donde vieni né perché.
Bevi, perché non sai quando te ne andrai né dove.
Bevi, perché le stelle sono crudeli
e il mondo è vano come una trottola musicale.
Bevi, perché non c’è nulla degno di fiducia, nulla degno di lotta.
Bevi perché tutte le cose sono scivolate
in una meschina uniformità e in una pace maligna”.
Così si leva offrendoci la coppa nella sua mano.
E sull’eccelso altare del cristianesimo si leva un’altra figura,
nella cui mano è un’altra coppa di vino.
”Bevete”dice “perché l’intero mondo è rosso come questo vino,
per il vermiglio dell’amore e della collera divina.
Bevete, perché le trombe chiamano alla battaglia
e questo è il bicchiere della staffa.
Bevete per questo mio sangue del nuovo testamento
che è sparso per voi.
Bevete, perché io so donde venite e perché.
Bevete, perché io so quando ve ne andrete e dove”.
Chesterton Eretici
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Postato da: giacabi a 18:11 |
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cristianesimo, chesterton
Il vero volto del comunismo
LA LEZIONE DEL 28 OTTOBRE…
***
Il
28 ottobre prossimo in Vaticano saranno beatificati 498 martiri della
feroce persecuzione religiosa esplosa in Spagna dopo il 1931 e
specialmente fra il 1934 e il 1936. Una cerimonia di massa di tali
proporzioni non ha precedenti. Aveva cominciato Giovanni Paolo II
beatificando nel 1987 tre suore carmelitane che erano state crudelmente
massacrate per le strade di Madrid. Poi papa Wojtyla celebrò altre
undici cerimonie di beatificazione per un totale di 465 martiri
spagnoli. Domenica prossima saranno dichiarati beati 2 vescovi, 24
preti, 462 religiosi e religiose, 2 diaconi, 1 seminarista e 7 laici,
tutti vittime di quella persecuzione. Sarà l’occasione
per conoscere una delle più sanguinarie tempeste anticristiane
scatenate nell’Europa del nostro tempo ad opera dei rivoluzionari
repubblicani (una miscela di comunismo, socialismo, anarchia e
laicismo). “Mai
nella storia d’Europa e forse in quella del mondo” ha scritto Hugh
Thomas “si era visto un odio così accanito per la religione e per i suoi
uomini”. Chiese e conventi (con una quantità di opere d’arte) furono
incendiati e distrutti. In pochi mesi furono ammazzati 13 vescovi, 4.184
sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 suore e un numero
incalcolabile di semplici cristiani la cui unica colpa era portare un
crocifisso al collo o avere un rosario in tasca o essersi recati alla
messa o aver nascosto un prete o essere madre di un sacerdote come
capitò a una donna che per questo fu soffocata con un crocifisso ficcato
nella gola.
Molti vescovi o sacerdoti sarebbero potuti fuggire, ma restarono al loro posto, pur sapendo cosa li aspettava, per non abbandonare la loro gente. Non colpisce solo l’accanimento con cui si infierì sulle vittime, inermi e inoffensive (per esempio c’è chi fu legato a un cadavere e lasciato così al sole fino alla sua decomposizione, da vivo, con il morto). Ma colpisce ancora di più la volontà di ottenere dalle vittime il rinnegamento della fede o la profanazione di sacramenti o orribili sacrilegi. Qua c’è qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza. Faccio qualche esempio. I rivoluzionari decisero che il parroco di Torrijos, che si chiamava Liberio Gonzales Nonvela, data la sua ardente fede, dovesse morire come Gesù. Così fu denudato e frustato in modo bestiale. Poi si cominciò la crocifissione, la coronazione di spine, gli fu dato da bere aceto, alla fine lo finirono sparandogli mentre lui benediva i suoi aguzzini. Ma è significativo che costoro, in precedenza, gli dicessero: “bestemmia e ti perdoneremo”. Il sacerdote, sfinito dalle sevizie, rispose che era lui a perdonare loro e li benedisse. Ma va sottolineata quella volontà di ottenere da lui un tradimento della fede. Anche dagli altri sacerdoti pretendevano la profanazione di sacramenti. O da suore che violentarono. Quale senso poteva avere, dal punto di vista politico, per esempio, la riesumazione dei corpi di suore in decomposizione esposte in piazza per irriderle? Non c’è qualcosa di semplicemente satanico? E il giovane Juan Duarte Martin, diacono ventiquattrenne, torturato con aghi su tutto il corpo e, attraverso di essi, con terribili scariche elettriche? Pretendevano di farlo bestemmiare e di fargli gridare “viva il comunismo!”, mentre lui gridò fino all’ultimo “viva Cristo Re!”. Lo cosparsero di benzina e gli dettero fuoco. Qua non siamo solo in presenza di un folle disegno politico di cancellazione della Chiesa. C’è qualcosa di più. A definire la natura e la vera identità di questo orrore ha provato Richard Wurmbrand, un rumeno di origine ebraica che in gioventù militò fra i comunisti, nel 1935 divenne cristiano e pastore evangelico, quindi subì 14 anni di persecuzione, molti dei quali nel Gulag del regime comunista di Ceausescu. Anch’egli aveva notato – nei lager dell’Est – questo oscuro disegno nella persecuzione religiosa. In un suo libro scrive: “Si può capire che i comunisti arrestassero preti e pastori perché li consideravano contro rivoluzionari. Ma perché i preti venivano costretti dai marxisti nella prigione romena di Piteshti a dir messa sullo sterco e l’urina? Perché i cristiani venivano torturati col far prendere loro la Comunione usando queste materie come elementi?”. Non era solo “scherno osceno”. Al sacerdote Roman Braga “gli vennero schiantati i denti uno ad uno con una verga di ferro” per farlo bestemmiare. I suoi aguzzini gli dicevano: “se vi uccidiamo, voi cristiani andate in Paradiso. Ma noi non vogliamo farvi dare la corona del martirio. Dovete prima bestemmiare Iddio e poi andare all’inferno”. A un prigioniero cristiano del carcere di Piteshti, riferisce Wurmbrand, i comunisti ogni giorno ripetevano in modo blasfemo il rito del battesimo immergendogli la testa nel “bugliolo” dove tutti lasciavno gli escrementi e costringevano in quei minuti gli altri prigionieri a cantare il rito battesimale. Altri cristiani “venivano picchiati fino a farli impazzire per obbligarli a inginocchiarsi davanti a un’immagine blasfema di Cristo”. Si chiede Wurmbrand, “cos’ha a che fare tutto ciò con il socialismo e col benessere del proletariato? Non sono queste cose semplici pretesti per organizzare orge e blasfemie sataniche? Si suppone che i marxisti siano atei che non credono nel Paradiso e nell’Inferno. In queste estreme circostanze il marxismo si è tolto la maschera ateista rivelando il proprio vero volto, che è il satanismo”. In effetti il libro di Wurmbrand s’intitola “Was Karl Marx a satanist?” ed è stato tradotto in italiano dall’ “editrice uomini nuovi” col titolo “L’altra faccia di Carlo Marx”. L’autore si spinge, indagando negli scritti giovanili di Marx e nelle sue vicende biografiche, fino a ritenere che trafficasse con sette sataniste. Peraltro nel brulicare di sette e società esoteriche di metà Ottocento sono tante le personalità che hanno avuto strane frequentazioni. E su Marx anche altri autori hanno fatto ipotesi del genere. Wurmbrand sostiene soprattutto che la filantropia socialista non era l’ispirazione vera di Marx, ma solo lo schermo, il pretesto per la sua vera motivazione che era la guerra contro Dio. Realizzata poi su larga scala con la Rivoluzione d’ottobre e quel che è seguito (nei regimi comunisti fatti, correnti, episodi e personaggi che portano in quella direzione sono chiari). Sul satanismo non so pronunciarmi, ma gli effetti satanici dell’esperimento marxista (planetario) sono sotto gli occhi di tutti anche se rimossi clamorosamente dalla riflessione pubblica: la più colossale e feroce strage di esseri umani che la storia ricordi e la più vasta guerra al cristianesimo di questi duemila anni. Siccome capita di sentir formulare, in ambienti cattolici, giudizi indulgenti sugli “ideali dei comunisti”, che sarebbero poi stati traditi nella pratica o mal tradotti, è venuto il momento di definire una buona volta la natura satanica dell’ideologia in sé e di tutto quel che è accaduto. Visto che un grande filosofo come Augusto Del Noce da anni ha dimostrato quanto l’ateismo sia fondamentale nel marxismo e niente affatto marginale o facoltativo. La tragedia spagnola, su cui il popolo cristiano non sa quasi niente (e che fu perpetrata anche da altre forze rivoluzionarie e laiciste) dovrebbe far riflettere, se non altro per le proporzioni di quel martirio. Antonio Socci Da “Libero”, 21 ottobre 2007 |
Postato da: giacabi a 17:13 |
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comunismo, santi, cristianesimo, ateismo, socci
La «lieta novella» dell'Avvento
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Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, «naturale» rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l'azione di cui essi sono capaci in virtù dell'esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane la fede e la speranza, le due essenziali caratteristiche dell' esperienza umana che l'antichità greca ignorò completamente. E
questa fede e speranza nel mondo che trova la sua più gloriosa ed
efficace espressione nelle poche parole con i cui il vangelo annunciò la
«lieta novella» dell'Avvento:
«Un bambino è nato fra noi».
Hannah Arendt da: Vita activa
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Postato da: giacabi a 07:50 |
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cristianesimo, gesù, arendt, avvenimento
Quando uno ama Cristo
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1. Cercate anime non denari;
2. Usate carità e somma cortesia con tutti; 3. Prendete cura degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini; 4. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini; 5. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti, le pene e le sofferenze di uno considerate come pene e sofferenze di tutti e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle; 6. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata S. Giovanni Bosco Raccomandazioni ai missionari |
Postato da: giacabi a 08:58 |
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santi, cristianesimo
Col cristianesimo termina la schiavitù
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Alcuni
storici negano che la schiavitù fosse terminata nel Medioevo e
ritengono che si trattò solamente di uno slittamento linguistico per il
quale la parola «schiavo» fu sostituita dalla parola «servo» . Ma, in
questo caso, sono gli storici e non la storia a giocare con le parole. I
servi infatti non erano beni; avevano dei diritti e un sostanziale
grado di discrezionalità. Sposavano chi volevano e le loro famiglie non
erano " soggette a vendita o dispersione. Pagavano degli affitti che
permettevano loro di poter controllare tempi e ritmi del lavoro . Se, come avveniva in alcuni luoghi, i servi dovevano ai padroni un certo numero di giornate di lavoro all' anno, i loro obblighi erano comunque limitati e più simili al lavoro dipendente che alla schiavitù. I servi erano certamente legati al padrone da molti vincoli, ma allo stesso modo il
padrone aveva obblighi non solo nei loro confronti ma anche verso un'
autorità superiore e così via, perché la natura del feudalesimo si
fondava su reciproci accordi d'obbligo. Non si
può certo affermare che i contadini medievali fossero liberi nel senso
moderno del termine, ma non erano nemmeno schiavi e, per la fine del X secolo, la brutale istituzione era fondamentalmente sparita dall'Europa.
Rodney Stark. Lindau "La vittoria della Ragione"
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Postato da: giacabi a 08:22 |
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medioevo, cristianesimo, stark
Il medioevo
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«Gli
uomini di oggi cominciano ad accorgersi che è più facile distruggere la
civiltà che ricostruirla. Furono necessari sei secoli alle genti del
Medioevo per ritrovare, dopo il disastro delle invasioni, lo slancio creatore della Grecia e di Roma. Questa rinascita dell'Europa, che ebbe come animatrice la chiesa,
iniziò nell'XI secolo. Come tutti i movimenti analoghi, si manifestò in
ogni campo: riforma cluniacense, arte romanica, reconquista spagnola,
crociate. Spontaneamente la chiesa ritornava alla austerità delle sue
origini mentre si adoperava al tempo stesso, con spirito generosamente
umano, nell'organizzazione di un mondo il cui: avvenire riposava ormai
su di lei. A questo mondo diviso dallo smembramento feudale, esaurito dalle
eterne guerre dinastiche e in cui il Faustrecht si era sostituito
all'antico concetto del diritto, restituiva l'unità romana, la pace
romana, il bell'ordinamento latino dello spirito. Da Gregorio VII a
Innocenzo IV affrontò l'egemonia germanica e la spezzò. Di fronte alla
minaccia asiatica fu, durante tutta l'epoca delle crociate (e fino alla
battaglia di Lepanto), la coscienza stessa dell'Europa. Nella pace dei
suoi chiostri, ricomparve la grande filosofia. La ragione umana si confrontò di nuovo con l'universo. [...] A
questo impeto metafisico corrisponde lo slancio delle cattedrali.
Dapprima lo slancio romanico, che si potrebbe anche chiamare francese e
lo è talmente, infatti, per la sua stessa misura, per l'equilibrio fra
l'ardore (dell'ispirazione e la solidità dell'architettura. [...] Ma la
cattedrale vuoI slanciarsi ancora più in alto nel cielo. L'architettura
gotica, scaturita da questo slancio verticale, è anch'essa
specificamente francese per la sua logica e il suo idealismo -logica
ascensionale, partito preso di alleggerimento che, sembrando disprezzare
le leggi della gravità, approdano ai grandi reliquari aerei di
Notre-Dame e di Reims, di Chartres e di Arniens. "Musica di pietra" è
stato
detto di queste cattedrali».
R.Grossuet, Bilancio della storia, Jaca Book
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Postato da: giacabi a 15:47 |
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bellezza, medioevo, cristianesimo, grossuet
Mendicanti davanti ad una Presenza
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Postato da: giacabi a 08:25 |
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cristianesimo, benedettoxvi, carron
La fede cristiana
illumina la vita
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Il
lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se
questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del
termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e
vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di
transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che
spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso
bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine:
chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna
più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in
venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in
gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino
più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele.
Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi
momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi
dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette
superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro
tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:
Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti
ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le
loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui
mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel
loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura
riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno
accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli
occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: «Dio mi vede!» per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. «Dio
mi vede...» perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto,
anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio,
alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a
certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del
fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano
in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione.
Luigi Pirandello :Il fu Mattia Pascal
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Postato da: giacabi a 07:21 |
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fede, cristianesimo, pirandello
Un uomo per la Chiesa
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Si cerca per la Chiesa un uomo...
Si cerca per la Chiesa un uomo
senza paura del domani, senza paura dell'oggi,
senza complessi del passato.
Si cerca per la Chiesa un uomo,
che non abbia paura di cambiare,
che non cambi per cambiare,
che non parli per parlare.
Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di vivere insieme agli altri,
di lavorare insieme, di piangere insieme,
di ridere insieme, di amare insieme,
di sognare insieme.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di perdere
senza sentirsi distrutto, di mettersi in dubbio
senza perdere la fede, di portare la pace
dove c'è inquietudine e l'inquietudine dove c'è pace.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente,
nostalgia della povertà di Gesù,
nostalgia dell'obbedienza di Gesù.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette d'abitudine,
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse,
il servizio con la sistemazione.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei
ma ancora di più capace di vivere per la Chiesa;
un uomo capace di diventare ministro di Cristo,
profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.
Si cerca per la Chiesa un uomo.
Primo Mazzolari
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Postato da: giacabi a 19:21 |
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santi, cristianesimo, don mazzolari
Fissando lo sguardo su Lui diventiamo come Lui
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“guardando Lui si riceve sempre più la somiglianza di Colui nel quale uno fissa lo sguardo, fissando lo sguardo su Lui diventiamo come Lui”
M. Luzi
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Postato da: giacabi a 08:09 |
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luzi, cristianesimo
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«È
sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo
storico e un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono
quelli che sono stati tracciati fra la nostra epoca in Europa e nel
Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli
oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un
punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando
uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare
l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della
civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium.
Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto
pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme
di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo
che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere
all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se
la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta,
dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto
questo punto di svolta. Ciò
che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità
al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano
essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su
di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere
agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di
fondamenti per la speranza.
Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere:
ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra consapevolezza di
questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso» [...]
MacIntyre da: Dopo la virtù
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Postato da: giacabi a 16:24 |
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cristianesimo, macintyre
Il cristianesimo
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Il cristianesimo non è una dottrina,non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà dell’anima umana, bensì la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo. Ludwig Wittgenstein |
Postato da: giacabi a 19:53 |
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cristianesimo, wittgenstein
L’umanità cristiana
«Al mondo antico era sufficiente contemplare la Divinità come idea; il nuovo mondo, che ha già visto la Divinità come manifestazione reale, non può limitarsi alla contemplazione, ma
deve vivere e agire in virtù del principio divino che si rivela in
esso, trasformandosi a immagine e somiglianza del Dio vivente. L'umanità non è tenuta a contemplare la divinità ma a rendere se stessa divina. Non si tratta di una creazione dal nulla, ma di una trasformazione, di una transustanziazione della materia nello spirito, della vita carnale nella vita divina». Vladimir Solov’ev,
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Postato da: giacabi a 21:02 |
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cristianesimo, soloviev
Il cristianesimo è l'unica via sicura per la felicità
Dio e il senso della vita
Mi ripeto sempre le parole di Tolstoj: «L'uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito». Possa lo spirito essere in me. Ho comprato l'ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero. Certamente il cristianesimo è l'unica via sicura per la felicità. Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito - esserne sempre cosciente. (Da L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1968, pp.173-182). a P. |
Postato da: giacabi a 09:25 |
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cristianesimo, wittgenstein
II mio cuore a nudo
II mio cuore a nudo, si può vedere quanta
sincerità e quanta debolezza era in quest'anima cristiana, prigioniera
in un corpo di peccato; i suoi propositi generosi, i suoi sforzi, le
preghiere accorate.
C. Baudelaire (Giornali intimi, Einaudi, Torino 1942).
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Postato da: giacabi a 09:10 |
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baudelaire, cristianesimo
Beato Faà di Bruno
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da : http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/santi/faadibruno.htm
Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli
Nel
frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire
qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro
quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del
muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e
morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco,
tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio",
poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte,
"beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel
canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.
Personaggio
singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già
avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile.
Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo
Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze
naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per
l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra
all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.
La
chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in
preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era
chiamata in causa, qui, perché il Francesco
Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle
serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona
parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle
donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria
collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.
Quanto
allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla
città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende,
il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una
sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle
valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al
contempo un grande studioso, un famoso scienziato.
LA VITA
Nasce
nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di
Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo
figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno,
nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di
Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi.
Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più
generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e
autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei
tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della
Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale
della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di
nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto
nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a
Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando
in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con
funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto
alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui
si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo:
il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati
Uniti in milioni di esemplari.
Nel
1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e
nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846,
terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore
generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si
perfeziona nelle lingue straniere.
Nel
1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie
comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è
aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta
del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio,
che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande
battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui
tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema
nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e
umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e
recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di
invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte
valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due
cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba.
Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare
l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel
1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e
matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli
ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime
Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che
conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al
suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro
Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di
spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St.
Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a
domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di
strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e
una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e
che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata.
Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a
Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta
formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un
credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano
creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino
al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico
militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la
spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi"
(P.Palazzini).
Tra
i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le
sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto,
come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili
con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso
verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche
qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle
autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il
vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854
ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche
in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San
Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui
partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi
suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo
diretto da un giovane laico.
Fidando
in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di
quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per
la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto
all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona
di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel
1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal
celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del
pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di
dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel
1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria
Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da
molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande
aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si
laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone
Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli
esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:
"Per
me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di
meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e
non sono che giochi da ragazzi".
Nel
1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di
Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in
quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta,
dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce
direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.
Nel
1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita
quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per
impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per
lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove
preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non
gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro
degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre,
sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite,
per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile
potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è
necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in
vendita.
Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per
aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle
quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso
altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a
distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e
carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:
"Son
pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque
conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia
almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio
ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son
prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto
V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A
questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità,
sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e
ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa
che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla
carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni
decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle
proposte dal Beato.
Il
2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno
dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo
patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed
elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto
perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche
perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia
modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale
si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà
(polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le
condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare
l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza
inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle
giovani".
Nella
Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara
sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni)
lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese
disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il
cristiano radicale e gli indicò la sua strada.
L'Opera
di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il
collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate,
anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna
(e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio
rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le
operaie - del proletariato urbano.
Una
delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di
servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero
(sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle
famiglie in cui lavorano".
Al
rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere
predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli,
ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di
pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di
essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle
grandi città.
In
effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e
sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di
rimediarvi.
A
queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente
in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione,
internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era
la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali,
dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per
quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non
voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare
il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo:
formare al bene, allontanare dal male"
Alle
Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai
padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che
fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato,
scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per
quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani
apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da
un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro
che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e
del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per
l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai
liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che
la verità stava nel contrario.
Sempre
nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza),
sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle
feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono
costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.
Nel
1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle
Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e
affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a
una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora
esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla
vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.
Nello stesso anno fonda
l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto,
convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le
malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la
fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici,
rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà
vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che
devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il
suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro
il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che,
anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone
al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una
rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con
l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di
colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni
sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in
casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado
l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è,
anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche
questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il
progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con
40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni
e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al
Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una
società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che
"si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo,
il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa
filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.
Quanto
agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta
comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima
situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo
un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore
al fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in
ordine e muove come un orologio". All'Opera
di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in
miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni
ecclesiastici.
Nel
1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua
circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli
scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di
"moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua
straniera.
Nel
1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di
giovani povere con corsi triennali di economia domestica.
Nel
1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la
formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello
professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline
scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui
importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei
quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a
cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la
resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per
scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle
scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia -
lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e
persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al
telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo
Nel
1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del
Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei
morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto
qualunque bandiera.
Poiché,
come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e
religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una
congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una
successione di bene, non può far senza di religiose".
Nel
1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di
Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni
avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del
Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i
tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze
dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua
autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi
salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della
Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è
chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia,
non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a
conferma della forza di un carisma singolare.
Le
Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo
femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio
(ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione
originaria di Opera di Santa Zita).
Per
venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato
apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile
procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici,
pubblicazioni religiose.
Nel
1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e
di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo
diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo
pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le
umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore
dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze
chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la
casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu
irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel
1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di
Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la
sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un
gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno
in America Latina, dove tuttora lavorano.
Negli
istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita
(novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa.
Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte
tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni
di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel
1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la
congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della
chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel
1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una
volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte
di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i
talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.
Nel
1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per
farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione
professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del
Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la
diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili
in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene
anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II
27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni
prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto
dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle
faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito,
disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di
quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno
titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici
nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia,
raccolta in 38 anni di studio e di lavoro". …….
Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In
ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo,
l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al
ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e
culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non
così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai
l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza
tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale,
immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini
degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che
la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che
ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua
intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi,
riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono
parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma
se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia
religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e
viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere
delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e
che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più
stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.
C'è
una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella
dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli,
quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita
terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.
Fecondità
che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché
abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che
anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che
ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non
ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di
qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la
qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non
ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie;
assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe
mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco leggiamo:
"Mentre
usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e,
gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che
cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i
comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non
dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli
allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla
giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola
ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro
in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole,
se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco
Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa,
che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo
gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di
riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la
vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
"Santità"
ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da
domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi
non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza
sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare
che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì
motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio
umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi
in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".
Certo
è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di
quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un
Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo)
trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro
impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O -
marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in
terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in
un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove
l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la
salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal
punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde
sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una
rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro
personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due
campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di
intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica
internazionale.
Dietro
tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato,
carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al
processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure,
aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva
fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere
scusa").
I famigliari
e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo
fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un
aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo
preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce,
in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente
stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando
il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una
povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò
che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta
ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria
con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con
la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà
impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua
famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non
di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto
con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di
marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato
agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro
approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche
di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il
Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello
eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha
spesso l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma che tormento!".
E
così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche
quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione
universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar
consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro
per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".
Nella
famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel
che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni
dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle
convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale.
Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti
sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe
Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un
Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale
della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E,
invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i
cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in
quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera"
nello stato ecclesiastico.
Ma
nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo
avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che
sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza
possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle
beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni
fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti,
che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma
già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor
Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una
comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come
lui.
"Devo
fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in
certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di
Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure
le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si
era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole"
(P. Palazzini).
In
realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano
dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo
vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni
all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò
tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi
prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a
tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia,
di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili
e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né
ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava
immantinente al lavoro".
In
realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di
eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per
evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva
adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma
veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese,
conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era
davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché
occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.
Dopo
la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita
interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel
1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode
della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno
sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo
pieno della congregazione" (P. Palazzini)
Avendo
infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive
approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio
acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta
sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.
L'opera
iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da
menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la
mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse
soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica
dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera
della donna.
E
ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella
concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella
scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione
contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma
anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale,
perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e
meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla
fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato
tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle
"sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur
indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora
agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori
maschili delle loro scelte.
Torniamo
alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita.
Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo,
alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di
libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.
Stanze
dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto
riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato
di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di
discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi
era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato
allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita
militare della prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.
Divenuto
sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo
essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori,
le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in
guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore
nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di
"essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella
celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né
la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo
vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio,
tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.
Ma
che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo,
dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre
attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza
interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di
lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente
divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace,
limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a
quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia
tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito
accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono,
sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella
di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova
società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la
stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a
San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve
disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche
a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto
Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco:
"In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo
di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani
il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti
non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine
interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben
fatte".
In
effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali
scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano
con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto
dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano
non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e
dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che divergevano.
Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i
guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un
cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la
restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma
anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più
giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il
mondo con una religione vissuta profondamente".
Sapeva
che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani
seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato
bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il
colto - era il primo a dimostrarlo.
Né
si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel
1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano
passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le
domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi,
in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una
associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di
esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la
totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi
una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega
anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri
andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e
aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a
noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si
coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche,
sudamericane.
È
solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come
dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una
situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con
ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici.
Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse,
riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose
gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano,
minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la
sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e
terribile: l'inferno.
Altro
non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo,
nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi
ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora
siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).
Ed
è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia:
"C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni
banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla
sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva
dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il
ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di
refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi
beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è
consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).
In
quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro
giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia
socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di
quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi
avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non
mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i
giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)
Da
queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e
inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla
lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:
E
ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi
sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono
state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono
consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza
contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai
lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei
mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete
gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete
ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).
Espressioni,
come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base
delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano
vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori
della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le
parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione
cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del
liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si
limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli
innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i
ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al
contempo tenesse buoni i poveri.
Faà
di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento
demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni
che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro
persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono
il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E,
altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini
incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".
Nutrito
di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da
sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il
predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi
del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai
ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma,
allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi,
allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere
conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e
rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del
risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le
ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene
scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra
condizione mi fa paura!".
Sentiamo,
al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don
Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al
solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:
Uno
avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere;
orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che
è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma
sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta,
non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi
non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei
non possidebit.
"Ma
la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già
troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete,
entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate,
qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor
buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di
ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e
che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là
risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma
sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi
non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e
datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una
corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre
sostanze, né vi levate il necessario.
"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"
"Ecco:
è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire
una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare
quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma
questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro
che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete
conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel
denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se
volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e
soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le
mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per
aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si
andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della
predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del
tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma,
necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure
sono predette nella eternità, senza limite né fine.
Ma
l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da
un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della
giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto
la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia,
diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo
pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si
raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai
ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non
riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che
tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare
del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di
essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il
futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi
credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale
vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro
realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via
coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che,
superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri:
volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della
coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal
timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto
Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e
inappellabili.
Intuivano
che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe
risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come
tutto ciò che nasce dalla forza. 183
E
come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi
vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del
socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi
credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non
per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per
preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.
Seguaci
di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di
una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni
rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria;
anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata
rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e
impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna
(il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla
misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga,
significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di
Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello
di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano,
ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre
Nostro"
La
tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da
sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi
promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli
ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si
tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui
l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un
proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma,
non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla
di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio
assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme
precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in
queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare,
con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.
Invece,
le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo,
del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale:
volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento,
finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù
alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo
questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di
classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i
suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso
etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola,
dell'amore.
Ma,
questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo.
Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo
con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto
convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il
peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze
negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per
instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".
Sapevano,
come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la
letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare
di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così
perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla
necessità di essere buoni".
Erano
scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva
illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i
veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben
constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza)
come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione
innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre,
immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che,
dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito
soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai
sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e
giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro,
nell'intimo di ogni uomo".
Si
spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione
eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare
al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo.
Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo,
dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni
sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla
redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del
peccato.
Diffidavano
poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie -
dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei
pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente,
al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità,
difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.
E,
dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o
infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le
maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le
scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti
che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che
promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del
comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel
caso del nostro Beato.
Ricordiamo
tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste
conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù
per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo
esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse
capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".
Gesù
rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei
briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono
lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli
accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?
Stando
a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai
cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi,
sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"),
quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve
necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:
un'azione
dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per
rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni
diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e
direzione pubbliche, apposite comunità;
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta; creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici; stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità; manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante; istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti... Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento
scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante"
e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello
giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".
Proprio
per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in
quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata
raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di
Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che,
in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati,
dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati,
delle serve schiavizzate.
Alzarono
la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza;
minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti,
distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e
di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita
stessa.
Puntarono
sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se
medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona
essi stessi.
Gli
ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano
di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e
reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in
agonia.
Faà
di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni
caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi,
comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo
battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le
serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà)
che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe
trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una
giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior
giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma
sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni
pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro
l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non
aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma
costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo
sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere
costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano,
almeno di uomini.
I
politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre
rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta"
Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per
renderlo subito e il più possibile meno disumano.
Esemplare,
al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo
campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo
vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto
sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e
meteorologico alla sommità.
Dunque,
la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è
il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo
matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità
"spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del
progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni
Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la
cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando
nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni,
molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro
collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici":
categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in
Cielo.
Sulla
base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla
prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra
progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra
scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà
necessariamente legale tra di loro.
Nel
1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana
suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi
ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non
credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire
le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare
come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi
diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione
cattolica"".
Insegnava
che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra
delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo,
non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose
regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e
onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che
"l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a
sua volta alla teologia".
Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la
teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che
lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte
le contiene.
Ma,
al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa
in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.
Tra
i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti -
causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in
orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il
"pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere
agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un
orologio era allora un lusso per privilegiati.
In
attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di
acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il
consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette
avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di
altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti
cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone.
Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al
Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti
del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse
per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di
aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al
solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la
delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del
1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e
inquisizioni varie.
Ora,
forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al
campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di
torinesi senza altro orologio lo fecero.
Secondo
lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e
concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti
avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.
Ma
sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e,
soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di
pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come
testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale,
la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del
Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la
cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della
questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo,
come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando,
precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che
credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone
l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.
Durissimo
col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino
all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti
alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole
da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità
del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E
che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei
tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto
"condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per
essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per
non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla
fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È
la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che
vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per
questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è
di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono di Karl Popper,
il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un
agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però,
ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero
sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci
per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei
beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici.
Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non
cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare
un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di
questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono
qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati
adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene
di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era
composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di
intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento
operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale
(come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato
dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a
maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e
da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.
Da
quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi
risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre
ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio
di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti
anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente,
pagato con il denaro pubblico.
Stando
a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel
Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra
quelle vie dai
grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure
straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto
della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli
di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le
sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle
giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro.
Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa
zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava
nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio
di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge
di violenza.
A
quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della
zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che
pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche
loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose
varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei
decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale
che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire
dei cattolici, dei preti).
Quanto
a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice,
testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica
di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il
pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava:
"assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il
nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di
carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle
"serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe
borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di
confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera
scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non
occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a
leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo
schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le
orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei
primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior
quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia,
malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso",
diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto
nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei
"democratici", era S. Giovanni Bosco.
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