Perché non possiamo non dirci «cristiani»
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Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina, e di quanto altro si deve all'Oriente e all'Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l'uomo, l'anima stessa dell'uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l'impulso originario fu e perdura il suo. La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità. Gli uomini, i genii, gli eroi, che furono innanzi al cristianesimo, compierono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana.” B. Croce, La mia filosofia, Milano, Adelphi |
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croce, cristianesimo
La scienza nasce dal cristianesimo
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Se paragoniamo il “tono” del pensiero europeo con l'atteggiamento di altre civiltà abbiamo la sicura impressione che il primo sia originato da una sola fonte. Non
può infatti provenire che dalla concezione medioevale, che insisteva
sulla razionalità di Dio, al quale veniva attribuita l'energia personale
di Yahwèh e la razionalità di un filosofo greco.
Ogni particolare era controllato e ordinato: le ricerche sulla natura
non potevano sfociare che nella giustificazione della fede nella
razionalità. Non parlo, si badi, delle convinzioni dichiarate di pochi
individui. Ciò che ho in mente è l'impronta lasciata nello spirito
europeo da una fede secolare e incontestata. A questo che intendo con
“tono” istintivo del pensiero e non un mero credo espresso con parole. In
Asia i concetti di Dio riguardavano un essere troppo arbitrario o
troppo impersonale perché tali idee di esso riuscissero a determinare
abitudini istintive della mente. Qualunque evento determinato poteva essere attribuito al fiat di
un despota irrazionale o scaturire da qualche “origine delle cose”
impersonale e imperscrutabile. Mancava quella fiducia che proviene
dall'idea della razionalità intelligibile di un essere personale. Non
intendo sostenere che la fede europea nella possibilità di perscrutare
la natura fosse logicamente giustificata dalla sua stessa teologia.
Cerco solo di capire come essa sia sorta. La mia tesi è che la fede
nelle possibilità della scienza, nata prima dello sviluppo della teoria
scientifica moderna, è un derivato inconsapevole della teologia
medioevale.
Ma
la scienza non è solamente il risultato di una fede istintiva; essa
esige anche un interesse attivo ai semplici fenomeni della vita in
quanto tali.
Questa
precisazione, “in quanto tali”, è molto importante. La prima fase del
Medioevo fu un'epoca di simbolismo. Un'epoca di grande idealità e di
tecnica primitiva. Non v'erano punti di contatto con la natura, tranne
che per strapparle l'occorrente al duro vivere materiale. Vi erano
invece grandi domìni spirituali da esplorare, domìni di filosofia e
domìni di teologia. L'arte primitiva seppe tradurre in simboli queste
idealità che impregnavano gli spiriti meditativi.
La prima fase dell'arte medioevale ha un fascino incomparabile: il suo
valore intrinseco è aumentato dal fatto che il suo messaggio, superando
la giustificazione dell'arte come conseguimento estetico, costituisce
una rappresentazione simbolica delle cose che stavano dietro la natura
in sé e per sé. Durante questa fase simbolistica, l'arte medioevale si
avvalse della natura come di un medium per raggiungere un altro mondo.
Per
comprendere il contrasto tra l'inizio del Medioevo e l'atmosfera
necessaria all'esistenza di una mentalità scientifica, porremo a
confronto il sesto secolo e il sedicesimo in Italia. In questi due
secoli, infatti, il genio italiano pose le basi di un'epoca nuova. La
storia dei tre secoli che precedettero il primo dei due periodi,
malgrado le prospettive aperte dall'avvento del cristianesimo, è sempre
più viziata dal sentimento della decadenza della civiltà. Ad ogni
generazione si perdeva qualcosa. Quando ne leggiamo i documenti sentiamo
incombere lo spettro della barbarie che avanza. Non mancano, certo,
anche uomini grandi nell'azione come nel pensiero. Ma il loro effetto
globale è solo quello di arrestare per un po' il declino generale. Nel
sesto secolo si tocca, per quanto attiene all'Italia, il punto più basso
della curva. Ma, durante lo stesso secolo, vari eventi contribuirono a
porre le basi del prodigioso sviluppo della nuova civiltà europea.
L'Impero bizantino, sotto Giustiniano, determinò in tre modi il
carattere dell'inizio del Medioevo nell'Europa occidentale. In primo
luogo i suoi eserciti, al comando di Belisario e di Narsete, liberarono
l'Italia dalla dominazione dei goti. In tal modo rimase libero campo
all'esercizio dell'antico talento italico di creare organizzazioni, che
allora furono destinate a proteggere gli ideali dell'attività
civilizzatrice. Non è possibile non provare una certa simpatia per i
goti, eppure è
fuori di dubbio che un millennio di Papato è stato infinitamente più
prezioso per l'Europa di qualunque effetto che sarebbe potuto derivare
da un ben consolidato regno goto in Italia.
In
secondo luogo la codificazione del diritto romano stabilì l'idea della
legalità che dominò poi il pensiero sociologico dell'Europa durante i
secoli seguenti.
La legge è al tempo stesso uno strumento per governare e una condizione
che impone limiti al governare. Il diritto canonico della Chiesa e il
diritto civile dello Stato debbono ai giuristi di Giustiniano la loro
influenza sullo sviluppo dell'Europa. Essi fissarono nello spirito
occidentale l'ideale di un potere che dovrebbe al tempo stesso essere
legale, capace di esigere l'obbedienza alle leggi e tale da
rappresentare in sé stesso un sistema di organizzazione regolato in modo
razionale. Il sesto secolo in Italia fu la prima dimostrazione di come
queste idee, favorite dal contatto con l'impero bizantino, si siano
impresse in modo duraturo.
In
terzo luogo, nelle sfere non politiche dell'arte e del sapere,
Costantinopoli rivelò modelli di realizzazione che, in parte incitando a
una imitazione diretta, in parte per ispirazione indiretta derivante
dalla semplice conoscenza della loro esistenza, costituirono uno stimolo
costante per la civiltà occidentale. La sapienza dei bizantini, nel
modo in cui colpì l'immaginazione della mentalità medioevale nella prima
fase, svolse una funzione analoga a quella che ebbe la sapienza degli
egizi per i greci dell'epoca arcaica. Nei due casi, le conoscenze
effettive erano probabilmente della giusta misura per essere utili agli
interessati. Costoro ne possedevano abbastanza per sapere quali modelli
potevano raggiungere, ma non tanto da restare impastoiati in forme di
pensiero statiche e tradizionali. Perciò, in entrambi i casi, si poté
procedere in piena indipendenza e si fece di meglio. Nessuna spiegazione
dell'origine della mentalità scientifica europea può tralasciare di
tener conto di questo influsso della civiltà bizantina. Nel sesto
secolo, tuttavia, si verifica una crisi nelle relazioni tra i bizantini e
l'Occidente; e in contrapposizione a questa crisi deve essere messa in
risalto l'influenza della letteratura greca che inciderà poi sul
pensiero europeo del sedicesimo e diciassettesimo secolo. I
due uomini di primo piano, che posero nel sesto secolo le fondamenta
dell'avvenire, furono san Benedetto e Gregorio Magno. Soltanto
considerando costoro possiamo misurare fino a che punto fosse decaduta
la mentalità relativamente scientifica che era stata raggiunta dai
greci. Si era ormai allo zero del termometro scientifico. Ma l'opera di
Gregorio e di Benedetto contribuì alla ricostruzione dell'Europa con
elementi che racchiudevano la garanzia di una mentalità scientifica
futura più reale ed efficiente di quella del mondo antico. I greci erano ultrateorici. Per essi la scienza non era che un ramo della filosofia.
Gregorio e Benedetto erano uomini pratici, che non perdevano di vista
l'importanza delle cose ordinarie, e portavano questa loro concretezza
nelle attività religiose e culturali. Dobbiamo in modo particolare a san
Benedetto che i monasteri abbiano ospitato abili agricoltori non meno
che santi, artisti ed eruditi. L'alleanza tra scienza e tecnologia che
ha conservato il contatto tra il sapere e “i fatti irriducibili e
ostinati”, deve molto all'indole pratica dei primi benedettini. La
scienza moderna deriva quindi da Roma non meno che dalla Grecia, ed è a
questa componente romana del suo linguaggio che essa deve l'incrementata
energia del pensiero tenuto in intimo contatto col mondo della realtà.
L'influsso
del contatto tra i monasteri e i fatti della natura si mostrò in un
primo tempo nell'arte. Il naturalismo, sorto nel tardo Medioevo,
rappresentò l'ingresso nello spirito europeo dell'ultimo elemento
necessario alla nascita della scienza.
Con esso nacque l'interesse per i fenomeni naturali in sé e per sé. Il
fogliame tipico delle foreste della regione fu scolpito perfino in punti
secondari e remoti degli edifici per il mero piacere di riprodurre cose
familiari.
L'intera atmosfera di ciascuna arte esprimeva la gioia spontanea di
percepire e fissare la comprensione delle cose che circondano gli
uomini. Sotto questo aspetto agli artigiani che eseguirono le sculture
decorative medioevali dell'ultimo periodo non sono dissimili da Giotto,
Chaucer, Wordsworth, Walt Whitman e dal poeta del New England, nostro
contemporaneo, Robert Frost. I semplici fatti immediati sono oggetti di
interesse e si ritrovano poi nel pensiero scientifico sotto l'aspetto di
“fatti irriducibili e ostinati”.
Lo
spirito dell'Europa era ormai preparato alla nuova avventurosa impresa
del suo pensiero. Non è necessario trattare particolareggiatamente dei
vari eventi e uomini che hanno contrassegnato l'avvento della scienza: l'aumento della ricchezza e del tempo per l' otium ,
lo sviluppo delle università, l'invenzione della stampa, la caduta di
Costantinopoli, Copernico, Vasco de Gama, Colombo, la realizzazione del
telescopio. Sole, clima, seme, tutto era pronto, e la foresta nacque e
crebbe.
Alfred N. Whitehead (1861-1947), La scienza e il mondo moderno , tr. it. di A. Banfi, Boringhieri, Torino 1979, pp. 20-25 e 30-34.
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Postato da: giacabi a 13:13 |
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cristianesimo, whitehead, scienza - articoli
Sdoppiamento
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Fare astrazione dal cristianesimo, mettere Dio e Cristo da parte quando lavoro alle cose del mondo, dividermi io stesso in due metà: una metà cristiana per le cose della vita eterna, e per le cose del tempo una metà pagana - o cristiana menomata, o cristiana vergognosa, o neutra, cioè infinitamente debole, o idolatra della nazione o della razza o dello Stato, o della prosperità borghese o della rivoluzione antiborghese, o della scienza o dell'arte erette a fine ultimo - un tale sdoppiamento è anche troppo frequente nella pratica; può anche servire a caratterizzare una certa epoca di civiltà della quale la filosofia politica di Machiavelli, la riforma protestante (considerata nei suoi effetti culturali) e il separatismo cartesiano illustrano gli inizi. Appena si prende coscienza di ciò che rappresenta in realtà, appena se ne trasporta la formula nella luce dell'intelligenza, appare come una assurdità propriamente mortale. Qualunque cosa facciate, dice S. Paolo, fatela in nome di Cristo e nella virtù di Cristo. Se la grazia ci rigenera, se fa di ciascuno di noi un «uomo nuovo », avviene perché noi mercanteggiamo col «vecchio uomo» che nel temporale servirà Mammona in sicurezza di coscienza, fortificato o esasperato dalle consolazioni o dalle delusioni che dispensa una società civile distaccata essa stessa da ogni legame colla legge evangelica, mentre che altrove e nel compimento dei nostri doveri religiosi serviremo Dio colla coscienza in pace, consolati dalle promesse della Chiesa e dalle dolcezze della religione? In realtà, la giustizia evangelica e la vita di Cristo in noi vogliono tutto in noi, vogliono impadronirsi di tutto, impregnare tutto ciò che noi siamo e tutto ciò che noi facciamo, nel profano come nel sacro. L'azione è una epifania dell'essere. Se la grazia ci prende e ci rifà dal fondo dell'essere, lo è affinché la nostra azione tutta intera se ne risenta e ne sia illuminata. |
Postato da: giacabi a 21:25 |
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cristianesimo, maritain
Dio e il senso della vita
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Mi ripeto sempre le parole di Tolstoj: «L'uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito». Possa lo spirito essere in me. Ho comprato l'ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero.
Certamente il cristianesimo è l'unica via sicura per la felicità.
Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio
andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il
mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non
condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il
punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la
mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito -
esserne sempre cosciente.
(Da L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1968, pp.173-182). |
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Postato da: giacabi a 17:41 |
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cristianesimo, wittgenstein
L’inizio vero,
una provocazione alla vita
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Da Tracce di settembre07: editoriale
«Solo
quando si ricomincia prendendo sul serio le proprie domande e le
urgenze che stanno sotto il desiderio di significato, di vero e di bello
che ci costituisce, la realtà quotidiana apre il suo tesoro di
occasioni, di incontri, di scoperte.
Se così non è, la scuola - come ogni altro luogo dove si vive - diviene
un anonimo deserto dove si incontrano apparenze di persone, che
esibiscono solo la parte esteriore, spesso più superficiale e perciò
violenta, di se stesse. E invece che aule, ore, dialoghi dove si impara a essere liberi, diventa un caravanserraglio di mezzi schiavi. Invece che speranza per il futuro del Paese, emergenza sociale. «Le crisi di insegnamento - scriveva Charles Péguy, nel 1904, in un articolo per la riapertura delle scuole - non sono crisi di insegnamento; sono crisi di vita. Una
società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima;
e questo è precisamente il caso della società moderna»
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Postato da: giacabi a 05:47 |
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educazione, cristianesimo, peguy
La positività scaturita da Cristo
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Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho
perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto
quasi cieco e quasi muto. Non posso dunque camminare né stringere la
mano di un amico né scrivere neppure il mio nome; non posso più leggere e
mi riesce quasi impossibile conversare e dettare. Sono
perdite irrimediabili e rinunce tremende soprattutto per uno che aveva
la continua smania di camminare a passi rapidi, di leggere a tutte le
ore e di scrivere tutto da sé, lettere, appunti, pensieri, articoli e
libri. Ma non bisogna tenere in piccolo conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è il meglio.
È bensì vero che le cose e le persone mi appariscono come forme
indeterminate e appannate, quasi fantasmi attraverso un velo di nebbia
cinerea, ma è anche vero
che non sono condannato alla tenebra totale; riesco ancora a godere una
festosa invasione di sole e la sfera di luce che s’irraggia da una
lampada. Posso inoltre intravedere, quando vengono molto avvicinate
all’occhio destro, le macchie colorate dei fiori e le fattezze di un
volto. Eppure questi barlumi ultimi della visione abolita
sembrano miracoli gaudiosi a un uomo che da più di vent’anni vive nel
terrore del buio perpetuo. E
tutto questo non è nulla a paragone dei doni ancor più divini che Dio
mi ha lasciato. Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la
fede, l’intelligenza, la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la
passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si
chiama intuizione o ispirazione. Ho
salvato anche l’affetto dei familiari, l’amicizia degli amici, la
facoltà di amare anche quelli che non conosco di persona e la felicità
di essere amato da quelli che mi conoscono soltanto attraverso le opere.
E ancora posso comunicare agli altri, sia pure con martoriante
lentezza, i miei pensieri e i miei sentimenti. Se
io potessi muovermi, parlare, vedere e scrivere, ma avessi la mente
confusa e ottusa, l’intelligenza torpida e sterile, la memoria lacunosa e
tarda, la fantasia svanita e stenta, il cuore arido e indifferente, la
mia sventura sarebbe infinitamente più terribile. Sarei un’anima morta
dentro un corpo inutilmente vivo. A che mi varrebbe possedere una
favella intelligibile se non avessi nulla da dire? Ho
sempre sostenuto la superiorità dello spirito sulla materia: sarei un
truffatore e un vigliacco se ora, arrivato al punto della riprova,
avessi cambiato opinione sotto il peso dei patiri. Ma io ho sempre
preferito il martirio all’imbecillità.
Giovanni Papini
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Postato da: giacabi a 09:07 |
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croce, cristianesimo, papini
I Cristiani
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«Che
lo si voglia o no, siamo una società, una società del tutto libera,
formiamo un’impresa di moralizzazione e forse, soprattutto, il che
sicuramente è più complesso, e certo più importante, un’impresa che
impedisce la demoralizzazione. In un popolo ogni giorno più spezzato e ogni giorno sempre più dissolto nel fendersi
e nel liquefarsi di tutte le demagogie, noi rappresentiamo, dobbiamo
proprio rappresentare, un nucleo di resistenza, quasi fisicamente, siamo
un corpo, un focolaio di resistenza alla demoralizzazione crescente,
per così dire almeno a questa disintegrazione, a questa debacle, a
questo disastro per così dire crescente ; a questa defezione perpetua, a
questo smarrimento degli spiriti e dei cuori.»
Charles Péguy, Siamo dei vinti, 1909
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Postato da: giacabi a 15:34 |
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cristianesimo, peguy
La Cultura contadina
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Un
tempo l'uomo nella sua cerchia familiare era legato alla vita
universale -storica e cosmica -in un modo assai più ampio e saldo
d'oggi. Pur avendo a disposizione giornali, musei, radio, comunicazioni
aeree, noi avvertiamo appena questo fondo comune, non ne siamo molto
compenetrati, ci pensiamo poco. Con stivaletti di fabbricazione
cecoslovacca, sigaretta messicana fra i denti, l'uomo d'oggi scorre la
notizia dell'apparizione di un nuovo stato in Africa con la stessa
facilità con cui assaggia un brodo di carne francese. Tutto questo
contatto esteriore, fittizio, reca un carattere d'informazione casuale,
scucita: «nell'orto c'è un sorbo, mentre a Kiev c'è chi si incarica
della nostra educazione ». Che a Kiev ci sia un uomo simile, lo veniamo a
sapere parecchie volte al giorno, senza attribuire a un fatto del
genere un particolare significato. La quantità delle nostre nozioni e informazioni è enorme, ne siamo sovraccarichi, senza che esse cambino qualitativamente. In
pochi giorni possiamo fare il giro del pianeta -prendere un aereo e
viaggiare senza profitto spirituale, allargando soltanto il nostro
raggio informativo.
Confrontiamo
adesso questi pretesi orizzonti con lo stile di vita dell'antico
contadino, che non si spingeva mai al di là del suo praticello e
camminava tutta una vita nelle tradizionali ciabatte, fatte a
casa,...:ll suo orizzonte a noi pare ristretto; ma, in verità, com'era
grande questa serrata compagine, concentrata in un solo villaggio.
Persino il monotono rituale del pasto (in confronto col brodo francese o
il rum di Giamaica) faceva parte di una cerchia di nozioni dal
significato universale. Osservando
il digiuno e le feste, l'uomo viveva secondo il calendario di una
storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale. Per
questo, fra l'altro, un qualsiasi settario semianalfabeta poteva
qualche volta filosofare non peggio di Tolstoj e innalzarsi allivelo di
Plotino, senza aver sottomano nessun testo, fuorchè la Bibbia. Il
contadino manteneva un legame permanente con l'immensa creazione del
mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo.
Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano
angusto e superfluo. E in quel momento nessuna informazione ci serve. L'informazione diventa per noi come un paio di brache di panno estero. Un motivo per metteréi in mostra, e basta.
Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacità
ricettiva quando ci togliamo i calzoni o ce li sfilano di dosso? Oppure
quando portiamo il cucchiaio alla bocca. Prima
di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno
della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al
cielo, al passato e al futuro.
A. Sinjavskij Pensieri improvvisi Jaka Book
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Postato da: giacabi a 18:37 |
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cristianesimo, sinjavskij
UN ABBRACCIO OLTRE IL MURO
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STORIE DI UN'AMICIZIA «SULLE FRONTIERE DELL'UMANO» -
Massimo Camisasca
Molte volte, parlando della [Fraternità San Carlo], mi è venuto alla mente il titolo del famoso libro di Gilbert Cesbron sui preti operai, I santi vanno all'inferno. Non certo perché i preti della Fraternità San Carlo desiderino riferirsi a quell'esperienza, ma perché noi vogliamo vivere sulle frontiere dell'umano. Tutto ciò che è umano ci interessa e ci sentiamo mandati a ogni uomo. E' questo ciò che ho visto in don Giussani, ciò che ho imparato da lui, che lui mi ha trasmesso. Per me don Giussani è un uomo che cercava se stesso in ogni uomo, curioso dell'umanità di tutti e, assieme, un uomo che mendicava Cristo in ogni cosa. Così ne è diventato testimone. Allora più che raccontare una teoria, voglio rivelare la nostra Fraternità attraverso un piccolo-grande avvenimento. Mi è arrivata in questi giorni una lettera di Giampiero Caruso, un nostro prete che vive a Novosibirsk, la capitale dell'immensa Siberia. Tra gli altri compiti, Giampiero visita regolarmente tre diverse carceri. Uno, a novanta chilometri dalla capitale, in una piccola cittadina di nome Tagucin. Lascio a lui la parola. «Entrato nel carcere, cammino per diversi metri, in silenzio, scortato da un poliziotto. Supero un lungo cortile, recintato con un'altissima rete in filo spinato e metallo. Incontro alcuni detenuti che passeggiano, altri che spalano la neve, altri ancora che giocano a calcio in un piccolo campetto. Cose che finora ho visto solo nei film. Il poliziotto, lungo il percorso, mi sussurra all'orecchio che quel carcere accoglie 2.200 persone. In un locale ne trovo 15. Sono lì ad attendermi. All'inizio ho paura perché non so bene come i detenuti potrebbero reagire alla mia presenza. Ma poi penso che non sono solo; penso ai sacerdoti della Fraternità che vivono con me; penso alla frase del Vangelo in cui Gesù dice: "Andate fino ai confini del mondo... Io sarò con voi". Non ho più paura. Comincio a guardarli, uno a uno. E' come se vedessi la mia stessa umanità: ferita, bisognosa, mendicante. Poi comincio con qualche domanda: "Come vi chiamate? Da quanti anni siete qui? Quanti ve ne restano ancora da scontare?". Mi dicono che le pene sono molto alte perché quello di Tagucin è un carcere ad alto regime di sicurezza. Il primo a rispondere è un uomo che parla a fatica e stenta a tenere sollevata la testa; fra tutti è quello che più mi colpisce per la profonda tristezza che rivelano i suoi occhi blu e quel capo quasi sempre ripiegato su se stesso. Sono di fronte a probabili assassini, stupratori, ladri, ma il mio sguardo è teso a riconoscere l'origine di quella tristezza, di quel dolore, di quella profonda malinconia che quei volti rivelano. Come me, quegli uomini desiderano la libertà, la felicità. Loro, come me, non possono darsela da soli. L'attendono. Abbiamo parlato per tre ore, di libertà, di fede, di speranza, di Cristo... Mi sentivo nudo di fronte a loro. Nudo perché non potevo dire delle frasi, ma dovevo parlare di me e del mio rapporto personale con Cristo come fonte della libertà che io vivo, della fede che io vivo, della speranza che io vivo. Ho detto loro che l'uomo non coincide con i propri limiti, con i propri peccati, che essi non sono l'ultima parola sulla nostra vita. Noi siamo oggetto di perdono e di misericordia. E' questa l'origine della nostra libertà, della nostra speranza. Mi rendo conto che ho potuto balbettare queste cose solo perché Dio si è umiliato abbassandosi fino a me. Intuisco che, se non arrivo ogni giorno a sperimentare questo amore personale e totalmente gratuito, resto bloccato dai miei limiti. Lo stesso uomo che faceva fatica a tenere alzato il capo, sobbalza quando mi ha sentito dire che la fede è il culmine della ragione. E inizia a ribattere, a farmi domande. Alcune in tono polemico, scettico. L'argomento è interessante, il tempo è poco: giunge presto l'ora di andar via. Prima che il poliziotto venisse a riprendermi li saluto uno a uno. Mi avvicino anche a lui. Poggiandogli una mano sulla spalla gli indico di alzare la testa verso l'alto. Si solleva, io gli do la mano e lui, tirandomi verso di sé, mi abbraccia. Poi mi dice: "Torni presto, l'aspetto"». In queste parole - «torni presto, l'aspetto» - sta tutto il senso della Fraternità San Carlo [Tracce] |
Postato da: giacabi a 18:17 |
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cristianesimo, camisasca
Il Cristianesimo
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Cosi' noi navighiamo costantemente fra due curiali, noi manovriamo fra due bande di curiali: i curiali laici e i curiali ecclesiastici; i curiali laici che negano l'eterno del tempo, che vogliono disfare, smontare l'eterno del tempo, dal di dentro del temporale; e i curiali ecclesiastici che negano il temporale dell'eterno, che vogliono disfare, smontare il temporale dell'eterno, dal di dentro dell'eterno... Il cuore del cristianesimo, il centro, e' esattamente questo. Questo
innesto del temporale dentro l'eterno e dell'eterno dentro al
temporale. Sciolto questo innesto non c'e' piu' nulla. Non c'e' piu' il
mondo da salvare. Non c'e' piu' nessuna anima da salvare. Non c'e' piu'
nessun cristianesimo.
Peguy Clio
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Postato da: giacabi a 20:26 |
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cristianesimo, peguy
Missione, vodka e rosario
Da: il quotidiano http://www.meetingrimini.org/
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Albergatore, mezzofondista,allenatore, carabiniere. “Ero
pronto per l’altare, ma andaiin seminario”. A Novosibirsk
dirige la Caritas ed è console
La storia di don Ubaldo Orlandelli
della Fraternità San Carlo Borromeo,
dall’Emilia alla Siberia
Palavinoje è questo: un pugno di case,
vecchi, donne e bambini, in una
diocesi grande sette fusi orari, nel gelo
della Siberia. D’inverno, si arriva anche
a meno cinquanta gradi, bisogna
sigillare le finestre, per non rischiare
che il ghiaccio entri in casa. Ci sono
solo uomini giovani. Quelli più anziani
sono stati fucilati dal regime di Stalin.
Venti milioni di morti, in soli due anni.
Il nazismo ne ha sterminati sei di milioni.
Nel villaggio delle vedove, si
possono trovare donne come Tanja.
Don Ubaldo Orlandelli non potrà mai
dimenticare la sua faccia. Era arrivato
a Novosibirsk nel ’91, assieme a don
Francesco Bertolina e don Gianni Malberti,
per aprire la prima casa della fraternità
San Carlo Borromeo. Tanja era
stata deportata nel ’41 con il marito e
tre figli. Su una barca lungo il Volga,
poi sulla transiberiana, dove non c’era
legna sufficiente per tutti e si moriva di
freddo. La sua famiglia si era salvata ,
si era rifugiata nella taiga, in una buca
sotto la neve, coperta da rami di cedro.
I bambini avevano fame, il marito è uscito
a cercare qualcosa. “L’ho rivisto
morto a pochi metri, in primavera. I figli
mi sono morti in braccio, l’uno dopo
l’altro. Sono grata a Dio per avermi
donato mio marito per del tempo. E lo
ringrazio per avermi dato i miei figli
per del tempo”. Don Ubaldo aveva fatto
il servizio militare nei carabinieri.
Quando fermava le ragazze chiedeva
sempre “patente, libretto e numero di
telefono”. Spesso ci cascavano. A 11
anni si era messo in mente di fare il
prete. Era scappato di casa, da Tabiano
Terme, “nel comune di Miss Italia”,
con il fagottino delle sue cose, per rifugiarsi
in seminario. Ma i suoi lo avevano
riacciuffato: “Non se ne parla fino a
diciott’anni”. I diciott’anni sono arrivati,
assieme alle gare podistiche di
mezzofondo e alle prime ragazze. “Sono
anche allenatore agonistico”, dice
lui. La scuola alberghiera sembrava lo
sbocco più naturale per uno con i genitori
albergatori: un albergo per lui, l’altro
per il fratello maggiore, Giampaolo.
I progetti di matrimonio. “Dalla fedeltà
alla mia ragazza ho imparato la
fedeltà a Cristo”. Si dovevano sposare
l’8 dicembre. “Ma avevo in mente l’episodio
di Samuele nella Bibbia, quando
Dio lo chiama, risponde ‘eccomi’”.
Così invece che all’altare, va al seminario.
“Ero rimasto colpito, anni prima,
dagli esercizi di Angelo Scola, allora
giovane prete. Ho deciso di seguire
don Massimo Camisasca, nella fraternità
San Carlo a Roma”. In tre iniziano
a studiare il russo, si ritrovano a
Novosibirsk. “Il vescovo ci ha mandato
nei villaggi. Abbiamo celebrato la
prima messa in una casa di cemento”.
Don Francesco Bertolina continua ad
occuparsi del villaggio, don Ubaldo diventa
direttore della Caritas diocesana.
C’era il problema degli orfani dei deportati.
“Le case del regime erano tutte
grigie. La nostra casa di accoglienza era
tutta colorata”. Responsabile della
pastorale carceraria, console onorario,
tessitore dell’accordo d’intesa tra la regione
Lombardia e Novisibirk, professore
universitario di Economia. Non si
è tirato indietro neanche quando si è
trattato di affrontare a muso duro il
nuovo Kgb o il sindaco di Novisibirsk.
Si rifiutava di dargli l’autorizzazione a
costruire una chiesa. Lui ha diffuso un
giornalino: “il sindaco si oppone”. Ora,
don Ubaldo è in Italia fino all’ottobre
2008, “per far conoscere la storia
della nostra fraternità”, 100 preti, in 15
case in tutto il mondo. E per raccogliere
fondi per sostenere la missione. Tornerà
a Novosibirsk, con il progetto di
aprire una clinica internazionale, “per
curare le persone e testimoniare Cristo”.
La situazione è molto migliorata,
da quando il metropolita Kirill ha stretto
la mano a un cattolico e a un musulmano,
davanti alla principale tv russa.
“Putin ha capito che l’unità religiosa
può essere uno strumento per combattere
il terrorismo”, spiega don Ubaldo.
“Don Giussani ci ha sempre detto: non
preoccupatevi di quello che fate ma di
quello che siete. L’ho capito quando è
venuto a salutarmi un ragazzo che era
stato in orfanotrofio da noi. Ha detto
alla fidanzata: ‘Volevo farti conoscere
le persone che mi hanno fatto venire
voglia di sposarti’”.
Irene Trentin
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Postato da: giacabi a 17:41 |
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chiesa, cristianesimo
Roberto Grossatesta (1168 - 1253),
il Big Bang nel ’200
***
da: www.avvenire.it 11-08-07
MEDIOEVO
Uno studio ripropone la figura del vescovo scienziato, che già nel Medioevo parlava di un universo nato da un punto di energia
Solo il cristianesimo, con la sua idea di creazione, rese possibile lo sviluppo della scienza. E il maestro di Oxford intuì il nesso tra il «Fiat lux» e la "genesi" cosmica riconosciuta nel Novecento
Di Francesco Agnoli
La prima domanda che si pone lo storico della scienza moderna è sicuramente perché essa sia nata in Europa, e non altrove. Le spiegazioni possibili sono tante, ma sicuramente ve ne è una che risulta fondamentale: perché solo qui esisteva il concetto di creazione. Solo il cristianesimo infatti si fonda sull’idea che il mondo non coincida con Dio, ma sia, semplicemente, una creatura. Si tratta di una idea fondamentale, perché
libera l’universo da presenze divine immanenti, spirituali, che portano
ad una visione magica ed astrologica della realtà, e che rendono
impossibile la nascita del concetto di legge fisica.
L’universo greco, romano, animista ecc., è un "grande animale",
un’entità eterna, mai nata e destinata a esistere per sempre, secondo
una visione ciclica del tempo. Solo
l’universo cristiano non coincide con Dio, ma ha iniziato ad esistere
nel tempo, un tempo lineare, ed è regolato da leggi fisiche poste in
essere da un Creatore, inteso come Legislatore supremo, "divino
Artefice", come scriveranno Copernico e Keplero.
Quest’idea è talmente importante nella storia della scienza che proprio
da essa nascono, già nel medioevo, una serie di riflessioni cosmogoniche
straordinarie. Tra queste si segnala senza dubbio quella di Roberto Grossatesta, un vescovo legato alla scuola francescana di Oxford, che in Italia è purtroppo pressoché sconosciuto. Eppure Grossatesta non
fu solamente un grande studioso di lenti, di specchi, e dei fenomeni
della luce in genere, tanto da essere considerato uno degli inventori
degli occhiali, ma è anche colui che ha proposto, forse per primo, una
straordinaria ipotesi: che il mondo sia nato da una sorta di puntino
piccolissimo di luce-energia, posto in essere dal Creatore, ed espansosi
sino a formare l’universo intero. Grossatesta parte dal «Fiat
lux» del Genesi, e dalle sue osservazione di ottica, per affermare che
la luce, prima creatura, «è capace per natura di moltiplicare se stessa
in ogni direzione. Naturalmente infatti la luce generando si moltiplica
in ogni direzione, e, insieme con l’esistere, genera. Per questo riempie
immediatamente ogni luogo circostante». Proseguendo spiega che la
creazione della luce è anche l’origine di moto, tempo e spazio: il moto
della luce crea lo spazio, e il rapporto tra moto e spazio dà vita al
tempo. Moto, tempo e spazio, non sono quindi degli assoluti, ma dei
relativi, che hanno iniziato ad esistere, in un istante di tempo che «dà
inizio al tempo», non «continuazione del passato verso il futuro, ma
solo inizio del futuro». Nelle sue riflessioni a metà tra lo scientifico e il filosofico, Grossatesta arriva
quindi a negare l’esistenza di una materia eterna, teorizzata ad
esempio nel Timeo platonico, e a sostenere che il moto degli astri non
solo non abbisogna di anime astrali, ma neppure di intelligenze motrici,
essendo il mondo materiale non un "grande organismo" vivente, ma una
"mundi machina", una macchina del modo, regolata, come ogni meccanismo,
da precise leggi intrinseche. In
Grossatesta, ha scritto la Battisti Saccaro, «concezione creazionista
del mondo e concezione meccanicistica della sua formazione sembrano
poter coesistere grazie all’azione della luce: l’evento soprannaturale
della sua posizione è, nel De luce, dato per scontato, e l’unico accenno
che vi riscontriamo è là dove si parla della forma prima nella materia
prima creata; può quindi essere delineato il successivo costituirsi del
cosmo come sistema autoproducente senza l’ulteriore intervento del
Creatore». Si capisce quindi, dopo quanto si è detto, perché diversi
studiosi inglesi della scuola di Oxford, tra cui il Crombie, abbiano
parlato di Grossatesta come di un precursore della scienza moderna e
soprattutto dell’odierna teoria del Big Bang. Una teoria, è il caso di ricordarlo, che fu ripresa da
Galileo Galilei in una lettera del 1615 a monsignor Pietro Dini, in cui
partendo dal fiat lux del Genesi, ipotizzava appunto l’origine
dell’universo da un punto di luce energia. La
teorizzazione moderna di questa possibile origine del cosmo si deve
però al gesuita Lemaitre, ideatore dell’"atomo primordiale". Franco Prattico racconta al riguardo questo aneddoto: «Si dice che quando Georges
Lamaitre, un sacerdote scienziato che, con George Gamow, fu autore di
una delle prime formulazioni del Big Bang, cercò di discutere con
Einstein la possibilità di descrivere lo stato iniziale dell’universo,
il più grande fisico del nostro secolo abbia scrollato le spalle:
"Questa faccenda somiglia troppo alla Genesi", avrebbe detto, "si vede
bene che siete un prete". E non manca
ancora oggi chi considera questo modello con un certo sospetto, per la
sua somiglianza appunto con un "atto di creazione"» (Franco Prattico,
Dal caos… alla coscienza, Laterza). A ben vedere infatti il Big Bang,
così chiamato con disprezzo dal fisico ateo sir Fred Hoyle, che lo
considerava "troppo cristiano", è una teoria perfettamente compatibile
con la fede, in quanto presuppone, come notava Grossatesta, un mondo
originatosi dal nulla, in cui moto, spazio e tempo hanno iniziato ad
esistere e potrebbero un giorno, magari con un Big Crunch, scomparire.
Scrive Francis Collins, direttore del Progetto Genoma umano, nel suo Il linguaggio di Dio: «Per la tradizioni di fede secondo cui Dio ha creato l’universo dal nulla, questo [il Big Bang] è un risultato elettrizzante».
A un evento così sbalorditivo si addice la definizione di miracolo? La
sensazione di meraviglia generata dal Big Bang ha indotto parecchi
scienziati agnostici ad esprimersi in termini nettamente teologici. L’astrofisico Robert Jastrow, per esempio, conclude così il suo God and Astronomy: «Sulla
teologia, la teoria del Big Bang ha conseguenze profonde. Per lo
scienziato che ha vissuto alla luce della fede nel potere della ragione,
la storia finisce come un brutto sogno. Ha scalato le montagne
dell’ignoranza; è sul punto di conquistare la vetta più alta ed ecco
che, arrampicatosi sull’ultima roccia, viene accolto da un gruppo di
teologi seduti lì da secoli». E Collins
chiosa: «Il Big Bang domanda a gran voce una spiegazione divina. Non
riesco a capire come la natura avrebbe potuto crearsi da sé. Solo una
forza soprannaturale al di fuori del tempo e dello spazio avrebbe potuto
fare una cosa simile».
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Postato da: giacabi a 05:45 |
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medioevo, cristianesimo, collins, grossatesta
10. Dimensione umana del mistero della Redenzione
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L'uomo
non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere
incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato
l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo
fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo
Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l'uomo all'uomo
stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel
mistero della Redenzione l'uomo diviene nuovamente «espresso» e, in
qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non
c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»64. L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve,
con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e
peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve,
per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi»
ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per
ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore»65, se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l'uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna»66.
In
realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità
dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche
Cristianesimo.
Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e
forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed
insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la
certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni
aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo.
Esso determina anche il suo posto, il suo - se così si può dire -
particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e
dell'umanità. La
Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo,
sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per
mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il
senso della sua esistenza nel mondo,
senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E
perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso
la croce e la morte conduce alla risurrezione.
Il
compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo
particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di
indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il
mistero di Cristo,
di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità
della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si
tocca anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera - intendiamo - dei
cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.
IOANNES PAULUS PP. II REDEMPTOR HOMINIS
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Postato da: giacabi a 17:12 |
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chiesa, cristianesimo, gesù, giovanni paoloii
Medioevo: secoli bui!
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All’inizio dell’XI secolo il monaco di nome Eilmer volò con un aliante per più di 180 metri; la sua impresa fu ricordata per i successivi tre secoli. Secoli dopo, il bresciano Francesco Lana Terzi (1631-87), non un monaco ma un padre gesuita, proseguì in modo più sistematico lo studio del volo, guadagnando si l'onore di essere chiamato il padre dell'aviazione. Il suo libro Prodromo alla arte maestra, del 1670, fu il primo a descrivere la geometria e la fisica di un vascello volante. I monaci annoverarono anche abili orologiai. Il primo orologio di cui abbiamo notizia fu costruito dal futuro Papa Silvestro II per la città tedesca di Magdeburgo intorno all'anno 996.
T.Woods Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale.Cantagalli
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Postato da: giacabi a 05:53 |
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chiesa, medioevo, cristianesimo, wodds
Gli schiavi
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"La dottrina che vedeva gli schiavi come esseri umani e non come bestiame ebbe poi un' altra conseguenza importante: il matrimonio fra schiavi e liberi.
Nonostante fosse contrario alla legge in quasi tutta Europa, dal VII
secolo si registrarono numerosi casi di unioni miste, che di solito
coinvolgevano uomini liberi e donne schiave. La più famosa di queste unioni avvenne nel 649, quando Clodoveo II, re dei Franchi, sposò la schiava britanna Batilde. Nel 657 Clodoveo morì, e Batilde divenne reggente fino a quando il loro figlio maggiore raggiunse l'età per governare. Batilde
sfruttò la sua posizione per organizzare una campagna che ponesse fine
alla tratta degli schiavi e per riscattare coloro che si trovavano in
schiavitù. Alla sua morte, la Chiesa la proclamò santa.
Alla
fine dell'VIII secolo, Carlo Magno si oppose alla schiavitù e il papa e
molte altre potenti voci ecclesiastiche fe-cero eco a santa Batilde. Al termine del IX secolo, il vescovo Agobardo
di Lione tuonò: «Tutti gli uomini sono fratelli, tutti invocano un
unico padre, Dio: gli schiavi e i padroni, i poveri e i ricchi, gli
ignoranti e gli istruiti, i deboli e i forti [...] nessuno è superiore
agli altri [...]; non esiste [...] schiavo o uomo libero, ma c'è sempre
in tutte le cose un solo Cristo» . Nello stesso periodo
l'abate di Saint-Michel, Smaragdo, scrisse in un' opera dedicata a Carlo
Magno: «Re molto misericordioso, proibisci nel tuo Impero nuove
schiavitù» . Presto, nessuno «dubitava che la schiavitù in sé fosse
contraria alla legge divina» . Anzi, nell'XI secolo san Vulstano e sant' Anselmo condussero
una campagna per eliminare le ultime vestigia della schiavitù rimaste
nella cristianità e fu presto possibile dire che «nessun uomo, nessun vero cristiano potesse, in ogni caso,essere legittimamente considerato la cosa di unaltro»”
R.Stark La vittoria della ragione ed.Lindau
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Postato da: giacabi a 07:46 |
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cristianesimo, sbatilde
La Chiesa e la scienza
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Negli ultimi cinquant'anni, pressoché tutti gli storici della scienza tra i quali A.C. Crombie, David Lindberg, Edward Grant, Stanley ]aki, Thomas Goldstein e].L. Heilbron -sono giunti alla conclusione che la rivoluzione scientifica debba molto alla Chiesa.
Il contributo della Chiesa alla scienza andò ben oltre le idee -incluse
quelle teologiche -fornendo scienziati di prim'ordine, molti dei quali
sacerdoti. Per esempio, padre Niccolò Stenone, un convertito luterano fattosi prete cattolico, viene spesso identificato come il padre della geologia. Il padre dell'egittologia fu padre Athanasius Kircher. Colui che per primo misurò la velocità dell'accelerazione di un corpo in caduta libera fu un altro religioso, padre Giambattista Riccioli. Il padre gesuita Ruggero Boscovich è spesso ricordato come il padre della teoria atomica moderna. I gesuiti, del resto, a tal punto dominarono lo studio dei terremoti che la sismologia fu soprannominata "la scienza dei gesuiti".
T.Woods Come laChiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale
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Postato da: giacabi a 15:14 |
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chiesa, cristianesimo, wodds
La vera vita
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«Che cos'è il genere di vita proposto da Benedetto se non quello stesso che l'uomo dell'Occidente attuale cerca di raggiungere con il suo week-end, con la sua seconda casa? Il
silenzio, il verde, l'aria pura e i cibi semplici, la praticità
dell'abito, il lavoro manuale fatto con gioia, il dialogo con se stessi e
con coloro che ci sono cari, la lettura, la musica: queste le odierne aspirazioni. Ed è proprio ciò che era vita vissuta nell'oasi operosa del monastero benedettino».
Leo Moulin
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Postato da: giacabi a 12:39 |
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chiesa, cristianesimo, moulin
P. Clemente Vismara
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CLEMENTE, UN ENTUSIASTA DELLA FEDE
Nel
1983 ho rivisto Clemente Vismara in Birmania: aveva 86 anni e come
sapete è morto nel 1988 a 91. Sono stato con lui cinque giorni, abbiamo
viaggiato assieme decine di volte: era entusiasta della Birmania, del
suo popolo akhà, dei suoi bambini, dei suoi cristiani, del povero cibo e
della sola acqua come bevanda, della vita che faceva. Si riteneva
l’uomo più fortunato del mondo e non cessava di ringraziare Dio per la
vocazione missionaria. Un
uomo che, a 86 anni ripeto, dava serenità, gioia ed entusiasmo a tutti.
Non era certamente un illuso, anzi molto intelligente e furbo nelle
cose della vita; vedeva e soffriva le miserie e le malattie, le guerre e
i briganti da strada, la fame e la sete, la dittatura oppressiva, la
mancanza di molte cose necessarie: a 86 anni aveva il medico e
l’ospedale più vicini a Kengtung, distante 120 chilometri, cioè due
giorni di viaggio! Non gli mancavano le prove, le
sofferenze fisiche, le incomprensioni, i fallimenti; viveva isolato fra
popolazioni primitive con lingue difficili e mentalità molto diverse
dalla sua. Eppure non si era lasciato indurire dalle durezze della vita:
era pieno di gioia e di speranza, entusiasta di tutto quel che faceva.
Nel maggio 2006 ho tenuto a Ducenta (Caserta) una conferenza di presentazione del libro “Clemente Vismara, il santo dei bambini” (EMI 2004, pagg. 158, Euro 10,00.
Non l’avete ancora letto? Chiedetelo alla redazione del nostro
bollettino, non si capisce Clemente se non si leggono i suoi scritti sui
bambini). Ho rilevato quel che colpiva di più nella sua vita:
l’entusiasmo per tutto quel che faceva. Un signore ha chiesto: “Ammiro
molto padre Clemente, ma nel nostro mondo è molto difficile mantenere
questa sua gioia e speranza. Mi spieghi come faceva Clemente ad avere
uno spirito così giovanile”.
Ho risposto:
era entusiasta anzitutto della fede. Anche noi, cari amici, abbiamo,
grazie a Dio, la fede, ma forse la viviamo come stanca abitudine, come
un peso da portare e ci lascia freddi e soli con le nostre difficoltà e
sofferenze. Vismara
era innamorato di Gesù e della Madonna, sempre contento non perché le
cose gli andassero bene, ma perché viveva in ogni momento alla presenza
di Dio, vedeva in ogni persona il Signore Gesù, prendeva tutto dalle
mani di Dio. Non era certamente un uomo diverso da noi,
né più intelligente, né più istruito, né più forte di noi. Semplicemente
pregava di più e chiedeva a Dio la grazia di fare la sua volontà perché
sapeva che nell’accettazione della volontà di Dio sta la nostra gioia e
la nostra pace e, naturalmente, il coraggio e l’entusiasmo col quale
affrontiamo la vita.
Una
volta Clemente incontra per strada i banditi che portano via tutto a
lui e alle persone che viaggiano con lui. Scrive in una lettera:
“Poveretti, forse avevano fame anche loro! Debbo dire che ci hanno
trattato bene”. Capite? Lo rapinano e quasi li ringrazia perché l’hanno
“trattato bene”! Eppure, se ci pensiamo, se si fosse arrabbiato, se
avesse imprecato e invocato vendetta, cosa sarebbe cambiato? Magari poi
non dormiva di notte. Invece lui dormiva anche dopo disavventure molto
peggiori di questa. Un’altra volta lo derubano mi pare di un giaccone
militare portato dall’Italia, che metteva sempre quando faceva freddo.
La polizia trova un uomo con quel giaccone, l’arresta e lo porta al
padre dicendogli: “Ecco il ladro, lo gettiamo in prigione”. Clemente
vede che è un poveraccio e replica: “No, lasciatelo libero, quel
giaccone glie l’ho regalato io”. E lo tiene in casa dandogli lui da
mangiare e un lavoro nella sua grande missione.
Nel
volumetto “Il santo dei bambini”, i 45 racconti di Clemente su orfani e
bambini richiamano spesso, con i fatti, la norma di San Giovanni Bosco:
“Non
si può educare se non si ama”. Clemente educava perché amava, anche i
bambini più discoli, anche quelli che lo derubavano, non escludeva
nessuno. Amava “senza la pretesa di essere amato”. Un
testimone al suo processo di beatificazione, Francesco Aiko, catechista
che è stato trent’anni con Vismara e Mongping, ha dato questa
testimonianza giurata: “Padre
Vismara era un uomo veramente buono, non faceva preferenze per nessuno,
per lui non c’erano ricchi o poveri, ma trattava tutti allo stesso
modo. Sapeva fare una carità intelligente, perché chiedeva sempre
qualche soldo per educare al valore delle cose, ma a chi era veramente
povero e impossibilitato anche a quel piccolo segno di rinunzia, dava
senza chiedere nulla e questi riceveva tutto quello di cui aveva
bisogno. Accoglieva tutti senza rimandare mai nessuno fossero anche
musulmani, indù o buddhisti”.
Capite perché era
sempre sereno, entusiasta ed era definito dalla gente “il prete che
sorride sempre”? Perché non metteva al centro se stesso, ma l’altro, il
fratello, tutti i frateli e le sorelle nei quali vedeva Gesù Cristo.
Piero Gheddo
Missionario del Pime, Milano
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Postato da: giacabi a 15:19 |
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cristianesimo, pvismara
Cristo secondo un ateo
***
da il foglio
del 23 giugno 2007
Veyne
è un grande storico dell’antichità. Marxista, nicciano, anche
anticristiano, ma curioso dei fatti nella loro oggettività. Ha scoperto
che il cristianesimo è fantastico
di Marina Valensise
Circola
e vende a Parigi un libro straordinario, che “riabilita” la conversione
dell’imperatore Costantino e ne spiega il segreto
Per l’intellettuale ideologo il cristianesimo è soltanto emozione, ma per lo storico è una forza d’amore che cambia il mondo
“Gli dei pagani vivevano per se stessi, quello cristiano ama comunque. Ma le radici di quella fede oggi sono state divelte”
Dove si narra anche la storia ideologica dell’autore di questo libro sorprendente, e qualche sua bizzarria personale e storica
Doveva
essere un laico integrale, un non credente dichiarato, uno storico
dell’antichità, uno dei massimi ancora viventi, studioso di Roma,
dell’impero, dei gladiatori, della politica del panem et circenses, ex
marxista, ex comunista, nietzschiano, amico di Michel Foucault e intimo
del poeta ermetico René Char, a spiegare come mai il cristianesimo sia
una delle più belle avventure della storia dell’umanità.
L’impresa è opera di Paul Veyne, grande irregolare della storiografia
francese, di quelli che scrivono divinamente, pur avendo insegnato a
lungo all’Università per finire a quarant’anni al Collège de France,
reclutato da Raymond Aron.
Lo
ha fatto in un libro magnifico che si legge come un romanzo, pubblicato
da Albin Michel e subito acquistato da Garzanti. S’intitola “Quand
notre monde est devenu chrétien (312-394)”. Racconta per filo e per
segno la conversione dell’imperatore Costantino, il quale, alla vigilia
della battaglia contro Massenzio, fece un sogno, come sanno tutti gli
studenti italiani, “In hoc signo vinces”, e decise di iscrivere sul
proprio elmo e sugli scudi del suo esercito la croce, anzi il sacro
crisma, e cioè la prime lettere del nome di Cristo, il X e la P greche
intrecciate. Il 28 ottobre 312, inalberando il nuovo simbolo cristiano
nella battaglia di Ponte Milvio, sconfisse Massenzio, l’usurpatore che
aveva cercato di sottrarre al suo controllo Roma e le regioni d’Italia. E
l’indomani sfilando vittorioso per la via Lata, cioè l’attuale Corso,
alla testa delle sue truppe, l’imperatore convertito segnò la fine del
paganesimo antico.
La
conversione di Costantino fu uno degli eventi decisivi della storia
occidentale, e persino mondiale, spiega Paul Veyne, con la tranquilla
sicurezza dell’antichista sperimentato. “Fu l’atto più audace mai
compiuto da un autocrate che decise di sfidare apertamente ciò che
pensava la maggioranza dei suoi sudditi, mostrando sovrano disprezzo
verso i culti pagani”. Con lui il cristianesimo, religione di una
minoranza di bizzarri originali, che pretendevano di attingere
all’eternità dell’anima e alla virtù professata dai filosofi pagani,
sulla base della fede in un unico Dio e nel suo figlio incarnato,
divenne la religione dell’imperatore romano, uno dei quattro che
all’epoca si dividevano l’impero. Grazie alla conversione cristiana, Costantino,
che allora aveva 35 anni, sconfisse i suoi nemici, pose fine alla
divisioni dell’impero, consolidò il potere riunificandolo, introdusse il
principio della tolleranza dei culti pagani, ma li svalorizzò senza
nemmeno aver bisogno di proibirli. E se non fu lui a mettere fine alle
persecuzioni dei cristiani, che erano già cessate due anni prima, fece
del cristianesimo la religione di Roma, favorendo e foraggiando in tutti
i modi la sua Chiesa e trattando i vescovi cristiani da “carissimi
fratelli” in nome della nuova alleanza a servizo della “santa pietà
eterna e inconcepibile del nostro Dio, (che) si rifiuta nel modo più
assoluto di sopportare che la condizione umana continui a errare nelle
tenebre”, come riportava Eusebio di Cesarea.
Il
suo fu un gesto audace, inaudito, assolutamente straordinario.
Costantino era convinto di essere stato scelto per decreto divino per
svolgere un ruolo provvidenziale nell’economia della salvezza. E con la
sua conversione rivoluzionò la storia del mondo. La novità del libro di
Paul Veyne, che torna ora su questa vecchia storia di millesettecento
anni fa, è che lo fa senza
partito preso, con mente libera, muovendo con coraggio intellettuale
privo di pregiudizi per cercare di capire l’audacia della conversione di
Costantino e il suo perché, a partire dallo stato d’animo
dell’imperatore, dalla sua intima convinzione, e in base a testi
autentici eppure dimenticati, perché considerati un “tale oltraggio che
la maggior parte degli storici l’hanno disdegnato nel loro imbarazzo, e
quasi non ne parlano”.
La
forza liberatoria del libro è così evidente che viene spontaneo
chiedersi come sia nato. “È nato contro me stesso”, risponde in vena di
paradossi il vecchio Veyne, parlando dall’eremo di Bedoin, nella
Valchiusa a quaranta chilometri da Aix en Provence, dove vive i postumi
di un’operazione al ginocchio, accanto alla moglie malata e in mezzo ai
ricordi di una vita di studi. “Sono
totalmente miscredente e fra tutte le religioni se ce n’è una che
proprio non sopporto per la sensibilità, l’umiltà, la familiarità è
proprio il cristianesimo”, dice con una punta di compiacimento
volterriano, comune in Francia a ogni intellettuale che si rispetti
desideroso di “épater le bourgeois”. Ma da storico e da patito della
neutralità del metodo storico alla Max Weber aggiunge subito: “Bisogna
fare uno sforzo contro te stesso. Non credere alle leggende. Distruggere
le leggende di sinistra, per le quali il Cristo non sarebbe mai
esistito, e della destra, per le quali Gesù, lungi dall’essere il
fondatore del cristianesimo fu solo uno degli ultimi profeti giudaici.
Non bisogna essere né pro né contro. La cosa più difficile, però, quando
sei un miscredente e un non simpatizzante è riuscire a capire
dall’interno cosa si ha nel cuore e nell’animo quado sei cristiano. Il mio problema, in fondo, era come quello di un asessuato che cercasse di comprendere cos’è l’erotismo”.
Dice
proprio così Paul Veyne usando una formula lievemente blasfema e per
questo efficace. E si capisce che ha perso il pelo, ma non il vizio.
Veyne infatti è lo studioso che ha teorizzato la conoscenza “obiettale”.
È l’epistemologo che dopo il sessantotto ha conquistato l’attenzione di
Raymond Aron con un saggio contro le idee del Sessantotto su “Come si
scrive la storia”. È il professore che nel 1974 venne eletto al Collège
de France proprio grazie a Aron, il quale, deluso dal sociologo
Bourdieu, finì poi per rompere anche con lo stesso Veyne. E la rottura
avvenne per motivi di incomprensione politico-filosofica. “Come storico -
racconta lo stesso Veyne in “Le quotidien et l’intéressant”, una specie
di autobiografia in forma di intervista uscita da Hachette nel 1995 -
“io cercavo di mostrare le differenze che separano le epoche e che fan
sì che le stesse parole non abbiano lo stesso significato per noi. Mi
ritrovai davanti a un pubblico che sembrava assai irritato da queste
banalità. I discepoli di Aron mi obiettarono, con la più viva
indigniazione, la permanenza dei valori. Sorpreso da quell’happening, mi
voltai verso Aron, seduto in cattedra accanto a me, il quale mi rispose
con freddezza. Al mio paese, alla visita importuna di un vicino si
risponde lasciando abbaiare i cani. Capii il messaggio e mi curai di
farmi dimenticare da Aron, e dimenticarlo”.
Veyne,
come si vede, per essere incline all’obiettività del metodo storico,
resta pur sempre uno scettico, uno che nega la razionalità della storia.
È un nietzschiano che non disdegna di corteggiare l’irrazionale e di
esporsi in prima persona per parlare di sé. È uno stendhaliano che
rivendica la capacità di appassionarsi a cose che non riguardano i
propri interessi, e ama infarcire i suoi libri di egotismo, anche quando
racconta “la brouille” metodologica col suo scopritore. Lo fa, credo,
per stigmatizzare la famosa oggettività di Aron, inficiata ai suoi occhi
da una forma di “patriottismo gregario”, da “un precauzionismo portato
all’estremo”, “dall’inquietudine per la coesione sociale”, dalla paura
del conflitto e del disordine, dalla pretesa di combinare il filosofo e
il politico, lo studioso imparziale e il consigliere del principe, il
teorico e l’opinionista, che secondo lui era la vera cifra di Aron, e
dal desiderio di accreditarsi come l’uomo della ragione, estraneo al
fanatismo, sino a minimizzare la distinzione di Weber tra giudizi di
fatto e giudizi di valore, e dunque eludere la regola della neutralità
assiologica. Aron, ricorda Veyne, “incuteva rimorsi e sensi di colpa a
chi non la pensava come lui”. Il suo racconto della lite è un ottimo
esempio di come in Veyne la propensione all’oggettività non escluda
affatto il soggettivismo, o il narcisismo, come dice lui che aborre il
termine, pur facendone ampio uso, quando racconta per esempio il suo
incontro mercenario con una prostituta, che diventa un incontro d’amore,
e quando rivela l’entità del suo reddito netto dopo 40 anni di
carriera, o quanto insiste, ora, nel ricordare che la sua passione per
l’antichità nacque per caso, dalla scoperta di un pezzo di anfora tra le
colline della Valchiusa, che riportò a casa come un trofeo e mise
sottovetro al posto del bouquet di nozze della madre, incorrendo in una
punizione esemplare.
Così
slittando da un piano all’altro, e passando con maestria dall’
“obiettale” al soggettivo, Veyne è riuscito nell’impresa impossibile di
spiegare, da ateo e miscredente, cosa succede nella testa di un
imperatore pagano che scopre la fede in Cristo. “Credo di essermi almeno
avvicinato”, dice Veyne con schivo candore. Di sicuro pensa al capitolo
in cui descrive “il capolavoro del cristianesimo primitivo”. Ne
spiega il successo per l’originalità di una religione dell’amore, per
l’autorità sovrumana che emanava dal Signore Gesù, per l’intensità di
vita che raggiungeva colui che riceveva la fede, perché “ogni suo moto
interiore, ogni gesto, ogni azione poteva prendere un senso e una
direzione, verso il bene o verso il male, un senso che l’uomo, a
differenza dei filosofi, non sceglieva da solo, ma seguiva orientandosi
verso un essere assoluto, che non era un principio, ma un grande essere
vivente”. È per questo che il suo libro, come lui stesso
riconosce, è tanto piaciuto ai cristiani, che si riconoscono nel
“capolavoro” della nuova fede religiosa e nella passione inedita tra il
divino e l’umano.
Veyne
infatti descrive con un esempio triviale l’abisso che separa il
cristianesimo dal paganesimo. “Una popolana può andare a raccontare le
sue pene coniugali alla Madonna; se fosse andata a raccontarle a Era o
Afrodite, l’antica dea si sarebbe chiesta cosa gli fosse saltato in
mente a quella pecora di sottoporle questioni di cui non sapeva che
fare”. Veyne parla del rapporto appassionato di amore e autorità,
consustanziale a Dio e all’uomo. “Quando
un cristiano pensa al Dio misericordioso che si è sacrificato per gli
uomini, e si appassiona per la sorte dell’umanità, delle singole anime,
sa che continua ad essere amato e considerato da lui. Mentre gli dei
pagani vivevano prima di tutto per se stessi”.
Ma le cose che scrive son piaciute anche ai laici che non vogliono sentire parlare di radici cristiane. “La
nostra epoca, dice Veyne, è postcristiana. E mi dispiace non aver usato
l’aggettivo, per descrivere una civiltà come la nostra dove imperano il
femminismo, il socialismo, la libera sessualità, e le radici cristiane
non signficano niente. Molti lettori mi hanno ringraziato di questa
messa a punto. In realtà noi siamo come una vecchia famiglia che ha
dimenticato i valori cristiani dei suoi antentati, ma continua a vivere
in una vecchia casa piena di affreschi, di chiese e cattedrali, e
continua a proteggerle come un patrimonio, anche se le radici non
esistono più, perché sono morte”.
Quanto
alla contentezza dei credenti in Francia che si rallegrano
dell’obiettività dello storico miscredente, davanti al capolavoro
cristiano, Veyne non prova alcun fastidio. Non è uno di quegli
anticlericali ossessivi che devono smarcarsi dalla chiesa. Ma cita il
detto di René Char: “On ne fait pas d’objection à un homme ému”. E
glossa: “Non puoi spiegare a un innamorato che la donna che ama è una
cretina” . Il fatto è che Veyne è un irregolare, del tutto privo di
tabù, che riconosce senza complessi la sua dinamica intellettuale
apparentemente bizzarra: “Non avrei passato quindici anni della mia vita
a studiare paganesimo e cristianesimo, se non avessi avuto una
sensibilità religiosa”. E lui che vive a due passi da Carprentras, nella
terra della cattività avignonese, dove ogni pietra trasuda ancora
religiosità, sa di che parla. “In un villaggio vicino a casa mia vive un
convertito al buddismo, un tipo di 25 anni, che sa a malapena leggere e
scrivere. C’è una famiglia di evangelici, che la domenica si riunisce
con centinaia di altri fedeli in una chiesa per fare ‘parlare la
lingua’. E in stato di trance si mettono a farfugliare suoni
incomprensibili, tipo questo per esempio”. E Veyne, professore al
Collège de France, studioso di Seneca e di Simmaco, mima per telefono lo
stato di trance verbale sbattendo le labbra in suoni inconsulti come
“ebbbabbabebbbaessccciimmema”. Spiega che parlano lingue che non hanno
mai imparato grazie allo Spirito Santo.” Li ho visti coi miei occhi,
nessuno può negare che la maggioranza della popolazione abbia una
sensibilità religiosa. E se non lo capisci, non puoi spiegare
l’importanza del cristianesimo nella storia dell’umanità”.
Per
lui, dunque, la conversione di Costantino non è il gesto di un politico
machiavellico disposto a tutto per consolidare il proprio potere, come a
lungo si pensò. È il segno di un’adesione autentica a una fede nuova, a
una religione rivoluzionaria e irresistibile anche per un imperatore
romano, cresciuto nel politeismo pagano.
“Ci sono vari stadi, spiega l’antichista. Un imperatore romano, come
Nerone, può fare quello che vuole in termini religiosi. Può avere una
religione personale, indipendente da quella dei sudditi. Ma alla storia
della conversione di Costantino per puro opportunismo nessuno ci crede
più. Gli storici ormai, son tutti d’accordo per dire che fu sincera e
personale. Io sono andato oltre, per cercare di capire in cosa creda uno
che si converte. E ho scoperto che questa sincerità non è banale. È il
portato di una scelta delirante di tipo escatologico, come quella di
Trotzki e Lenin alla vigilia della rivoluzione bolscevica, quando
capirono che il potere dei soviet avrebbe cambiato il corso dell’umanità
e la storia mondiale”.
Veyne
lo dice e lo scrive anche nel suo libro, in lunghe note di commento a
piè di pagina. E la cosa non ha niente di banale per un vecchio
militante comunista come lui, che aderì al Pcf a vent’anni, nel 1951,
quando salì a Parigi per frequentare l’Ecole Normale e cominiciò a
legare con Michel Foucault, Gérard Genette, Jean Claude Passeron, i
mattacchioni del Saint Germain de Près marxista. Fu allora che si mise
in testa di sfuggire all’infamia del collaborazionismo vissuto in
famiglia, praticato da un padre, piccolo impiegato di banca diventato
ricco grazie al commercio di vino. Rimase
comunista fino al 1956, fino all’invasione dell’Ungheria da parte
dell’Armata rossa, sognando e mitizzando sul Pci, il partito di
Togliatti, ben più eretico, più libero, più aperto di quello francese,
salvo mostrare sorpresa alla smentita della leggenda consegnata agli
archivi. “Non posso crederci, che sia stato Togliatti a far pressioni
sui sovietici per l’intervento in Ungheria”, dice oggi Veyne, sentendo
parlare per la prima volta dei lavori di Zaslavsky e Aga Rossi
.“Tornando a Trotzki”, insiste Veyne,“era davvero convinto che il
comunismo avrebbe cambiato il corso dell’umanità. Io ho conosciuto la
stessa cosa a vent’anni, e poi come allievo di Louis Althusser, il
professore della Ecole Normale che dopo l’Ungheria cercava, da profeta
comunista, di rimettere il marxismo sui binari della storia. E il fatto
che i russi venissero fucilati in massa, per Trotzki, come per
Althusser, non cambiava nulla alla loro fede religiosa, all’idea di
cambiare il corso della storia umana per costruire la felicità dell’umanità. L’imperatore
Costantino visse la stessa identica fede, solo sul piano metafisico.
Gli altri pensavano al partito. Lui era convinto che grazie alla chiesa
avrebbe orientato l’umanità verso la salvezza, per realizzare un disegno
provvidenziale”.
In
questo senso, dunque, sbaglia secondo Veyne chi s’ostina
nell’interpretazione di Edward Gibbon, che sulla scia di Voltaire
associò la caduta dell’impero romano al cristianesimo. “Gli
storici hanno rappresentato i cristiani come personaggi senza
consistenza, senza spina dorsale. Ma non è così. L’impero romano è
crollato nel 406 per le invasioni barbariche. Costantino, pur essendosi
convertito, anzi grazie alla conversione, fu uno dei grandi riformatori
dell’impero. Combatté Licinio, riformò l’esercito, ripristinò il senato e
le istituzioni romane. La prova è che l’impero, nostante il
cristianesimo, tenne per quasi un secolo dopo di lui. Crollò, lo ripeto,
per un puro incidente, frantumandosi come un vaso in mille pezzi quando
i barbari invasero i confini da tutte le parti”. Quanto
a Gibbon, dice Veyne, ha concepito la decadenza dell’impero romano
pensando all’impero bizantino. “Ha confuso Costantino con un imperatore
bizantino. In realtà, lungi dall’essere una figura della decadenza, Costantino
fu un visionario, che si mise in testa di tollerare il paganesimo,
senza colpire gli alti funzionari pagani, ma tacciando di imbecillità le
loro superstizioni e i loro culti. Fu un pragmatico, che vietò i
sacrifici rituali, anche se non poté sopprimere il culto delle vestali.
Nessuno sa se il giorno della vittoria a Ponte Milvio quando salì in
Campidoglio sacrificò a Giove, come era costume. Ma a partire dalla sua
conversione, l’orrore fisico del sangue nei sacrifici, il culto offerto
ai demoni come una magia nera, divenne insopportabile. Fu allora che
cominciò a imporsi la chiesa cristiana, e la religione che pose fine ai
sacrifici, col sacrificio di Cristo morto in croce per salvare
l’umanità, poté cambiare la faccia del mondo
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Postato da: giacabi a 17:38 |
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cristianesimo, veyne
La carità
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Postato da: giacabi a 14:31 |
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cristianesimo, spaolo
La coscienza cristiana
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«Amatevi gli uni gli altri [è il discorso che sta facendo ai monaci lo starets Zosima],
padri, amate le creature di Dio. Noi non siamo più santi dei secolari
per il fatto di essere venuti qui a rinchiuderci tra queste mura, ma,
anzi, ognuno che
è venuto qui, per il fatto stesso che ci è venuto, ha riconosciuto di
essere peggiore di tutti i secolari e di chicchessia sulla terra, e
quanto più a lungo poi vivrà il religioso fra le sue mura, tanto più
caldamente dovrà riconoscere questo, giacché, in caso contrario, non ci
sarebbe neppure ragione che egli fosse venuto qui. Quando invece riconoscerà non solo di essere peggiore di tutti i secolari, ma di
essere di fronte a tutti gli uomini colpevole per tutti e per ciascuno
di tutti i peccati umani collettivi e individuali, allora soltanto lo
scopo di questa nostra vita sarà raggiunto [Cristo in
croce: “Egli che non aveva commesso peccato, il Padre lo ha fatto
peccato”18, dice san Paolo]. Sappiate infatti, o diletti, che ogni
cenobita come noi risponde senza meno delle colpe di tutti e di ciascuno
sulla terra, non solo della generica colpa del secolo, ma ognuno
personalmente per tutti gli uomini per ciascun e uomo vivente sulla
terra. Questa consapevolezza è la corona della vita religiosa, come del
resto di qualunque uomo sulla terra perché i religiosi non sono già
uomini diversi dagli altri, ma tali semplicemente quali tutti gli uomini
della terra dovrebbero essere. Soltanto
allora il nostro cuore saprà dilatarsi di un amore infinito, universale
e insaziabile. Allora ciascuno di noi avrà la forza di conquistare il
mondo intero con l’amore e mediante le proprie lagrime lavare i peccati
del mondo»
. F.M. Dostoevskij, I fratelli..., op. cit., parte seconda, libro quarto, cap. I, pp. 220.
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Postato da: giacabi a 21:55 |
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dostoevskij, cristianesimo
Il vero cristiano
***
«Perché si dovrebbe aver pietà di me? dici tu. Perché?
È vero, non ce n’è motivo di avere pietà di me, bisogna crocifiggermi,
non già compiangermi. Ebbene, mettimi in croce, giudicami, ma nel
mettermi in croce abbi pietà di me. E allora io andrò incontro al mio
supplizio volontieri, perché io non ho sete di gioia, ma di dolore e di
pianto... Ma
colui che ebbe pietà di me, ma colui che ebbe pietà di tutti gli
uomini, colui che comprese tutto avrà certamente pietà di noi. È l’unico
giudice che esista. Egli verrà nell’ultimo giorno e domanderà: “Dov’è la figliola che si è sacrificata per una matrigna astiosa e tisica e per dei bambini che non sono i suoi fratelli? Dov’è la figliola che ebbe pietà del suo padre terrestre e non respinse con orrore quell’ignobile beone?”. Ed Egli dirà: “Vieni, ti ho già perdonato una volta, e ancora ti perdono tutti i tuoi peccati, perché hai molto amato”. Così Egli perdonerà alla sua Sonia, le perdonerà, io lo so, poc’anzi l’ho sentito qui nel cuore, mentre ero da lei. Tutti saranno giudicati da Lui ed
Egli perdonerà a tutti, ai buoni e ai malvagi, ai savi e ai miti. E
quando avrà finito di perdonare agli altri perdonerà anche a noi.
“Avvicinatevi voi pure”, ci dirà, “Venite, ubriaconi; venite, viziosi;
venite, lussuriosi” e noi ci avvicineremo a Lui, tutti, senza timore, e
ci dirà ancora: “Siete porci; siete uguali alle bestie, ma venite lo
stesso”. E i saggi, gli intelligenti, diranno: “Signore, perché accogli costoro?”. Ed Egli risponderà: “Li accolgo, o savi, io li accolgo, o intelligenti, perché nessuno di loro si credette degno di questo favore”, e ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti e anche Katerina Ivanovna comprenderà, anche lei. O Signore, venga il tuo regno”»20.
F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, parte prima, cap. II, Bur, Milano 1990, pp. 26-27
“la creazione più alta in cui si incarna, nei romanzi di Dostoevskij, la santità è paradossalmente una prostituta. Nemmeno Zosima (il monaco staretz dei ‘Fratelli Karamazov’, ndr) vive una viva comunione con Dio personale come Sonja in ‘Delitto e castigo’… La
religione di Sonja è adesione di tutto il suo essere a Cristo. Essa
crede in Dio, nel Dio vivente e vive un rapporto con Dio di umile e
confidente abbandono”.
Don Divo Barsotti, Dostoevskij – il più grande romanziere cristiano di tutti i tempi –
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Postato da: giacabi a 14:01 |
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dostoevskij, cristianesimo
Cristo è la vera Vita
***
Da: XL Magazine N°3 Novembre 2005: Head To Crist
Siamo a metà giugno e Brian "Head" Welch, ex chitarrista dei Korn, è
circondato dai cannibali. Almeno così pensa lui, ma non è un esperto. È
la sua prima volta in India e si è addentrato a piedi nella giungla
dello stato dell'Orissa, in un’afa opprimente, per conoscere i membri di
una tribù locale. Ora è attorniato da circa 1.500 persone <
Convertirsi
a Gesù non è una novità tra le rockstar. Negli anni Ottanta Alice
Cooper smise di fare a pezzi bambole sul palco e abbraccio la fede
battista dei suoi genitori. E prima di lui Bob Dylan si converti nel
1978 e incise gli album "Slow Train Coming" e "Saved", cosa che turbò i
suoi fan quando la "svolta elettrica" di tredici anni prima. Oggigiorno
le classifiche sono piene di amici di Gesù. Gli U2 si dichiarano apertamente cristiani,
come Atlete e i Creed. Brandon Flowers dei Killers è mormone. Persino
Liam Gallagher ha iniziato ad andare in chiesa. <>, dice Mack Joseph
autore di Faith, God & Rock'n'‘Roll. <
<<Volevo
morire. Avevo tutto, un bus personale, denaro, il tutto esaurito negli
stadi, ma mi sentivo infelice. Non sapevo perché, non potevo comprarmi
la felicità, il denaro non mi faceva essere un buon padre, non potevo
comprarmi la felicità dalla schiavitù della droga, non avevo un amico>>.
Così inizio a frequentare la chiesa, la Valley Bible Fellowship di
Bakersfield. Da tossico, si rivolse a Gesù come ultima spiaggia. Comprò
una Bibbia. Per
giorni e giorni girò per la sua casa da solo, sniffando, leggendo le
Sacre Scritture e invocando Dio di liberarlo dalla droga. Ha funzionato.
Di
li a non molto Welsh lasciò la band. Già prima aveva idea di andarsene
<
E,
se possibile, convertire i gangsta rapper. Welch ha tentato persino di
convertire 50 Cent. Tutto è iniziato in Israele, a marzo, mentre Welch
veniva battezzato nel Giordano con altri 20 membri della comunità
religiosa di Bakersfield cui appartiene. <
Si
alza in piedi e tira su la maglietta scoprendo tutta una serie di
tatuaggi sue entrambe le braccia, il petto e il dorso. Parecchi sono
recenti, Welch indica con orgoglio le lettere tatuate sulle nocche a
formare il nome Jesus.
Sulla mano spicca "Marco 9,43. Se la tua mano ti scandalizza,
tagliala". <
Welch non
fa skate, è qui perche i giovani fanno parte di un gruppo di studio
della Bibbia, gli sketboarders for Jesus, guidata dal Pastore Jay
Alabama, a suo tempo skater professionista che ha passato 6 mesi in
galera per possesso di cocaina.
A fianco di Alabama c’è
Cristian Hosoi, una leggenda dello skate, che ha scontato 5 anni per
aver tentato di trasportare 500 g di crystal meth da Los Angeles a
Honolulu.
Entrambi sono vicini ai 40 – eroi della controcultura stritolati da un vortice di droga ragazze e pressioni commerciali.
Hanno
un passato con cui Welch può identificarsi. << Lo skate era
trasgressione>>, dice Alabama, << come il Pank Rock è oggi
per i cristiani la stessa cosa, vanno controcorrente. La società
promuove sesso droga e R'n'R e noi siamo contro. Siamo cristiani
integralisti ribelli>>.
Che
Welch continui o meno a fare Rock è ancora da vedere. Il sottofondo
musicale del suo sito headtocrist.com inizia heavy ma subito si stempera
nei cori come se l'autore fosse ancora indeciso.
Qualunque direzione scelga Welch sta vivendo un momento magico.
<<
Ho scritto il brano migliore di tutta la mia carriera dopo l'incontro
con quei cannibali >>, esclama. << Incredibilmente intenso.
Si intitola Lost World è ho scritto il testo sul portatile. Dio mi ha
regalato la canzone migliore, nella giungla. E' sai una cosa? Non è che
l'inizio. Conoscete il detto "la vita è una puttana è poi viene la
morte"? >>. Allarga le braccia alla maniera di Gesù e esclama: << La vita non fa schifo. La vita è meravigliosa >>.
Brian "Head" Welch, ex chitarrista dei Korn
|
Postato da: giacabi a 14:22 |
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cristianesimo, welk korn
Cristo non ci fa invecchiare
***
E giacché sono in vena di confessioni voglio andare aldilà del verosimile e spingermi sino all'incredibile. I segni essenziali della giovinezza sono tre: la volontà di amare, la curiosità intellettuale e lo spirito aggressivo. Nonostante
la mia età, a dispetto dei miei mali, io sento fortissimo il bisogno di
amare e di essere amato, ho il desiderio insaziabile di imparare cose
nuove in ogni dominio del sapere e dell'arte e non rifuggo dalla
polemica e dall'assalto quando si tratta della difesa dei supremi valori.
Per quanto possa parere ridevole delirio ho la temerità di affermare
che mi sento anche oggi sollevato, nell'immenso mare della vita,
dall'alta marea della gioventù.
Papini
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Postato da: giacabi a 11:43 |
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cristianesimo, papini
L'Ortodossia
***
"
Io confesso qui liberamente tutte le stupide velleità della fine del
secolo XIX; Come tutti i ragazzi che si rispettano, ho voluto essere in
anticipo sulla mia età. Come loro, ho voluto essere qualche diecina di
minuti in anticipo sulla verità. La conclusione è stata che mi sono trovato in ritardo di diciotto secoli... Quando fantasticavo di stare in piedi da me solo, mi trovavo in questa ridicola posizione: che mi appoggiavo, senza saperlo, a tutto il Cristianesimo... Non sono riuscito ad inventare, da me, che una copia peggiorata delle tradizioni già esistenti nella civiltà religiosa...
Ho tentato di fondare di mia testa una eresia; e quando stavo per darle
gli ultimi tocchi, ho capito che non era altro che l'ortodossia "
Gilbert K. Chesterton (L'Ortodossia, , Morcelliana 1932).
|
Postato da: giacabi a 07:36 |
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cristianesimo, chesterton
Perché Croce poteva dirsi cristiano
***
Da : www.avvenire.it 11-07-07
Dario Antiseri
Nel
1949, in occasione dell'ottantatreesimo compleanno di Benedetto Croce,
Alcide De Gasperi gli invia un telegramma di auguri. E a De Gasperi
Croce risponde con una lettera: «Io penso spesso a te, non
politicamente, ma umanamente, e mi fo presente la vita che sei costretto
a condurre, e ti ammiro e ti compiango e ti difendo contro la gente di
poca fantasia che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è
necessario sopportare a un uomo responsabile di un alto ufficio per fare
un po' di bene e per evitare un po' di male. Che
Dio ti aiuti (perché anche io credo, a modo mio, a Dio, a quel Dio che a
tutti è Giove, come diceva Torquato Tasso), che Dio ti aiuti, nella
buona volontà di servire l'Italia e di proteggere le sorti pericolanti
della civiltà laica e non laica che sia […]».
Si potrebbe pensare che questo richiamo a Dio da parte di Croce sia dettato unicamente dall'occasione di una lettera ad un credente come De Gasperi. Ma così non è, come anche risulta dallo scambio epistolare con la signora Maria Curtopassi. Dalla lettera del 23 giugno 1941: «[…] Io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo nella mia anima». È nella notte del 16 agosto 1942 che Croce medita sul perché non possiamo non chiamarci cristiani. E il 30 dello stesso mese scrive ancora alla signora Curtopassi: «[…] Sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato da Gesù e da Paolo». E aggiunge: «Su ciò ho scritto una buona nota di carattere storico». Sta qui, appunto, l'origine del famoso (anche se più citato che davvero letto e meditato) articolo di Croce dal titolo «Perché non possiamo non dirci 'cristiani» (poi pubblicato da Laterza nel 1943). È «per semplice osservanza della vita» che, ad avviso di Croce, quella cristiana è stata una rivoluzione «così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata ed irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo». Per Croce, tutte le altre rivoluzioni, tutte le scoperte che segnano le epoche della storia umana non reggono il confronto con il cristianesimo. E la ragione di ciò sta nel fatto che «la rivoluzione cristiana operò nel centro dall'anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità». Riconoscimento del grandioso ruolo storico, cioè etico e politico, del messaggio cristiano, sensibilità religiosa e rispetto per i credenti: una lezione, questa di un difensore della libertà come Croce (e anche di altri laici come Popper e Bobbio), che dovrebbe far meditare quanti ai nostri giorni, in un impasto di ignoranza ed arroganza, vorrebbero che si togliesse il crocifisso dalle scuole e dai tribunali; e quanti persistono pervicacemente nel ritenere che nella Costituzione europea non debba apparire il richiamo alle «radici cristiane» dell'Europa. Aveva ragione Goethe: «Nulla è più funesto dell'ignoranza attiva». |
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Postato da: giacabi a 14:43 |
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croce, cristianesimo
Postato da: giacabi a 16:11 |
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testimonianza, croce, cristianesimo
LA MAGGIOR PARTE DEI
CRISTIANI
Temo davvero che la maggior parte di coloro che si chiamano cristiani, qualunque cosa possano professare di credere, qualunque cosa possano credere di sentire, qualunque calore, e illuminazione, e amore essi possano pretendere di possedere come cosa loro propria, proseguirebbero per la loro strada quasi come fanno ora, né molto meglio, né molto peggio, se credessero che il Cristianesimo fosse una favola. Quando sono giovani essi soddisfano le loro voglie o, almeno, vanno in cerca delle vanità del mondo; via via che il tempo passa, si mettono in qualche promettente carriera di affari, o qualche altra maniera di far danaro; poi si sposano e si sistemano; e quando il loro interesse coincide con il loro dovere, sembrano essere, e si credono di essere uomini rispettabili e religiosi. Crescono attaccati alle cose così come sono; cominciano a mostrare un certo zelo nel combattere il vizio e l'errore e seguono l'idea della pace verso tutti gli uomini. E una condotta questa che, fin dove può giungere, è giusta e degna di lode. Io dico soltanto che essa non ha necessariamente nulla affatto a che fare con la religione. (...) Non arrischiano nulla, non rischiano, non sacrificano, non abbandonano nulla per la fede nella parola di Gesù Cristo.
John Henry Newman “Il cuore del mondo”
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Postato da: giacabi a 14:07 |
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cristianesimo, newman, non senso
L'essenza
del cristianesimo
Il cristianesimo non è una teoria della Verità o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth, dalla Sua concreta esistenza, dalla Sua opera, dal Suo destino, cioè da una personalità storica.
Una certa analogia di tale situazione avverte colui per il quale un
uomo acquista un significato essenziale. Non 1"'Umanità" o 1"'Uomo"
divengono in tal caso importanti, ma questa persona. Essa determina
tutto il resto e tanto più profondamente e universalmente quanto più
intensa è la relazione. Ciò può avvenire in un modo così possente che
tutto, mondo, destino, compito si attua attraverso la persona amata;
essa è come contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, a tutto essa dà
un senso. Nell'esperienza
di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu e
tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. Il cristianesimo
afferma che per l'Incar- nazione del Figlio di Dio, per la Sua morte e
la Sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta
la creazione è richiesto di mettersi sotto la signoria di una persona concreta, cioè di Gesù Cristo.
Romano Guardini |
Postato da: giacabi a 13:48 |
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cristianesimo, guardini
La scienza moderna
***
La
scienza moderna è nata grazie ad alcune circostanze favorevoli dovute
in buona parte al cristianesimo, che porta a vedere il mondo come
l'opera razionale di un Creatore infinitamente sapiente e l'uomo come
creatura fatta a immagine di Dio, con una intelligenza capace di
penetrare nell'ordine impresso da Dio nel mondo. Questa scienza si è
sviluppata grazie al lavoro e alle convinzioni di scienziati
profondamente cristiani. La scienza e la fede sono alleate, non nemiche.
E la fede cristiana offre aiuti più validi per evitare un materialismo
che niente ha da spartire con la scienza, affinchè la scienza possa
contribuire alla soluzione dei gravi problemi che oggi l'umanità deve
affrontare".
(Sir John Eccles, Premio Nobel per la Medicina, in Mariano Artigas, Le frontiere dell'evoluzionismo, Ares, 1993, p. 231 ).
Copiato da www.definitivo.it |
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