Cristo risorto Signore della Vita
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Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia,
una potenza infinita dalla quale
-in questo mondo terreno,
nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere,
negli anni, pochi o tanti che siano –
noi mutuiamo, attingiamo letizia.
Perché un uomo,
con la coscienza di tutta la sua pochezza,
è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia:
Gesù è misericordia.
Egli è mandato dal Padre
per farci conoscere
che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo
a misericordia.
(Luigi Giussani)
“Gesù Cristo è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.
Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono
perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il
Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.”
Card.Giacomo Biffi
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Postato da: giacabi a 08:15 |
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cristianesimo, giussani, biffi
La formazione cristiana
fonte di vita gioiosa
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“Sulla
base della mia esperienza posso affermare che la formazione teologica e
spirituale è fondamentale per vivere nel tempo la fedeltà al dono che
ci è stato affidato. Negli anni in cui sono stato privato di tutto,
perfino della possibilità di leggere qualcosa, mi sono tornate
continuamente nella mente e nel cuore i capisaldi della mia formazione
di cristiano, di sacerdote e di vescovo.
Senza l'assimilazione profonda di quei valori, primo fra tutti l'amore
per la verità e l'esigenza di obbedire a Dio e di piacergli in tutto,
forse non sarei sopravvissuto.
Molti dei miei compagni di carcere, incapaci di perdonare a chi ci faceva del male, sono morti anche dopo la liberazione per le conseguenze dell'ira accumulata e dei traumi subiti. Non erano isolati, vivevano in compagnia di altri, ma tornati a casa, dalla famiglia che li aspettava con ansia, rimanevano in un angolo, traumatizzati, e pieni di astio contro i parenti che non avevano fatto di tutto per liberarli prima, contro il governo, contro i comunisti; siccome non possono vendicarsi, odiano. Questo fa loro male e dopo pochi mesi muoiono. Perdonando sempre tutti, cercando di amare tutti e di mettere così in pratica la vita a cui ero stato formato, non solo sono sopravvissuto ma sono rimasto nella pace e nella gioia. Ecco perché mi sembra che dobbiamo curare sempre la nostra formazione e quella dei giovani che si preparano al sacerdozio: se le fondamenta sono buone, la casa regge tutti i colpi della vita e se la manutenzione è accorta essa resterà sempre bella e capace di accogliere e donare la vita.”
Card. F.X.N. Van Thuan da:Gioia del dono di una Chiesa di comunione
a P.
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Postato da: giacabi a 09:25 |
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cristianesimo, van thuan
Cio’ che abbiamo di piu’ caro
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14 Marzo 2008
1)
Ogni volta che siamo chiamati alle urne siamo provocati, come
cristiani, a rendere ragione della nostra fede. È questo, infatti, a
essere ultimamente in gioco nel modo in cui diamo il nostro contributo
alla costruzione della società.
Come ci ha insegnato don Giussani, ciò che ognuno ama viene a galla di fronte alle urgenze del vivere: «Se in primo piano è veramente la fede, se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi», emerge di fronte alla prova, nel giudizio e nella decisione. Perciò le elezioni rappresentano per noi un’occasione educativa unica, per verificare a che cosa teniamo veramente e per smascherare la possibile ambiguità che sta alla radice di ogni nostra azione.
2) Alla politica non chiediamo la salvezza, non è da essa che l’aspettiamo, per noi e per gli altri.
La tradizione della Chiesa ha sempre indicato due criteri ideali per giudicare ogni autorità civile così come ogni proposta politica:
a) la libertas Ecclesiae. Un potere che rispetta la libertà di un fenomeno così sui generis come
la Chiesa è per ciò stesso tollerante verso ogni altra autentica
aggregazione umana. Il riconoscimento del ruolo anche pubblico della
fede e del contributo che essa può dare al cammino degli uomini è,
dunque, garanzia di libertà per tutti, non solo per i cristiani.
b) il «bene comune».
Un potere che si concepisce come servizio al popolo ha a cuore la
difesa di quelle esperienze in cui il desiderio dell’uomo e la sua
responsabilità – anche attraverso la costruzione di opere sociali ed
economiche, secondo il principio di sussidiarietà – possono crescere in
funzione del bene comune, ben sapendo che da nessun programma esso potrà
venire realizzato in termini definitivi, a causa del limite intrinseco a
ogni tentativo umano.
3) Per queste ragioni noi
accordiamo la nostra preferenza a chi promuove una politica e un
assetto dello Stato che favoriscano quella “libertà” e quel “bene”, e
che possano perciò sostenere la speranza del futuro, difendendo la vita,
la famiglia, la libertà di educare e di realizzare opere che incarnino
il desiderio dell’uomo. Lo facciamo in un momento storico che esige di non disperdere il voto, per non aggiungere confusione a confusione.
In particolare, invitiamo a guardare ad alcuni amici che, a partire dal personale impegno con la comune esperienza cristiana, hanno già dimostrato in questi anni di perseguire una politica al servizio del bene comune, della sussidiarietà e della libertas Ecclesiae. Ci auguriamo che essi possano continuare a documentare la novità che ha investito la loro vita, come la nostra, affinché nella loro azione si possa rendere ancora più esplicito il frutto dell’educazione ricevuta: una passione per la libertà e per il bene vissuta come carità.
Comunione e Liberazione
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Postato da: giacabi a 14:08 |
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cristianesimo
Vince chi perde,
la logica della Croce
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da: www.avvenire.it
DI GIACOMO BIFFI
L a rivincita del Crocifisso. L’espressione allude all’evoluzione dello stato d’animo degli apostoli e degli altri amici di Gesù nel corso degli accadimenti che ci hanno salvato. Essi nella morte del Signore hanno visto una catastrofe: una sconfitta totale e senza rimedio per l’insegnamento, l’azione, il prestigio del loro Maestro; e una sconfitta totale e senza rimedio anche per loro stessi. In lui avevano riposto ogni loro speranza; per lui avevano abbandonato la casa, il lavoro, le normali relazioni sociali; su di lui avevano puntato la loro unica vita: avevano lasciato tutto (cf. Mc 10,28). E avevano perso tutto. Ed ecco che arriva quell’inaspettato e incredibile terzo giorno, con il sepolcro scoperchiato e vuoto, con il succedersi incalzante delle manifestazioni del Redivivo, con la ricomparsa (in uno splendore nuovo) del loro antico affascinatore. Quel terzo giorno è stato naturalmente percepito come il «giorno della rivincita»: una rivincita davanti al «clan» e a quei conoscenti che avevano sempre guardato con scetticismo alla loro infatuazione e forse già avevano iniziato a deriderli dopo la fine ingloriosa dell’esperienza intrapresa; una rivincita davanti alle autorità del popolo d’Israele; una rivincita davanti all’umanità intera. La sera del terzo giorno in mezzo a quel gruppo ormai disilluso e sbandato comincia a serpeggiare il sollievo e la sensazione che la bella avventura, con i suoi attori di sempre, sta per ricominciare da capo: davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone! (Lc 24,34). Era una rivincita inaspettata. Tutto ciò è plausibile e possiede una sua verità. Se però l’attenzione si sposta dal dramma come era psicologicamente vissuto da chi era immerso nelle oscure vicissitudini terrene al disegno eterno del Padre, allora (a un livello di conoscenza più alto, più chiaro, più comprensivo) ci si rende conto che bisogna parlare, per tutto quel che è avvenuto, di totale e assoluta «vittoria ». Io ho vinto, aveva subito affermato Gesù poco prima di essere arrestato, al principio del suo percorso di umiliazione, di sofferenza, di morte, di risurrezione, di gloria (Gv 16,33: «Io ho vinto il mondo»). Del resto, egli ci aveva già informato che perfino la sua crocifissione sarebbe stata una vittoria, anzi una «vittoria cosmica» e una conquista dei cuori: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire (Gv 12,3233). La Chiesa, con l’intelligenza donatale dalla Pentecoste, ben presto capisce che tutto quanto si è svolto a Gerusalemme nelle ore più buie della storia è intrinsecamente parte del vittorioso progetto di Dio. (...) Qui si impongono alcune considerazioni generali sull’avvenimento pasquale come ciò che è fondante e costitutivo della nostra essenziale autenticità di credenti in Cristo. Quando all’indomani della Pentecoste gli apostoli partono per annunciare il Vangelo a tutte le genti, su comando del loro Signore e Maestro, non hanno altra religione che quella ebraica, non riconoscono altro Dio che il Dio di Abramo, di Mosè e di Davide, non possiedono altro libro sacro (almeno inizialmente) che la Bibbia degli israeliti: tutti elementi teologici e cultuali che non li distinguevano dal resto della popolazione di Gerusalemme e della Giudea. Che cosa allora era proprio, esclusivo, caratterizzante del Vangelo e della nuova realtà della Chiesa? Era il convincimento e l’annuncio pubblico che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, era risorto, era adesso vivo, era Signore. Questo è ciò che nel cristianesimo è ancora oggi proprio, esclusivo, caratterizzante. «Occorre a questo punto persuadersi che il cristianesimo fin dal suo contenuto primordiale è qualcosa di unico, di decisivo, di imparagonabile. Prima ancora che una religione, una morale, un culto, una filosofia, è un avvenimento: l’avvenimento della risurrezione di Gesù di Nazaret che si fa principio del rinnovamento degli uomini e delle cose. Perciò è intramontabile: le dottrine nascono, fanno fortuna, incantano per decenni e magari per secoli, poi decadono e muoiono. Il fatto cristiano resta, proprio perché è un fatto; e resta indipendentemente dall’accoglienza e dal numero delle adesioni che riceve. Tutte le religioni – oggi si sente dire sempre più spesso – hanno un loro valore che è giusto riconoscere. E si può anche ammetterlo, purché non ci si dimentichi che la realtà cristiana in questo discorso non c’entra. Il cristianesimo, primariamente e per sé, non può essere ridotto a un sistema di convincimenti, di precetti, di riti che interpreta e regola i rapporti tra le creature e il Creatore. Vale a dire, per quanto la frase possa apparire paradossale, primariamente e per sé, non può essere ridotto a 'una religione': collocarlo tra le religioni (anche soltanto per ragioni di sistemazione e di metodo, o per la buona intenzione di favorire il dialogo interreligioso), se non si chiarisce l’intrinseca ambiguità del collegamento o quanto meno il suo significato soltanto analogico, vuol dire travisarlo e precludersi ogni sua autentica comprensione. «La resurrezione del terzo giorno può essere letta come una rivincita dopo la sconfitta; in realtà il trionfo era già nel Venerdì santo» |
Postato da: giacabi a 14:13 |
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cristianesimo, biffi
Solo Dio «è»
Il mondo «da solo » non produce né vita, né verità, né amore ***
da: www.avvenire.it 05/03/08
Caro prete operaio, in realtà Marx ci allontana dai poveri»
DI: MADELEINE DELBRÊL Caro Padre Fratello ( Jacques Loew), Sono rimasta impantanata per lei, nel bene e nel male, nelle mie considerazioni sulla missione in tutte le sue forme. Penso che la cosa migliore sia spedirle tutto quanto alla rinfusa, disordinatamente. In caso contrario rischierebbe di aspettare troppo tempo! Penso che il filo conduttore sia il confronto fra la vocazione cristiana nella sua essenza e la vocazione missionaria. Un missionario è prima di tutto un cristiano. Per lui, essere missionario rappresenta lo sbocciare della propria vocazione cristiana. Tanto più questo cardine è ancorato in maniera profonda al mondo, tanto più rischia di perdere la fede nel «senso unico» della salvezza che non può venire che da Dio attraverso Cristo. Rischia di confondere il progresso umano con la salvezza e rischia di mettersi al servizio delle «ricette» di felicità che il mondo propone in quel momento. Rischia di dare al mondo la paternità di qualche idea-forza che non è in realtà che una briciola di Vangelo separata dal suo contesto e di cui alcuni gruppi umani si sono fatti carico. Rischia di unire il messaggio di Cristo ad altri messaggi, di farne un elemento della salvezza dell’uomo ad opera dell’uomo, di mettere il Vangelo al servizio di cause che non sono semplicemente e puramente quelle della salvezza. Potrebbe dimenticare che solo Dio «è». Che il mondo «da solo » non produce né vita, né verità, né amore. Rischia di amare il mondo più che gli uomini. Rischia di farne una realtà assoluta quando non si tratta che di un relativo, di una possibilità incessantemente modificata dal gioco di forze buone e malvagie di tutti i cuori di tutti gli uomini. Il mondo non ha importanza. Sono gli uomini che sono importanti. Il mondo è quello che essi sono. Si rischia anche di fare del mondo una astrazione, di credere che un mondo ricostruito con le nostre mani avrebbe uno slancio maggiore e potrebbe portare la salvezza. È chi vive ogni giorno che fa e disfa il mondo. Non è lavorando al mondo che lo si renderà migliore: è ogni uomo migliore che renderà migliore il mondo. Il Cristo che ci è dato da vivere deve tradursi nella nostra vita: non deve essere né adattato, né rettificato. La vita non si adatta a chi la vive, né la verità agli occhi di chi la vede. Cristo è come è. Non possiamo renderlo diverso. Non possiamo renderlo altro che amore. Non possiamo modificare il suo amore che è prima di tutto amore per Dio e, di conseguenza, amore per gli uomini. Cristo ha frantumato personalmente i falsi assoluti del mondo: il denaro, l’onore, il potere, rifiutandoli liberamente. Ma non li ha ricostruiti stabilendo un’altra società umana con delle nuove gerarchie di onore, di potere e di ricchezza. Ha vinto il mondo relativizzandolo, perché la vittoria del mondo sull’uomo è fondata sul presentarsi a lui come assoluto. Cristo, di cui il cristiano vive, non gli offre le ali per una evasione verso il cielo, ma un peso che lo trascina verso il più profondo della terra. Questa vocazione nei confronti del mondo che sembra rappresentare in maniera specifica l’essenziale della vocazione missionaria non è che la conseguenza della presa di Cristo su di noi. Diminuire, assottigliare il nostro legame con Cristo e con la Chiesa significa, malgrado tutte le apparenze, diminuire quello che in noi tende verso il mondo e ci permette di immergerci in esso. Si tratta della condizione di un amore per il mondo che non sia un’identificazione con esso ma un dono. Da tutto questo risulta che per la nostra vita pratica, al «punto di svolta» in cui tutti i rami della missione si trovano in questo momento – quello a cui noi siamo chiamati non è un particolare tipo di salvezza temporale dell’umanità, ma la salvezza stessa che Cristo è venuto portare e che è una salvezza «sopra »nnaturale, che richiede dei mezzi «sopra»nnaturali, mezzi che non possono venire se non dall’alto. Se, a causa del fatto che li amiamo e viviamo in mezzo a loro, facciamo nostri i metodi e il movimento dei marxisti come mezzi di salvezza, ci ritroviamo su una strada completamente sbagliata. 10 luglio 1950 |
Postato da: giacabi a 19:33 |
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comunismo, cristianesimo, delbrel
Lo sguardo cristiano
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Se noi, attraverso quello che facciamo, non portiamo quello sguardo attraverso cui noi siamo stati guardati, siamo come tutti. Come dice quell'espressione stupenda di don Giussani: «Uno sguardo che dà forma allo sguardo». Questo è il cristianesimo!
Julián Carrón Tende Avsi 2006/2007 e degli Avsi Point - Milano, 18 novembre 2006 - Tracce n. 11,2006
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Postato da: giacabi a 09:28 |
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cristianesimo, giussani, carron
Chi segue il Signore
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Non mancherà
mai lo spazio a chi corre verso il Signore. Chi ascende non si ferma mai, va da inizio in inizio, secondo inizi che non finiscono mai. Gregorio di Nissa |
Postato da: giacabi a 15:29 |
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cristianesimo, gregorio di nissa
Il cristianesimo è
lo stupore che Dio è un uomo
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«Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo con vera bramosia, che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile per sempre, eccolo qui seduto».
F. Kafka - Il Castello
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Postato da: giacabi a 20:04 |
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cristianesimo, kafka, gesù
Niente guerre per la vita ma solo testimonianza
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*Presidente Fondazione per la Sussidiarietà
di Giorgio Vittadini* da il Giornale 21-02-08
L’attuale
situazione demografica del nostro Paese presenta impressionanti
analogie con quella dell’Impero romano nel suo declinare. Il sociologo
californiano Rodney Stark, che si dichiara agnostico, nel suo libro Ascesa e affermazione del Cristianesimo,
mostra che nel mondo pagano l’aborto era un metodo di contraccezione di
massa e l’infanticidio era praticato spesso nel caso di figli malati o
handicappati. Il matrimonio era un’istituzione in crisi e le famiglie
erano poco numerose. Per tutte queste ragioni la natalità era in
vertiginosa diminuzione e non riusciva a compensare la forte mortalità.
In questo contesto i cristiani erano un’eccezione. Erano contrari ad aborto, infanticidio, prostituzione, omosessualità, perché mossi da un amore all’uomo e all’ordine naturale delle cose che veniva loro dall’imitazione di Gesù Cristo. Manifestavano questa differenza attraverso la loro esperienza quotidiana che non poteva non colpire anche i nemici più acerrimi. L’amore alla vita, anche la più debole, poneva interrogativi a chi era uso valutare gli esseri umani solo per il loro potere e la loro ricchezza. Perciò, pur non facendo di questa concezione una battaglia politica capace di costringere i pagani ad adeguarsi ai loro usi più umani, nel giro di qualche secolo le loro concezioni su matrimonio e rispetto per la vita divennero prassi prevalenti nella nuova Europa cristiana. Uno scenario opposto si riscontra nello scorso secolo in Paesi cattolici come l’Irlanda, la Polonia, l’Italia, la Spagna. Una legislazione confacente ai principi cristiani e una morale prevalente che si rifaceva agli stessi principi, non è riuscita a impedire il distacco di molti da un modo umano di trattare l’amore e i figli in arrivo. Secondo uno studio del prof. Bernardo Colombo, pubblicato nel 1976 - ovvero due anni prima dell’entrata in vigore della legge 194 - su Medicina e Morale rivista dell’Università Cattolica, il numero di aborti in Italia era già tra i 100.000 e 200.000 (i dati più recenti parlano di 130.000, di cui 36.000 di donne straniere). Successivamente, i cattolici si sono impegnati - e ancora si impegnano -, con alterni risultati, nella sacrosanta battaglia perché la legislazione non divenga del tutto aliena dal rispetto della vita. Ad esempio, grazie anche al loro impegno, la legislazione sull’aborto in Italia è risultata meno distruttiva che in altri Paesi. Tuttavia, quando si sono tradotti i principi morali in battaglie frontali, fino al referendum sull’aborto, ovunque si è persa la partita. Quale è la debolezza di questa traiettoria moderna? La dimenticanza dell’insegnamento della storia, il venir meno dell’esperienza di novità vissuta e testimoniata da persone e famiglie più liete, anche di fronte a situazioni e scelte che chiedono più sacrificio. Ogniqualvolta l’impegno morale e politico mette in ombra questo oscuro e quotidiano lavoro di educazione e testimonianza, quelle che sembrano scorciatoie si rivelano in poco tempo una via senza uscita. |
Postato da: giacabi a 14:44 |
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aborto, cristianesimo, stark
Non c'è fede senza ragione
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Postato da: giacabi a 15:02 |
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chiesa, cristianesimo, stark
La realtà cristiana
è il mistero di Dio entrato nel mondo
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Il cristianesimo non nasce come frutto di una nostra cultura o come scoperta della nostra intelligenza: il cristianesimo non si comunica al mondo come frutto della modernità o della efficacia di nostre iniziative. II cristianesimo nasce e si diffonde nel mondo per la presenza della «potenza di Dio». «Deus in nomine tuo salvum me fac.»2
Questa potenza di Dio si rivela in fatti, avvenimenti, che
costituiscono una realtà nuova dentro il mondo, una realtà viva, in
movimento, e quindi una storia eccezionale e imprevedibile dentro la
storia degli uomini e delle cose.
La realtà cristiana è il mistero di Dio che e entrato nel mondo come una storia umana. E solo la potenza di Dio che dovunque inizia, diffonde, conduce avanti il cristianesimo, negli individui e nelle società.
Don Giussani da: Appunti di metodo cristiano
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Postato da: giacabi a 19:57 |
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cristianesimo, giussani
Perché il cristianesimo non diventi spiritualismo
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Napoleoni. Lui nell'ostia c'è o non c'è? Questo è il punto.
La Valle. Si;ma non c'e in questo modo fisicistico a cui si e voluto ridurre.
Napoleoni.Si, c'e in modo fisico.
La Valle. C'è, come c'e qui tra noi...
Napoleoni. No...
La Valle: E
come no: ti sembra più importante la presenza di Cristo nell'ostia che
la presenza di Cristo in te e in me in questo momento? Non è così,
Claudio.
Napoleoni. Perché se no il cristianesimo diventa uno spiritualismo.
La Valle.No, diventa
precisamente la fondazione dell'immagine e della somiglianza di Dio,
diventa l'andare al Padre senza mediazioni che non sia la
sua; diventa questa liberazione in atto, diventa il ritorno al Genesi,
diventa la restaurazione precisamente nella condizione del giardino.
Napoleoni. Si, ma l'uomo per arrivare a questo ha bisogno di condizioni che non possono essere concepite solo come condizioni spirituali.
La Valle. Certo, certo, nella natura. ..
Napoleoni. Ma la natura vuol dire il corpo.
La Valle. Il corpo, la storia, certo.
Napoleoni. Ma questo vuol dire... io credo che il punto centrale del cristianesimo sia l’incarnazione. Questo era il Figlio di Dio.
Claudio Napoleoni(il più famoso economista della sinistra, prima di morire riapprodò alla fede) da : Conversazione con il deputato Raniero La Valle
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Postato da: giacabi a 19:04 |
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perle, barcellona, cristianesimo, macciocchi
Il cristianesimo
"Il cristianesimo doveva essere una cura radicale; invece se ne è fatto uno di quei rimedi che si usano contro il raffreddore".
Kierkegaard
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Postato da: giacabi a 14:46 |
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cristianesimo, kierkeergaard
Il cristianesimo
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È
il cristianesimo il fondamento ultimo di libertà, coscienza, diritti
dell’uomo e democrazia, i capisaldi della civiltà occidentale.
«A
tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative. Continuiamo ad
alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere
postmoderne».
Jürgen Habermas “Tempo di passaggi”, Feltrinelli
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Postato da: giacabi a 14:09 |
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cristianesimo, habermas
L'annuncio evangelico
nel mondo greco-romano e giudaico
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a cura di Luigi Negri
L'avvenimento cristiano
si pone per la prima volta dentro la storia degli uomini, di fronte a
due mondi che coesistevano senza quasi entrare in contatto: il mondo greco-romano,
cioè il mondo della cultura e quello ebraico, considerato indegno di
ogni rapporto col primo. Esisteva in verità anche un terzo mondo,
costituito dai cosiddetti barbari, ma esso, rispetto agli altri due,
rappresentava solo una sorta di preistoria.
È
da notare che il cristianesimo è entrato in contatto con entrambi
questi mondi - e successivamente anche coi barbari - senza sceglierne
uno contro gli altri, ma diventando un fatto significativo per ciascuno
di essi. È evidente che il cristianesimo è un fenomeno capace di dialogo
con l'umano, fin dal momento in cui entra nella storia. Non esiste
nella storia degli uomini, e in particolare nella storia della civiltà
mediterranea, un altro fatto altrettanto «fruibile» da persone in
situazioni tanto diverse.
Le lettere scritte fra il 50 e il 100 d.C. da Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni sono i primi documenti che esprimono come la Chiesa stessa si è concepita o si è posta. Una frase di san Paolo (I Corinti 1,22) ci offre la chiave di lettura: «Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani. Ma per coloro che sono chiamati sia Giudei che Greci predichiamo Cristo, potenza e sapienza di Dio».
Il cristianesimo si inserisce nell'ambito di una problematica fondamentale dell'uomo di ogni tempo e di ogni condizione: il problema della salvezza,
cioè della verità e del significato della vita. Per i Greci, cioè per
la cultura del tempo, la sapienza coincideva appunto con la ricerca di
tale significato. L'originalità
della Chiesa non consiste, pertanto, nel parlare della salvezza, ma
nell'annunciare che la salvezza è un fatto, un avvenimento.
Lo conferma il capitolo settimo degli Atti degli apostoli, quando Paolo
parla per la prima volta al mondo culturale greco, il più alto espresso
dagli uomini di quel tempo, che cercava la salvezza attraverso un
tentativo di interpretazione razionale della realtà. Nella ricerca del
senso ultimo delle cose, i Greci erano avanzati moltissimo, fino a
capire che esso è di natura totalmente diversa rispetto alla storia e
alla concretezza degli elementi dell'esistenza: è un altro mondo, il
mondo dell'Essere, di Dio. La drammaticità della vita umana consisteva
nel fatto che l'uomo si scopriva contemporaneamente parte di Dio e del
suo mondo, e parte della storia del mondo corruttibile; insieme anima e
corpo.
Il
vertice della sapienza greca era, quindi, l'idea di abbandonare la
materia, la storia, per rifugiarsi nell'assolutezza della vita come
contenuto e fine della propria ricerca intellettuale.
A loro volta i Giudei, per una degradazione interna della loro tradizione, ritenevano che la sapienza fosse una posizione morale di fronte alla vita e alla storia. L'essere di Dio aveva la sua espressione autentica nel codice di comportamento che aveva dato. Bisognava quindi comportarsi coerentemente per essere felici.
Di fronte a questi due grandi orientamenti culturali, la novità cristiana non consistette nel proporre un'altra dottrina della salvezza, ma nell'affermare che la salvezza c'era già, era accaduta nella storia.
Proprio qui sta la grande provocazione culturale del cristianesimo: i Greci sentirono con orrore Paolo parlare della resurrezione di Cristo, e a prezzo di un forte disagio Plinio, nel 112, scriverà all'imperatore Traiano di «questo Cristo che alcuni vogliono risorto» e Traiano, risponderà all'incirca: «Non preoccuparti: sono dei pazzi».
Ora, i cristiani, dicendo che «il Verbo di Dio si è fatto carne ed abita in mezzo a noi»,
affermano non solo che la salvezza è un fatto storico, contingente, ma
che continua a rimanere presente. Infatti il cristianesimo non è una
dottrina ma una realtà storica, un gruppo di uomini che afferma di
essere il luogo dove l'evento definitivo di Cristo continua ad essere
presente ed a influire sulla storia (il Concilio Vaticano II definirà la Chiesa «sacramento di Cristo»).
L'annuncio
cristiano della salvezza intesa come vita, morte e resurrezione di un
uomo, e continua presenza di Dio nella storia attraverso l'unità dei
cristiani, fu per gli uni follia, per gli altri scandalo.
La vita della Chiesa primitiva
Alla fine del II secolo appare una bellissima presentazione del cristianesimo al mondo greco-romano, nota come «Lettera a Diogneto»: «I
cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio né
per lingua, né per costumi: non abitano in città proprie, né usano un
gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro
dottrina non è la scoperta del pensiero di qualche genio umano, né
aderiscono a correnti filosofiche. Vivendo in città greche o barbare,
come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo, nel
vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno esempio di una vita sociale mirabile, o meglio paradossale».
La Chiesa appare dunque come una vita sociale che si esprime diversamente nella
consapevolezza che il fondamento della propria unità è l'avvenimento di
Cristo, che perdura nella storia come salvezza di Dio offerta a tutti
gli uomini. Travisiamo completamente il fatto cristiano se non ci rendiamo conto che è apparso come un popolo nuovo, non più caratterizzato dalla razza o dalla cultura, ma da un'unità profonda fra persone diverse.
Il termine stesso con cui la Chiesa si è chiamata, «ecclesia», (è il termine tecnico che indica l'assemblea degli uomini liberi nella «polis»
greca) è insieme il più generico e il più particolare. Esso indica,
contemporaneamente, l'unica assemblea e tutte le assemblee particolari
che via via nascevano. Fin dall'inizio la Chiesa appare nel mondo come universale e particolare insieme, e i due termini non si elidono.
Chiesa è la Chiesa che si raduna nella casa di Aquila e nello stesso
tempo, Chiesa è l'unica Chiesa cattolica. La Chiesa è dunque un'unica
realtà sociale che, in forza di questa sua unità, si esprime in modalità
anche molto differenziate.
Fin dai primi decenni appare assolutamente chiaro che questa unità ha come garanzia la funzione autorevole
particolare riservata a coloro che proseguono, dentro la vita della
Chiesa, la funzione dei dodici apostoli, cioè di coloro i quali avevano
condiviso la vita pubblica di Gesù. Tra di essi esercita una particolare
responsabilità il successore di Pietro nella sede in
cui l'apostolo aveva posto la sua residenza dopo aver abbandonato la
Palestina: Roma diventa guida di tutta la Chiesa.
In altre parole, l'unità
è garantita dal riferimento dei vescovi, successori degli apostoli, a
«colui che presiede l'universale carità della Chiesa» (come si esprime in una sua lettera uno dei più antichi e famosi vescovi, Ignazio di Antiochia), cioè al capo della Chiesa di Roma.
Già
alla fine del I secolo le questioni più importanti che sorgono tra le
Chiese sono risolte ricorrendo al vescovo di Roma, che interviene senza
incontrare nessuna difficoltà o contestazione. Allo stesso modo, a
partire almeno dalla seconda metà del I secolo, diventa abbastanza
consueto che l'elezione di un vescovo a capo di una comunità locale,
normalmente effettuata dal clero e dal popolo riuniti, venga ratificato dal vescovo di Roma o da qualche suo delegato.
Pertanto la teoria secondo cui la struttura gerarchica della Chiesa è
subentrata alla Chiesa dei Vangeli attraverso una rottura successiva
operata da un apparato ecclesiastico e dalla volontà di potere di
alcuni, urta contro questa realtà; la Chiesa, fin dalla Pentecoste, si è determinata come una realtà unitaria, universale e insieme particolare, gerarchica, garantita dal riferimento ultimo al ministero di Pietro.
Proprio
questa sua struttura agilissima ed essenziale ha permesso alla Chiesa
il massimo di penetrazione anche in contesti culturali, sociali ed
etnici assai diversi, a partire dalla consapevolezza espressa da san
Paolo nella lettera ai Galati (III, 26-29). «Tutti voi infatti siete
figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi tutti siete un essere solo in Cristo Gesù».
La Chiesa si rivela come una vita di popolo che sa integrare tutti. Le differenze che esistono non sono criteri determinanti, bensì semplici condizioni della vita. Ciò che invece definisce la persona è l'incontro con Cristo, che la coinvolge nel rapporto con Dio rendendola veramente «uomo». Mentre
nell'età moderna le grandi ideologie al potere hanno sempre tentato di
eliminare artificiosamente e violentemente le differenze (il nostro
stesso Stato unitario è nato tentando di cancellare le differenze
culturali), per la Chiesa le differenze non negano l'unità in nome di
Cristo, la quale anzi, essendo qualcosa di assoluto, si esprime
maggiormente proprio attraverso di esse.
Fin dall'inizio, dunque, la Chiesa ha affermato che la salvezza è legata ad un avvenimento storico continuamente presente attraverso la realtà della Chiesa stessa.
Quest'ultima si presenta strutturata come organismo vivente guidato e
fondato sulla regola della comunione nel nome di Cristo (ecco la
possibilità di mettere in comune la vita, considerando con molta libertà
le proprie risorse materiali e spirituali). Non solo: la Chiesa ha anche preteso di essere il luogo dove si fa esperienza della salvezza. L'affermazione
straordinaria è, dunque, che la salvezza accade storicamente per ogni
uomo nell'appartenenza alla Chiesa, senza alcun rinvio al futuro.
Vivendo in essa, infatti, accettando questa compagnia, la vera umanità
dell'uomo si manifesta e la salvezza diviene così esperienza. Come
dimostra ancora la lettera a Diogneto: «Abitano nella propria
città, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come
cittadini, ma sono staccati da tutto; si sposano come tutti e generano
figli, ma non espongono i loro nati; hanno in comune la mensa, ma non il
letto; vivono nella carne, ma non secondo la carne; dimorano sulla
terra, ma sono cittadini del cielo; amano tutti e da tutti sono
perseguitati; non sono conosciuti e sono condannati; vengono uccisi, ma
essi ne attingono la vita».
Questa diversità dimostra che la salvezza accade per chi vive nella Chiesa.
Ed ecco uno dei documenti più significativi del tempo (metà del III secolo) scritto dal grande vescovo Cipriano di Cartagine: «La
Chiesa estende i suoi rami in tutta la terra con esuberante fecondità e
si espande su vaste regioni. Uno solo però è il principio, una sola la
sorgente e una sola la madre feconda e ricca di figli. Nasciamo dal suo
grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo animati dal suo spirito. Chi
abbandona la Chiesa non raggiungerà mai Cristo, divenendo un forestiero,
un profano, un nemico. Non può avere Dio come padre chi non ha la Chiesa come madre».
Una
posizione culturale, quella greca, vede l'ideologia separarsi dalla
storia per tentare di tornare a Dio in vari modi, l'altra quella dei
Giudei può solo sperare in un'iniziativa finale di Dio. Invece la
Chiesa si pone come luogo dove da subito la persona fa l'esperienza
della salvezza, cioè della sua umanità vera, aderendo a questa comunità
viva ed entrando in comunione con Cristo nei sacramenti che
costituiscono il tessuto della Chiesa stessa. Per questo motivo le
espressioni «i salvati», «i redenti», «i rinati» sono tutte sinonimi
della parola «cristiani».
Una concezione nuova dell'uomo e della storia
L'uomo
che fa questa esperienza di salvezza sente come sua precisa
responsabilità quella di comunicarla a tutti: la salvezza è ciò che
tutti gli uomini in quanto tali desiderano.
Ora, questa vita nuova produce dei frutti fondamentali circa la concezione dell'uomo
e la sua esperienza. Innanzitutto la Chiesa afferma che ogni singolo
uomo, proprio perché è chiamato alla salvezza, acquista un valore
assoluto. Non è più un individuo in una massa anonima, ma una persona che
ha come fondamento ultimo della sua vita, quindi del suo valore, il
fatto di essere figlio di Dio. Ciò rende l'uomo infinitamente più grande
di tutti i condizionamenti in cui vive e di tutte le vicende che gli
capitano.
Il
mondo greco-romano non era riuscito a dare un valore all'uomo, in
quanto egli, ambivalente miscuglio di una scintilla divina e di una
materia corruttibile, era immediatamente riconducibile alla condizione
sociale in cui era nato (se era nato schiavo non aveva alcun diritto; se
barbaro non gli si poteva parlare). Anche nel mondo ebraico l'uomo è
ricondotto ai condizionamenti esteriori della sua vita. Ma
se l'uomo è figlio di Dio, s'innalza libero al di sopra di tutti i
condizionamenti. Col cristianesimo, pertanto, nasce l'uomo come soggetto
responsabile, in quanto risponde a Cristo, e libero.
La libertà,
cioè l'energia del proprio essere persona, è una parola ignota nel
mondo precedente, presente in esso solo come esigenza che stenta a
trovare la sua giustificazione. Si può dire, con una commovente
espressione di Pasternak ne Il dottor Zivago: «Nell'abbraccio di Cristo nasce l'uomo».
Ciò che definisce la persona
non è più la sua posizione nella piramide sociale o politica
(l'imperatore Diocleziano era arrivato al punto di fissare ognuno alla
propria condizione sociale, per rafforzare anche dal punto di vista
politico lo Stato), ma l'appartenenza a Cristo, che investe e trasforma tutto (l'essere «Giudeo o Greco», «schiavo o libero», «uomo o donna»).
Se in primo piano c'è la persona, la prima conseguenza dell'incontro con l'avvenimento di Cristo è che «all'uomo è rivelata tutta la verità di sé» (cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis):
gli è rivelato di essere figlio di Dio e perciò di avere un valore
infinito e una precisa responsabilità di fronte a Dio, a se stesso e al
mondo; di essere quindi un soggetto che conosce e ama e che, nella
conoscenza e nell'amore, è chiamato a costruire la sua personalità.
Tutto
il mondo è debitore al cristianesimo del concetto nuovo di persona, le
cui conseguenze, di fondamentale importanza, sono documentabili
storicamente. Il termine
stesso di persona, che nel mondo greco indicava la maschera
dell'attore, viene totalmente risignificato nel contesto cristiano
indicando per la prima volta il soggetto umano in quanto fruisce della
comunione con Dio che gli dà valore assoluto e capacità di agire nella
storia. Per quanto poi riguarda la responsabilità degli uomini negli avvenimenti, la mentalità greca era andata maturando nel tempo. L'immagine di una grecità che fonda la vita su un ideale di bellezza e di equilibrio, così
come ce l'hanno presentata gli illuministi, è deformata e parziale,
perché ignora il dramma di uomini chiamati a vivere entro grandi fatti
di dolore e di morte senza sapere essi stessi se come responsabili o
come vittime del fato. In quanto pone questo problema, la
tragedia è il punto di maggior crisi del mondo greco. Euripide certo
intuì che l'esperienza umana non poteva essere compresa dal mondo greco,
che pensava di arrivare alla salvezza esclusivamente attraverso la
dottrina.
L'altro grande elemento di valorizzazione della persona nella concezione cristiana è il potenziamento della sua capacità di ragione e di affezione. Viene rinnovata l'intelligenza che può conoscere il vero
e, anzi, deve ricercarlo continuamente (l'affermazione che la salvezza è
Cristo non elimina certo la ricerca delle verità che si celano dentro
il mondo e la realtà nelle sue varie dimensioni) e viene rinnovata la capacità di amare.
Una seconda conseguenza è che si dà inizio in maniera cosciente alla storia, intesa come campo di espressione di questa libertà e di questa responsabilità.
Per i Greci la storia, essendo lontananza assoluta da Dio, trovava un minimo
di comprensibilità solo se intesa come ciclo, cioè come un eterno
ritorno degli avvenimenti che si ripetevano, meccanicamente e senza
alcuna responsabilità da parte degli uomini dopo un determinato periodo
(secondo gli Stoici dopo «un anno», inteso con una durata corrispondente
a diecimila anni). Solo l'idea di questo eterno ritorno poteva, in un certo senso, avvicinare la storia alla divinità di Dio.
Ma:«I vostri cicli sono esplosi!» dirà sant'Ireneo di Lione (fine del II secolo). La
storia, con il cristianesimo, non è più un ciclo ma una costruzione in
cui si compone la libertà di Dio, che ha salvato gli uomini in Cristo e
guida la storia, e la libertà degli uomini, che possono impostare la
vita come risposta a lui o come rifiuto, esprimendo la loro personalità
nelle condizioni personali e sociali in cui vivono.
In
sintesi ad un uomo drammaticamente spaccato fra anima e corpo che
ignora dove sia la sua consistenza ed è quindi facilmente preda del
potere e ad una storia che è solo ripetizione meccanica di eventi
determinati fatalisticamente, subentrano un
uomo che ha la consistenza in Dio, ed è perciò più grande del mondo
intero, ed una concezione della storia come ambito dell'espressione
dell'uomo.
La fedeltà all'origine: lotta alle eresie e scontro con il potere
Se
l'avvenimento di Cristo è presente nella Chiesa attraverso la sua
stessa vita, la sua predicazione di Cristo e la sua pratica di Cristo
(il Sacramento), la Sacra Scrittura è
uno strumento fondamentale, interno alla Chiesa, per rendere sempre più
chiara e matura questa coscienza di lui. Ha cioè valore in quanto è
stata fissata dalla Chiesa come regola per l'interpretazione esatta
dell'avvenimento di Cristo. Non ha perciò senso per il cristiano leggere la Scrittura al di fuori della Chiesa. D'altro
canto quello che la Chiesa dirà di Cristo non potrà mai essere in
contrasto con ciò che dice il Vangelo; anzi per rendere sempre più vero
l'annuncio di Cristo, la Chiesa dovrà continuamente riproporre e approfondire il Vangelo.
Alla prima generazione cristiana, Cristo ha affidato questa
straordinaria avventura: la responsabilità di fissare la regola della
fede. Non c'è «parola», quindi, fuori dalla Chiesa. Il
contenuto della salvezza non è quella parola, bensì l'avvenimento di
Cristo presente nella Chiesa attraverso la predicazione e i Sacramenti.
L'ortodossia è accettare che l'intelligenza che abbiamo
dell'avvenimento di Cristo e, quindi di noi stessi, maturi
nell'appartenenza. Ciò che è accaduto e vive nella Chiesa giudica
l'intelligenza, il modo normale di percepire le cose. Viceversa non
ci si può accostare a Cristo e giudicarlo a partire dalla filosofia, o
dalle religioni orientali o dal modo greco-romano o ebraico di concepire
l'uomo. Occorre che l'avvenimento di Cristo sia il criterio di
giudizio, non il contenuto che viene giudicato. Questa è
la differenza tra l'ortodossia, cioè il modo esatto di sentire la fede,
e l'eresia, che è sempre il tentativo di leggere l'avvenimento di
Cristo a partire dalla mentalità mondana.
La prima terribile eresia fu la gnosi,
cioè l'insieme delle dottrine relative alla salvezza unificate. Fu come
una grande ideologia comune del mondo greco-romano nei primi secoli del
cristianesimo. Il tentativo degli gnostici fu di inserire il
cristianesimo in questo patrimonio comune, riducendo Cristo a una dottrina. Tra le fine del II secolo e l'inizio del III, l'eresia più diffusa fu l'arianesimo, che rappresentava il
tentativo di leggere la realtà di Cristo a partire dall'ideologia, cioè
dalla dottrina greca, che metteva un abisso tra Dio, essere assoluto, e
il mondo. Che un uomo, Cristo, fosse figlio di Dio era assurdo: semmai
poteva essere la più alta delle creature. L'arianesimo fu quindi il tentativo di «filosoficizzare» l'avvenimento cristiano. Tutte
le eresie hanno in comune il tentativo di cambiare il punto di
partenza, di sceglierlo (eresia = scelta), mentre il punto di partenza è
l'avvenimento di Cristo così come permane e si sperimenta nella vita
della Chiesa. Per questo una coscienza esatta
dell'avvenimento cristiano, e quindi della realtà del mondo - anche in
senso culturale - è frutto non solo dell'intelligenza, ma anche
dell'affezione.
L'appartenenza a Cristo nella Chiesa è un atteggiamento che impegna l'intelligenza e il cuore ed ha il suo punto più acuto nell'obbedienza a chi guida la comunità. C'è una conseguenza: l'avvenimento cristiano, conscio della sua originalità, è diventato subito capace di dialogo e di valorizzazione, sentendosi erede della sapienza greca.
Quello che i filosofi cercavano, l'aveva portato Cristo. Pertanto tra
Cristo e tutta la filosofia ci fu rottura ma anche continuità. La Chiesa, infatti, autocosciente e lanciata in un dinamismo missionario, si sentì in grado di dialogare senza complessi d'inferiorità con le tradizioni culturali precedenti, scegliendo più la filosofia che la religione, perché le religioni ufficiali erano molto più una corruzione del senso religioso che un'espressione di esso.
I motivi dello scontro politico tra la Chiesa e lo Stato romano vanno
capiti bene. L'accusa mossa ai cristiani fu di empietà (cioè di non
aderire ad una precisa religione) e di anarchia (cioè di rifiutare di
tributare culto all'imperatore). La storiografia più recente ha
dimostrato che non fu mai emanata una legge particolare contro i
cristiani, in quanto bastavano ad accusarli le leggi normali. Lo Stato romano, infatti, per la sua stessa struttura giuridica, non poteva non perseguitare i rei di questi due delitti.
Lo scontro frontale con lo Stato, estremamente violento, dura per tre secoli, attraverso le persecuzioni che falcidiano migliaia di persone. I cristiani, infatti, rifiutano l'assolutismo politico romano; rifiutano cioè che la dimensione (e quindi la struttura) politica sia la definizione ultima della persona.
A tanto era arrivato il mondo greco-romano; non potendo pensare
all'evento di Cristo, e tanto meno ad un fatto come la Chiesa, esso
aveva dovuto rendere assoluta la convivenza sociale. La «polis», intesa
come insieme di rapporti politici, non è l'espressione del valore ma costituisce tutto il valore dell'uomo che vale appunto in quanto inserito in essa. Il culto dell'imperatore nasce da questa concezione del potere come unica cosa che dà assolutezza alla vita, senza la quale non ci sarebbe che la disperazione universale.
Lo
Stato greco-romano propose ai cristiani di sacrificare all'imperatore e
di inserire la loro religione nel «pantheon» dei culti ammessi, dei
culti, cioè, che accettavano di essere ridotti a opinioni private
all'interno dell'affermazione che lo Stato era tutto.
I cristiani, che concepivano invece la vita sociale come espressione del valore della persona (che è ultimamente costituito dalla sua dimensione religiosa), non
accettarono né di inserire la loro religione nel «Pantheon» né di
sacrificare all'imperatore, anche quando il sacrificio era più formale
che sostanziale. L'uomo infatti o dipende da Dio o dipende dalla
struttura del potere: sono due logiche inconciliabili. Proprio per questo il cristianesimo lottò contro le altre religioni che avevano accettato la propria riduzione e dialogò invece con la filosofia che aveva resistito alla concezione assolutistica dello Stato, soprattutto dopo la nascita dello Stoicismo.
Il cristianesimo, sia ben chiaro, non rifiutava lo Stato come autorità politica, bensì il culto dello Stato.
Anche per i cristiani la convivenza sociale è una dimensione naturale,
ed è giusto organizzarla, purché il potere non pretenda di essere Dio,
di avere un valore assoluto.
Tertulliano:«L'imperatore è grande ma è sotto Dio». Il valore assoluto va riconosciuto solo alla persona, in forza del suo rapporto con Dio. Pertanto la convivenza sociale e il potere devono dare spazio alle persone e alla loro libertà. È notevole a questo proposito il fatto che attorno al 150 un gruppo di cristiani, chiamati apologisti,
abbia scritto all'imperatore chiedendo libertà per tutti (per i
cittadini, per i gruppi, per le religioni, per i popoli) e dando
l'immagine di una vita sociale assolutamente non anarchica, bensì
articolata, non certo simile ad un monolito che subisce i contraccolpi
del personalismo dell'imperatore. Questo dimostra come il
cristianesimo non si sia posto in posizione di rottura nei confronti
dello Stato negando le esigenze della struttura sociale-politica, ma ne
abbia già agli inizi rifiutato la logica assolutistica, che riduce la
persona alla vita sociale e al potere statuale. L'uomo è tale non in quanto ha una posizione sociale ma in quanto è figlio di Dio.
Per questo san Paolo nella Lettera a Filemone, rimandando lo schiavo al
padrone, gli dice: «Ti rimando lo schiavo che è tuo fratello».
Appare
chiaro che il cristianesimo, pur non discutendo subito la struttura
della società, pose dentro di essa una società diversa.
Col secolo IV finì lo scontro frontale col potere, ma non lo scontro politico in quanto tale perché, anche
quando gli imperatori furono cristiani, tentarono di mettere il vino
nuovo del cristianesimo nelle botti vecchie dello statalismo romano,
esercitando una pesante protezione nei confronti della Chiesa.
Il vecchio assolutismo adoperava ormai il cristianesimo come ideologia. Così nei secoli IV e V, soprattutto in Oriente, la Chiesa dovette difendersi anche dagli imperatori cristiani. Da
sempre la Chiesa ha difeso la libertà della persona e della sua
coscienza chiamando lo Stato, non a determinare, ma a servire l'uomo e
la sua libera espressione. Le testimonianze di questi scontri sono raccolte e documentate dal grande storico della Chiesa Hugo Rahner nel volume Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo dove si dimostra che, mentre
la Chiesa ha sempre sostenuto la relatività dello Stato alla persona,
la tendenza dello Stato romano, anche se guidato da imperatori
cristiani, fu costantemente di porsi come valore assoluto.
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Postato da: giacabi a 20:13 |
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cristianesimo, negri
Il cristianesimo:
una passione per l'uomo
***
"Ma tutta la vita della società è per la persona, per me, perché io cammini verso il mio destino. La società è un destino effimero nel tempo della storia, ma io sono rapporto con l'infinito, con l'eterno, col tutto. Si chiama persona,
una grande parola della mia tradizione; non l'uomo definito
astrattamente, alla Marx o alla Feuerbach, ma l'uomo nel quale pulsa il
cuore fatto dalla madre. Io credo che tutta la mia
emozione e commozione per la mia tradizione cristiana sia dovuta a
questa scoperta che mi ha fatto fare dell'uomo, del valore del singolo
nel quale sta la radice e il fondamento di una pace sociale, di una pace
fra tutti.
Mi
permettano un ricordo: la prima volta, venticinque anni fa, che sono
andato nell'America del Sud sono arrivato con una grossa nave; mille
chilometri dentro il Rio delle Amazzoni in quella regione
che si chiama Macapà e che è tutta fatta di foreste impenetrabili; non
ci sono strade, bisogna andare sempre sulla barca oppure attraversare
paludi immense. Allora c'erano su un territorio così grande settantamila
persone circa, ma moltissimi di questi si chiamavano "Siringheros",
perché vivevano nella foresta vergine tirando fuori la gomma dall'albero
della gomma. Vivevano
mesi e mesi da soli, in pericolo di morte continuo ed io non ho mai
visto sorridere un Caboclo - si chiamano, infatti, anche Cabocli -, non
ho mai visto sorridere nessuno.
C'è
un gruppo di sacerdoti miei amici e si dividono il territorio, così che
per un tempo dai venti ai quaranta giorni ognuno percorre un pezzo del
territorio per andare a trovare anche il Siringhero più lontano. Un
pomeriggio uno doveva partire per questo terribile giro su cui sempre
incombe il pericolo della morte e mi disse: «Vieni con me» e io
spontaneamente ho detto: «Vengo». Arrivati sull'imbrunire all'inizio
della palude egli si è messo delle calosce, si è calzato degli stivali
alti e mi ha detto sorridendo: «Adesso tu fermati e torna indietro» e
io mi sono fermato e per tutta la mia vita ricorderò quella sera quando
il sole cade in dieci minuti sull'equatore, in dieci minuti dal sole
pieno si passa all'oscurità e ho
visto quell'uomo alto, grande che si allontanava e, ogni tanto, nella
semioscurità, si voltava e mi salutava ridendo. E io ero lì, impalato, a
guardarlo mentre dicevo a me stesso: «Quest'uomo rischia la vita per
andare a trovare un solo altro uomo che forse mai più rivedrà!». Rischiava
la vita per un uomo. Capii in quell'istante che cos'è il cristianesimo:
una passione per l'uomo, un amore all'uomo. Non all'uomo dei filosofi
liberal-marxisti, prodotto della loro testa, ma all'uomo che sei tu, che
sono io.
Luigi Giussani da: Una chiarezza di fede di fronte al Buddismo migliore1987
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Postato da: giacabi a 16:49 |
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cristianesimo, giussani
Guardate i frutti del cristianesimo
***
«Reagite, voi cattolici, a quell'irrazionale masochismo che si è impadronito di voi dopo il Concilio Vaticano II. La
propaganda menzognera che inizia nel Settecento, e forse anche prima, è
riuscita a ottenere la sua più grande vittoria, dandovi una cattiva
coscienza, persuadendovi che siete colpevoli di tutti i mali del mondo,
che siete gli eredi di una storia da dimenticare. Non è così. Studiatela, questa vostra storia, e vedrete che l'attivo di questi duemila anni supera ampiamente il passivo. E non
dimenticate di confrontare i frutti di Gesù e di suoi discepoli come
Benedetto, Francesco, Domenico, con i frutti di altri alberi, di altri
"maestri". Il confronto vi riaprirà gli occhi».
Leo Moulin
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Postato da: giacabi a 17:19 |
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cristianesimo, moulin
Una certa idea di uomo.
Lo spirito europeo e i tormenti della modernità.
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alcuni brani dell’intervento di Rémi Brague, Roma 12 dicembre 2007
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da: www.meetingrimini.org
....il fatto cristiano non è un messaggio, ma un fatto, una persona. Se vi è messaggio cristiano, non è certo “quello di Gesù”. Gesù non ci trasmette un messaggio che sarebbe, ad esempio, un metodo di salvezza, sulla scorta di quanto aveva fatto Buddha, prima di lui. Estremizzando in senso inverso, non ci fornisce neppure un libro dettato da Dio, da cui poter dedurre quello che bisogna mettere in atto per fare la volontà del Signore, come avverrà, dopo di lui, per Maometto. Gesù è il messaggio. Il messaggio degli apostoli, il « kerigma » annuncia la risurrezione di questo Gesù. Lui è il messaggio, ed ecco spiegato perché il Vangelo secondo Giovanni lo chiama “IL VERBO” (Logos)……..
......Come definire l’idea cristiana dell’uomo?
L’uomo non può essere definito. Mi preoccupa sempre un po’ quando si vuole definire l’uomo. Temo che non lo si possa delimitare, ed è quello che vuol dire “definire”. Questo potrebbe essere fatto solo escludendo. L’impossibilità di definire l’uomo, d’altronde, è stata ribadita magnificamente da Gregorio di Nissa, avvicinando due idee molto semplici, due affermazioni della Bibbia: l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1, 26). Dio nessuno l’ha mai veduto (Giovanni 1, 18 et passim). Le proprietà dell’originale si ritrovano nella copia. Di conseguenza, anche l’uomo non è mai stato visto e definito da alcuno (aperigraptos) . La parola « idea », quindi, non mi soddisfa appieno. L’ «idea cristiana dell’uomo» non è un’idea, intendendo modello da costruire. Non è nemmeno un ideale che dovrebbe rimanere al di fuori di qualsiasi realizzazione possibile. I cristiani, infatti, confessano che questo ideale è già stato realizzato. L’idea cristiana dell’uomo non è altro che il riconoscimento di una presenza in un essere molto concreto che già esiste. Nel Cristianesimo, l’uomo non è un’idea, è piuttosto un volto. Il volto di una persona, quella che ha come nome proprio il nome comune « Uomo », in ebraico: Adamo. Di uomini, sotto una data ottica, ce ne sono stati solo due. E il primo comunque era una brutta copia. L’uomo è l’ultimo Adamo (Lettera prima ai Corinzi, 15, 45). Questo Adamo ha solamente i tratti che ogni uomo dovrebbe possedere. Gesù non è un profondo filosofo, né un grande generale e neppure un asceta virtuoso, ecc. Le conseguenze sono basilari : non si tratta di escludere dall’umanità in funzione del possedere o meno tali proprietà e neppure di graduare l’appartenenza all’umanità in base alla presenza di quanto sopra, e soprattutto di non rifare l’uomo derivante da tale funzione. ………………………………… 1) Il Cristianesimo ha modificato tutte le civiltà in cui è stato presente, cominciando da quella su cui si è innestato in prima battuta, vale a dire l’Antichità greco-romana. Tuttavia, non ha mai cercato di sostituire una civiltà precedente con una civiltà cristiana. Non v’è dubbio che abbia apportato novità, come la dignità della persona, l’immagine di Dio, da cui poi sono scaturite conseguenze decisive per quanto attiene allo status degli schiavi, della donna, ecc. L’essenziale, però, è probabilmente che ha lasciato essere la cultura profana. Il cristianesimo è l’unica religione che si accontenta di essere solo una religione. Non esiste una cucina cristiana, una medicina cristiana, un diritto cristiano, una filosofia cristiana. L’uomo può scoprire tutto questo da solo. Il Cristianesimo ha davvero lasciato in pace l’intera cultura profana. 2) Allorché il Cristianesimo ha superato una civiltà, non se ne è mai « sbarazzato » nel senso di un rifiuto. La Chiesa ha mantenuto l’Antico Testamento contro la tentazione rappresentata da Marcione. Ha conservato il diritto romano e la filosofia greca contro tutti i fideismi. Ha mantenuto il rispetto dell’autonomia della società civile e della sua organizzazione in Stato, contro tutti gli entusiasmi settari. E la stessa Europa non è esclusivamente europea. Ha attinto dovunque, dall’Egitto e dalla Mesopotamia, alla Grecia e a Roma naturalmente, fino ai mondi vicini, bizantino e arabo. Se un Cristianesimo non europeo dovesse rifiutare tutto ciò che è arrivato dall’Europa e soprattutto attraverso l’Europa, quale spaventoso impoverimento ne scaturirebbe! ........ |
Postato da: giacabi a 16:06 |
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cristianesimo, brague
SE L’EUROPA SI DIMENTICA DELLE SUE RADICI CRISTIANE
***
«Per me non c'è politica che non sia contemporaneamente religione. La politica serve la religione. La politica senza la religione è una trappola per gli esseri umani, perché uccide l'anima.
Sono fermamente convinto che oggi l'Europa non stia mettendo in pratica lo spirito di Dio e del cristianesimo, bensì lo spirito di Satana».
Mahatma Gandhi |
Postato da: giacabi a 15:09 |
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gandhi, cristianesimo
Cristo fa rinascere a vita nuova
***
«Andavo
errando alla cieca nelle tenebre della notte, sballottato a caso sul
mare agitato del mondo; galleggiavo alla deriva, ignorante della mia
vita, straniero alla verità e alla luce. Stando ai miei costumi d'allora, credevo difficile e arduo ciò che la bontà divina mi prometteva per la mia salvezza.
Come poteva un uomo rinascere ad una vita nuova per mezzo del battesimo
dell'acqua salutare, essere rigenerato, spogliarsi di ciò che era stato
e, senza cambiare corpo cambiare nell'anima e nello spirito? Come era possibile, pensavo, una siffatta conversione? ...Ecco ciò che mi chiedevo spesso. lo stesso infatti ero
preso prigioniero nei mille errori della mia vita passata; non credevo
di potermene sbarazzare, tanto ero schiavo dei vizi che mi si erano
appiccicati, tanto disperavo del meglio, tanto mi compiacevo per i miei
mali, diventati come compagni familiari»
«L'acqua rigeneratrice lavò in me le macchie della mia vita precedente; una
luce venuta dall'alto si diffuse nel mio cuore purificato dalle
sozzure. Lo Spirito disceso dal cielo mi cambiò in un uomo nuovo con una
seconda nascita. Subito, in maniera meravigliosa, vidi la certezza
succedere al dubbio, aprirsi le porte chiuse e brillare le tenebre. Trovai facile ciò che prima mi sembrava difficile, e possibile ciò che avevo ritenuto impossibile...
Tu sai certamente e riconosci con me ciò che mi ha tolto e ciò che mi
ha portato questa morte dei crimini, questa risurrezione delle virtù. Tu lo sai da te stesso e io non me ne vanto».
vescovo Cipriano di Cartagine
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Postato da: giacabi a 21:11 |
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testimonianza, cristianesimo
Non aperturismo bigotto ma capacità di riconoscere il genio degli altri. Gli antichi latini hanno un'altra lezione da impartire a noi ciechi multiculturalisti moderni
“Tempi num.48 del 29/11/2007 0.00.00
Cultura Marta Sordi di Persico Roberto Marta Sordi è professore emerito di Storia antica dell'Università Cattolica di Milano. Le sue pubblicazioni sul mondo greco e su quello romano, sugli etruschi e sul cristianesimo dei primi secoli riempiono gli scaffali di una libreria. Oggi una grave malattia alle ossa limita un po' la sua mobilità. Talvolta, quando la invitano a un convegno, si limita a mandare un intervento. Lei, però, sopporta la sua sofferenza non solo con cristiana rassegnazione, ma con una letizia che è il segno di una fede profonda. E se la carne è debole, lo spirito è sempre quello, lucido e battagliero, pronto ad appassionarsi per la storia a cui ha dedicato una vita, con lo stesso entusiasmo con cui, tantissimi anni fa, ha cominciato. Così quando Tempi le ha chiesto un'intervista ha acconsentito prontamente. Professoressa Sordi, lei ha speso tutta la vita a studiare le vicende dei greci e dei romani. Che cosa può dire di averne ricavato? Moltissimo. La scoperta del metodo storico, all'università, col professor Alfredo Passerini, è stata una svolta per la mia vita, non solo sul piano culturale, ma anche per la mia fede. Sul piano culturale, perché arrivai all'università spinta da un'antica passione per gli etruschi, ma allora a Milano non c'erano cattedre di etruscologia, così finii per specializzarmi in storia greca, e mi incantò il metodo: la possibilità di leggere le fonti antiche, scoprendo attraverso un'attenta valutazione di ogni sfumatura la realtà che ci sta dietro. Per esempio, Passerini ci insegnò a riscoprire l'autentica figura di Tiberio negli scritti di Tacito. Tacito è fieramente avverso a Tiberio, e ne presenta un ritratto fortemente negativo. Ma una lettura attenta permette di distinguere i fatti da quelle che sono interpretazioni dello storico, e di scoprire così, al di là del filtro di chi riferisce, la figura di un grande imperatore. Tutto il mio lavoro di studiosa della storia antica è stato fedele a questa lezione: la possibilità di risalire, grazie a una lettura attenta, e tutte le volte che è possibile comparata, delle fonti, al dato contemporaneo che ne è all'origine. Certo, il metodo storico non attinge a una certezza assoluta, però può raggiungere una certezza "probabile", cioè che può essere provata. Prima accennava al fatto che questa scoperta è stata determinante anche per la sua vita personale. Certo, per la mia convinzione religiosa. Io sono cresciuta nella fede cattolica, e non l'ho mai abbandonata. Ma la scoperta del metodo storico è servita a rafforzarla, a renderla consapevole. Un primo passo in questa direzione era già avvenuto al liceo. Io ho frequentato il liceo scientifico italiano a Bucarest, dove ci eravamo trasferiti per ragioni di lavoro del babbo proprio negli anni della guerra, tra il 1941 e il 1945. A Bucarest avevamo un professore di filosofia crociano, che ci spiegava tutto in termini di immanentismo, ma in maniera molto rispettosa di chi invece, come me, credeva nella trascendenza di Dio: ecco, nel confronto con le posizioni di quel professore mi convinsi della razionalità di quelli che la tradizione cristiana chiama "preambula fidei", la certezza razionale dell'esistenza di Dio, della sua trascendenza e del suo carattere personale. Ma all'università, grazie al metodo storico, mi si aprirono davanti quelli che potrei chiamare i "preambula fidei" della fede cristiana in senso specifico, della fede nella divinità di Gesù. Ci vuole spiegare meglio? Guardi, ricordo una discussione con una compagna non credente, che una volta mi disse: «Ma come fai proprio tu che sei una storica a credere a queste cose?». Proprio perché sono una storica, risposi, sono portata a credere alla verità della pretesa di Cristo di essere Dio. Certo, la fede non può essere ridotta a un'operazione storiografica, è un salto qualitativo. Però lo studio storico, puntuale dei Vangeli ce ne mostra la storicità, l'attendibilità, ci mostra che quel Gesù di Nazareth è davvero esistito ed è stato un uomo con determinate caratteristiche. Riconoscerne la pretesa divina, ripeto, è un'altra cosa, però lo studio storico dei Vangeli favorisce, direi prepara il salto dell'adesione di fede: o quell'uomo, quell'uomo concreto, realmente esistito, che i Vangeli ci mostrano, era un ciarlatano, un pazzo, o era quel che diceva di essere, era Dio. È estremamente illogico affermare, come tanti fanno, che Cristo sia stato un grande profeta, un riformatore e quant'altro, e negare che fosse Dio: se non è quel che diceva di essere non sta in piedi nemmeno il resto. Il cristianesimo è una religione che ha un fondamento storico, non è semplicemente credere in Dio ma che Dio si è incarnato in una persona storica. La storicità dei Vangeli, accertabile col metodo storico, è una sorta di "preambulum" alla fede in Cristo. I suoi studi, però, non si sono limitati alle origini cristiane. Perché è sbagliato, artificiale separare il cristianesimo e la civiltà che ne è seguita dal mondo classico. C'è una continuità evidente tra la civiltà antica e il cristianesimo: il mondo antico si apre, accoglie il cristianesimo. Roma è il luogo in cui il cristianesimo si diffonde non solo perché l'impero, come si è sempre osservato, offriva le strade e la sicurezza attraverso cui il messaggio cristiano poteva viaggiare, ma soprattutto perché la mentalità romana era pronta ad accogliere quel messaggio. Sono segni impressionanti di questa attesa quelli che poi saranno chiamati i "canti dell'Avvento" del mondo romano, la quarta egloga di Virgilio e il carme 64 di Catullo. Il primo saluta il prossimo avvento di una nuova era, nella quale «sarà cancellato l'antico delitto». Il secondo canta la nostalgia per il mondo degli eroi, cioè per un mondo in cui gli dèi vivevano insieme agli uomini, distrutto dal nostro peccato, «e la luce si è spenta», conclude. Il mondo romano aveva in sé, potremmo dire, i "preambula fidei", cui mancava solo la religione. Ma anche in questa molti (il citato Catullo per esempio, ma non solo) parlavano già del "divino", la "divinità": stavano già superando la concezione degli dèi omerici per aprirsi all'idea di un Dio unico. Il cristianesimo è dilagato perché il mondo antico era un mondo in attesa di qualche cosa. Per questo dobbiamo recuperare la continuità con quel mondo. Per questo e non solo. Un altro aspetto che sarebbe assolutamente da recuperare è quell'atteggiamento che si potrebbe definire "multiculturale" dei romani, i quali erano sempre pronti ad accogliere tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli. Sottolineo: quel che trovavano di buono, diversamente dall'apertura indiscriminata dei giorni nostri, che considera tutto equivalente. I romani ebbero un senso fortissimo dell'importanza di acquisire tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli, e non si facevano problemi a riconoscerlo. Quel che prendevano da altri lo riconoscevano come merito altrui. È proprio qui tra l'altro che fa leva sant'Ambrogio in una famosa risposta a Simmaco. Questi aveva immaginato una personificazione di Roma che chiedeva che le fossero lasciati gli dèi che le avevano dato tante vittorie: «Non mi pento di convertirmi anche se in tarda età», fa rispondere pressappoco Ambrogio alla medesima Roma, «perché, come ho sempre fatto, sto abbracciando una concezione migliore». Questa è stata la grande caratteristica dei romani, che li differenzia nettamente dai greci, che invece non si seppero aprire: la capacità di accogliere tutto ciò che riconoscevano migliore. A proposito di greci, finora non ne abbiamo parlato. Cosa dobbiamo conservare della loro eredità? La democrazia. La democrazia è un'invenzione greca, e in particolare ateniese, come rivendica con orgoglio Pericle nel grande discorso che Tucidide gli mette in bocca nel secondo libro de La guerra del Peloponneso. E ha due caratteristiche che non dovremmo dimenticare. La prima è che è una democrazia meritocratica: tutti sono uguali, non c'è differenza dovuta alla ricchezza o alla nascita, ma non tutti hanno le stesse competenze, e le cariche fondamentali vanno distribuite secondo la competenza. La seconda è l'obbedienza alle leggi, e soprattutto alle leggi non scritte, quelle degli dèi. È questo il fondamento che rende possibile una società democratica. Per i greci però questa era limitata ai cittadini, e la cittadinanza dipendeva strettamente dalla nascita. Uno straniero non poteva diventare cittadino: questa è stata la debolezza di Atene. Roma invece seppe passare dall'urbs alla civitas, dalla città su base etnica a quella fondata sull'adesione a valori condivisi, a un ordinamento comune. Le sta proprio a cuore questa predisposizione degli antichi romani all'integrazione. Perché è il cuore della tradizione occidentale. Come spiega Claudio, imperatore del I secolo, quando introduce alcuni galli, nemici sconfitti da meno di un secolo, nel novero dei senatori: «I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporaneamente tra i cittadini romani e nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri nel governo dello Stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Cos'altro costituì la rovina di spartani e ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini». E Sallustio ne La congiura di Catilina spiega che la caratteristica di Roma sta nell'aver fatto una civitas di "gente diversa", grazie alla concordia. "Concordia" è un concetto giuridico/politico che caratterizza tutta la vicenda di Roma. Indica che "genti diverse" possono convivere (e arricchirsi reciprocamente) quando riconoscono un comune ordinamento, quando accettano le stesse leggi. Roma nasce da un incontro fra diversi (i romani in senso proprio, i sabini, gli etruschi) che imparano gli uni dagli altri il meglio e che sono riuniti dall'obbedienza a una norma comune. Anche il mito della fondazione di Roma da parte di Enea, cioè di uno straniero, allude a questo. Roma porta questa struttura nel suo Dna. La nostra cultura dovrebbe reimpararla. |
Postato da: giacabi a 20:29 |
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cristianesimo, gesù
Il cristianesimo
è l'«avvenimento» di un incontro
“2.
Riandando con la memoria alla vita e alle opere della Fraternità e del
movimento, il primo aspetto che colpisce è l'impegno posto nel mettersi
in ascolto dei bisogni dell'uomo di oggi. L'uomo
non smette mai di cercare: quando è segnato dal dramma della violenza,
della solitudine e dell'insignificanza, come quando vive nella serenità e
nella gioia, egli continua a cercare. L'unica risposta che può
appagarlo acquietando questa sua ricerca gli viene dall'incontro con
Colui che è alla sorgente del suo essere e del suo operare.
Il movimento, pertanto, ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale. La strada, quante volte Ella lo ha affermato, è Cristo. Egli è la Via, la Verità e la Vita, che raggiunge la persona nella quotidianità della sua esistenza. La scoperta di questa strada avviene normalmente grazie alla mediazione di altri esseri umani. Segnati mediante il dono della fede dall'incontro con il Redentore, i credenti sono chiamati a diventare eco dell'avvenimento di Cristo, a diventare essi stessi «avvenimento». Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è pertanto l'«avvenimento» di un incontro. E' questa l'intuizione e l'esperienza che Ella ha trasmesso in questi anni a tante persone che hanno aderito al movimento. Comunione e Liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo. Nel Messaggio ai partecipanti al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali e nuove comunità, il 27 maggio 1998, ho scritto che l'originalità del carisma di ogni movimento "non pretende, né lo potrebbe, di aggiungere alcunché alla ricchezza del depositum fidei, custodito dalla Chiesa con appassionata fedeltà" (n. 4). Tale originalità, tuttavia, "costituisce un sostegno potente, un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno, con intelligenza e creatività, l'esperienza cristiana. Sta in ciò il presupposto per trovare risposte adeguate alle sfide e alle urgenze dei tempi e delle circostanze storiche sempre diverse". 3
Giovanni Paolo II Lettera a don Giussani per il ventesimo anniversario della Fraternità di Cl, 11 febbraio 2002
.
Occorre ritornare a Cristo, Verbo di Dio incarnato per la salvezza
dell'umanità. Gesù di Nazaret, che ha vissuto l'esperienza umana come
nessun altro avrebbe potuto, si pone quale traguardo di ogni aspirazione
umana. Solo in Lui l'uomo può giungere a conoscere pienamente se
stesso. La fede appare in tal modo come un'autentica avventura della conoscenza, non essendo un discorso astratto, né un vago sentimento religioso, ma un incontro personale con Cristo, che dà nuovo senso alla vita. L'opera educativa che, nell'ambito delle vostre attività e comunità, tanti genitori e insegnanti hanno cercato di svolgere, è consistita proprio nell'accompagnare fratelli, figli, amici, a scoprire dentro gli affetti, il lavoro, le più differenti vocazioni, la voce che porta ciascuno all'incontro definitivo con il Verbo fatto carne. Soltanto nel Figlio unigenito del Padre l'uomo può trovare piena e definitiva risposta alle sue attese intime e fondamentali. Questo dialogo permanente con Cristo, alimentato dalla preghiera personale e liturgica, è stimolo per un'attiva presenza sociale, come testimonia la storia del movimento e della Fraternità di Comunione e Liberazione. La vostra è, in effetti, storia anche di opere di cultura, di carità, di formazione e, nel rispetto della distinzione tra le finalità della società civile e della Chiesa, è storia anche di impegno nel campo politico, un ambito per sua natura ricco di contrapposizioni, in cui arduo risulta talora servire fedelmente la causa del bene comune.” |
Postato da: giacabi a 19:47 |
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cristianesimo, avvenimento, giovanni paoloii
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« sono un uomo, non considero estraneo alcunché di umano»
Terenzio
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Postato da: giacabi a 08:02 |
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cristianesimo
……dai secoli bui!!!!! J
L'invenzione degli occhiali da vista
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«Prima
dell'invenzione degli occhiali, un gran numero di lavoratori adulti era
limitato nei compiti che poteva svolgere, specialmente se impegnato in
attività artigianali. Per questa ragione,
l'invenzione degli occhiali da vista, avvenuta all'incirca nel 1284
nell'Italia settentrionale, cambiò radicalmente la produttività. Senza occhiali, molti artigiani del Medioevo a quarant'anni non potevano più lavorare. Con
la loro introduzione, non solo la maggioranza di queste persone fu in
grado di continuare a svolgere la propria attività, ma si ritrovò
addirittura ad avere davanti a sé gli anni più produt- tivi, grazie
all'acquisizione di maggiore esperienza. Non solo; molti
compiti vennero enormemente facilitati dall'uso di lenti
d'ingrandimento anche da parte di persone che ave- vano un' ottima vista. Queste attività erano spesso più impegnative di quelle degli antichi artigiani. Non
c'è da stupirsi se gli occhiali si diffusero con una rapidità
incredibile. A un secolo dalla loro invenzione, venivano prodotte in se-
rie ogni anno decine di migliaia di paia di occhiali in stabilimenti a
Firenze e a Venezia. Nonostante ciò, quando nel 1492 Colombo spiegò le sue vele, gli occhiali erano cono- sciuti solo in Europa »
Rodney Stark. Lindau "La vittoria della Ragione"
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Postato da: giacabi a 14:58 |
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medioevo, cristianesimo, stark
L’atteggiamento del cristiano
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« Osserviamo anzitutto che il significato stesso della parola servire è ambiguo e va segnalata la differenza di livello spirituale esistente fra servire e servire a.
In presenza d’un arnese o d’una macchina la cui destinazione m’è ignota
chiederò: a che serve questo? Si tratta solo di strumenti di cui
dispongono esseri dotati di volontà persone che lavorano alla
realizzazione di fini ben determinati. C’è
perciò qualcosa di scandaloso nel chiedere ad un essere umano: a che
servi? Appunto perché significherebbe paragonarlo ad una cosa. Notiamo del resto che una
rappresentazione strumentalista dell’essere umano finisce per provocare
inevitabilmente conseguenze gravissime come la soppressione degli
infermi e degli incurabili; non “servono piú a nulla” dunque bisogna
gettarli via: perché prendersi la briga di mantenere e alimentare
macchine fuori uso?
Non ci sarebbe al contrario nulla d’offensivo se allo stesso individuo – se si ha una certa intimità con lui – si domandasse: che cosa servi? o chi servi? E se egli si offendesse per una simile domanda dimostrerebbe di non capire il senso profondo della vita. È chiaro infatti che ogni vita è un servizio il che non significa beninteso che si debba spenderla per un individuo determinato ma soltanto che per sua natura deve essere consacrata a (a Dio ovvero a un valore superiore come la conoscenza o l’arte ecc. ovvero a un fine sociale volutamente scelto). Servire in questo secondo senso significa mettersi al servizio di. E qui l’accento va posto sulla particella si sul pronome riflessivo. Vivere nel senso pieno della parola non significa esistere o sussistere limitarsi a esistere o a sussistere ma disporre di sé darsi. È purtroppo manifesto che spiriti malati o deformi hanno di fatto mirato a confondere questi due significati cosí nettamente distinti. Un’idea aberrante s’è imposta a masse sempre crescenti d’individui disseminati. L’idea secondo cui servire umilia colui che serve. La persona vedendo sempre piú sé stessa nella veste di uno che ha da fare delle rivendicazioni di un “io” assoluto s’è cosí incaponita non soltanto nei suoi diritti nelle sue prerogative ma anche nei sentimenti d’invidia che le ispiravano i vantaggi di cui altri le sembravano godere indebitamente. “Perché lui perché non io?”. Il risentimento che indubbiamente ha sempre covato sotto un egualitarismo che certi odiosi psicologi si sono ben guardati per molto tempo dal mettere a nudo ha cosí indotto innumerevoli coscienze a respingere la nozione d’una gerarchia qualsiasi e ad insorgere contro l’idea di dovere da parte loro servire qualcuno. È giusto soggiungere che coloro capi o dirigenti che hanno lasciato inaridire nel loro fondo il senso delle loro responsabilità hanno contribuito in proporzioni incredibili a preparare questa crisi della nozione di servizio.» G. Marcel Homo viator Borla Torino 1967 pagg. 147-156 |
Postato da: giacabi a 14:03 |
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marcel, cristianesimo
Il pane che non usi
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Il
pane che tu non usi è il pane dell'affamato, l'indumento appeso nel tuo
guardaroba è il vestito dell'ignudo, le scarpe che tu non metti sono
quelle di chi è scalzo, il denaro che tu tieni sottochiave è la moneta
del povero, gli atti di carità che tu non compi diventano così le ingiustizie che tu commetti.
S. Basilio
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Postato da: giacabi a 08:38 |
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cristianesimo
il Cristianesimo non è un insieme di valori
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«Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel suo esempio, e non nel dono della sua Persona». sant’Agostino
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Postato da: giacabi a 15:23 |
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cristianesimo, agostino
Brague: «Ai valori preferisco i beni»
DA ROMA PAOLA SPRINGHETTI
«Non è certo mestiere della scienza quello di salvare l’uomo». Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona, si trova in perfetta sintonia con Papa Benedetto XVI, e della sua enciclica Spe Salvi. Ieri sera era a Roma, per intervenire all’incontro su «Una certa idea di uomo. Lo spirito europeo e i tormenti della modernità», organizzato dall’Associazione Meeting per l’Amicizia tra i Popoli: un ragionamento di ampio respiro, con un approccio nuovo a molti problemi di cui oggi si discute. «D’altronde – continua, – neanche le altre religioni hanno questo obiettivo: si preoccupano della sua riuscita, che nel buddhismo, per esempio, viene vista come liberazione, nell’islam come completa obbedienza a Dio. Solo il cristianesimo pone la problematica nella sua interezza. È infatti una specificità del cristianesimo quella di evidenziare che l’uomo è ferito nella sua volontà: non è più capace di volere il bene né di darsi gli strumenti appropriati per raggiungerlo. Solo Dio può guarire questa volontà, affinché si arrivi alla salvezza. Ma Dio non può semplicemente sanare questa ferita della volontà dell’uomo: deve mettere in atto una riparazione che parta dall’interno, cioè deve far sì che l’uomo voglia di nuovo il suo bene. Alla salvezza dell’uomo la scienza non può apportare nulla: può descrivere sempre meglio la realtà, può apportare sempre più efficacia ed efficienza, può mettere in atto dispositivi e tecniche che sfocino nelle realizzazioni che vogliamo. Ma non ci può insegnare a desiderare il nostro bene, e di conseguenza a raggiungerlo». Nella cultura moderna, però, a volte l’uomo sembra sospeso tra due fedi: quella in Dio, che atterrebbe alla sfera privata, e quella nella scienza, che invece si occupa del bene di tutti. «La fede nella scienza è una metafora: in realtà essa non chiede che le si creda, perché è una verità obiettiva. Il termine 'fede', invece, cambia completamente significato quando lo riferiamo a Dio: in questo caso è una virtù teologale, ed è un atto di volontà attraverso il quale esprimiamo il nostro assenso nei confronti di una verità che la nostra ragione non riesce a comprendere appieno. La credibilità della scienza oggi è legata all’applicazione delle tecniche che da essa provengono: abbiamo bisogno di guarire un paziente, abbiamo bisogno di potenza, ricchezza, felicità e la scienza ci permette tutto questo. La religione non 'funziona' a questo modo: ci invita a cambiare l’oggetto del nostro desiderio, a capire se quello che abbiamo è effettivamente quello che desideriamo o se abbiamo bisogno di altro. Ci propone una ricchezza fatta di altre cose, che non possono venire dalla scienza. Ci insegna cosa dobbiamo volere». Che cosa dobbiamo volere… sembra un’affermazione che nega la libertà. Benedetto XVI nella «Spe Salvi» scrive che il bene non è mai raggiunto definitivamente proprio perché l’uomo è libero, e la sua libertà è fragile. «San Paolo nella lettera ai Galati (5,1) dice che Cristo ci ha liberato per la libertà: la libertà non è un mezzo per un’altra cosa, ma è un fine. È compimento dell’amore: niente è più libero di Dio, niente è più divino della libertà. Ciò che bisogna fare è liberare la libertà da tutti gli ostacoli che le impediscono di svilupparsi nella sua interezza. La libertà liberata troverà da sola il proprio compimento nell’incontro con il Signore». Lei ha detto che bisognerebbe smettere di parlare di valori, e parlare invece di beni. Perché? «Mi disturba il fatto di parlare di valori che si sta facendo da alcuni anni in ambito cattolico. Ovviamente i contenuti di questi valori non li metto in discussione, ma noto una certa ingenuità nell’impiego di questo termine che è di moda, ma è stato usato anche, ad esempio, da Nietzsche, che non era propriamente un buon cattolico.Propongo allora una specie di esercizio: sostituire al termine 'valore' il termine 'beni', al plurale. Il valore esiste nella misura in cui lo attribuiamo ad una determinata cosa, dunque è soggettivo. Nietzsche, in Così parlò Zaratustra, analizza questo problema e dice che l’atto con cui diamo importanza alla cosa ha più importanza della cosa che acquista valore grazie all’atto. A questo i cattolici devono stare attenti. I beni invece sono oggettivi, concreti, rispondono a dei bisogni e sono condivisibili. Nel cristianesimo non c’è nulla che sia buono solo per i cristiani». Però tra i cattolici si sta diffondendo la sensazione di essere minoranza, e quindi il bisogno di difendere i propri valori. «L’impero romano era una specie di mercato delle opinioni: c’erano offerte filosofiche e religiose di ogni tipo a disposizione di chi le cercava. I cristiani erano una piccola minoranza: non c’è nessuna novità da questo punto di vista. Dobbiamo solo convincerci che il nostro è un ottimo 'prodotto', e in un mercato libero, noi saremmo ben collocati. Solo il cristianesimo può rispondere a una domanda: ha senso la presenza degli uomini su questa terra?». |
Postato da: giacabi a 15:23 |
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cristianesimo, brague, scienza - articoli
Il Cristianesimo
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“(...) Tutto ciò che sta al centro è questo.
Il coinvolgimento del temporale nell’eterno
e dell’eterno nel temporale. Tolto il
coinvolgimento non c’è più niente. Non c’è
più un mondo da salvare. Non ci sono più
anime da salvare. Non c’è più alcun
cristianesimo. (...) Non c’è più né tentazione,
né salvezza, né prova, né passaggio,
né tempo, né niente.
Non c’è più né redenzione, né incarnazione,
e neanche la creazione. Non ci sono più
né ebrei né cristiani. Non ci sono più
né promesse, né il mantenimento delle
promesse, il compimento delle promesse,
le promesse mantenute. Non c’è più
cristianesimo, non c’è più niente. (...) Non
c’è più l’operare della grazia. Non ci sono
più le promesse e i compimenti, il lento
disporsi lungo il tempo, lungo la storia.
L’incamminarsi e il raggiungere, l’ottenere.
(...) Cade tutto. Non c’è più cristianesimo
né niente. Ci sono solo cocci senza nome,
materiali senza forma, calcinacci e rovine;
rovine informi, cumuli e macerie,
mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri,
come quello che abbiamo sotto gli occhi;
vergognose contraffazioni, imitazioni
amorfe, immagini scandalose, parodie
infami. Delle eresie grottesche. Non vi è più
il cristianesimo; non vi è più questa storia
meravigliosa, unica, straordinaria,
inverosimile, eterna temporale eterna,
divina umana divina, quel punto
d’intersezione, quell’incontro meraviglioso,
unico, del temporale nell’eterno,
e reciprocamente dell’eterno nel temporale,
del divino nell’umano e mutualmente
dell’umano nel divino.
(...) Ecco, amico mio, ecco il cristianesimo.
Ecco il cristianesimo. Di quello vero.
Il resto, amico mio, tutto il resto, va beh...
diciamo che tutto il resto è ottimo per la
storia delle religioni. È questa legatura,
eterna, temporale, più ancora che questa
legatura, quell’incastro perfetto,
quell’inversione, quell’incrostazione
dell’uno nell’altro; come questa
incrocificazione dell’uno nell’altro;
che fa il cristianesimo. Tutto il resto rimane
un’eccellente materia di insegnamento”.
(C. Péguy)
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Postato da: giacabi a 20:53 |
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cristianesimo, peguy
Contagio
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«Il cristiano, più che persuasivo, dovrebbe
essere contagioso.»
(Claudel)
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