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domenica 5 febbraio 2012

Curato d’Ars

L’obbedienza e l’umiltà
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Racconta il Santo Curato d’Ars Giovanni Maria Vianney che in un’apparizione diabolica il tentatore gli disse: “Posso fare tutto quello che fai tu: agire, predicare, parlare, persino studiare la Scrittura e la santa teologia. Una sola cosa non posso praticare: l’obbedienza e l’umiltà”.

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venerdì, 20 agosto 2010

La radice dell'infelicità

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Non si ama Dio: ecco perché si è infelici!
(Santo curato d’Ars).

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curato dars

lunedì, 19 luglio 2010


Il Segno di Croce -

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Il segno di Croce fa paura al demonio, perchè é per mezzo della Croce che noi gli sfuggiamo... Bisogna fare il segno di Croce con grande rispetto. Si comincia dalla testa: é il capo, la creazione, il Padre; segue il cuore: l'amore, la vita, la redenzione, il Figlio; vengono poi le spalle: la forza, lo Spirito Santo. Tutto ci ricorda la croce. Noi stessi siamo fatti a forma di croce.

Curato d'Ars

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croce, curato dars

domenica, 18 aprile 2010
San Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars
Cari fratelli e sorelle,
nell’odierna catechesi vorrei ripercorrere brevemente l’esistenza del Santo Curato d’Ars sottolineandone alcuni tratti, che possono essere di esempio anche per i sacerdoti di questa nostra epoca, certamente diversa da quella in cui egli visse, ma segnata, per molti versi, dalle stesse sfide fondamentali umane e spirituali. Proprio ieri si sono compiuti 150 anni dalla sua nascita al Cielo: erano infatti le due del mattino del 4 agosto 1859, quando san Giovanni Battista Maria Vianney, terminato il corso della sua esistenza terrena, andò incontro al Padre celeste per ricevere in eredità il regno preparato fin dalla creazione del mondo per coloro che fedelmente seguono i suoi insegnamenti (cfr Mt 25,34). Quale grande festa deve esserci stata in Paradiso all’ingresso di un così zelante pastore! Quale accoglienza deve avergli riservata la moltitudine dei figli riconciliati con il Padre, per mezzo dalla sua opera di parroco e confessore! Ho voluto prendere spunto da questo anniversario per indire l’Anno Sacerdotale, che, com’è noto, ha per tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote. Dipende dalla santità la credibilità della testimonianza e, in definitiva, l’efficacia stessa della missione di ogni sacerdote.
Giovanni Maria Vianney nacque nel piccolo borgo di Dardilly l’8 maggio del 1786, da una famiglia contadina, povera di beni materiali, ma ricca di umanità e di fede. Battezzato, com’era buon uso all’epoca, lo stesso giorno della nascita, consacrò gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza ai lavori nei campi e al pascolo degli animali, tanto che, all’età di diciassette anni, era ancora analfabeta. Conosceva però a memoria le preghiere insegnategli dalla pia madre e si nutriva del senso religioso che si respirava in casa. I biografi narrano che, fin dalla prima giovinezza, egli cercò di conformarsi alla divina volontà anche nelle mansioni più umili. Nutriva in animo il desiderio di divenire sacerdote, ma non gli fu facile assecondarlo. Giunse infatti all’Ordinazione presbiterale dopo non poche traversìe ed incomprensioni, grazie all’aiuto di sapienti sacerdoti, che non si fermarono a considerare i suoi limiti umani, ma seppero guardare oltre, intuendo l’orizzonte di santità che si profilava in quel giovane veramente singolare. Così, il 23 giugno 1815, fu ordinato diacono e, il 13 agosto seguente, sacerdote. Finalmente all’età di 29 anni, dopo molte incertezze, non pochi insuccessi e tante lacrime, poté salire l’altare del Signore e realizzare il sogno della sua vita.
Il Santo Curato d’Ars manifestò sempre un’altissima considerazione del dono ricevuto. Affermava: “Oh! Che cosa grande è il Sacerdozio! Non lo si capirà bene che in Cielo… se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento ma di amore!” (Abbé Monnin, Esprit du Curé d’Ars, p. 113). Inoltre, da fanciullo aveva confidato alla madre: “Se fossi prete, vorrei conquistare molte anime” (Abbé Monnin, Procès de l’ordinaire, p. 1064). E così fu. Nel servizio pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo, questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita per le proprie pecore (cfr Gv 10,11). Sull’esempio del Buon Pastore, egli ha dato la vita nei decenni del suo servizio sacerdotale. La sua esistenza fu una catechesi vivente, che acquistava un’efficacia particolarissima quando la gente lo vedeva celebrare la Messa, sostare in adorazione davanti al tabernacolo o trascorrere molte ore nel confessionale.
Centro di tutta la sua vita era dunque l’Eucaristia, che celebrava ed adorava con devozione e rispetto. Altra caratteristica fondamentale di questa straordinaria figura sacerdotale era l’assiduo ministero delle confessioni. Riconosceva nella pratica del sacramento della penitenza il logico e naturale compimento dell’apostolato sacerdotale, in obbedienza al mandato di Cristo: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” (cfr Gv 20,23). San Giovanni Maria Vianney si distinse pertanto come ottimo e instancabile confessore e maestro spirituale. Passando “con un solo movimento interiore, dall’altare al confessionale”, dove trascorreva gran parte della giornata, cercava in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica (cfr Lettera ai sacerdoti per l’Anno Sacerdotale).
I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali. Come potrebbe infatti imitarlo un sacerdote oggi, in un mondo tanto cambiato? Se è vero che mutano i tempi e molti carismi sono tipici della persona, quindi irripetibili, c’è però uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti siamo chiamati a coltivare. A ben vedere, ciò che ha reso santo il Curato d’Ars è stata la sua umile fedeltà alla missione a cui Iddio lo aveva chiamato; è stato il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina. Egli riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu “innamorato” di Cristo, e il vero segreto del suo successo pastorale è stato l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio. La sua testimonianza ci ricorda, cari fratelli e sorelle, che per ciascun battezzato, e ancor più per il sacerdote, l’Eucaristia “non è semplicemente un evento con due protagonisti, un dialogo tra Dio e me. La Comunione eucaristica tende ad una trasformazione totale della propria vita. Con forza spalanca l’intero io dell’uomo e crea un nuovo noi” (Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, p. 80).
Lungi allora dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità devozionale ottocentesca, è necessario al contrario cogliere la forza profetica che contrassegna la sua personalità umana e sacerdotale di altissima attualità. Nella Francia post-rivoluzionaria che sperimentava una sorta di “dittatura del razionalismo” volta a cancellare la presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella società, egli visse, prima - negli anni della giovinezza - un’eroica clandestinità percorrendo chilometri nella notte per partecipare alla Santa Messa. Poi - da sacerdote – si contraddistinse per una singolare e feconda creatività pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli autentici bisogni dell’uomo e quindi, in definitiva, non vivibile.
Cari fratelli e sorelle, a 150 anni dalla morte del Santo Curato d’Ars, le sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse. Se allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di “dittatura del relativismo”. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi.
Avevano ben presente questa “sete di verità”, che arde nel cuore di ogni uomo, i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II quando affermarono che spetta ai sacerdoti, “quali educatori della fede”, formare “un’autentica comunità cristiana” capace di aprire “a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo” e di esercitare “una vera azione materna” nei loro confronti, indicando o agevolando a che non crede “il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa”, e costituendo per chi già crede “stimolo, alimento e sostegno per la lotta spirituale” (cfr Presbyterorum ordinis, 6). L’insegnamento che a questo proposito continua a trasmetterci il Santo Curato d’Ars é che, alla base di tale impegno pastorale, il sacerdote deve porre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Solo se innamorato di Cristo, il sacerdote potrà insegnare a tutti questa unione, questa amicizia intima con il divino Maestro, potrà toccare i cuori della gente ed aprirli all’amore misericordioso del Signore. Solo così, di conseguenza, potrà infondere entusiasmo e vitalità spirituale alle comunità che il Signore gli affida. Preghiamo perché, per intercessione di san Giovanni Maria Vianney, Iddio faccia dono alla sua Chiesa di santi sacerdoti, e perché cresca nei fedeli il desiderio di sostenere e coadiuvare il loro ministero. Affidiamo questa intenzione a Maria, che proprio oggi invochiamo come Madonna della Neve.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

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venerdì, 18 dicembre 2009

La provvidenza
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Non temiamo mai che la santa Messa comporti ritardi nei nostri affari temporali; succede tutto i1 contrario: stiamo certi che tutto andrà meglio, e che anzi i nostri affari riusciranno meglio che se avessimo la disgrazia di non assistervi. Eccone un esempio ammirevole. Viene riferito di due artigiani, che esercitavano lo stesso mestiere e che dimoravano nel medesimo borgo, che uno di essi, carico di una grande quantità di bambini, non mancava mai di ascoltare ogni giorno la santa Messa e viveva assai agevolmente con il suo mestiere; mentre l'altro, che pure non aveva bambini, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il santo giorno della domenica, e a mala pena riusciva a vivere. Costui, che vedeva gli affari dell'altro riuscirgli così bene, gli chiese, un giorno che lo incontrò, dove poteva prendere di che mantenere così bene una famiglia tanto grande come la sua, mentre lui, che non aveva che sé e sua moglie, e lavorava senza posa, era spesso sprovvisto di ogni cosa.

L'altro gli rispose che, se voleva, l'indomani gli avrebbe mostrato da dove gli proveniva tutto il suo guadagno. L'altro, molto contento di una così buona notizia, non vedeva l'ora di arrivare all'indomani che doveva insegnargli a fare la sua fortuna. Infatti, l'altro non mancò di andare a prenderlo. Eccolo che parte di buon animo e lo segue con molta fedeltà. L'altro lo condusse fino alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono tornati: " Amico, gli disse colui che stava bene a suo agio, torni pure al suo lavoro". Fece altrettanto L'indomani; ma, essendo andato a prenderlo una terza volta per la stessa cosa: «Come? - gli disse l'altro. Se voglio andare alla Messa, conosco la strada, senza che lei si prenda la pena di venirmi a prendere; non è questo che volevo sapere, bensì il luogo dove trova tutto questo bene che la fa vivere così agiatamente; volevo vedere se, facendo come lei, posso trovarvi il mio tornaconto». - «Amico, gli rispose l'altro, non conosco altro luogo oltre la chiesa, e nessun altro mezzo fuorché l'ascoltare ogni giorno la santa Messa; e quanto a me, le assicuro che non ho adoperato altri mezzi per avere tutto il bene che la stupisce. Ma lei non ha letto ciò che Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, di cercare anzitutto il regno dei cieli, e che tutto il resto ci sarà dato in soprappiù?».

Forse vi stupisce, fratelli? Me, no. È ciò che vediamo ogni giorno nelle case dove c'è devozione: coloro che vengono spesso alla santa Messa fanno i loro affari molto meglio di quelli ai quali la loro poca fede fa pensare che non ne hanno mai il tempo. Ahimè!, se avessimo riposto tutta la nostra fiducia in Dio, e non contassimo affatto sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici di quanto lo siamo!

- Ma, mi direte, se non abbiamo niente, non si dà niente.

- Cosa volete che vi dia il buon Dio, quando non contate che sul vostro lavoro e per niente su di lui? Visto che non vi concedete neanche il tempo per fare le vostre preghiere al mattino né alla sera, e vi accontentate di venire alla santa Messa una volta alla settimana.

Ahimè!, non conoscete le ricchezze della provvidenza del buon Dio per colui che si fida in Lui. Volete una prova evidente? Essa sta dinanzi ai vostri occhi; guardate il vostro pastore e considerate questo. dinanzi al buon Dio.

- Oh!, mi direte, è perché a lei viene dato.

- Ma chi mi dà se non la provvidenza del buon Dio? Ecco dove sono i miei tesori, e non altrove.
San Giovanni Maria Vianney, Omelia per la II Domenica dopo Pentecoste

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curato dars

mercoledì, 16 dicembre 2009

Lavorare per il cielo
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Molti sono i cristiani, figli miei, che non sanno assolutamente perché sono al mondo… “Mio Dio, perché mi hai messo al mondo?”. “Per salvarti”. “E perché vuoi salvarmi?”. “Perché ti amo”.

Com’è bello conoscere, amare e servire Dio! Non abbiamo nient’altro da fare in questa vita. Tutto ciò che facciamo al di fuori di questo, è tempo perso. Bisogna agire soltanto per Dio, mettere le nostre opere nelle sue mani… Svegliandosi al mattino bisogna dire: “Oggi voglio lavorare per te, mio Dio! Accetterò tutto quello che vorrai inviarmi in quanto tuo dono. Offro me stesso in sacrificio. Tuttavia, mio Dio, io non posso nulla senza di te: aiutami!”.

Oh! Come rimpiangeremo, in punto di morte, tutto il tempo che avremo dedicato ai piaceri, alle conversazioni inutili, al riposo anziché dedicarlo alla mortificazione, alla preghiera, alle buone opere, a pensare alla nostra miseria, a piangere sui nostri peccati! Allora ci renderemo conto di non aver fatto nulla per il cielo.

Che triste, figli miei! La maggior parte dei cristiani non fa altro che lavorare per soddisfare questo “cadavere” che presto marcirà sotto terra, senza alcun riguardo per la povera anima, che è destinata ad essere felice o infelice per l’eternità. La loro mancanza di spirito e di buon senso fa accapponare la pelle!

Vedete, figli miei, non bisogna dimenticare che abbiamo un’anima da salvare ed un’eternità che ci aspetta. Il mondo, le ricchezze, i piaceri, gli onori passeranno; il cielo e l’inferno non passeranno mai. Stiamo quindi attenti!
san Giovanni Maria Vianney

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curato dars

martedì, 15 dicembre 2009

L'amore del prossimo
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Tutta la nostra religione non è che religione falsa e tutte le nostre virtù non sono altro che fantasmi; e siamo soltanto degli ipocriti agli occhi di Dio, se non abbiamo quella carità universale per tutti, per i buoni come per i cattivi, per i poveri come per i ricchi, per tutti quelli che ci fanno del male, come per quelli che ci fanno del bene. No, non c'è virtù che meglio ci faccia conoscere se siamo í figli del buon Dio, come la carità. L'obbligo che abbiamo di amare il nostro prossimo è così grande, che Gesù Cristo ce ne fa un comandamento, che pone subito dopo quello col quale ci ordina di amarlo con tutto il cuore. Ci dice che tutta la legge e í profeti sono racchiusi in questo comandamento di amare il nostro prossimo.

Sì, dobbiamo considerare quest'obbligo come il più universale, il più necessario e il più essenziale alla religione, alla nostra salvezza.
Osservando questo comandamento, mettiamo in pratica tutti gli altri. San Paolo ci dice che gli altri comandamenti ci vietano l'adulterio, il furto, le ingiurie, le false testimonianze. Se amiamo il nostro prossimo, non facciamo niente di tutto questo, perché l'amore che abbiamo per il nostro prossimo non può tollerare che facciamo del male.
San Giovanni Maria Vianney, Omelia per la XII Domenica dopo Pentecoste

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curato dars

venerdì, 14 agosto 2009
Giovanni Maria Vianney
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Il Curato d'Ars dirà di sé che non riusciva a capire la tentazione dell'orgoglio, ma di sentire invece molto quella della disperazione, quella dell'abissale sconfortante inadeguatezza che si placa solo nell'abbandonarsi totalmente a Dio. E’ importante che noi comprendiamo bene tutte le radici del dramma, proprio partendo da alcune nostre esperienze. Tante volte i cristiani si sentono quasi ostacolati dalla umana limitatezza del loro prete. Dicono; "non sa predicare", oppure "non è capace di rapporti umani", oppure "non è un santo", "è anche lui peccatore come tutti...", "perché mi devo confessare da lui che peggio di me...?" e simili lamenti. Mettete insieme per un istante tutte le obiezioni più o meno istintive che nella vostra esperienza avete provato o udito nei riguardi dei sacerdoti. Ebbene: l'aspetto più serio di queste obiezioni consiste nel fatto che rimandano alla nuda oggettività del ministero: quello che importa è soltanto l'azione sacra di Dio, che attraverso quest’uomo-prete si compie. Il Santo Curato d'Ars incarna personalmente, lui di fronte a se stesso e di fronte a Dio, questo indicibile dramma. "Il prete, diceva, da un lato, si capirà soltanto in Cielo. Se lo comprendessimo sulla terra ne moriremmo, non di paura ma d'amoreDopo Dio il prete è tutto. Lasciate per vent’anni una parrocchia senza prete e vi si adoreranno le bestie!".

Ma, d'altra parte, aggiungeva: "Come è spaventoso essere prete! Come è da compiangere un prete quando dice Messa come una cosa ordinaria! Come è sventurato un prete senza interiorità!". Questo, a dire il vero, non è il suo problema. Anzi, quando dice Messa sembra che veda Dio, tanto la sua celebrazione è intensa commovente. Egli però vive il tormento di essere parroco, d'avere la responsabilità di una parrocchia e di non sentirsene degno. Continuerà a sperare fino agli ultimi anni di vita, di poter essere liberato da questa responsabilità, per non dovere passare direttamente, come diceva, "dalla parrocchia al tribunale di Dio".

E avrà il costante timore, fino a pochi giorni prima della morte, di poter morire soccombendo alla tentazione di disperarsi. Per tre volte cercherà di fuggire, notte tempo, per andare dal Vescovo a chiedere il permesso di ritirarsi in solitudine "a piangere i suoi peccati". L'ultima volta lo farà addirittura quando ormai è celebre in tutta la Francia, tre anni prima di morire. Fuggirà di notte mentre i parrocchiani, che sospettano, sono desti, pronti a fermarlo. I più vivi collaboratori lo ostacoleranno in tutti i modi chiedendogli di recitare assieme prima le preghiere del mattino, nascondendogli il breviario, fin quando la folla dei parrocchiani gli sbarrerà la strada e piangendo gli chiederà di restare: "Signor Curato, se Vi abbiamo dato qualche dispiacere, ditelo, faremo tutto quello che vorrete per farVi piacere". Si lasciò ricondurre in chiesa, "condannato", nel senso più spirituale del termine, al suo confessionale, dicendosi: "che ne sarebbe, se no, di tanti poveri peccatori?". L'indomani, a chi gli ricordava gli avvenimenti della notte, diceva umilmente: "ho fatto il bambino!". Ma non fuggiva per la fatica, fuggiva per il timore di non essere degno. "Io, diceva, non mi rammarico di essere prete per dire la Messa, ma non vorrei essere parroco".

Pensava che la nomina dipendesse dal fatto che il Vescovo si sbagliasse nel valutare le sue capacità, e che dunque egli era un ipocrita, perché riusciva a nascondere la sua miseria. "Come sono sfortunato! Non c'è nessuno fino a Monsignore che non si inganni sul mio conto! Bisogna che io sia ben ipocrita!". A dire il vero, c'era più d'uno che lo disprezzava. Un parroco vicino, che vedeva i suoi penitenti incamminarsi verso Ars, gli scriveva: "Signor Curato, quando si possiede così poca teologia, non si dovrebbe mai entrare in un confessionale". E qualcun altro addirittura predicava contro di lui. Ed il Curato d'Ars rispondeva: "Mio carissimo ed amatissimo confratello, quanti motivi ho d'amarVi! Voi siete il solo che mi abbia conosciuto bene!" e gli chiedeva con insistenza d'aiutarlo ad ottenere dal vescovo d'essere liberato da quell'incarico in modo che "essendo sostituito in un posto che non sono degno di occupare a motivo della mia ignoranza, possa ritirarmi in un angolo a piangere sulla mia povera vita".

Ma questa così umile e sofferta concezione di sé, notatelo bene, non dipende da un carattere triste, malinconico o angosciato. Al contrario, egli è un uomo vivace, capace anzi di umorismo. Piuttosto, concorrono a formarla due fattori di diversa entità. C'entra indubbiamente un fatto storico-culturale: l'educazione che egli aveva ricevuta era stata molto severa, improntata a un rigorismo giansenista, molto preoccupata del mistero della predestinazione e della dannazione. Un rigore che all'inizio egli userà anche verso i suoi penitenti e nelle prediche, ma che poi cederà sempre più il posto ad una esaltazione vibrante e dilagante dell'amore di Dio. Ma c'entra ancor più un fatto mistico.
Sarà lui stesso a rivelarlo ad una sua penitente: "Figlia mia, non chiedete a Dio la conoscenza completa della vostra miseria. Io l'ho domandata una volta e l'ho ottenuta. Se Dio non mi avesse sostenuto, sarei allora immediatamente caduto nella disperazione!". E ad una sua collaboratrice pastorale:"Ho domandato a Dio di conoscere la mia miseria. L'ho conosciuta e sono stato così sopraffatto che l'ho pregato di diminuire la pena che provavo. Mi sembrava di non farcela a sopportarla". E un'altra volta ancora confidò: "Sono stato così spaventato nel conoscere la mia miseria che ho implorato immediatamente la grazia di dimenticarla. Dio mi ha ascoltato, ma mi ha lasciato abbastanza lucidità della mia miseria da farmi comprendere che io non sono buono a nulla". Dobbiamo stare molto attenti. Nella vita a molti mistici si ritrova questa esperienza, una specie di "notte oscura" necessaria per partecipare al mistero della passione di Cristo ed essere così totalmente abbandonati nelle mani del Padre e impregnati dal suo amore. "Dio tutto, io nulla" è l'espressione anche di S. Agostino, di S. Francesco, di S. Caterina da Siena e anche di alcuni giovani Santi dei nostri giorni.
[…]
Nella vita dei Santi, ogni particolare, per non apparire ambiguo, deve essere guardato tenendo conto di tutto il disegno che Dio ha su di loro. In secondo luogo, il Curato d'Ars vive con la preoccupazione di dover essere, per i suoi fedeli, il buon pastore. Anzitutto istruirli. Il parroco che lo ha preceduto, in una sua relazione, ha lasciato scritto che la gente del posto era così ignorante, così priva di istruzione religiosa, che la maggioranza dei bambini "da null'altro si differenzia dagli animali, se non per il Battesimo". E, lo stesso vale anche per gli adulti maschi, ormai lontani dalla Chiesa o comunque passivi frequentatori, e di rado. Li incontra dovunque, li conosce uno per uno, li trattiene in Chiesa con prediche che durano anche un'ora. A volte si confonde. A volte si commuove. A volte si interrompe e, indicando il Tabernacolo dice, con un tono che dà struggimento: "Egli è là". Parla con loro a tu per tu, usando il loro linguaggio, i loro paragoni. Bisogna andare piano a dire che il Curato d'Ars non fosse intelligente. Le sue prediche rivelano una vivacità di linguaggio e di impostazione da destare stupore. Ecco come parla ai suoi fedeli della loro svogliata preghiera, descrivendo una famiglia-tipo : "In casa, non pensano minimamente a recitare il 'benedicite' prima di mangiare, né la preghiera di ringraziamento dopo, e neppure l'Angelus. E ammesso che le dicano per una vecchia abitudine, a vederli vi sentireste male: le donne le recitano mentre spicciano e chiamano a voce alta i figli ed i domestici, gli uomini mentre girano tra le mani il berretto o il cappello quasi per accertarsi se c'è qualche buco Pensano al Signore come se abbiano la certezza che Egli non esiste affatto e sia una cosa da ridere".
E ancora sull'amore di Dio: "Nostro Signore è sulla terra come una madre che porta il sua bambino in braccio. Questo bambino è cattivo, dà calci alla madre, la morde, la graffia, ma la madre non ci fa nessun caso; ella sa che se lo molla, il bambino cade, non può camminare da solo. Ecco come è nostro Signore; Egli sopporta tutti i nostri maltrattamenti, sopporta tutte le nostre arroganze, ci perdona tutte le nostre sciocchezze, ha pietà di noi malgrado noi". E ancora sull'orgoglio: "ecco dunque un tale che si tormenta, che si agita, che fa chiasso, che vuole dominare su tutti, che si crede qualche cosa, che sembra voler dire al sole: 'togliti di lì, lasciami illuminare il mondo al tuo posto!...'. Un giorno quest'uomo orgoglioso sarà ridotto tutt'al più ad un pizzico di cenere che sarà portata via di fiume in fiume... fino al mare". Questa è la cultura pastorale del Curato d'Ars. Altre volte dice loro: "Non vediamo l'ora di sbarazzarci del Signore come di un sassolino nella scarpa". oppure: "Il povero peccatore è come una zucca che la massaia spacca in quattro e la trova piena di vermi". oppure: "I peccatori sono neri come i tubi della stufa".

Ma un conto è fare un elenco di frasi, un conto è vedere e sentire come queste frasi gli nascono dal cuore, come gli scavano l'anima. Il fatto è che tutti uscivano di chiesa dicendo: "Nessun sacerdote ha mai parlato di Dio come il nostro Curato". Il suo stesso Vescovo diceva: "Si dice che il Curato d'Ars non sia istruito, io non so se sia vero, però so di sicuro che lo Spirito Santo si incarica di illuminarlo". La sua attività pastorale (oltre alla costruzione di un orfanotrofio per bambine e poi di un Istituto per l'istruzione dei ragazzi) riguarda tre aspetti della vita parrocchiale che egli identificò subito come segni della profonda scristianizzazione a cui la Francia di allora veniva assoggettata.

Da un lato: il lavoro nei giorni di festa e l'abitudine di bestemmiare, come segni emergenti di un ateismo pratico con cui si nega di fatto quel Dio a cui pur si dice di credere. Il Curato sa che, per i suoi contadini, lavorare di festa vuol dire attaccamento al denaro, vuoi dire disumanizzazione del tempo e della vita. Non per nulla i signori di Parigi stanno nel frattempo tentando di abolire le feste e le domeniche per sostituirle col decadì, un giorno di laico riposo ogni dieci, purché ci si dimentichi del giorno del Signore e dei Santi.

Giovanni Maria Vianney non ha pace finché nel questionario della sua parrocchia non potrà scrivere che nei giorni di festa si lavora "raramente" e fin quando degli stranieri di passaggio non resteranno meravigliati a vedere tre carrettieri, alle prese con un cavallo imbizzarrito che rovescia il carico, e che, tuttavia, non si spazientiscono né bestemmiano. Ne sono così impressionati che lo annotano come una notizia da raccontare in giro.
[…]
Verso il 1827 comincia a diffondersi la sua fama a santità All'inizio sono quindici o venti pellegrini al giorno. Nell'anno 1834 se ne contano trentamila all'anno che diventeranno, negli ultimi anni della sua vita, da ottantamila a centomila. Fu necessario stabilire un servizio regolare giornaliero di trasporti da Lione ad Ars. Anzi, si dovette aprire alla stazione di Lione uno sportello speciale che vendeva biglietti di andata e ritorno per Ars, della durata di Otto giorni (biglietti che allora erano un'eccezione), dato che ci voleva in media una settimana per riuscire a confessarsi. E cominciò così la vera missione del Curato d'Ars: il suo "martirio del confessionale".

Negli ultimi vent'anni vi restò in media 17 ore al giorno, cominciando verso l'una o le due di notte nella bella stagione, o verso le quattro nella stagione cattiva, finendo a tarda sera. Le uniche interruzioni erano per la celebrazione della Messa, la recita del breviario, il catechismo e qualche minuto per un po' di cibo. Nell'estate l'atmosfera era così soffocante che i pellegrini dovevano, a turno, andar fuori a respirare per poter resistere; d'inverno il gelo tormentoso: "Gli ho domandato come potesse restar tante ore così, con un tempo così rigido, senza avere nulla per scaldarsi i piedi". "Amico mio, mi disse, il fatto è che da Ognissanti a Pasqua, io i piedi non li sento affatto". Ma questo sacrificio di essere lì, quasi trascinato e inchiodato dalla folla, con qualunque tempo e in qualunque ora, non era ancora la sofferenza maggiore. La sofferenza era l'ondata di peccati di male, che si riversava su di lui come un mare di fango opprimente.
Tutto quello che io so del peccato diceva l'ho imparato da loro . Li ascoltava, leggeva in loro come in un libro aperto, ma soprattutto li convertiva. Spesso aveva tempo solo per pochissime parole e negli ultimi anni aveva una voce così flebile che sì faticava a sentirlo. Eppure i penitenti uscivano sconvolti dal suo confessionale. "Se il Signore non fosse così buono diceva ma invece lo è tanto ! Che male vi ha fatto nostro Signore perché dobbiate trattarlo in questo modo!" oppure: "Perché mi hai offeso tanto? Ti dirà un giorno nostro Signore, e non saprai cosa rispondergli"; Spessissimo, soprattutto quando si trovava davanti peccatori scarsamente consapevoli del proprio peccato e dunque scarsamente pentitevi Santo Curato cominciava lui a piangere. Ed era un'esperienza indicibile quella di vedere, con i propri occhi, un vero dolore, una vera sofferenza, una vera passione come oggettivati, resi "esperienza": come se per un istante tu potessi intravedere la pena di Dio per il tuo male, incarnata nel volto del sacerdote che ti confessa.
 Antonio M. Sicari, Ritratti di Santi, Ed. Jaca Book

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sabato, 17 maggio 2008

L’umiltà, prima tra le virtù

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L’umiltà è il miglior modo per amare Dio. E’ il nostro orgoglio ad impedirci di diventare santi. L’orgoglio è il filo che tiene unito il rosario di tutti i vizi; l’umiltà è il filo che tiene unito il rosario di tutte le virtù.
I santi conoscevano se stessi meglio di quanto conoscessero gli altri: ecco perché erano umili.
Ahimè! E’ difficile capire come e per che cosa una creatura insignificante quale siamo noi può inorgoglirsi. Un pugnetto di polvere grande come una noce: ecco cosa diventeremo dopo la morte. C’è di che essere ben fieri!
Quelli che ci umiliano sono nostri amici, non quelli che ci lodano.
L’umiltà è come una bilancia: più ci si abbassa da una parte, più ci si innalza dall’altra.
Una persona orgogliosa crede che tutto ciò che fa sia fatto bene; vuole dominare su tutti quelli che hanno a che fare con lei; ha sempre ragione; crede sempre che le sue opinioni siano migliori di quelle degli altri… Non è così!…
Se si domanda ad una persona umile ed istruita di esprimere il suo parere, questa lo dice con semplicità, dopodiché lascia parlare gli altri. Sia che abbiano ragione, sia che abbiano torto, non dice più nulla.
San Luigi Gonzaga, quand’era scolaro, non cercava mai di scusarsi se gli veniva rivolto qulche rimprovero; diceva ciò che pensava e non si preoccupava più di quello che pensavano gli altri. Se aveva torto, aveva torto; se aveva ragione, diceva a se stesso: «Altre volte, però, ho avuto proprio torto”.
Curato d’Ars

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