CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


martedì 7 febbraio 2012

dante

Quel volto nascosto in tutto ciò che è bello
***

Michelangelo - Cappella Sistina
 

di Giovanni Fighera
 
06-08-2011



Qual è l’«utilità» della bellezza nella nostra vita? Qual è il legame tra il bello e la civiltà, tra il bello e le altre discipline, tra il bello e le dimensioni concrete dell’esistenza? Affermare che la bellezza sia «disinteressata» coincide con l’attestazione della inutilità della bellezza?

Iniziamo col dire che la bellezza ha una suprema funzione educativa. Se, infatti, il bello produce sull’uomo l’effetto della contemplazione, allora esso ci educa a cogliere la realtà per quella che è. Di fronte al bello, cioè, l’uomo è portato, come primo, iniziale e puro impeto, a contemplarlo: è, quindi, educato a trasformare l’amore di concupiscenza in amore per l’oggetto in sé stesso. Questo sguardo puro, distaccato e contemplativo di fronte alla bellezza del reale si chiama verginità. Dostoevskij non aveva dubbi nel riconoscere l’importanza della bellezza. Scriveva nei Demoni: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono già un frutto, il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! ».

Bisogna, però, sfatare un inveterato luogo comune, quello che la bellezza riguardi solo le discipline artistiche. La bellezza riguarda ogni ambito della vita e della realtà come scrive Dante nel Paradiso: «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante». Quindi, la bellezza è alla base di ogni passione e interesse umano. Così si esprime lo scienziato italiano Antonino Zichichi sullo sviluppo della scienza a partire da G. Galilei: «La scienza nasce da questo atto di umiltà intellettuale: dare a oggetti volgari dignità intellettuale, studiandoli. Questa umiltà intellettuale aveva in Galileo Galilei radici profonde: la fede nel fatto che in ciascun oggetto, fosse esso volgare o inutile, ci doveva esser la mano del Creatore […]. Le grandi scoperte galileiane sono le prime impronte di colui che ha fatto il mondo. Esse sono state ottenute partendo non da tecnologie, ma da semplicissime pietre, spaghi e legni. […] E invece Galilei considera quegli oggetti depositari delle impronte del Creatore».

Senza lo stupore per il creato e per l’ordine nascosto ivi presente, l’indagine scientifica non partirebbe. Quindi, non solo l’arte, ma anche la scienza deriva dall’osservazione e dallo stupore per la bellezza. Anche Albert Einstein afferma che il sentimento religioso dello scienziato «consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo […]. La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza». Stupore, contemplazione, estasi di fronte alla bellezza della realtà: questi sono gli sproni che inducono il «vero uomo di scienza» a ricercare le leggi che descrivono (cioè dicono il «come», ma non il «perché») quell’ordine e quell’armonia che tralucono dal creato. Senza la certezza di un ordine nascosto non vi sarebbe ricerca.

L’uomo medioevale, che certo non possiede gli strumenti tecnici per l’indagine, è, però, convinto dell’esistenza di un ordine e lo comunica attraverso la presenza del numero tre (con valore religioso di richiamo alla Trinità) ovunque. La certezza di quest’ordine appartiene all’uomo prima che questi sia in grado di dimostrarlo scientificamente. È lo sguardo che si fa contemplazione delle cose che lo percepisce e fa scaturire il desiderio di coglierlo più in profondità. La bellezza ha, quindi, la capacità di muovere l’uomo all’ardore della conoscenza e alla ricerca della verità, nel contempo lo sprona al desiderio di bene  come il protagonista del bellissimo film Le vite degli altri dimostra quando si chiede: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver ascoltato questa musica?».

La bellezza e l’arte, poi, consolano l’uomo dalle sofferenze quotidiane. È questa una convinzione da sempre presente nell’espressione artistica. La storia letteraria è un monumento, cioè una testimonianza imperitura, del valore dell’arte come consolazione delle afflizioni, tentativo, seppur sempre parziale e imperfetto, di lenire le sofferenze per la perdita di un caro. Indubbiamente, gli esempi al riguardo si sprecano. Come non ricordare le poesie di Pascoli dedicate alla morte del padre, assassinato nel 1867 («X agosto», «La cavallina storna», …) oppure il resoconto diaristico composto da Ungaretti durante la Prima guerra mondiale, intitolato Il porto sepolto, in cui il poeta si sofferma sulla scomparsa dei compagni di guerra («Veglia», «Soldati», …)? Come scordarsi versi come «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…», scritti sempre da Ungaretti quando vuole raccontare la sua sofferenza per la morte del figlio di soli nove anni?

La funzione eternatrice dell’arte scaturisce, poi, in concomitanza stessa della sua nascita: essa può rendere immortale il nome di chi è stato e non c’è più. Basti pensare ai poemi omerici o, per addurre esempi tratti dalla nostra letteratura, alla poesia dantesca. Quanti personaggi nell’Inferno chiedono che la propria memoria sia rinverdita e procrastinata da Dante, evidentemente attraverso il suo racconto memoriale! Pensiamo a Ciacco che si congeda da Dante viator con una richiesta: «Quando sarai nel dolce mondo, / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi».

Cinquecento anni più tardi, Foscolo costruirà un intero poema sulla bellezza, sull’arte e sull’efficacia che esse hanno nel rendere immortale il nome dei grandi: I sepolcri. Si pensi all’icastica catena di trionfi in cui Foscolo raffigura le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere sul tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge: «Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / Il tempo con sue fredde ale vi spazza/Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/Di lor canto i deserti, e l’armonia/ Vince di mille secoli il silenzio». È somma poesia, questa, ove Foscolo tocca uno dei vertici della letteratura di sempre. Se Foscolo afferma che la bellezza dell’arte e della poesia avrebbe trionfato sul deserto del tempo, Dostoevskij arriverà a scrivere nei Demoni che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Che cosa significa?

Papa Giovanni Paolo II commenta nella «Lettera agli artisti» chiosando che la bellezza genererà sempre quello stupore da cui sorgerà l’entusiasmo che permetterà all’uomo di rialzarsi. Rivolgendosi sempre agli artisti Papa Benedetto XVI spiegherà, poi, che «speranza è vera figlia di bellezza». Charles Moeller scrive in Saggezza greca e paradosso cristiano: «Una sola cosa supera la bellezza della Divina Commedia sulla Terra ed è la bellezza del volto dei santi». Per questo nei primi secoli la Didaché spronava i cristiani a guardare sempre il volto dei santi e a trarre conforto dai loro discorsi. La bellezza del santo deriva dal suo amore per Cristo, il bello e il buono per eccellenza, via verità e vita.

La ricerca della bellezza nella vita riguarda, quindi, la felicità dell’uomo. Ne è ben cosciente Dante che ha scritto la Commedia per «accompagnare gli uomini dalla condizione di peccato e di infelicità alla condizione di felicità e di beatitudine» (si veda la lettera a Cangrande della Scala). Nella poesia «Alla sua donna» Leopardi, poi, scrive rivolgendosi alla bellezza che se l’uomo la incontrasse e la amasse allora la sua vita sarebbe felice, addirittura sarebbe come quella che «nel ciel india».

Per questo san Giustino martire poteva affermare: «Tutto il bello ci interessa, perché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua pienezza. Ne consegue che tutto ciò che di buono è stato espresso da chiunque appartiene a noi cristiani». La bellezza è cioè una modalità con cui Dio ci attira a sé

Postato da: giacabi a 21:20 | link | commenti (1)
einstein, bellezza, dante, dostoevskij

sabato, 23 luglio 2011
***
Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori e i bambini. (Dante Alighieri)

Postato da: giacabi a 15:11 | link | commenti
dante

sabato, 02 luglio 2011
Il nostro vero destino
***

 
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, della vista della mente infermi,
fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola alla giustizia sanza schermi?"

("Purgatorio", X, 121-126):

Postato da: giacabi a 08:31 | link | commenti
dante

mercoledì, 20 aprile 2011

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI

***
discorso di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"
 
Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.

«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .
Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .
Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo» .

Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”). E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.
Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .

È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.
L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .
Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.

Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani.

Postato da: giacabi a 22:07 | link | commenti
dante, pirandello, benedettoxvi, giussani, grossuet

domenica, 18 gennaio 2009
Il nostro scopo
***

O frati, dissi, che per cento milia / perigli siete giunti all’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi ch’é del rimanente / non vogliate negare l’esperienza, / di retro al sol, del mondo senza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtude e conoscenza”
 Dante canto XXVIº,

     

Postato da: giacabi a 13:01 | link | commenti
dante

venerdì, 31 ottobre 2008
***
Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.
Dante Alighieri

Postato da: giacabi a 14:44 | link | commenti
dante

venerdì, 17 agosto 2007
L’amicizia
                     ***
Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io,
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch'ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse 'l disio.
 E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch'è sul numer delle trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi a ragionar sempre d'amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i' credo che saremmo noi
.
Dante  Rime
 

Postato da: giacabi a 15:05 | link | commenti
amicizia, dante

domenica, 05 agosto 2007
Preghiera
***
DANTE
Inno alla Vergine
(Paradiso, XXXIII, vv. 1 – 21)

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate
 
Clicca al centro dell'immagine
 

Postato da: giacabi a 09:14 | link | commenti
preghiere, dante

venerdì, 03 agosto 2007
Tanto gentile e tanto onesta pare
***
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umilta' vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi si' piacente a chi la mira,
che da' per li occhi una dolcezza al core,
ch'entender no la puo' chi no la prova:

e par che de la sua labbia si mova
uno spirto soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima:Sospira.

Dante Alighieri, Vita Nova

 

Postato da: giacabi a 21:46 | link | commenti
dante

martedì, 26 giugno 2007
Dante, Benigni e la «maturità» del Governo
Da :LIBERO 23 giugno 2007
***

Dopo il ’68 l’Alighieri era considerato un reazionario, poi è arrivato Benigni e l’ “homo de sinistra” ha riscoperto il poema sacro e con lui i media. Ma siamo sicuri che - al di là dello sdoganamento mediatico-politico della Commedia - se ne conoscano almeno le nozioni basilari? La gaffe del Ministero pare dimostrare il contrario: un'abissale ignoranza, perfino da parte degli addetti ai lavori, del Poema sacro. Proporre Dante ai temi di maturità senza reinserirlo nei programmi è davvero una colossale presa in giro… Ma in mezzo a tanto squallore l’inizio di conversione di Benigni attraverso Dante è lo spettacolo più bello e struggente. Ma non lo capisce nessuno…
di ANTONIO SOCCI


A che serve il Ministero della Pubblica Distruzione? L'errore di quest'anno nel titolo del tema sulla Divina Commedia, non è uno dei tanti che di solito infarciscono i test per la maturità, a riprova del naufragio della scuola. No. Questo è una flop politico come la Finanziaria o l'indulto. Il segnale infatti doveva essere l'esatto opposto. Volevano far capire che Dante era stato ormai sdoganato da Roberto Benigni diventando uno "de noantri" (di sinistra come la doccia e il caffè, mentre il thè e il bagno nella vasca restano "di destra"). Il genio di Veltroni - che già sdoganò a sinistra Alvaro Vitali ed Edwige Fenech - se fosse stato già al posto di Prodi avrebbe fatto un'operazione di successo. A ruota di Benigni che ha "ripulito" l'Alighieri rendendolo potabile allo snobismo dell' "homo progressista", il quale detesta e disprezza tutto ciò che sa di cattolicesimo o parla "di santi e Madonne". Il Dante di Benigni è diventato, da 5 o 6 anni a questa parte, un geniale compagno progressista che permette di ridere di Berlusconi, di Ferrara e dei preti come la Guzzanti e la Dandini. Un'operazione eccezionale. Per trent'anni - dopo il Sessantotto - il sommo poeta è stato considerato un vecchio barbogio da prendere a calci. Il nuovo potere scolastico lo ha squalificato come un palloso reazionario. Faceva testo - per la cultura Sessantottina - la canzoncina di Venditti, "Compagno di scuola", che si chiedeva «se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito» e dichiarava «la Divina Commedia, sempre più commedia». La nostra provinciale intelligentsia non si era accorta nemmeno che nel frattempo - nel '68 parigino - un intellettuale (allora) maoista come Philippe Sollers, folgorato dal poema dantesco, ne tracciava su "Tel Quel" una mirabolante lettura strutturalista, facendone il capolavoro di tutti i tempi, l'Opera di tutte le opere, la lingua universale.
EPURATO DALLA SCUOLA

Da noi il "reazionario" Dante veniva puntualmente sputacchiato ed epurato dai programmi ministeriali dove irrompeva e dilagava la mitica "attualità", fatta di Che Guevara, ecologia, problemi sociali e balle varie. Ho fatto il liceo e l'università dopo il Sessantotto, fra il 1974 e il 1983, e di Dante non c'era più traccia. Cancellato come capitava a certi poeti in disgrazia nell'Urss di Stalin. Due amici di Comunione e liberazione mi fecero scoprire e amare - insieme alla bellezza del cristianesimo - anche la Divina Commedia, 25 anni prima di Benigni, che a quel tempo cantava ancora "L'inno del corpo sciolto". Folgorato da Dante mi tuffai a leggere tutto, feci la tesina della maturità e poi la tesi di laurea sulla Divina Commedia nello sconcerto dei professori che mi ritennero un integralista provocatore. A rivelare Dante a noi giovani cercatori del senso della vita, in quegli anni bui, c'era quasi solo don Giussani, umanissimo maestro di Bellezza che ci struggeva i cuori aprendoci folgoranti panorami di poesia e di musica. Eravamo una piccola compagnia (presa a sputi dappertutto) che - con il bel gioco di parole di Davide Rondoni - si può definire il "Clan Destino". Poi, vent'anni dopo, arrivò Benigni. E di punto in bianco l' "homo de sinistra" e i media scoprirono Dante. Ed allora eccoli tutti emigrare in branchi, a migliaia, a riempire le piazze per ascoltare le declamazioni benignesche del poema sacro, a esprimere appassionato interesse, ad andare in sollucchero per la Commedia: 70 repliche in 27 città, 120 mila spettatori solo a Roma per il V canto dell'Inferno. «Da mesi fa il tutto esaurito, dovunque si sposti, ci sono già andati in 500 mila, la gente fa la fila al botteghino», scrive Siegmund Ginzberg su "Repubblica" a proposito del «fenomeno Benigni». Ed ecco la Rai che programma, sulla prima rete, per l'anno prossimo, una serie di letture dantesche di Benigni che si annunciano già un gran successo. È un'ottima idea, perché sottrae meritoriamente serate a "Porta a porta" e finalmente, nell'orrida tv dei reality e dei crimini familiari, fa irrompere la Bellezza. Si aprono però alcune domande. Prima: qualche rappresentante della cultura Sessantottarda ha fatto ammenda? Ha riconosciuto che intere generazioni di giovani sono state ingiustamente private di un tesoro così prezioso? E in tutta questa "Dantemania" si comprende davvero l'essenza cristiana della Commedia? E si riconosce, di conseguenza, l'insensatezza dell'attuale tentativo di sradicamento delle radici cattoliche della nostra cultura? O hanno sempre ragione loro e, dopo averlo epurato, oggi possono impunemente fingersi scopritori di Dante, continuando però a odiare e combattere il suo connotato cristiano? Seconda domanda: siamo sicuri che - al di là dello sdoganamento mediatico-politico della Commedia - se ne conoscano almeno le nozioni basilari? La gaffe del Ministero pare dimostrare il contrario: un'abissale ignoranza, perfino da parte degli addetti ai lavori, del Poema sacro, quello da cui è stata tratta la lingua italiana (caso unico, una lingua nazionale ricavata da un Poema letterario). Proporre Dante ai temi di maturità senza reinserirlo nei programmi è davvero una colossale presa in giro. Ieri Nadia Verdile, una professoressa, sul "Manifesto", ha addirittura invitato i ragazzi impegnati nella maturità «a chiedere alla magistratura di invalidare la stessa per palese difformità con le leggi dello Stato e per ingiustificato razzismo nei confronti degli studenti non liceali». Il ragionamento dell'insegnante è questo: «Le cantiche della Divina Commedia si studiano, anno per anno, solo nei licei! Maledizione, questi programmi sono legge dello Stato italiano». E siccome in tutti gli altri istituti superiori, tre quarti del totale, «non si insegna la lettura delle cantiche e dei canti della Divina Commedia», il tema di quest'anno della maturità rappresenta una palese ingiustizia. Si potrebbe obiettare che c'erano altri temi, «ma» replica l'insegnante «sarebbe razzismo e soprattutto negazione di un diritto, cioè quello di avere le stesse possibilità degli studenti liceali». A parte l'accusa di "razzismo", che mi pare qui non c'entri niente, resta un problema: se le nostre giovani generazioni sono tuttora derubate di questo eccezionale tesoro, il ministro Fioroni non ritiene che si debbano rivedere i programmi?
TROPPO CATTOLICO
Terza domanda: Benigni come lettore e interprete di Dante è attendibile? Vittorio Sermonti, che lo ha preceduto nelle letture pubbliche della Commedia, intervistato giovedì da "Magazine", ha punzecchiato il comico toscano: «Non mi dispiace come lo legge. Ma credo che il pubblico di Benigni esca dallo spettacolo uguale a quando ci è entrato e pensando che Dante sia attualissimo e un po' fessacchiotto. Io rivendico il diritto all'inattualità, non la faccio così facile». Sermonti ha ragione, ma dipende solo da Benigni o anche dal suo pubblico che non si lascia mettere in discussione? In un'altra intervista
Sermonti afferma che una «lettura appassionante» di Dante nella scuola è possibile e auspicabile, perché «costringerebbe a pensare al Cristianesimo non in termini edulcorati o sentimentali, ma permetterebbe di comprendere lo "scandalo" di cui è portatore. E gli studenti troverebbero molte risposte alle loro domande di senso». Ma è per questo che Dante a scuola continua ad essere bandito. Perché tipico dell'intellettualità italiana è non volersi mai mettere in discussione sul cattolicesimo e non si può capire davvero la Commedia senza far esperienza dell'infelicità del peccato, della bellezza del perdono e della felicità che dà la grazia. Benigni in realtà è un testimone convincente e commovente perché il suo stupore di fronte a Cristo o alla bellissima Vergine Maria, è evidente. In questo senso il suo inizio di conversione attraverso Dante è lo spettacolo più bello e struggente. Ma non lo capisce nessuno.
www.antoniosocci.it


Postato da: giacabi a 14:09 | link | commenti
dante

mercoledì, 31 gennaio 2007
Il desiderio umano
di Felicità
***
Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo
e poi, più procedendo, desiderare uno augellino
e poi, più oltre, desiderare bel vestimento
e poi lo cavallo
e poi una donna
e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.
 Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi all'altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili
e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso dell'altro.
Dante  Convivio

Postato da: giacabi a 16:05 | link | commenti
dante, senso religioso

domenica, 30 luglio 2006
Mi sembra opportuno proporre questa omelia (quasi integralmente)

OMELIA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA,
Basilica di San Pietro 
Venerdì Santo, 14 aprile 2006

 
1. "Siate, cristiani, a muovervi più gravi!"
"Verranno giorni in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa di nuovo, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole" (2 Tim 4, 3-4).
Questa parola della Scrittura - soprattutto l'accenno al prurito di udire cose nuove - si sta realizzando in modo nuovo e impressionante ai nostri giorni. Mentre noi celebriamo qui il ricordo della passione e morte del Salvatore, milioni di persone sono indotte da abili rimaneggiatori di leggende antiche a credere che Gesù di Nazareth non è, in realtà, mai stato crocifisso…………..
Sono cose che non meriterebbero di essere trattate in questo luogo e in questo giorno, ma non possiamo permettere che il silenzio dei credenti venga scambiato per imbarazzo e che la buona fede (o la dabbenaggine?) di milioni di persone venga grossolanamente manipolata dai media, senza alzare un grido di protesta in nome non solo della fede, ma anche del buon senso e della sana ragione. È il momento, credo, di riascoltare l'ammonimento di Dante Alighieri: 
"Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: 
non siate come penna ad ogni vento,
e non crediate ch'ogni acqua vi lavi.
Avete il novo e 'l vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento...
Uomini siate, e non pecore matte"
(4).

2. La Passione ha preceduto l'Incarnazione!
. …Leggiamo nell'Enciclica…..
Sì, Dio è amore! Se tutte le Bibbie del mondo, è stato detto, andassero distrutte per qualche cataclisma o furore iconoclasta e ne rimanesse soltanto una copia; e anche questa copia fosse così danneggiata che solo una pagina fosse ancora intera, e anche questa pagina fosse così stropicciata che solo una riga si potesse ancora leggere: se tale riga è la riga della Prima lettera di Giovanni dove è scritto "Dio è amore!", tutta la Bibbia sarebbe salva, perché tutto è contenuto lì.
L'amore di Dio è luce, è felicità, è pienezza di vita. È il torrente che Ezechiele vide uscire dal tempio che, dove giunge, risana e suscita vita; è l'acqua promessa alla Samaritana che estingue ogni sete. Gesù ripete anche a noi, come a lei: "Se conoscessi il dono di Dio…….Dio è amore, e la croce di Cristo ne è la prova suprema, la dimostrazione storica.
Vi sono due modi di manifestare il proprio amore verso qualcuno, diceva un autore dell'oriente bizantino, Nicola Cabasilas. Il primo consiste nel fare del bene alla persona amata, nel farle doni; il secondo, molto più impegnativo, consiste nel soffrire per essa. Dio ci ha amato nel primo modo, con amore cioè di munificenza, nella creazione, quando ci ha riempito di doni, dentro e fuori di noi; ci ha amati di amore di sofferenza nella redenzione, quando ha inventato il proprio annientamento, soffrendo per noi i più terribili patimenti, al fine di convincerci del suo amore (6). Per questo è sulla croce che si deve contemplare ormai la verità che "Dio è amore".
La parola "passione" ha due significati:  può indicare un amore veemente, "passionale", oppure una sofferenza mortale. C'è una continuità tra le due cose e l'esperienza quotidiana mostra quanto facilmente da una si passa all'altra. Così è stato anche, e prima di tutto, in Dio. C'è una passione - ha scritto Origene - che precede l'incarnazione. È "la passione d'amore" che Dio da sempre nutre verso il genere umano e che, nella pienezza dei tempi, l'ha portato a venire sulla terra e patire per noi (7).
3. Tre ordini di grandezza
L'Enciclica "Deus caritas est" ci indica un nuovo modo di fare apologia della fede cristiana, forse l'unico possibile oggi e certamente il più efficace. Non contrappone i valori soprannaturali a quelli naturali, l'amore divino all'amore umano, l'eros e l'agape, ma ne mostra l'originaria armonia, sempre da riscoprire e da risanare, a causa del peccato e della fragilità umana. "L'eros - scrive il Papa - vuole sollevarci "in estasi" verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni" (8). Il vangelo è, sì, in concorrenza con gli ideali umani, ma nel senso letterale che con-corre alla loro realizzazione:  li risana, li eleva, li protegge. Non esclude l'eros dalla vita, ma il veleno dell'egoismo dall'eros.
Vi sono tre ordini di grandezza, ha detto Pascal in un celebre pensiero (9). Il primo è l'ordine materiale o dei corpi:  in esso eccelle chi ha molti beni, chi è dotato di forza atletica o bellezza fisica. È un valore da non disprezzare, ma il più basso. Sopra di esso c'è l'ordine del genio e dell'intelligenza in cui si distinguono i pensatori, gli inventori, gli scienziati, gli artisti, i poeti. Questo è un ordine di qualità diversa. Al genio non aggiunge e non toglie nulla l'essere ricco o povero, bello o brutto. La deformità fisica attribuita alla loro persona non toglie nulla alla bellezza del pensiero di Socrate e della poesia di Leopardi.
Questo del genio è un valore certamente più alto del precedente, ma non ancora il supremo. Sopra di esso c'è un altro ordine di grandezza, ed è l'ordine dell'amore, della bontà. (Pascal lo chiama l'ordine della santità e della grazia). Una goccia di santità, diceva Gounod, vale più di un oceano di genio. Al santo non aggiunge e non toglie nulla l'essere bello o brutto, dotto o illetterato. La sua grandezza è di un ordine diverso.
Il cristianesimo appartiene a questo terzo livello. Nel romanzo Quo vadis, un pagano chiede all'apostolo Pietro appena giunto a Roma: "Atene ci ha donato la sapienza, Roma la potenza; la vostra religione cosa ci offre? E Pietro risponde:  l'amore!" (10). L'amore è la cosa più fragile che esista al mondo; viene rappresentato, ed è, come un bambino. Lo si può uccidere con nulla, come - lo abbiamo visto con orrore in Italia nelle passate settimane -, si può fare con un bambino. Ma sappiamo per esperienza cosa diventano la potenza e la scienza, la forza e il genio, senza l'amore e la bontà...
4. Amore che perdona
"L'eros di Dio per l'uomo - prosegue l'enciclica - è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona" (nr. 10).
Anche questa qualità rifulge nel massimo grado nel mistero della croce. "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici", aveva detto Gesù nel cenacolo (Gv 15, 13). Verrebbe da esclamare: Sì che esiste, o Cristo, un amore più grande che dare la vita per i propri amici. Il tuo! Tu non hai dato la vita per i tuoi amici, ma per i tuoi nemici! ……..
Ma non si tarda a scoprire che il contrasto è solo apparente. La parola "amici" in senso attivo indica coloro che ti amano, ma in senso passivo indica coloro che sono amati da te. Gesù chiama Giuda "amico" (Mt 26, 50) non perché Giuda lo amasse, ma perché lui lo amava! Non c'è amore più grande che dare la propria vita per i nemici, considerandoli amici:  ecco il senso della frase di Gesù. Gli uomini possono essere, o atteggiarsi, a nemici di Dio, Dio non potrà mai essere nemico dell'uomo. È il terribile vantaggio dei figli sui padri (e sulle madri).
Dobbiamo riflettere in che modo, concretamente, l'amore di Cristo sulla croce può aiutare l'uomo d'oggi a trovare, come dice l'Enciclica, "la strada del suo vivere e del suo amare". Esso è un amore di misericordia, che scusa e perdona, che non vuole distruggere il nemico, ma semmai l'inimicizia (cfr Ef 2, 16). Geremia, il più vicino tra gli uomini al Cristo della Passione, prega Dio dicendo: "Possa io vedere la tua vendetta su di loro" (Ger 11, 20); Gesù muore dicendo: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34).
È proprio di questa misericordia e capacità di perdono che abbiamo bisogno oggi, per non scivolare sempre più nel baratro di una violenza globalizzata. L'Apostolo scriveva ai Colossesi: "Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti (alla lettera: di viscere!) di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi" (Col 3, 12-13).
Avere misericordia significa impietosirsi (misereor) nel cuore (cordis) a riguardo del proprio nemico, capire di che pasta siamo fatti tutti quanti e quindi perdonare. …………….
Quanta verità nel verso del nostro Pascoli: "Uomini, pace! Nella prona terra troppo è il mistero" (11). Un comune destino di morte incombe su tutti. L'umanità è avvolta da tanta oscurità e piegata ("prona") sotto tanta sofferenza che dovremmo pure avere un po' di compassione e di solidarietà gli uni per gli altri!
5. Il dovere di amare
C'è un altro insegnamento che ci viene dall'amore di Dio manifestato nella croce di Cristo. L'amore di Dio per l'uomo è fedele ed eterno: "Ti ho amato di amore eterno", dice Dio all'uomo nei profeti (Ger 31, 3), e ancora: "Alla mia fedeltà non verrò mai meno" (Sal 89, 34). Dio si è legato ad amare per sempre, si è privato della libertà di tornare indietro. È questo il senso profondo dell'alleanza che in Cristo è divenuta "nuova ed eterna".
Nell'enciclica papale leggiamo: "Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso:  nel senso dell'esclusività - "solo quest'unica persona" - e nel senso del "per sempre". L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità" 
Nella nostra società ci si domanda sempre più spesso che rapporto ci può essere tra l'amore di due giovani e la legge del matrimonio; che bisogno ha di "vincolarsi" l'amore che è tutto slancio e spontaneità. Così sono sempre più numerosi coloro che rifiutano l'istituzione del matrimonio e scelgono il cosiddetto amore libero o la semplice convivenza di fatto. Solo se si scopre il profondo e vitale rapporto che c'è tra legge e amore, tra decisione e istituzione, si può rispondere correttamente a quelle domande e dare ai giovani un motivo convincente per "legarsi" ad amare per sempre e a non aver paura di fare dell'amore un "dovere".
"Soltanto quando c'è il dovere di amare, - ha dichiarato il filosofo che, dopo Platone, ha scritto le cose più belle sull'amore, Kierkegaard -, allora soltanto l'amore è garantito per sempre contro ogni alterazione; eternamente liberato in beata indipendenza; assicurato in eterna beatitudine contro ogni disperazione"  Il senso di queste parole è che la persona che ama, più ama intensamente, più percepisce con angoscia il pericolo che corre il suo amore. Pericolo che non viene da altri, ma da lei stessa. Essa sa bene infatti di essere volubile e che domani, ahimé, potrebbe già stancarsi e non amare più o cambiare l'oggetto del suo amore. E poiché, adesso che è nella luce dell'amore, vede con chiarezza quale perdita irreparabile questo comporterebbe, ecco che si premunisce "legandosi" ad amare con il vincolo del dovere e ancorando, in tal modo all'eternità il suo atto d'amore posto nel tempo.
Ulisse voleva giungere a rivedere la sua patria e la sua sposa, ma doveva passare attraverso il luogo delle Sirene che ammaliavano i naviganti con il loro canto e li portavano a schiantarsi contro gli scogli. Cosa fece? Si fece legare all'albero della nave, dopo aver turato le orecchie con cera ai compagni. Giunto sul luogo, ammaliato, gridava per essere sciolto e raggiungere le Sirene, ma i compagni non potevano udirlo e così poté rivedere la sua patria e riabbracciare la sposa e il figlio (14). È un mito, ma aiuta a capire il perché, anche umano ed esistenziale, del matrimonio "indissolubile" e, su un piano diverso, dei voti religiosi.
Il dovere di amare protegge l'amore dalla "disperazione" e lo rende "beato e indipendente" nel senso che protegge dalla disperazione di non poter amare per sempre. Datemi un vero innamorato - diceva lo stesso pensatore - ed egli vi dirà se, in amore, c'è opposizione tra piacere e dovere; se il pensiero di "dovere" amare per tutta la vita procura all'amante paura e angoscia, o non piuttosto gioia e felicità somma.
Apparendo, un giorno della settimana santa, alla beata Angela da Foligno, Cristo le disse una parola divenuta celebre: "Non ti ho amato per gioco!" (15). Cristo non ci ha amato davvero per gioco. C'è una dimensione ludica e giocosa nell'amore, ma esso stesso non è un gioco; è la cosa più seria e più carica di conseguenze che esista al mondo; la vita umana dipende da esso. Eschilo paragona l'amore a un leoncello che si alleva in casa, "docile e tenero dapprima più d'un fanciullo", con il quale si può anche scherzare, ma che, crescendo, è capace di fare strage e lordare la casa di sangue (16).
Queste considerazioni non basteranno a mutare la cultura in atto che esalta la libertà di cambiare e la spontaneità del momento, la pratica dell'"usa e getta" applicata anche all'amore. (Si incaricherà, purtroppo, la vita a farlo, quando alla fine ci si ritroverà con delle ceneri in mano e la tristezza di non aver costruito nulla di duraturo con il proprio amore). Ma che almeno servano, queste considerazioni, a confermare della bontà e bellezza della propria scelta coloro che hanno deciso di vivere l'amore tra l'uomo e la donna secondo il progetto di Dio e serva a invogliare tanti giovani a fare la stessa scelta. …..
La misericordia Rembrandt



Nessun commento: