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martedì 7 febbraio 2012

de Vitoria,

LA PRIMA CARTA DEI DIRITTI UMANI
NACQUE NEL NUOVO MONDO
***
La storia dell'America Latina versione occidentale inizia nella notte fra l'11 e il 12 ottobre 1492, quando dalla coffa della caravella Pinta si levò un grido: «Tierra, tierra!». Il mattino dopo, Cristoforo Colombo, più che mai convinto di trovarsi nell'Asia orientale, pose piede sull'isola di Guanahani (nel gruppo delle Bahama), da lui subito ribattezzata San Salvador. Nessuno fu consapevole che era stato appena scoperto un nuovo mondo.
Nel primo viaggio di Colombo, nessun sacerdote missionario figurava nella spedizione, giacché il viaggio aveva lo scopo di trovare una nuova rotta per il commercio con l'Oriente. Colombo tuttavia incontrò un'etnia indigena sconosciuta, chiamata Taínos, un mondo popolato di uomini e donne ignare di Cristo: «Vanno ignudi, uomini e donne, come le loro madri li hanno partoriti [.]. Mi parve che non abbiano alcuna religione», annotava Colombo nella sua relazione.
La
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Bartolomé de Las Casas
con un indio
presenza di questa gente, permise a fra Bernardo Boyl, ai francescani laici Juan de la Deule e Juan de Tisin, e al geronimita Roman Pane, di accompagnare Colombo nel 1493 nel suo secondo viaggio. Fra Boyl era dotato di ampi poteri di delegato apostolico, concessi dalla bolla pontificia Piis fidelium del 25 giugno 1493. L'esplorazione del sub-continente iniziò nel 1498, durante il terzo viaggio di Colombo.
Il "dominio iberico" iniziò intorno alla metà del XVI secolo, anche se gli spagnoli occupavano soltanto tre territori delle Grandi Antille (Haiti, Cuba, Puerto Rico), il Messico e il Perù; mentre i portoghesi s'insediarono sul litorale brasiliano presso Santos (colonia di São Vicente). Le nuove colonie iberiche furono legate alla madrepatria da un rapporto di dipendenza assoluta e diretta.
Dopo i primi audaci conquistadores, turbe di spregiudicati hidalgos (dallo spagnolo hijo de algo, ossia figlio di qualcuno, vale a dire nobile) castigliani s'imbarcarono per il Nuovo Mondo. L'emigrazione spagnola fu regolata direttamente dallo Stato, attraverso un apposito istituto, la Casa de Contratación de las Indias. Essa aveva il compito di controllare le richieste per recarsi nel Nuovo Mondo, ma aveva anche il compito di controllare tutti i movimenti commerciali da e verso l'America.
L'incontro con i selvaggi di quella parte del mondo fu all'inizio amichevole. Anzi, inizialmente i popoli indigeni del Nuovo Mondo accolsero come dèi gli uomini giunti dal mare, con quelle grandi barche e quegli strani animali (il cavallo). Aztèchi e Incas credettero che le divinità Quetzalcóatl (dio civilizzatore aztèco) e Viracocha (dio supremo inca), scomparsi a di là del mare, sarebbero tornati per portare la suprema realizzazione civilizzatrice in quelle terre. Tale ritorno, secondo le loro profezie, sarebbe approssimativamente coinciso nell'anno Ceacall del Messico e durante il regno del dodicesimo Inca Atahualpa in Perù; periodo che corrispondeva grosso modo all'arrivo degli europei in America. Per questo i conquistatori furono accolti con riverenza. Moctezuma II accolse Hernán Cortés offrendo il proprio regno come dono.
In Perù i conquistatori furono invece descritti come viracochas, ossia discendenti del loro Dio supremo e creatore di tutte le cose. Tuttavia, i nuovi venuti non furono considerati tali da tutti. Gli yucatechi (i maya dello Yucatán) li definirono immediatamente come dzules (stranieri). Per chi considerò gli europei come dèi la delusione fu però immediata: dopo essersi accorti che quegli uomini venuti dal mare stavano per dominarli, iniziarono a difendersi, ma ben presto raccolsero un'amara sconfitta.

Il dibattito sulla conquista e sugli eccessi dei colonizzatori europei è da sempre aperto: da una parte c'è l'accusa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dall'altra la convinzione che quei popoli non furono vittima di alcun eccesso ma i beneficiari della civiltà e del messaggio del Cristo.
La nobile responsabilità di portare il Vangelo a quei popoli che ancora l'ignoravano, di cui l'europeo si sentì investito, fu invocata come alibi per le spoliazioni e per gli eccessi d'ogni genere contro quei popoli considerati primitivi e senza governo. L'europeo si sentì quasi incaricato dalla storia di diffondere la propria cultura, perché egli si riconobbe portatore di una civiltà superiore, perfetta.
La pratica del requerimiento, ossia un'ingiunzione rivolta agli indigeni affinché accettassero pacificamente la sovranità spagnola e la religione cattolica, servì agli iberici arrivati nel nuovo continente per giustificare l'asservimento degli indios e per praticare, al contempo, conversioni forzate.
Autore del requerimiento fu il giurista regio Palacios Rubias. Esso è un testo, datato 1514, che stabiliva le ragioni giuridiche della conquista. In pratica un documento che i conquistatori dovevano leggere nei villaggi appena conquistati. Una dichiarazione che iniziava con la storia della creazione del mondo e del pontefice che ne assumeva il potere spirituale in nome del Cristo. Ovvia conseguenza, per chi avesse rifiutato tali disposizioni, era la violazione di un "volere" divino. Peccato che la lettura del documento avvenisse in spagnolo, lingua ovviamente sconosciuta agli indios, e che nessuno di quella gente potesse ribattere.

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Bartolomé de Las Casas
Il dibattito sulla natura degli indios caratterizzò la forma con cui la cultura europea iniziò a discutere del Nuovo Mondo. Tutte le posizioni che via via emergeranno condividevano tuttavia un pregiudizio di partenza: la superiorità degli europei rispetto agli indios.
Nel dibattito sulla natura degli indios e quindi sulla legittimità della conquista europea del Nuovo Mondo, venne rispolverata e applicata agli abitanti di quelle terre la dottrina aristotelica sulla schiavitù. Il filosofo greco ammetteva due tipi di schiavitù: quella riservata ai prigionieri di guerra (i cosiddetti schiavi civili) e la schiavitù naturale. Mentre la prima è ovviamente legata a particolari circostanze storiche, la schiavitù naturale ha il suo fondamento nella stessa costituzione nativa degli individui: nella mancanza della ragione e della incapacità di gestire se stessi. Da questo presupposto deriva che non tutti gli uomini sono capaci di governarsi. Infatti, non tutti gli uomini sono dotati di una ragione sufficientemente sviluppata da distinguere e perseguire ciò che concorre propriamente al loro bene. Da qui ne consegue che non sapersi governare vuol dire anche non saper contribuire all'ordinata convivenza, e dunque mettere a repentaglio l'ordine del coesistere nella polis.
In questo modo gli uomini capaci di ragione matura hanno, non solo il diritto di essere liberi cittadini, ma anche quello di governare la vita di quelli incapaci a governarsi da sé. Quest'ultimi sono destinati, non per scelta arbitraria dei primi, ma per propria disposizione naturale a obbedire ai primi e a servirli.
La teoria aristotelica sulla schiavitù naturale fu applicata alle popolazioni del Nuovo Mondo.


Nel 1510 arrivarono alla Isla Española i primi domenicani, guidati da padre Pedro de Córdoba. Questi rimasero sgomenti dalla condizione in cui le popolazioni locali si trovavano sotto gli spagnoli. Il loro superiore, Pedro de Córdoba, di comune accordo con gli altri, incaricò padre Antonio de Montesinos di predicare ai coloni la loro colpa per l'oppressione che stavano esercitando sugli indios. Nella quarta domenica d'Avvento del 1511, padre Montesinos, durante una celebrazione, ammonì tutti i presenti: «Vox clamantis in deserto [.] siete tutti in peccato mortale, e in esso vivete e morirete, per la crudeltà e tirannia che usate verso queste genti innocenti. [.] Con che diritto e con che giustizia tenete questi indiani in servitù tanto crudele e orribile? Con quale autorità avete condotto sì detestabili guerre contro queste genti che vivevano mansuete e pacifiche nelle loro terre, in queste terre dove in numero infinito li avete annientati con morti e scempi di cui mai s'era udito prima? Come potete tenerli così oppressi e fiaccati, senza nutrirli né curarli nelle loro malattie, sì che per le eccessive fatiche vi muoiono tra le mani, o per meglio dire li uccidete, onde cavarne oro da accumulare un giorno dopo l'altro?[.] Non sono essi uomini? Non hanno un'anima razionale? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi?[.] Tenete per certo che a cagione del modo in cui vivete non potrete salvarvi più di quanto lo possano fare i mori e i turchi che ignorano o rifiutano la fede di Gesù Cristo».
Padre Antonio terminò la sua predica minacciando che, da quel momento in poi, i domenicani avrebbero rifiutato il sacramento della comunione a tutti quelli che avrebbero continuato a mantenere un atteggiamento violento verso gli indios.

Dalla requisitoria sugli abusi da parte di padre Montesinos scaturirono sia le controversie sulla natura della colonizzazione e sul diritto degli indios, sia i progetti riformistici di alcuni religiosi per arrivare ad una evangelizzazione pacifica, che proteggesse la libertà individuale e le libertà socio-politiche degli indios.
Il governatore di Hispaniola, Diego Colombo, in seguito all'accusa rivolta dal frate di sostenere e predicare dottrine che mancavano di rispetto al re e al suo governo, portò la causa a corte per avere il giudizio reale. In un primo momento, il re Ferdinando e il cardinale francescano Francisco Ximénez de Císneros (arcivescovo di Toledo), dopo aver formato una commissione d'inchiesta, definirono senza fondamento le eloquenti rimostranze dei domenicani; in seguito, convinti da altre prove, si promulgarono le leggi di Burgos (1512). In queste leggi si dava formale riconoscimento ai diritti degli indios come sudditi del re spagnolo. E in qualità di "sudditi liberi del Re", essi potevano tuttavia essere obbligati a rendere determinate prestazioni materiali per ripagare l'istruzione e i servigi spirituali resi loro dalla Corona e dai coloni, ma mai in qualità di schiavi. Gli abusi tuttavia non cessarono.
Ai primi domenicani si aggiunsero altri frati nel denunciare le ingiustizie e gli abusi del requerimento, a cui gli indios dovevano sottostare. In questa direzione si orienteranno le altre ordinanze reali, ma anche le bolle pontificie. Papa Adriano VI emanò, il 9 maggio 1522, la bolla Omnimoda auctoritas pontificia, in cui dava disposizioni su come trattare gli indios, regolando l'attività dei missionari.
La denuncia di padre Montesinos fu ascoltata da un encomendero: Bartolomé de Las Casas.

Bartolomé de Las Casas, figlio di un compagno di viaggio di Cristoforo Colombo, ha i suoi primi contatti con il Nuovo Mondo nel Natale del 1499, quando suo padre Francesco gli
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Statua di Francisco de Vitoria
dona un paggio indio, portato da Hispaniola (quel giovane indio resterà poco con lui, perché nel 1500 verrà ricondotto nella propria terra per mandato della regina Isabella di Castiglia, contraria a qualunque forma di schiavitù delle popolazioni indigene). Nel 1502 s'imbarca per il Nuovo Mondo con la spedizione di Nicolas de Ovando, per prendere possesso della encomienda paterna nell'isola di Hispaniola. Ordinato sacerdote secolare nel 1510 (egli è il primo a ricevere quest'ordine sacro nelle colonie), accompagna Velasquez, nel 1513, nella conquista di Cuba. Rimanendo fortemente turbato dalla violenta campagna militare, per la conquista del territorio, il 15 agosto 1514 consegna al governatore Velázques la sua rinuncia all'encomieda. Da questo momento si dedica, sino alla sua morte (1566), alla difesa degli indios, predicando l'ingiusto sistema coloniale; perché quando giunsero «tra questi agnelli mansueti» gli spagnoli, arrivarono «come lupi, tigri e leoni crudelissimi e affamati da diversi giorni».
Tesi di partenza del domenicano, passata alla storia, fu che «né la gloria di Dio, né lo zelo per la fede, né il desiderio di soccorrere il prossimo, né quello di servire il re, era stato il movente della conquista, ma solo l'avidità e l'ambizione» di spregiudicati e avidi personaggi.

Famoso per la sua Historia general de las Indias, egli è considerato dalla storia "protettore degli Indios". Sua è anche l'opera Brevíssima relación de la destrucción de las Indias, uno scritto nato come memoriale e presentato nel 1542 a Carlo V (con una dedica al futuro Filippo II), per sollecitare un intervento riformatore della Corona contro gli abusi del sistema.
Bartolomé scrive quest'opera perché, come si legge nel prologo, sente il dovere morale di denunciare quei misfatti per non essere indirettamente complici: «Io ho deciso, per non essere reo, tacendo [.] di mettere a stampa». Il documento è stato strumentalizzato in funzione anti-spagnola e anti-cattolica dalla propaganda dei Paesi protestanti.
Dure furono le parole di disapprovazione di Las Casas sul requerimiento: «Perniciosissima è sempre stata la cecità che hanno avuto coloro cui è affidato il governo delle Indie. Ed è ben vero quello che si dice: l'applicazione delle disposizioni e delle ordinanze relative alla conversione e alla salvazione di quelle genti è stata sempre, per quel che concerne le opere e gli effetti conseguenti, rimandata e posposta, anche se con finte parole si è preteso e simulato il contrario. Tale offuscamento ha raggiunto il colmo quando sono state escogitate, comandate e messe in pratica certe intimazioni da fare agli indiani, con le quali si ingiunge loro di adottare la fede e di rendere obbedienza ai re di Castiglia, pena la guerra a fuoco e a sangue, la morte e la schiavitù. Come se il figlio di Dio, che si è pur sacrificato anche per ognuno di loro, col dire, a proposito della sua legge, euntes docete omnes gentes, avesse ordinato di fare tali ingiunzioni agli infedeli che vivono pacifici e tranquilli nelle loro terre; come se avesse comandato che poi, senza predicazione alcuna né dottrina, se questi non si fossero piegati subito a osservarla e non si fossero dati corpo e anima alla signoria di un re mai visto né conosciuto, a un re dai sudditi e dai messaggeri tanto crudeli, spietati e orribilmente tirannici [...]
E una cosa assurda, stolta, degna d'ogni ludibrio e vituperio: dell'inferno. Questo tristo e sventurato governatore veniva dunque con istruzione di fare le dette intimazioni repugnanti, irrazionali e ingiustissime. E per darvi maggiore legalità egli, o per esso qualche brigante che a ciò delegava, si conduceva in questa maniera. [...]
».

La violenta opposizione dei coloni, colpiti nei loro interessi dalla predicazione, costrinse Bartolomé de Las Casas ad andare direttamente dal re, in Spagna. Nel 1515, aiutato dai domenicani, s'imbarcò per l'Europa assieme a padre Montesinos, arrivando a Siviglia il 6 ottobre. Anche se ricevuti con indifferenza a corte (re Ferdinando era ormai moribondo), i due religiosi ottengono, grazie all'appoggio del cardinale Francisco Ximénez de Císneros, l'istituzione di una commissione d'inchiesta - formata da tre frati geronimiti e da un giurista - con l'autorità di indagare sugli abusi dei coloni. Il 17 settembre del 1517 Bartolomé è nominato "Chierico procuratore delle Indie", e l'11 novembre ritorna in America
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Juan de Sepùlveda
accompagnato dalla commissione che avrebbe dovuto indagare sull'operato dei coloni. Insoddisfatto dell'inchiesta, decide di far ritorno in patria. In Spagna inizia a tempestare di denuncie la corte del principe Carlo (nipote di Ferdinando e Isabella), diventato nel frattempo re di Spagna. Las Casas comincia a pensare ad un piano di colonizzazione pacifica delle Indie, istituendo dei villaggi-comunità di agricoltori ispano-indi. Questa proposta, avversata da molti, è presentata a Carlo V e al cardinale Cisneros, il 12 dicembre 1519. Il re, in seguito alle pressioni del frate, indice una riunione, convocando lo stesso domenicano e il vescovo di Panamá, Juan de Quevedo, oppositore del progetto di Las Casas. Il domenicano, con un grande discorso riesce a strappare al sovrano il consenso per la realizzazione del suo progetto, da attuarsi sulla costa di Paria nella regione di Cumaná, a nord dell'attuale Venezuela. In cambio Las Casas promette i vantaggi economici che sarebbero derivati dalle pratiche agricole e dalla raccolta di perle.
Il progetto di Las Casas ricalcava pressapoco i concetti scritti da Thomas More nel suo De otimo republicae statu deque nova insula utopia, del 1516. Il modello che il frate domenicano propose era quello di una società agricola, fortemente comunitaria. Infatti, secondo Bartolomé de Las Casas, l'encomienda sarebbe stata sostituita da una gestione collettiva, dove si sarebbero introdotti anche animali da soma, importati dall'Europa, per evitare lo sfruttamento fisico degli amerindi. Per quanto riguardava l'evangelizzazione, egli elaborò un programma quinquennale per una conversione graduale dei popoli della regione. Il frate era convinto che la richiesta fatta agli indios, di aderire ad una fede diversa da quella che sino allora praticavano, non poteva avere un'immediata adesione. Per questo l'arma più efficace fu considerata la pazienza e la perseveranza.
Nel 1520 Bartolomé, con un gruppo di quattordici contadini e una cinquantina di domenicani, s'imbarca per l'America. La sosta a Santo Domingo è fatale per il progetto del domenicano: un gruppo violento di uomini arriva a Cumaná prima del gruppo guidato da Las Casas, e utilizzando la pratica dello sterminio, procura alla popolazione locale odio e rancore verso gli stranieri giunti da lontano. All'arrivo dell'ignaro gruppo guidato dal domenicano, la popolazione locale manifesta la propria diffidenza verso gli stranieri, uccidendo una parte degli uomini della comitiva. Fra Bartolomé riesce a sopravvivere all'eccidio.
Il principale antagonista di Las Casas e di chi difendeva gli indios fu il filosofo Juan Ginès de Sepùlveda. Autore del Democrates secundus de justis belli causis, scritto nel 1547, egli incitava alla guerra giusta contro i selvaggi nativi del Nuovo Mondo, respingendo l'idea di ogni loro forma di intelligenza e rimarcando soprattutto il carattere violento e pagano della loro religione dedita al sacrificio umano. Per Sepùlveda la servitù a cui gli indios dovevano sottostare era del tutto naturale, poiché - scriveva nel Democrates - «con perfetto diritto gli spagnoli comandano su questi barbari del Nuovo mondo e delle isole adiacenti, i' quali, per senno, ingegno, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli spagnoli quanto i bambini agli adulti e le donne agli uomini; c'è infatti fra questi tanta differenza quanto quella fra genti selvagge e crudeli e genti clementissime, fra i prodigiosamente intemperanti ed i contenuti e moderati, e, direi quasi, fra scimmie e uomini»
E a chi obiettava le sue tesi ricordando anche la presenza di complesse civiltà amerinde con la presenza di strutture edili finemente elaborate, Sepùlveda affermava che anche tra gli animali ci sono alcuni in grado di costruire delle elaborate strutture: «Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell'ingegno, per via di certe opere di costruzione, non è prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare».
Las Casas cercò di ostacolare la pubblicazione del manoscritto del filosofo, appellandosi anche alla Santa Sede. Nella discussione pubblica richiesta da Sepùlveda, tenutasi a Valladolid nel 1550, i giudici non decretarono alcun verdetto, ma il filosofo non ottenne l'autorizzazione a pubblicare il suo manoscritto.
Bartolomé de Las Casas non fu il solo che cercò di essere coscienza critica nei confronti di una insediamento europeo crudele. Molti altri hanno lavorato in favore dei popoli amerindi, cercando di separare la colonizzazione dall'evangelizzazione. Ricordiamo fra i tanti, anche altri domenicani come Francisco da Vittoria, Domenico de Soto, Melchiorre Cano, Bartolomeo da Medina, i francescani Nicola Herborn, Antonio da Cordova, Giovanni Focher, Toríbio de Benavente (soprannominato dagli aztechi Motolinia, poverello); il mercedario Bartolomé de Olmedo; ed altri ancora.

Il teologo domenicano Francisco de Vitoria consacrò i diritti dei popoli aborigeni,
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Il pontefice Paolo III
divenendo il precursore della Carta dei diritti dell'uomo che poi vedrà la luce nel 1789 e dello ius gentium adottato dall'Assemblea delle Nazioni Unite nella dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948.
Francisco de Vitoria nacque a Burgos nel 1483 e, poco più che ventenne, entrò nell'ordine dei domenicani. Compiuti gli studi di teologia a Parigi e dopo aver insegnato per tre anni nel collegio di San Gregorio in Valladolid, dove nel 1925 conseguì il Magistero in sacra Teologia (il più alto grado accademico dell'ordine domenicano), nel 1526 ottenne l'importante cattedra di « Prima de Teologìa » a Salamanca nel convento di San Esteban sede della più famosa università spagnola, dove insegnò fino alla morte (1546).
Nel 1539 De Vitoria istituì il primo corso universitario sul Nuovo Mondo. Importanti e famose sono le sue relectio, ossia lezioni straordinarie che il docente doveva tenere una volta l'anno alla presenza di tutto il corpo accademico (il termine relectio deriva dal fatto che il docente tornava a trattare o ridiscutere un punto concreto già sommariamente abbozzato nelle lezioni ordinarie del corso).
Tra queste "lezioni speciali" spiccano due che rivoluzionarono il modo di pensare del tempo: esse furono le due Relectiones de Indis, in cui il domenicano elaborò la teoria del diritto naturale di tutti gli uomini, quindi anche per i popoli del Nuovo Mondo. La prima, dal titolo De Indis recenter inventis, fu tenuta agli inizi del gennaio 1539, la seconda, dal titolo De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros, fu tenuta il 19 giugno dello stesso anno.
Per de Vitoria il diritto alla scoperta è destituito di ogni fondamento perché gli indios, prima dell'arrivo degli spagnoli, erano legittimi domini delle loro terre. II fondamento del loro dominio è la natura razionale: «Sola creatura rationalis habet dominium sui actus», perché, come insegna san Tommaso, uno è padrone dei suoi atti quando è capace di scegliere: dunque solo l'uomo (non l'animale) e tutti gli uomini. Quindi, confutando le tesi ispirate alla teoria aristotelica della schiavitù naturale e basandosi sul principio evangelico dell'uguaglianza di tutti gli uomini in quanto immagine di Dio, de Vitoria formulò la piena dignità umana degli indios americani. Per il telogo non ci sono schiavi naturali in senso proprio, ma soltanto schiavi civili (per esempio prigionieri di guerra). Sulla base di questo concetto, il teologo domenicano attribuì ai nativi del sottocontinente americano il diritto alla vita, alla libertà fisica e alla libertà religiosa.
A riprova delle sue tesi, de Vitoria sostiene nelle Relectio de Indis: «Hanno nelle loro cose una certa organizzazione, dal momento che hanno città ben governate, hanno matrimoni ben definiti, magistrati, signori, leggi, arti e commercio: cose tutte che richiedono l'uso della ragione; hanno inoltre una forma di religione». Il fatto che sembrino così immaturi e senza senno «penso venga in massima parte dalla loro cattiva e barbara educazione: anche in mezzo a noi vediamo molte persone della campagna che differiscono di poco dagli animali privi di ragione».
Il teologo domenicano contesta pure quelli che considera i "titoli illegittimi" della conquista, in particolare, l'imperatore non è sovrano del mondo e l'autorità spirituale del papa non si estende ai non credenti e non lo rende un sovrano temporale.
Per de Vitoria l'Imperatore non è signore del mondo intero, perché sul piano del diritto naturale tutti gli uomini sono liberi, salvo per quanto attiene al "dominio paterno" (padre sui figli) e al "dominio maritale" (marito sulla moglie). Perciò «non c'è nessuno che per diritto naturale abbia il dominio del mondo intero». Questa tesi fu discussa dal teologo domenicano già nel De potestate civili, una relectio di qualche anno prima, in cui si argomentava che la sostanza del potere politico è di diritto divino, perché l'uomo è per natura un essere sociale; ma i modi di governo e la determinazione di chi debbano essere i governanti sono di diritto positivo: ogni collettività sceglie i propri capi. Così, occupando le province degli indios, l'imperatore diviene signore per giurisdizione e non per proprietà.

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L'università di Salamanca
Anche il papa per de Vitoria non ha alcun potere temporale sugli indios ne sugli altri infedeli, poiché egli non ha potere temporale se non in ordine alle realtà spirituali. Anche questa tesi fu già discussa da de Vitoria nel corso del suo insegnamento nel De Potestate Ecclesiae.
Per de Vitoria, tuttavia, gli spagnoli hanno tutto il diritto di muoversi nelle terre degli indios, di abitarvi, di commerciare e di predicare il Vangelo, e quest'ultimi non avrebbero avuto alcuna autorità di proibirglielo, a patto naturalmente che i nuovi arrivati non provocano loro danni. In caso di ostilità da parte degli indios, gli spagnoli possono non solo difendersi, ma anche attaccarli in proporzione «alla loro colpa e ai torti da loro fatti». Un altro motivo legittimo per utilizzare la forza è per de Vitoria il caso in cui gli indios convertiti al cattolicesimo sono vittima dei loro capi che vogliono riportarli all'idolatria con la forza e il timore. In questo caso il papa può dare loro un capo spirituale.
Di rilievo è anche l'anticipazione che de Vitoria dà del "diritto umanitario". Infatti, il teologo afferma che in caso di tirannia o degli stessi governanti indios o delle loro leggi a danno degli innocenti (per esempio, perché sacrificano persone privi di colpa o uccidono persone per mangiarne le carni) è lecito l'intervento esterno anche con l'uso della forza. Scrive De Vitoria: «Da questo punto di vista ha ragione quell'opinione secondo cui possono essere puniti per i peccati contro natura; se si intende, ripeto, quando sono a danno di innocenti».
Il teologo prende in considerazione anche il caso di spontanea decisione degli indios di accettare il governo spagnolo. In tal caso il re di Spagna può sostituirsi al loro capo, poiché qualsiasi popolo ha il diritto di eleggere il suo governante. Per de Vitoria non è necessario il consenso di tutti ma basta il consenso della maggioranza.
Nel corso della sua trattazione, per evitare abusi legati alle sue idee, De Vitoria evidenzia un dato importante: ««Non bisogna mai perdere di vista quello che ho appena detto, perché ciò che è lecito di per sé non diventi cattivo in forza delle circostanze».
Le lezioni di de Vitoria, dunque, rappresentarono un'apprezzabile fatica di porre i giusti fondamenti teologici, filosofici e politici di una colonizzazione secondo i veri princìpi ispirati alla morale cristiana. Ovviamente tali teorie incontrarono forti opposizioni in Europa.

L'intervento di Paolo III. A coronamento della riflessione teologica che in Spagna aveva già formulato i principi fondamentali del diritto degli indios, arrivò l'intervento di papa Paolo III.
Nel 1537 il vescovo di Tlaxcala (Messico), il domenicano Julián Garcés, inviò al pontefice fra Bernardino de Minaya, con documenti riguardanti le missioni nel Nuovo Mondo. Nella lettera inviata a papa Paolo, fra Julián Garcés sostenne la razionalità degli indios e la loro capacità ad accogliere la fede cristiana. In questo documento il vescovo di Tlaxcala elogiò soprattutto i «bambini degli indi», perché imparavano la dottrina cristiana prima di quelli degli spagnoli, in più «non sono chiassosi, né attaccabrighe, non testardi né inquieti, non discoli né superbi, non ingiuriosi né litigiosi, bensì gradevoli ed ubbidienti ai loro maestri». Contro quelli che sostenevano l'opinione dell'incapacità degli indios per la fede cristiana, il frate arrivò a sostenere che in queste convinzioni si era «istigati dal demonio». Ispirandosi all'opera di Bartolomé de Lasa Casas, il domenicano concludeva la sua attestazione affermando che l'oro che bisognava estrarre dalle Indie era la conversione degli indios, rispettandoli e considerandoli «creature razionali fatte a immagine di Dio».
Il colloquio avuto con il frate domenicano, ma soprattutto la lettura dei documenti inviati dal Messico, influirono enormemente sulla riflessione teologica-giuridica che papa Paolo III trasferì in tre documenti pontifici. Tali documenti, pubblicati nei mesi di maggio e giugno del 1537, si occupavano dei diritti degli indios, della condanna dell'abominevole pratica della schiavitù, della pastorale da seguire nei nuovi territori al di là dell'oceano.
Già nel febbraio dello stesso 1537, in una "istruzione" inviata al nunzio pontificio di Lisbona, papa Paolo III aveva accennato al diritto di libertà degli indios. La Corona portoghese aveva vietato il libero transito degli indios verso l'Europa, adducendo il pretesto che essi potevano pericolosamente convertirsi all'ebraismo. Per questo, papa Paolo III osò scrivere nelle istruzioni inviate al suo nunzio, che era ingiusto negargli questo loro diritto, e poi era meglio che detti indios diventassero giudei «per loro cattiva volontà che per la nostra iniquità, non potendo ad ogni modo Sua Maestà violentarli la volontà, che Dio ha fatto libera».
A maggio dello stesso anno, nel breve Pastorale officium, papa Paolo riaffermò che gli
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Lapide dedicata a Paolo III
indios non avrebbero dovuto essere privati della loro libertà e della loro proprietà. Nella lettera, indirizzata all'arcivescovo Tavera di Toledo, primate della Spagna, Paolo incluse, in appoggio ad alcune direttive umanitarie emanate dall'imperatore Carlo V, le istruzioni sul comportamento da adottare nei confronti degli indios. Il pontefice affermò soprattutto il concetto della piena dignitas hominis degli indios; tra l'altro scriveva: «E' venuto a Nostra conoscenza che il Nostro carissimo figlio in Cristo, Carlo, il sempre augusto Imperatore dei Romani, che è pure re di Castiglia e di Aragona, volendo raffrenare coloro che, bruciati dall'avarizia, sono posseduti da uno spirito inumano, con un pubblico editto ha proibito a tutti i suoi sudditi di trarre in schiavitù gli Indiani dell'Ovest e del Sud, o di privarli dei loro domini. Perciò, per quanto tali indiani vivano fuori dal seno della Chiesa, non devono, né dovranno essere privati della loro libertà, né del possesso dei loro beni, poiché sono creature umane e, come tali, suscettibili di fede e di salvezza. Essi non devono essere portati alla distruzione dalla schiavitù, ma alla vita con l'esempio e la preghiere».
Affermato il diritto degli indios alla piena dignità di uomo, il pontefice si affidò pienamente nell'azione dell'arcivescovo di Toledo: «[.] volendo frenare le azioni vergognose di tali malvagi uomini ed assicurarci che gli indiani non siano impediti con ingiurie e privazioni, rendendo ciò più difficile, d'abbracciare la fede di Cristo, Noi vi affidiamo il compito e ingiungiamo con la presente lettera alla Vostra prudenza, zelo ed esperienza in queste e altre questioni. Noi abbiamo particolare fiducia che, sia personalmente che per mezzo degli altri, Voi aiutate tutti i suddetti indiani con l'appoggio di una protezione effettiva nelle faccende riferite in precedenza, e Vi ingiungiamo di proibire rigorosamente a tutti, singolarmente e collettivamente, di qualsiasi dignità, posizione, rango o preminenza siano, di trarre in schiavitù in alcun modo i suddetti indiani, o di privarli in alcuna guisa dei loro domini, sotto pena, così agendo, di incorrere nella scomunica latae sententiae, da cui potranno essere assolti solo da Noi stessi o dal Pontefice di Roma regnante in quel tempo, eccetto che se fossero in punto di morte ed avessero fatto precedentemente ammenda».

Il più importante dei documenti emanati da papa Paolo, è la bolla Veritas ipsa (chiamata anche Sublimis Deus), del 9 giugno 1537. Tale documento prescriveva l'opportunità non solo di procedere con un'evangelizzazione rispettosa e senza l'uso della forza, ma soprattutto il divieto assoluto di riduzione in schiavitù degli stessi indios. Cosa più importante, il documento fu indirizzato a tutto il mondo cristiano e non a un vescovo particolare di una zona.
La bolla si apre con l'indicazione di tre principi basilari: l'uomo è stato creato per raggiungere la felicità eterna attraverso la conoscenza di Dio. Questo suo destino si può raggiungere solo attraverso la Grazia e la Fede in Cristo. Ogni uomo è predisposto ad accogliere Dio. Il Cristo stesso ha ordinato di annunciare il Vangelo a tutte le Nazioni, senza escludere nessuno. E' questo l'insegnamento centrale del documento pontificio, ossia quello dell'universalità della chiamata per ricevere la fede e la salvazione eterna.
Enunciati questi principi, papa Paolo condannò severamente la schiavitù, arrivando a minacciare l'interdizione dalla felicità eterna a coloro che la praticavano. E' chiaro per il pontefice che ogni forma di coercizione nei confronti degli indios è contraria al dettato evangelico; per questo il concetto che sta alla base del diritto di asservire gli indios, ossia quello della loro incapacità di accogliere la fede, è solo opera del diavolo.
Paolo III, con la sua autorità apostolica metteva fine alle numerose dispute che angustiavano le università europee per decidere se gli abitanti del Nuovo Mondo dovessero essere considerati "animali superiori" o "uomini inferiori", perché essi «essendo uomini come tutti gli altri, [.] non possono essere assolutamente privati della loro libertà e del possesso dei loro beni, anche se sono fuori dalla fede di Gesù Cristo», per questo, «in virtù della Nostra autorità apostolica, dichiariamo [.] che detti indios e altri popoli che
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relazione di Las Casas
possono successivamente essere scoperti, dovranno convertirsi alla religione di Gesù Cristo mediante la predica della Parola e l'esempio di costumi edificanti».
Il verdetto pontificio fu chiaro e annullava tutte le opinioni precedenti fatti in materia, anche quelle emanate dai suoi predecessori (nel 1452 papa Niccolò V, con la bolla Dum diversas, concedeva al re del Portogallo, Alfonso V di ridurre in schiavitù tutti i musulmani dell'Africa), ordinando la conversione e non la dominazione dei popoli del Nuovo Mondo. Sentenziò quindi papa Paolo: indios veros homines esse.
Alla bolla Veritas ipsa seguì il breve Altitudo divini consilii. Il documento ripresentò sostanzialmente la condanna della schiavitù in ogni sua manifestazione.
Purtroppo anche nel concilio convocato a Mantova nel 1536 e apertosi a Trento nove anni più tardi, il 13 dicembre del 1545, non solo si dispensò i vescovi americani dalla partecipazione alla riunione, ma non si dedicò neppure qualche attenzione alla servitù forzata degli indios. Gli stessi vescovi del Nuovo Mondo, informati dell'avvenuta convocazione, espressero il desiderio di essere presenti, ma senza successo. Non fu consentito loro neppure di inviare procuratori. La ragione ufficiale del diniego della Santa Sede fu che non si dovevano lasciare le sedi americane per troppo tempo. I timori di sollevare questioni inopportune che potevano nuocere al processo di ricomposizione che il concilio voleva attuare, come anche le preoccupazioni di aprire nuovi fronti d'attrito su questioni politicamente rischiose per l'Europa, contribuirono al silenzio del concilio sul tema della schiavitù degli indios e degli africani.

Non tutti i conquistatori, i coloni e i missionari andati nel Nuovo Mondo furono santi, né peccatori incalliti. Tutti hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia dell'evangelizzazione dell'America Latina. Tutta la storia del sottocontinente, dalla scoperta ai nostri giorni, passa attraverso la storia di uomini spregevoli e violenti, ma anche attraverso la storia di uomini forti nella fede e santi nelle opere.
Molti, a partire da padre Montesinos, passando per Bartolomé de Las Casas e Francisco de Vitoria, hanno cercato di essere coscienza critica, per separare la colonizzazione dall'evangelizzazione. Insomma, santità e peccato sono state le due facce della stessa moneta con cui si è comprato il nuovo continente

da: http://www.storiain.net/arret/num110/artic6.asp

 

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de vitoria

martedì, 06 aprile 2010
Padre Francisco de Vitoria

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Tra i più illustri di questi pensatori vi fu Padre Francisco de Vitoria. Nel corso della sua critica alla politica spagnola, de Vitoria pose le basi della moderna teoria del diritto internazionale e perciò è spesso ricordato come «il padre del diritto internazionale», l'uomo che «per primo» presentò «il diritto internazionale in termini moderni». Con i suoi colleghi teologi giuristi, de Vitoria «difese la dottrina secondo cui tutti  gli uomini sono ugualmente liberi; sulla base, della loro libertà naturale essi hanno proclamato il loro diritto alla vita, , alla cultura e alla proprietà»6. In sostegno alle sue affermazioni, de Vitoria fece riferimento sia alla Bibbia sia alla ragione; nel far ciò,
«offrì al mondo della sua epoca il suo primo capolavoro sul diritto delle nazioni in pace come in guerra»7. Fu un sacerdote cattolico, dunque, che produsse il primo grande trattato di diritto delle nazioni: una conquista di non poco significato.
Nato intorno al 1483, de Vitoria entrò nell'ordine domenicano nel 1504. Era abile nelle lingue e conosceva i classici. Studiò in seguito presso l'Università di Parigi, dove completò gli studi nelle arti liberali per poi passare allo studio della teologia. Insegnò a Parigi fino al 1523, quando si trasferì a Valladolid, dove continuò l'insegnamento di teologia presso il Collegio di San Gregorio. Tre anni dopo gli fu conferita la cattedra principale di Teologia presso l'Università di Salamanca, dove tanta profondità di pensiero, in tanti campi, si sarebbe manifestata nel corso del Cinquecento. Nel 1532 de Vitoria tenne una famosa serie di lezioni, pubblicata in seguito con il titolo Refleccion de los Indios, nota come Lezione sugli Indios, che stabili importanti principi di diritto internazionale nel contesto di una difesa dei diritti degli Indios.Quando questo grande pensatore fu invitato a prendere parte al Concilio di Trento, disse che sarebbe stato più probabile che andasse all'altro mondo,cosa che avvenne nel 1546.
…….A partire dai principi derivati da san Tommaso, de Vitoria stabili che il peccato originale non potesse privare l'uomo dei propri diritti civili, e che il diritto di impossessarsi delle cose della natura per il proprio uso(per esempio, l'istituzione della proprietà privata) apparteneva a tutti gli uomini a prescindere dal loro essere pagani o da qualsivoglia vizio barbarico alcuni potessero avere. Gli Indiani del Nuovo Mondo, per il fatto di essere uomini, erano perciò uguali agli Spagnoli in tutto quel che riguardava i diritti naturali. Possedevano le loro terre per gli stessi principi per cui gli Spagnoli possedevano le proprie11. Come scrisse de Vitoria, «Il risultato di ciò che precede è, quindi, che gli aborigeni senza dubbio avevano pieni diritti sia nelle faccende pubbliche sia in quelle private, proprio come i Cristiani, e che né i principi né i privati avrebbero dovuto essere spogliati della propria proprietà col pretesto che non fossero veri proprietari»12.
T.Woods
da  :Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale  Cantagalli

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