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martedì 7 febbraio 2012

Don Bosco

Maometto raccontato da don Bosco
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«Il famoso impostore Maometto nacque in seno a povera famiglia di padre pagano e di madre ebrea nella Mecca, città dell’Arabia. Vagando in cerca di fortuna, fu fatto agente di una vedova mercantessa ebrea di Damasco, che presto lo sposò. Siccome pativa epilessia, egli seppe servirsi di questa sua infermità a provare la religione da sé inventata, affermando quelle frequenti cadute essere altrettanti rapimenti, in cui esso teneva colloqui con l’Arcangelo Gabriele.

La religione che esso predicava è un miscuglio di paganesimo, di giudaismo e di cristianesimo. Ammette un solo Dio, non riconosce Gesù Cristo come Dio, ma soltanto come suo profeta. (…) Dettò la sua credenza in lingua araba, compilando un libro, cui diede nome di Corano, ossia di libro per eccellenza; nel quale si vanta di aver operato un miracolo, per altro molto ridicolo. Narra cioè, che essendo caduto un pezzo di luna in una sua manica, egli seppe per bene racconciarla; ecco perché i maomettani presero per insegna la mezzaluna.

Conosciuto per uomo perturbatore, i suoi concittadini volevano ucciderlo. Ma l’accorto Maometto pigliò la fuga, e ripiegò a Medina con parecchi avventurieri, che l’aiutarono ad impadronirsi di quella città. Questa fuga di Maometto appellasi Egira, che vuol dire persecuzione; e da essa appunto cominciò l’Era Musulmana, corrispondente all’anno di Gesù Cristo 622. Il suo Corano è pieno di contraddizioni, assurdità e ripetizioni. Non sapendo scrivere, Maometto fu aiutato da un ebreo a da un monaco apostata persiano, di nome Sergio. Il Maomettismo ebbe presto molti seguaci, ed in breve il suo autore divenuto capo di formidabili masnadieri, potè con le parole, e assai più con le armi, dilatarlo quasi per tutto l’Oriente».
(San Giovanni Bosco)

Postato da: giacabi a 20:22 | link | commenti
islam, don bosco

domenica, 31 luglio 2011
La fatica e la bellezza dell'educazione.
Di Francesco Agnoli - 07/05/2009 
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Nella società dei media può nascere un’illusione: che i mezzi di comunicazione siano i più importanti per educare un popolo.
Certamente, questo è in parte vero: la rivoluzione francese, come tutte le altre, sino alla rivoluzione sessuale, sono state favorite da un mare di carte e giornali, prima, e dalla televisione, poi. Ma è anche vero che prima della rivoluzione francese, alba sanguinosa della contemporaneità, c’è un grande fatto, spesso dimenticato: la chiusura, in Francia e non solo, delle scuole dei gesuiti.
E’ contro di esse che si accaniscono anzitutto gli illuministi anticristiani, perché sanno che un ragazzo ben educato può anche essere temporaneamente traviato dalle illusioni politiche, ideologiche, mondane, ma possiede dentro di sé un seme che prima o poi darà i suoi frutti. Oggi occorrerebbe che almeno i cattolici si rendessero conto di questo: che vi è un’emergenza educativa, cui far fronte, in parrocchia, nelle scuole, in ogni ambito possibile. Invece sappiamo quanto, ad esempio il catechismo, che è la prima forma di istruzione per un fanciullo, sia trascurato e negletto. Eppure i cuori e le menti dei giovani sono ancora, come sempre, aperti alla Verità e al Bene: basta solo che incontrino persone credibili, pronte a rendere conto della Speranza che è in loro e a smascherare gli errori e gli inganni del mondo.
Oggi, dicevo, l’educazione è in crisi, per il semplice fatto che non si sa più cosa sia. Educare, per la mia esperienza, significa condurre da qualcosa, verso qualcos’altro. Condurre da una storia, da un passato, da una Tradizione, verso un futuro: e invece tutta la cultura dominante è basata sulla volgarizzazione del passato e sulla derisione della Tradizione. Si crede e si vuol far credere che non vi sia nulla di buono nella storia che ci precede, soprattutto in quella cristiana. Così l’origine della nostra cultura, quel Medioevo in cui sono nate le università, gli ospedali, la tecnica, le banche e le cattedrali, Giotto e Cimabue, viene liquidata con espressioni superbe e volgari: “secoli bui”, “tenebre del Medioevo”.
Non è solo una questione di falsificazioni storiche: in queste espressioni lapidarie è condensata la cultura anticristana e nichilista che desidera tagliare le nostre radici, isolarci dalla Tradizione, fare intorno ad ognuno di noi terra bruciata. Solo così si può far vivere un popolo nel mito sciocco e banale del Progresso, come se non avessimo nulla da imparare da chi ci ha preceduto, e fossimo per ciò completamente auto-sufficienti. Così, in verità, si coltiva solo l’individualismo. Lo sciocco pregiudizio verso il passato ci rende arroganti e presuntuosi: il contrario di ciò che una buona educazione dovrebbe fare. Questo tentativo, come dicevo, di tagliare le radici, è evidente nella scuola odierna: dal modo con cui viene liquidato il medioevo, in storia, alla volontà sempre maggiore di trascurare anche il nostro passato latino e greco, sino alla graduale eliminazione, persino dalle università di filosofia, degli autori cristiani, da Agostino a Tommaso.
Sempre più diventa dunque difficile sapere da dove veniamo. Ma ancor più, dove andiamo. Infatti, perché vi sia educazione, occorre avere una certa idea dell’uomo: occorre che l’insegnante faccia comprendere ai suoi ragazzi che la Verità e il Bene esistono! Che lo studio serve appunto per ricercarli: ricercare la verità storica, la verità matematica, la verità filosofica, e teologica. Andiamo verso ciò che la nostra mente e il nostro cuore desiderano, nonostante il nostro limite: la Verità. Invece il relativismo dominante uccide ogni germoglio di vita: se non c’è nulla di vero, di bello, di buono; se un comportamento vale l’altro; se tutte le filosofie si equivalgono; se la verità e la menzogna si confondono, allora anche la curiosità di sapere, di capire, di pervenire alla verità, viene soffocata sin dal principio nel giovane, che diventa precocemente cinico e indifferente.
Faccio un esempio per quanto riguarda una delle materie che ritengo più formative: la storia. Quando si analizza la storia del Novecento, i testi scolastici omettono di farci capire anzitutto da dove gli abomini del nazismo e del comunismo derivino, per evitare di sottolineare la radice atea delle guerre mondiali, dei lager e dei gulag; dall’altra omettono clamorosamente di indagare cosa ancor oggi rimanga di quelle ideologie (divorzio, aborto, eutanasia ecc), per rispettare il dogma progressista (se ciò è successo, è successo nel passato, ma oggi…); infine, trascurano di raccontarci tutte quelle storie eroiche di persone che hanno dato la vita per aiutare i loro simili, per lottare contro la menzogna, per mantenere viva la carità cristiana, insegnandoci così che la lotta per la Verità è sempre possibile. In questo modo i giovani studiano, senza comprendere nulla, e senza che la storia passata dica loro più alcunché, né sulla miseria degli uomini, nè sulla loro intramontabile passione per il Bene. L’educazione insomma è centrale, e va perseguita con immensa attenzione. In ogni tempo i genitori hanno educato i loro figli, a determinati valori e ad una loro Tradizione.
Si sa ad esempio che l’Iliade e l’Odissea venivano imparate a memoria dai ragazzi greci e costituivano una sorta di “enciclopedia tribale”: tramite quelle storie, si tramandavano valori, culti, ideale del bene, incarnato dall’eroe, e del male…Così ogni giovane greco si sentiva parte di una storia che condivideva con i suoi concittadini, e da quella storia traeva insegnamenti con cui confrontarsi. Se poi leggiamo la storia dei filosofi antichi, vediamo che solitamente cercavano di educare se stessi e i giovani al seguito: Socrate educava i suoi discepoli cercando di farli ragionare sulle verità più importanti. Lo stoico romano Seneca educava se stesso facendo l’esame di coscienza ogni sera. Dovunque vi erano uomini che cercavano maestri di vita e un senso che fondasse la loro esistenza: “Si tratta di sapere, scriveva Cicerone nel ‘De Natura deorum’, se esiste un Dio, se questo Dio si interessa agli uomini e se esiste un legame tra noi e lui. Si tratta di sapere cosa è l’anima umana, se essa ha rapporto con Dio, se viene da lui e ritorna a lui. In breve si tratta della nostra felicità, del nostro tutto”!
Il grande educatore della storia è stato senza dubbio Gesù Cristo. Scelti i suoi discepoli, solamente dodici, che avrebbero trasformato il mondo, li ha condotti passo passo, sgridandoli, talvolta, confortandoli, spesso, e vivendo con loro. Dal suo esempio, innegabilmente, si è generata la tradizione scolastica europea, unica e irripetibile, quella che ci ha dato la Schola Palatina di frate Alcuino e Carlo Magno, prima, e le università poi. Ma il periodo d’oro dell’educazione è stato forse quello del Concilio di Trento.
Messo all’angolo dal protestantesimo e dal suo pessimismo antropologico, secondo cui l’uomo è capace solo di male, e dal predestinazionismo calvinista, il mondo cattolico ha generato scuole su scuole, un ordine educativo dietro l’altro, dimostrando chiaramente che l’uomo non è solamente cattivo, ma anzi, che la sua natura, pur macchiata dal peccato originale, è capace di grandi opere di bene. Tutte le scuole di quest’epoca, da quelle del Calasanzio a quelle di Giovan Battista de la Salle, a quelle dei gesuiti, fondavano il proprio metodo educativo proprio sul realismo cristiano. Per i protestanti, come dicevo, l’uomo è naturalmente cattivo: facile capire che educare, partendo da questa idea di fondo, è piuttosto difficile, un’impresa disperata e poco affascinante. Per i cattolici, invece, l’innegabile tendenza al male, giustificata dal peccato originale, non elimina l’altrettanto evidente volontà di ogni uomo di cercare la Verità e la Giustizia.
Educare significa allora coltivare il desiderio di vero, che c’è in ognuno, cercando di rendere questa verità non solo evidente, ma anche amabile. Questo sarà compreso soprattutto dal più grande educatore dell’Ottocento, Giovanni Bosco. Il suo metodo preventivo si basa infatti su un grande realismo antropologico: ha dinnanzi a sé giovani sbandati, senza famiglia, spesso delinquenti. Potrebbe lasciarsi andare allo sconforto, o alla durezza, invece vede in ognuno di loro un’anima preziosa e potenzialmente capace di grandi cose. Decide di trattarli con la mansuetudine, in modo da metterli, preventivamente, “nell’impossibilità di commettere mancanze”.
Per don Bosco i luoghi dell'educazione sono la cappella, il cortile e la scuola: quest'ultima, appositamente, all'ultimo posto. Occorre anzitutto che i giovani siano amati: "questo avviene nella fusione fraterna del cortile, dove i giovani, sentendosi amati in quelle cose che loro piacciono, cioè nei divertimenti, imparano a vedere l'amore degli educatori in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco, quali la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparano a fare con amore".
All’opposto di don Bosco, oggi così dimenticato anche nelle scuole cattoliche, piene di sociologismi e di psicologismi lontani dalla fede, vi è l’idea illuminista che potremmo definire dell’ “ottimismo antropologico”, propagata da Rousseau, pedagogo tanto abile da aver abbandonato tutti e cinque i suoi figli, e dai sui seguaci. Per costoro l’uomo è naturalmente buono, senza peccato originale. Talmente buono da non aver bisogno non solo delle regole, della lotta interiore, e, talvolta, dei castighi, ma neppure dell’amore, delle attenzioni, della premura dell’educatore. I seguaci di Rousseau, propongono il primato della spontaneità più estrema, l’idea che l’uomo sia solo un animale, che quindi non sia chiamato a far crescere e maturare, passo passo, la propria umanità.
Quanto è più affascinante la visione educativa cristiana, così descritta da Benedetto XVI nella sua lettera sull’educazione alla diocesi di Roma del 2008: “Già in un piccolo bambino c'è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano…L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione. Il Timone, marzo 2009.

Postato da: giacabi a 07:30 | link | commenti
benedettoxvi, don bosco, agnoli

venerdì, 07 gennaio 2011
Le profezie «politiche» di san Giovanni Bosco
Vittorio MESSORI
tratto da: Studi Cattolici, 32 (1988) n. 326/327, p. 290-292.

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Nel centenario della morte di san Giovanni Bosco, un santo tanto amato dagli italiani
Vittorio Messori rievoca alcuni aspetti della sua personalità e del suo rapporto con Dio e con gli uomini, forse inquietanti per lo spirito dei tempi ma illuminanti per chi legga i fatti "sub specie aeternitatis"


Può essere inquietante -anche per chi si consideri buon cattolico, ma sia cresciuto secondo un certo spirito dei tempi- approfittare del centenario del "dies natalis" del Santo di Valdocco per rivisitare (o scoprire di bel nuovo) i 19 volumi delle "Memorie biografiche di Giovanni Bosco" editi tra il 1898 e il 1939 da G.B. Lemoyne e poi da Eugenio Ceria.

Inquietante perché (avendo fatta nostra la lettura solo «positiva», «scientifica» della storia ed essendoci dunque abituati a considerare irrilevante, per la ricostruzione degli avvenimenti, l'ipotesi-Dio) in queste "Memorie" siamo riportati bruscamente a una prospettiva "provvidenzialista", a un'ormai del tutto desueta -se non scandalosa- lettura dei fatti "sub specie aeternitatis".

Se ci è lecito, un riferimento personale: è proprio attorno ad alcuni aspetti del cosiddetto "Risorgimento" che si aggirava la nostra tesi di laurea. I corsi torinesi si tenevano allora -per le facoltà umanistiche- proprio nell'edificio di fianco al palazzo Carignano dove ebbe sede prima il Parlamento Subalpino e poi (nel triennio 1861-1864) quello italiano. A pochi passi da lì, palazzo Madama, sede del Senato, il palazzo Reale con accanto la manica lunga del palazzo delle Cancellerie, sede dei ministeri del Regno. Dunque, non soltanto nelle aule dei corsi o in biblioteca, ma anche recandoci all'università o passeggiando coi compagni tra una lezione e l'altra, si era come circondati da voci che risalivano da quei decenni dell'Ottocento. I decenni di Vittorio Emanuele II ma anche di don Bosco, il quale, per gli storici "laici" e, dunque, i soli considerati «scientifici» sui quali ci formavamo meritava al massimo qualche accenno, in nota.
Eppure, a leggere la narrazione degli avvenimenti "dall'altra parte", da quella appunto di Valdocco, quel Mistero negato e irriso dalla storiografia moderna ritorna prepotente. Uno scandalo, lo dicevamo, per la mentalità di un mondo che ignora il Gesù "esultante nello Spirito" di cui parla Luca e che ringrazia il Padre per avere nascosto ciò che davvero conta agli intellettuali e ai sapienti in genere. Ma uno scandalo, osservavamo anche questo, pure per certo cattolicesimo che, desiderando sopra ogni cosa conquistare uno status, un diritto di cittadinanza nella "cultura" della città secolare, scuote il capo, tra imbarazzato e compassionevole per chi si ostinasse in una lettura "provvidenzialista" della storia, contrastante con l'idea di un Dio limitatasi, per dirla con Pascal, a "dare un colpetto al mondo per metterlo in moto" e che si sarebbe poi ritirato tra le sue nuvole, lasciando che gli uomini se la cavassero da sé.

Così, come prendere sul serio, come non considerare un visionario, chi si rifacesse alle "Memorie biografiche" per interrogarsi (è solo un esempio tra i tanti) sull'improvvisa morte del Conte di Cavour proprio nel momento del trionfo? E proprio quando l'imprevista costruzione provocata dalle sue mosse più sembrava avere bisogno di lui?

Davvero coincidenze?

Quando, il 17 marzo del 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato re d'Italia e il 25 marzo Cavour indicò l'unica possibile capitale del nuovo Stato in Roma (che, peraltro, non vide mai, come Manzoni, del resto) la situazione per la Chiesa era drammatica: ben 70 i vescovi rimossi dalle loro sedi o incarcerati, centinaia i preti che facevano loro compagnia in prigione, 64 i sacerdoti diocesani e 22 i frati fucilati, soprattutto in quel Sud conquistato dove era stata subito estesa la legge piemontese per la soppressione delle comunità religiose, con 721 conventi confiscati e la dispersione di 12.000 tra monaci e monache. In questo tragico marasma, quando il governo decise che la prima domenica di giugno (che nel 1861 cadeva il giorno 2) si sarebbe celebrata la festa dell'Unità nazionale, il clero fece sapere che non avrebbe potuto partecipare. Pronta la rappresaglia di Cavour che, con una circolare, proibiva la partecipazione delle autorità civili a quella grande processione torinese del Corpus Domini che, anche nei momenti più difficili dei rapporti tra Stato e Chiesa, aveva continuato a rivestire il solennissimo carattere tradizionale, con la presenza del Re, della corte, dello Stato Maggiore, dei ministri, dei deputati, dei senatori.

Era dunque la prima volta che si interrompeva, in Piemonte, questa tradizione. Don Bosco ne fu particolarmente afflitto e disse ai suoi che non presagiva nulla di buono da una simile decisione. I giovani collaboratori e allievi che, venerandolo ormai come un santo, prendevano nascostamente nota di ogni sua parola, avevano appuntato come alla fine del 1860 si fosse lasciato andare a una delle sue profezie di morte inesplicabile, impreveduta: "L'anno prossimo morirà un gran personaggio, un famoso diplomatico, se ne parlerà in tutta Europa come di un fatto gravissimo". Don Bosco stesso, comunque, dispose che alla processione (fissata per il 30 maggio) il posto lasciato vuoto da deputati e senatori fosse occupato da un numero corrispondente di giovani del suo Oratorio.

"Ed ecco che la sera del 29 maggio, vigilia del Corpus Domini -scrivono le "Memorie biografiche"- il Conte di Cavour, che aveva appena passato i 50 anni, di salute robustissima, rientrato nel suo palazzo era colpito da sincope e restava come morto". Il 2 giugno, "mentre in tutte le parti del Regno si festeggiava civilmente l'Unità d'Italia, invece di raccogliere i primi onori e i rumorosi applausi, il Conte si aggravava in modo irreparabile". E il 6 giugno "passava all'eternità".
Le "Memorie" hanno anche cura di ricordare come quel giorno fosse nell'ottava del Corpus Domini, cancellato dal calendario da Cavour, e fosse anche l'anniversario del grande miracolo eucaristico di Torino nel 1453 (un'Ostia innalzatasi dal calice rubato e restata a mezz'aria per ore prima di di ridiscendere nel calice stesso tenuto dal vescovo, circondato da tutta la città in preghiera). «Qual coincidenza!», scrive il Lemoyne che pure non si sente di certo autorizzato a rallegrarsi: in effetti, don Bosco, che già aveva fatto pregare i suoi giovani per la salute del Conte, alla notizia della morte li fece ancor più pregare per la sua salvezza eterna. Nella quale, malgrado tutto, si disse fiducioso, ricordando come Cavour, per parte di madre, fosse parente di Francesco di Sales, di colui dunque sotto il cui nome e la cui protezione aveva messo tutta la sua opera. Non mancò però di osservare che le autorità civili che non erano andate in processione dietro il baldacchino con le Sacre Specie, avevano dovuto andare in processione dietro il feretro di colui che aveva impedito quel gesto religioso.

Davvero "coincidenza" (come fingono di credere le "Memorie", pur facendo di tutto per indirizzare altrove per una spiegazione)? O davvero uno dei tanti aspetti di quel Mistero che certa storia ignora quando non beffa? Chissà. Certo un possibile "altro modo" per leggere uno degli avvenimenti più traumatici della storia risorgimentale, una morte che fu all'origine di eventi le cui conseguenze, per l'incapacità dei successori del "Tessitore", il Paese paga forse anche ora.

Che dire poi, tra altri cento, dei casi davvero impressionanti (e di cui non c'è traccia nei libri di storia che si dicono "seri", se non in qualche allusione polemica a "pressioni operate sul Re da forze clericali oscurantiste"), dei casi, cioè, che accompagnarono l'approvazione della legge Rattazzi, nel 1855? E' la legge, come è noto, per la confisca dei beni ecclesiastici e per la soppressione di gran parte delle comunità religiose. Fieramente avverso a quella legge -mentre una commissione di quattro teologi cortigiani convocata dal governo l'approvava- don Bosco cominciò col suggerire a un giovane allievo di trascrivere e d'inviare a Palazzo l'atto di fondazione dell'abbazia di Altacomba, in Savoia, l'antico sepolcreto della dinastia. In quell'atto, i Savoia del XII secolo scagliavano maledizioni contro i loro discendenti che avessero osato usurpare le proprietà della Chiesa. Ricevuta la missiva, Vittorio Emanuele (la cui angoscia comincia qui, diventando sempre più tormentosa) fece rimproverare il mittente e, con lui, don Bosco. Il quale, però, sognava di lì a poco un valletto in livrea che gli gridava: «Gran lutto a corte!». Poiché l'esperienza gli aveva mostrato come i suoi sogni fossero spesso profetici, il Santo (spintovi anche dal suo confessore, Cafasso) ritenne suo dovere avvisarne il Sovrano. La lettera non sembrò suscitare reazioni particolari. Da lì a poco un altro sogno: «Non grande, ma grandi lutti a corte!», e ulteriore avvertimento al Re, con l'esplicito legame tra queste visioni notturne e la legge presentata da Rattazzi.

La discussione iniziava alla Camera il 9 gennaio 1855 e subito dopo si metteva in moto una tragica successione che costringeva l'assemblea a continue chiusure per lutto. Tre giorni dopo, in effetti, il 12 gennaio moriva all'improvviso -non aveva che 54 anni- la piissima regina madre, Maria Teresa. Otto giorni dopo, il 20 gennaio, era la volta della moglie del re, Maria Adelaide, 33 anni. L'undici febbraio toccava al solo fratello maschio del sovrano, anch'egli trentatreenne, Ferdinando, duca di Genova. Dicono le "Memorie": «Non era mai avvenuto, nemmeno nelle pestilenze più crudeli, che in meno di un mese si aprissero tre tombe per accogliervi le salme di principi così strettamente uniti in parentela al Sovrano». Purtroppo la serie non era ancora terminata, ché -mentre la legge, approvata dalla Camera era in discussione al Senato- il 17 maggio di quello stesso anno moriva il figlio nato a Vittorio Emanuele dalla moglie Maria Adelaide l'8 gennaio, pochi giorni prima del decesso. Come la madre -e come tutti gli altri morti di questa storia, del resto- il piccolo (battezzato come Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio) godeva di ottima salute e la sua fine fu improvvisa.

Scrive Lemoyne, impassibile, se non implacabile: "In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello e il figlio. Il sogno di don Bosco erasi pienamente avverato". Il re stesso era del tutto convinto di un misterioso legame tra ciò che Rattazzi, Cavour e la maggioranza della Camera pretendevano che egli firmasse e quei sogni infausti. Tanto che tentò di incontrare don Bosco, andò egli stesso a Valdocco per parlargli ma una serie di strani impedimenti ed equivoci gli impedì di trovarsi faccia a faccia con un prete che, del resto, aveva beneficato (e che beneficherà anche in seguito) e che, sfidato quasi a duello da un generale, protestava di essersi deciso a scrivere al Re proprio per l'affetto di suddito fedele.


Un terribile esempio

Che pensare (noi, ormai tutti un pò "illuministi") di vicende di questo tipo? E che succederebbe della reputazione di uno storico universitario se rifiutasse di considerare una "coincidenza" anche quanto fu profetizzato in quei mesi da don Bosco (che su questo fece stampare un apposito opuscolo che rischiò il sequestro, non eseguito solo per timore di ulteriore pubblicità): «La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione»? Umberto II, effimero re per meno di un mese e costretto all'esilio a vita, non era che il terzo successore del sovrano la cui firma sta sotto la legge di soppressione e confisca. Quanto alla "quarta generazione", ogni lettore di cronache attuali sa quale credito meriti...

Ma, per tornare a colui che la storia cortigiana volle chiamare "Re galantuomo", a quanto pare don Bosco ebbe la vista lunga anche sulla sua morte. Dal 1862 non si recitavano più, nella liturgia della Chiesa italiana, le preghiere per il Sovrano. Alla fine di dicembre del 1877 il Santo, in partenza per Roma, stupì tutti disponendo che all'Oratorio si riprendessero gli "Oremus pro rege nostro". Alle domande dei superiori salesiani, rispose lasciando intendere che l'interessato ne avrebbe avuto presto particolarmente bisogno. Pochi giorni dopo, il 9 gennaio (ancora una volta all'improvviso) Vittorio Emanuele moriva a meno di 58 anni in quel Quirinale in cui gli "italiani" erano penetrati il 20 settembre di 7 anni prima con l'aiuto di un fabbro che scardinò il portone, chiuso dagli Svizzeri prima d'andarsene. Da Roma, don Bosco scrisse al conte Cays, grande amico e benefattore: «Il lutto del Quirinale è servito per chi l'aveva preparato» (credendo infatti imminente la morte di Pio IX, il sovrano aveva disposto perché il palazzo reale, già papale, preparasse le gramaglie). Continuava il Santo: «Avvi però grave motivo di benedire il Signore. Con ricevere i SS. Sacramenti assicurò, speriamo, la salvezza dell'anima sua. Ma darà un terribile esempio a tutta l'Europa che vede un re in buona età, sano, robusto e in tre giorni fatto cadavere».

Sapeva essere schietto e spiccio, questo nostro don Bosco. Come tutti i santi, del resto. Al pari di loro, poi, non temeva di venerare il "digitus Dei" anche nella cronaca che, di giorno in giorno, si fa storia. Sembra che noi, cristiani di questo scorcio del secondo millennio, abbiamo perduto, o rifiutato, lo sguardo che penetra aldilà dell'apparente casualità. Un modo per diventare credenti "adulti"? Per adeguarsi al brancolare di "ciechi che guidano altri ciechi" e che pur affermano di vedere meglio che ogni altro?

Postato da: giacabi a 14:40 | link | commenti
don bosco

domenica, 17 agosto 2008
Ciò che santifica
***
Ciò che santifica non è la sofferenza, ma la pazienza
San Giovanni Bosco

Postato da: giacabi a 07:36 | link | commenti
don bosco

sabato, 13 ottobre 2007
San Giovanni Bosco
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Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
 
Don Bosco nasce quando ancora non sono passati trent'anni dal­la Rivoluzione francese, l'anno stesso in cui, con il congresso di Vienna, tramonta il mito napoleonico (1815). Già in tutto il secolo precedente (il cosiddetto «secolo dei lumi») la fede ha subito attacchi e irrisioni con una programmata offensiva condotta in nome di una ragione divinizzata che pretende di lottare contro tutto ciò che chiama «superstizione».

Nel secolo XIX l'attacco è ormai mescolato, in modo spesso assai intricato, con le questioni sociali e con le questioni nazionali.
Non è possibile, nemmeno lontanamente, descrivere il tempo di don Bosco: tempo di prima industrializzazione, di moti risorgimen­tali, di restaurazioni e di rivoluzioni; in ogni caso di turbamenti per noi inimmaginabili. Per facilitare soprattutto i più giovani, possiamo accostate il nome di don Bosco a quello dei suoi contemporanei più prestigiosi.
Quando muore Hegel, il filosofo dell'idealismo, don Bosco ha 16 anni. Comte - che vorrà fondare la nuova religione dell'umanità - ha 17 anni più del nostro Santo. Feuerbach ha invece 11 anni di più, Darwin 6 anni, Marx 5 di meno, Dostoevskij 6 anni, Tolstoj 13.
In Italia quando don Bosco nasce, Foscolo ha 37 anni, Manzoni ha 30 anni, Leopardi 17, Mazzini 10, Garibaldi 8.
Pio IX, Leone XIII, Vittorio Emanuele II, Cavour, Rattazzi, Cri­spi, Rosmini gli sono amici.
Lo stesso anno in cui don Bosco muore, nella stessa città, a Torino, Nietzsche viene definitivamente colto da follia.
Molti di questi nomi don Bosco non li ha neppure conosciuti.

Il letterato più celebre che incontrò - in due colloqui segreti a Parigi, convertendolo, secondo la testimonianza di don Bosco stes­so - fu Victor Hugo.
Ma non c'è dubbio che il mondo in cui don Bosco visse era esat­tamente quello che veniva agitato da tutto questo insieme di influssi. In esso don Bosco fece le sue scelte, coltivò certe idee e ne rifiutò al­tre, a volte assunse acriticamente certe impostazioni del suo tempo. Sarebbe assurdo immaginarlo diversamente.
In tutto questo ribollire di persone, avvenimenti, idee, progetti, restaurazioni e rivoluzioni - tempo in cui la Chiesa è stata considera­ta qualche volta alleata e più spesso nemica da opprimere, e in cui l'anticlericalismo ha toccato punte inverosimili – si nota tuttavia un fenomeno diverso che già allora fece piegare il capo anche ai nemici: la santità. Una santità abbondante molteplice quella soprattutto dei cosiddetti “evangelizzatori dei poveri”; una santità trasferita nel bel mezzo di una città in rapida evoluzione, una santità che si trascina appresso un flusso travolgente di esperienze e fenomeni sopran­naturali.
Si può prendere un episodio della vita di don Bosco e passarlo al microscopio trovando una documentazione non del tutto perfetta. ­In compenso ce ne sono subito presenti altri mille sostenuti da deci­ne e decine di testimonianze d’ogni genere.
Prendiamo, ad esempio, come punto di riferimento quel 1848 che passò alla storia come l'anno dei grandi turbamenti, l’anno della prima guerra d'indipendenza.
A Torino il seminario si svuota. Più di 80 chierici, in reazione all'arcivescovo, durante la Messa di Natale, si sono schierati nel pre­sbiterio del Duomo con la coccarda tricolore sul petto e, allo stesso modo hanno partecipato ai festeggiamenti per lo Statuto.
L’anno successivo l’arcivescovo è arrestato e imprigionato. In città si scatenano le bande anticlericali che assaltano i conventi. I preti si dividono in preti patrioti e preti reazionari. Il governo intan­to prepara una legge per sopprimere tutti i conventi. La legge, che sopprimerà 331 case religiose per un totale di 4.540 religiosi, verrà firmata nel 1855.
Sono solo alcuni gravi episodi tra mille altri; eppure in quegli stessi anni a Torino vivono e operano contemporaneamente - amici e collaboratori tra loro - san Giovanni Bosco, san Giuseppe Cafasso (il prete dei carcerati e dei condannati a morte, che dirige spiritualmente san Giovanni Bosco), san Giuseppe Benedetto Cottolengo (il prete dei malati incurabili che diceva d'essere il “manovale della Provvidenza”). Per un certo tempo don Bosco gli dà una mano, poi seguirà la sua strada. Il Cottolengo un giorno gli prende tra le dita un lembo della veste e gli dice profeticamente:
«E’ troppo leggera. Pro­curatevi una veste più resistente perché molti ragazzi si appenderan­no a questo abito».

C'è poi una ragazza di vent'anni più giovane di don Bosco. Co­stui la incontra nel 1864: diverrà la fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice: Santa Maria Mazzarello.
Nel 1854 entra nell'oratorio di don Bosco un ragazzo di una rara profondità interiore. E l'anno della proclamazione dell' Immacolata: quel bambino è innamorato di questo mistero mariano. Diventa santo a 15 anni: Domenico Savio.
Un altro ragazzino diventerà successore di don Bosco, anche lui proclamato beato da poco: Beato Michele Rua.
Un altro ancora, che passa all'oratorio 3 anni («la stagione felice della mia vita», quando sa che don Bosco è in fin di vita ha allora 16 anni), offre a Dio in cambio la sua giovane esistenza. Diventerà il Beato Luigi Orione, anch'egli fondatore di una congregazione per bambini poveri (è quel prete di cui parlò Silone in un suo celebre rac­conto autobiografico). Dirà di don Bosco: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta e dirgli grazie».

Un altro giovane prete, don Federico Albert, predica i primi esercizi spirituali a una cinquantina di ragazzi, tra i quali don Bosco vuol scegliere i suoi collaboratori. Oggi anche quel predicatore è un «Beato»
Sono già otto santi ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa (per non dire di decine d'altri rimasti anonimi) che si incontrano e si par­lano e si capiscono come l'amico incontra l’amico. E attorno a loro che il soprannaturale si ramifica con manifestazioni innumerevoli e commoventi, come se Dio intendesse mostrare - mentre la Chiesa soffre per i peccati suoi e altrui e si dibatte in problemi intricatissi­mi - il sangue vivo e caldo che scorre nel suo corpo ecclesiale e lo Spirito che l'anima dentro la sua corporea pesantezza.
Nella vita di don Bosco s’incontra ogni tipo di fenomeni miraco­losi: sogni profetici, visioni, bilocazioni, capacità di intuire i segreti dell'anima, moltiplicazioni di pani e di cibo e di ostie, guarigioni, perfino risurrezioni di morti.
Ricorderò solo due episodi che ebbero una gran risonanza per il loro riflesso pubblico nella società del tempo il primo episodio è non solo triste, ma terribile.
Quando il re è indeciso se firmare la legge di soppressione dì tut­ti i conventi - legge che gli attirerà la scomunica da parte della Santa Sede - don Bosco «sogna» che un valletto di corte gli annuncia:
«Grandi funerali a corte».
Ne parla a tutti i suoi collaboratori. Scrive una lettera al re per avvertirlo “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, e dl impedire a qualunque costo quella legge”.

Questa la successione dei fatti. L’avvertimento di don Bosco e del dicembre del 1851. Il 12 gennaio 1855 muore la Regina Madre, Maria Teresa, a 54 anni. Il 20 gennaio muore la Regina Maria Ade­laide, moglie del re, a 33 anni. L'11 febbraio muore il fratello del re, principe Ferdinando di Savoia, a 33 anni. Il 17 maggio muore l'ultimo figlio del re, di appena 4 mesi.
Il re è furioso con don Bosco. Il 29 maggio, consigliato perfino da alcuni preti, firma comunque la legge.
Ognuno giudichi come vuole, ma i contemporanei restarono allibiti.
L'altro episodio è invece commovente: nell’estate 1854 a Torino scoppia il colera che ha il suo epicentro a Borgo Dora, dove si ammassano gli immigrati, a due passi dall'oratorio di don Bosco. A. Ge­nova ha già fatto 3.000 vittime In un solo mese, a Torino, 800 colpiti e 500 morti. Il sindaco rivolge un appello alla città, ma non si trovano volontari per assistere i malati né per trasportarli al lazzaretto. Tutti sono presi dal panico. Il giorno della Madonna della Neve (5 agosto) don Bosco raduna i suoi ragazzi e promette: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commettete nessun peccato mortale, io vi assicu­ro che nessuno di voi sarà colpito dalla peste» e chiede loro di dedi­carsi all'assistenza degli appestati.
Tre squadre: i grandi a servire nel Lazzaretto e nelle case, i meno grandi a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati abbandonati nelle case. I piccoli in casa disposti alle chiamate di pronto inter­vento.
Ognuno con una bottiglietta di aceto per lavarsi le mani dopo aver toccato i malati. La città, le autorità, anche se anticlericali, sono sbalordite e affascinate. L'emergenza finisce il 21 novembre. Tra agosto e novembre a Torino ci sono stati 2.500 appestati e 1.400 morti. Nessuno dei ragazzi di don Bosco si ammalò.
Sono solo due episodi utili a far percepire qualcosa del clima in cui viveva don Bosco e in cui vivevano, come in qualcosa di palpabi­le, i ragazzi e i collaboratori che stavano con lui, attratti non dalla sua magia, ma dalla sua familiarità con Dio. Questa è la spiegazione cattolica. Chi la nega per principio, poi deve necessariamente accu­mulare mille e una spiegazione alternativa.
Quando nel 1884 don Bosco venne intervistato da un reporter del Journal de Rome (è il primo santo della storia che sia stato sotto­posto a questa tecnica giornalistica inventata nel 1859 da un ameri­cano), gli verranno poste, tra le altre, queste domande:

D         Per quale miracolo lei ha potuto fondare tante case in tanti paesi del mondo?
R         Ho potuto fare più di quello che speravo, ma il come non lo so neppure io. La Santa Vergine, che sa i bisogni dei nostri tempi, ci aiuta...
D         Permetta un’indiscrezione: di miracoli ne ha fatti?
R         Io non ho mai pensato ad altro che a fare il mio dovere. Ho pregato e ho confidato nella Madonna...
D         Che cosa pensa delle condizioni attuali della Chiesa in Europa, in Italia, e del suo avvenire?
R         Io non sono un profeta. Lo siete invece tutti voi giornalisti. Quindi è a voi che bisognerebbe domandare che cosa acca­drà. Nessun,o eccetto Dio, conosce l'avvenire. Tuttavia, umanamente parlando, c'è da credere che l'avvenire sia gra­ve. Le mie previsioni sono molto tristi, ma non temo nulla. Dio salverà sempre la sua Chiesa, e la Madonna, che visibil­mente protegge il mondo contemporaneo, saprà far sorgere dei redentori.

Ma chi era dunque don Bosco?

Per parlare di lui, bisogna cominciare a parlare della madre: una povera contadina che non sapeva né leggere né scrivere, rimasta ve­dova quando Giovanni ha due anni e che deve lottare a denti stretti, in tempi di carestia e di disgrazia, per tenere unita la sua Famiglia. Ciò che ella conosce é elementare: alcuni brani della Scrittura a me­moria e gli episodi del Vangelo; i principi fondamentali della vita cri­stiana (“Dio vede anche nei tuoi pensieri”); il paradiso e l'inferno; il valore redentivo della sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvi­denza; i Sacramenti e il Rosario.
Ascoltiamo però don Bosco stesso: «Ricordo che fu lei a prepa­rarmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il rin­graziamento. Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capa­ce di fare da solo una degna confessione».

Ancora don Bosco: «Nel giorno della prima Comunione in mezzo a quella folla di ragazzi e di gente era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre al mattino non mi lascio parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi occupassi dì lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi ripe­té più volte queste parole: Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Pro­mettigli che ti impegnerai per conservarti buono per tutta la vita...».
Ed è la stessa donna che, quando si parla di una possibile voca­zione religiosa del figlio, gli dice: «Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua».
E il giorno dell'ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir messa vuol dire cominciare a soffrire. D'ora in poi pensa solo alla salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me».

Quando avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini datigli dall'altro figlio, con una relativa tranquillità, Giovanni andrà da lei e le dirà: «Un giorno avete detto che se diventavo ricco non sare­ste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?».

Mamma Margherita risponderà soltanto umilmente: «Se credi che questa sia la volontà di Dio...».
E passerà gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a decine e centinaia di figli non suoi, ma che quel figlio prete le conduce da parte di Dio, fino a sfinirsi, prendendo forza - quando non ne può più - da uno sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso.

I santi nascono e crescono cosi.
Fin da piccolo Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante il sonno gli sembrava «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di Dio; e da allora un impulso interiore lo spinge a de­dicarsi alla gioventù abbandonata.
Per loro ha voluto ad ogni costo diventare prete, studiando fuori età, sorretto da una memoria prodigiosa, superando umiliazioni e fa­tiche d’ogni genere.
Negli anni di studio ha trovato tempo - per mantenersi o per passione – di fare il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo deI biliardo, il suonatore di organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di canzoni.
Ma preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e di fede, gli sembrava - come egli stesso scrive – « l’unica cosa che do­vessi fare sulla Terra ». E questo « fin da quando avevo cinque anni ».
Torino a quel tempo è presa dalla febbre della prima industrializzazione. Gli immigrati si contano a decine di migliaia, nel 1850 si parla addirittura di 50.000 o 100.000 immigrati. Si cominciano a costruire case su case. La città è invasa da bande di ragazzi che si of­frono per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammife­rai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni...) e non sono protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande che infestano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora.
I primi accostati da don Bosco sono muratori, scalpellini, sel­ciatori e simili.
Molti ragazzi si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle car­ceri della città.
Anche altri preti giovani del tempo hanno intanto cominciato a preoccuparsi dei ragazzi abbandonati, ma si lasciano trascinare dai problemi politici e la loro opera viene travolta. Uno di essi - molto noto a Torino -, persuaso di «seguire il popolo», ha condotto i suoi duecento giovanotti a prendere parte alla battaglia di Novara. È una disfatta in tutti i sensi.
Don Bosco non guarda in faccia nessuno, preoccupato solo dei suoi ragazzi. Li raccoglie in un oratorio, se li trascina dietro nella continua ricerca di un luogo abbastanza capace per poterne ospitare un numero sempre crescente. Deve combattere su molti fronti contemporaneamente. I politici sono preoccupati del potenziale rivolu­zionario rappresentato da quelle bande di giovinastri che obbedisco­no, a centinaia, a un solo cenno di don Bosco.
L'oratorio è insisten­temente sorvegliato dalla polizia. Alcuni ben pensanti «pensano» che l'oratorio sia un centro d’immoralità. I parroci della città sono preoccupati perché vedono distrutto il «principio parrocchiale». Se si deve fare l'oratorio, bisogna farlo nelle parrocchie. L'accusa è: «I giovani si staccano dalle parrocchie».
Don Bosco è messo sotto accusa: i parroci d’altronde pensano ancora a un'epoca tramontata, quando i giovani immigrati si presen­tavano con un biglietto di raccomandazione del proprio parroco d'o­rigine per essere accolti.
D'altra parte gli oratori parrocchiali – quelli che esistono - sono solo festivi e don Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del prete. Solo questo fa sì che i parroci sospendano pru­dentemente il loro giudizio e la loro offensiva.
Insistono però almeno che don Bosco indirizzi successivamente i suoi giovani alle rispettive parrocchie.
Ma sono ragazzi che non si avvicinerebbero mai a una parroc­chia, e per di più  - cosa ancora più seria e sempre difficile da capire per chi sta al di fuori - l'oratorio di don Bosco è solo secondariamen­te una struttura o un luogo. Sostanzialmente l'oratorio è don Bosco stesso, la sua persona, la sua energia, il suo stile, il suo metodo edu­cativo: e questo non lo si può trasportare da una parrocchia all'altra. Per fortuna l'Arcivescovo decide di visitare personalmente l'Orato­rio. Passa una giornata piena d'allegria e si diverte di gusto («non ho mai riso tanto in vita mia», dirà). Dà la Comunione a più di trecento ragazzi e poi la Cresima, fiero di tanta gioventù, anche se alzandosi con tutta la mitria picchia energicamente il capo sul soffitto della bassa costruzione.
Per sua decisine tutti i verbali delle cresime vengono raccolti dalla Curia e invitati successivamente ai rispettivi parroci: così l'Oratorio è praticamente accettato come “la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia”.
Con una significativa sottolineatura teologica, don Bosco dice che l'abate Rosmini - suo entusiasta Sostenitore - « paragonava la nostra opera alle missioni che si aprono in terra straniera ».
Un altro versante di lotta per don Bosco è con i cosiddetti «preti patrioti», che tentarono gravemente di politicizzare i suoi ragazzi, per lanciarli nelle lotte risorgimentali.

Nell’anno 1848 – scrisse - ci fu un tale pervertimento di idee e di opinioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me. Toccava a me fare cucina, preparare a tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo invece trovai in quell’attività una possibilità d'aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola”.
Su un altro versante ancora, la lotta era contro coloro che (ed erano tanti, a un certo punto furono perfino gli amici) si convinsero che don Bosco era veramente e irrimediabilmente impazzito.
Mentre con i suoi ragazzi traslocava ripetutamente da un misero luogo all'altro, don Bosco parlava loro con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case, scuole, laboratori, ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione.
I ragazzi gli credevano, ripetevano le sue parole. Al contrario, perfino i più affezionati amici lasciavano cadere le braccia: «Povero don Bosco, si è tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».
Tutta Torino parlava del “prete pazzo”. Si cercò perfino di inter­narlo, con uno stratagemma.
L' amico più intimo del Santo, un altro prete, piangeva: «Povero don Bosco, è proprio andato!».
Tutti - scrive don Bosco - si tenevano lontani da me. I miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ra­gazzi”.
Ciò che sconvolgeva era soprattutto una cosa: a chi gli obiettava che la realtà era infinitamente lontana dalle sue descrizioni “case, scuole, chiese ecc.” ed esasperato gli diceva: « ma dove sono queste cose? », rispondeva: « Non lo so, ma esistono, perché io le vedo ».
Intanto i ragazzi crescevano e preoccupavano sempre di più.
« “Devo riconoscere - scrive don Bosco - che l'affetto e l' obbe­dienza dei miei ragazzi toccavano vertici incredibili ». Ma questo raf­forzava la voce che don Bosco, con i suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una rivoluzione.
Bisogna riportarsi al clima politico di allora. Ma d'altronde non aveva quell’uomo straordinario portato fuori dal carcere, sulla parola e senza nessuna sorveglianza, per un giorno di sollievo, più di trecen­to giovani carcerati, riconducendoli a sera senza che ne mancasse nemmeno uno.
Bisogna anche capire chi era don Bosco per loro. Un episodio lo rivela sufficientemente.
Nel luglio deI 1846 egli ebbe uno sbocco di sangue e svenne, do­po una massacrante giornata passata all'Oratorio.
In breve: è in fin di vita e riceve l'estrema unzione. Resta otto giorni tra la vita e la morte.
In quegli otto giorni ci furono ragazzi che, sotto il sole rovente lavorando sulle impalcature, non toccarono una goccia d'acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si davano il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata per pregare per lui, dopo aver fatto le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promisero di recitare il rosario per tutta la vita. Altri di restare a pane e acqua per mesi, per un an­no, qualcuno per sempre.
I medici dicevano che quel sabato don Bosco sarebbe certamente morto. Gli sbocchi di sangue erano ormai continui, Don Bosco gua­rì, impensabilmente.
Li ritrovò tutti - pallidissimo e senza forze - in una cappella. Disse solo: «La mia vita la devo a voi. D'ora in poi la spenderò tutta per voi». E passò il resto della giornata ad ascoltarli uno per uno per cambiare in cose facili e possibili le promesse smisurate che essi avevano giurato a Dio per la sua guarigione.
Non era solo un'affezione romantica, e idealizzata, era frutto di una vita spesa in opere e opere.
Impossibile descriverla. Possiamo solo elencare alcuni dati.
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l'Orato­rio, alcuni tra loro, che non sanno dove andare perché non hanno ca­sa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Mar­gherita.
I primi ospiti sono alloggiati in cucina. Saranno sei alla fine dell'anno; trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocen­tosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di tre­cento alunni ogni sera.
Nel 1847 un secondo oratorio.
Nel 1850 fonda una società di mutuo soccorso per operai.
Nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti.
Nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri.
Nel 1856 un laboratorio di falegnameria.
Nel 1861 una tipografia.
Nel 1862 una officina di fabbro ferraio.
Intanto nel 1850 è nato anche un convitto per studenti, con do­dici studenti che diventano centoventuno nel 1857.
Nel 1862 dunque l'oratorio conta seicento ragazzi interni e al­trettanti esterni.
Oltre i sei laboratori ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e trentanove salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa.
Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso - egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita (1888), da Valdocco saranno uscite diverse centinaia di preti «nuovi» perché provenienti dalle classi povere.
Nel frattempo ancora - sempre per i suoi ragazzi - don Bosco è diventato scrittore: scrive una storia sacra ad uso delle scuole, una storia ecclesiastica, una storia d'Italia, molte biografie e opere edu­cative. Una cinquantina di titoli. Ha scritto perfino un volumetto sul «sistema metrico decimale ridotto a semplicità»: tale nuovo siste­ma doveva entrare in vigore nel 1850 e doveva essere insegnato nelle scuole a partire dal 1846, ma il governo non aveva preparato nessun testo. Considera ogni volumetto «un atto di amore» per la Chiesa e per i suoi ragazzi. Un suo manuale di formazione per giovani, piutto­sto voluminoso, raggiunse nel 1888 la 118a edizione.
Abbiamo seguito intanto don Bosco fino agli inizi degli anni '60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Per allora avrà inoltre curato la pubblicazione di 204 volumetti di una «Biblioteca della gioventù italiana» (con testi latini e greci), avrà aperto i primi cinque collegi, fondato una congregazione femminile, avrà costruito il Santuario di Maria Ausiliatrice e la chiesa del Sacro Cuore a Roma, avrà fondato 64 case salesiane in sei nazioni e missioni in America Latina, e avrà 768 salesiani. Avrà compiuto viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede» (titolo con cui è universalmente noto).
In Francia resterà quattro mesi, nel 1883, viaggiando dovunque. Quando giunge a Parigi, Le Figaro scrive che davanti alla sua casa «file di carrozze stazionano tutto il giorno già da una settimana». Il Cardinale Lavigerie Io chiama «il San Vincenzo de' Paoli dell'Italia».
Un particolare significativo: nel 1883 la tipografia di don Bosco era quella meglio attrezzata di Torino. Nel 1884 alla «Esposizione nazionale dell'Industria, della Scienza e dell'Arte», don Bosco ebbe a disposizione una galleria speciale sul cui ingresso si leggeva a caratteri cubitali la scritta:

DON BOSCO: FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, LEGATORIA E LIBRERIA SALESIANA

Fu il primo prete espositore in una Esposizione nazionale dedi­cata al lavoro. Dice lo storico che chi leggeva la scritta, prima rideva, pensando di trovare dentro il solito bazar di robe da sacrestia, poi entrava e restava allibito di poter assistere dal vivo all’intera catena di lavoro. Non era mai avvenuto a nessuno di poter assistere a tutto il processo con cui dagli stracci per fare la carta si arriva all’uscita del volume, illustrato con centinaia di incisioni e ben rilegato. Un gior­nale di Reggio Emilia scrisse che la galleria di don Bosco era una del­le poche sempre affollate.
Quest'attività impressionante pone veramente la domanda sul significato storico dell'opera di don Bosco.

Oggi chiunque può permettersi, senza rischio, qualunque banalità e qualunque brutale giudizio quando parla di cose e persone di Chiesa, tanto molti cristiani accettano tutto e condividono tutto: hanno paura di essere trionfalistici; ogni critica e ogni deprezzamento della loro storia va loro bene. A volte si fustigano anche da soli, tanta è la voglia di apparire moderni. Caso mai, se si esagera, sorridono un po’. Dagli oratori salesiani, in questi 125 anni di storia della nostra nazione, sono usciti, formati in tutti i sensi, milioni di italiani. Ma milioni di uomini appaiono «patetici» alle idee di qualcuno, dato che San Giovanni Bosco non aveva posizioni politiche avanzate ne’ intel­ligenti analisi sociali progressiste.
Semplicemente vedeva il bisogno e interveniva. Ma interveni­va su uomini concreti, quelli che la storia la fanno tutti i giorni anche se sembrano «patetici» di fronte alle grandi sintesi storiche dei pro­fessori.
In un promemoria che lo stesso don Bosco scrisse a Francesco Crispi si legge:
«Dal registro consta che non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema, imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono divenuti virtuosi arti­giani, commessi di negozio, padronI di bottega, maestri insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno, poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in mate­matiche, medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».

Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica - in una situazione politica complessa e violenta - preferì astenersi da un lato (gli bastava, come diceva, “la politica del Pater noster”), e dall'altro scelse il principio apparentemente facile di stare col Papa.
Nell'epoca in cui tutti - anche gli anticlericali - gridavano: “Vi­va Pio IX”, perché speravano in un Papa liberale, don Bosco insegnava ai suoi ragazzi che bisognava invece gridare “viva il papa”
Egli era, secondo la sua espressione, attaccato al pontefice “ più che il polipo allo scoglio”.
Interrogato sulla questione romana, perché prendesse posizione, don Bosco rispondeva:
« lo sono col Papa, sono cattolico, obbedisco il Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: Venite a Roma, allora io pure direi: Andate. Se il Papa dice che l’andata dei, piemontesi a Roma e un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere come pensa il Papa ».
Le questioni e i personaggi in questione, allora non erano mitizzati come lo sono oggi nei nostri libri dì storia: apparivano come erano con tutta la loro ambiguità, meschinità. D'altra parte ancora, l'o­pera di quei preti che allora si schierarono politicamente «col popolo, per l'unità» resta nella storia assolutamente irrilevante.
D'altra parte ancora, don Bosco fu l'uomo di cui tutti, Chiesa e Stato, re e pontefice, ministri e cardinali, sapevano di potersi servire quando bisognava assolutamente trovare un accordo.
Quando bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l'unificazione (sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trat­tative ebbero don Bosco come intermediario.
Un altro episodio significativo: fu proprio il ministro Rattazzi che spiegò spontaneamente a don Bosco come fondare una congrega­zione religiosa, nonostante la soppressione degli ordini religiosi da lui stesso decretata (la famosa legge Rattazzi del 1855). « Rattazzi - disse don Bosco - volle con me combinare vari articoli della nostra Regola, riguardanti il modo dì comportarci rispetto al Codice Civile e allo Stato ».
In pratica gli insegnò abilmente a fare una congregazione che al suo interno fosse governata dalle normalI leggi ecclesiastiche e che al suo esterno - rispetto allo Stato -  fosse governata secondo le leggi civili che regolano le diverse associazioni di mutuo soccorso o altro genere. L'intuizione geniale di «creare una società religiosa che da­vanti allo Stato fosse una società civile» gliela diede Rattazzi stesso. L'idea sorprese perfino i Vescovi. Nasceva dall'affetto che Rattazzi, anticlericale convinto, aveva per don Bosco.
Ancora, davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contestò l'assetto sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiutò i poveri restando dentro quel sistema. Cioè: chiedendo l'ele­mosina ai ricchi. Anche questa critica significa ragionare solo con i principi e non con i fatti. Certo, mentre don Bosco fondava il suo se­condo oratorio, Marx scriveva il Manifesto. Don Bosco aveva un suo giudizio abbastanza preciso sulla situazione, anche se non rifletteva scientificamente sulla vastità internazionale del fenomeno pauperista e dei rivolgimenti che si preparavano.
Ma egli rifiutò di fare il «prete sociale» e il politico perché sentì che la sua vocazione era l'intervento immediato, l'amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al lavoro. C'è chi è chiamato a battersi contro le cause dell'ingiustizia e chi è chiamato a battersi subito contro i suoi effetti. Ad ognuno la sua vocazione: tutte sono impor­tanti, quella di chi riflette e prepara analisi e progetti e quella di chi intanto deve amare, deve accogliere, deve salvare perché i poveri non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti. «Lascia­mo agli altri ordini religiosi più formati di noi, diceva, le denunce, l'azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».
D'altra parte, perfino Pertini scrisse di aver imparato nelle scuo­le salesiane «un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore».
Ed è interessante ancora sapere che alcuni dei primi contratti d’apprendistato fatti in Italia - con vere e rivoluzionarie novità socia­li - sono scritti e firmati da don Bosco.
Un ultimo aspetto non era stato finora mai rimproverato a don Bosco: la sua capacità educativa.
Oggi c'è anche chi accusa don Bosco d'aver avuto una pedagogia «funebre», «regressiva», «un disegno pedagogico quasi ossessivo».
Nel 1920 un celebre pedagogista anticlericale e non credente ma onesto, Giuseppe Lombardo Radice, scriveva ai suoi: «Don Bo­sco era un grande che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa…egli seppe creare un imponente movimento di educa­zione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venu­ta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un eroe, l'eroe dell'educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono essere orgogliosi».
E ancora: «Don Bosco? Il segreto e in un idea! Le nostre scuole: molte idee. Molte idee può averle anche un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea e difficile; un’idea vuol dire un'anima»
Dopo sessant’anni, quelli che contestano don Bosco hanno evi­dentemente «moltissime idee». Nel 1877 don Bosco diede alle stampe un breve fascicolo intitolato: Il sistema preventivo dell’educazione della gioventù.
Anzitutto la prima prevenzione era la persona stessa dell'educa­tore, la sua assoluta dedizione.

«Ho promesso a Dio che fino l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani - diceva don Bosco. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita»
«Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e not­te mattina e sera, in qualunque momento».

La prevenzione comincia a questo livello di dedizione totale del­ educatore, dedizione che don Bosco intendeva nei termini più con­creti possibili, fino a esigere che anche i direttori delle sue case stes­sero in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi: doveva­no essere visibili, percepibili, incontrabili, familiari.
Allora, in un regime educativo fondato sull'autoritarismo, era una vera e propria rivoluzione, un'impostazione capovolta. La disci­plina non doveva essere ottenuta col castigo, ma con la persuasione e non aveva bisogno di «schieramenti»: non aveva cioè come ideale la fila ben ordinata, ma l'assembramento intorno all'educatore.
Il corrispondente di un giornale francese (Pèlerin) nel 1883 scris­se in un suo articolo:
« Noi abbiamo visto questo sistema in azione. A Torino gli stu­denti formano un grosso collegio, in cui non si conoscono file, ma da un luogo all'altro si va a mo' di famiglia. Ogni gruppo circonda un insegnante, senza chiasso, senza irritazione, senza contrasti. Abbia­mo ammirato le facce serene di quei ragazzi né ci potevamo trattene­re dall'esclamare: qui c'è il dito di Dio! ».

L'allegria doveva essere la molla naturale che agganciava il so­prannaturale: «Devi sapere - spiegava il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato - che qui facciamo consistere la santi­tà nello stare molto allegri».
L'imposizione doveva essere abolita anche là dove era consacra­ta dall'uso e dall'importanza della questione: allora non c'era am­biente educativo giovanile in cui non fossero obbligatorie la confes­sione e la comunione.
Don Bosco confessava e comunicava tutti i ragazzi, ma nessuno era tenuto a farlo. Anzi raccomandava sempre di non annoiarli con gli obblighi. Solo incoraggiarli. Semplicemente gli dimostrava che, senza la pace del cuore, non potevano essere veramente felici, vera­mente ragazzi.
D'altra parte don Bosco era profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza «religione», non è possibile educare.
«L'educazione, diceva, è cosa del cuore e Dio solo ne è il padro­ne e non potremo riuscire a niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiungeva: «Soltanto il cattolico può con succes­so applicare un metodo preventivo».

Riusciva a convincere di questo perfino qualche protestante che andava a trovarlo per imparare. Le espressioni che possono sembrare «intolleranti» fanno parte appunto di quell’«idea» totalizzante che fa un vero educatore. L'idea che don Bosco ha dell’educatore è totale, totale l'idea della sua attività, totale l’idea del bisogno educativo.
Non c'è un aspetto che egli ritenta di dover trascurare o che sia indegno dell'educatore, sia che si tratti di far da mangiare, o di tagliare un abito, o partecipare a un gioco o insegnare un mestiere, o istruite, o far musica, o pregare o predicare, o confessare, o dare l’eucaristia.
Nel 1884, quando il santo era ancora vivente usci una biografia di don Bosco, scritta da un autore francese. Diceva: « Fino ad ora i fondatori di Congregazioni e di Ordini religiosi si sono proposti un fine speciale in seno alla Chiesa essi vi hanno praticato la legge che gli economisti moderni chiamano la legge della spartizione del lavoro. Don Bosco sembra aver concepito I’idea di far compiere alla sua umile comunità tutto il lavoro ».

Ragione, religione, amorevolezza era il trinomio su cui don Bo­sco intendeva fondare la sua opera preventiva.
All'educando bisognava offrire tutto intero lo spazio della vita. Soprattutto - amorevolezza aveva una connotazione particolare. Si può infatti amare molto e combinare poco.
Scriveva in una sua celebre lettera da Roma, nel 1884: «Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato nel corso di ben quarant'anni e quanto tollero e soffro anche adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, case, maestri, e specialmente per procurare la salute delle loro malattie.
Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l'af­fetto di tutta la mia vita... Che cosa ci vuole ancora dunque?».
E la risposta era: «Che i giovani non solo siano amati ma che es­si stessi sappiano di essere amati».

Ai tempi di don Bosco ciò era talmente vero che un suo ragaz­zo - divenuto adulto - rispondeva a chi lo interrogava: «Noi viveva­mo d'affetto».
Questa è la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile: «Un amore che si esterna in parole, atti e perfino nell'espressione degli occhi e del volto».
E questo esige un'ascesi profonda, un coinvolgimento totale o quotidiano.
Nel 1883 andò a trovarlo un pretino lombardo, incuriosito di ciò che sentiva dire di lui. Diventerà Papa Pio XI, colui che proclamerà «Santo» don Bosco.
Dovette aspettare, perché don Bosco aveva radunato i direttori delle sue case e parlava con loro. Intanto il pretino osservava. Quasi cinquant’anni dopo - ormai Papa - raccontava così quel!' incontro:
« C'era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà chi con un'altra. Ed egli in piedi come se fosse una cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la paro­la esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili ».

Ma questa era appunto una capacità educativa - su di sé e sugli altri - divenuta ormai santità.
Negli ultimi mesi si trascinava a fatica: «Dove andiamo, don Bo­sco?» gli dicevano. Rispondeva: «Andiamo in Paradiso»

Fu proclamato Santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934.
E fu il primo Santo della storia per il quale, il giorno dopo la ca­nonizzazione, anche la Stato tenne una celebrazione in Campidoglio con discorso del ministro della Pubblica Istruzione.
Era anche questo un riconoscimento di come ormai don Bosco appartenesse a tutti. Fino a oggi. 
da :http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/santi/donbosco.htm

 

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