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martedì 7 febbraio 2012

Don Gnocchi

La felicità del mondo
***
«Diceva don Gnocchi, che alla sofferenza altrui ha dedicato la vita, che la felicità del mondo è data dal dolore umano offerto a Dio. Tale offerta è chiave di volta per il senso dell’universo». don Luigi Giussani nel libro “Perché la Chiesa. Il segno efficace del divino nella storia”.

Postato da: giacabi a 08:15 | link | commenti
don gnocchi

domenica, 02 gennaio 2011
L'amore
***
L'amore è la più benefica, universale e santa di tutte le forze naturali, per la quale l'uomo può evadere dalla clausura dell'io per donarsi, e diventare fonte viva e luminosa di altre vite nel mondo.
(Don Gnocchi)

Postato da: giacabi a 20:19 | link | commenti
don gnocchi, amore

giovedì, 26 agosto 2010

DON GNOCCHI/ Quell'uomo
che ha dato un volto alla sofferenza


 

giovedì 26 agosto 2010

Tante volte i giornalisti, noi giornalisti, usiamo la semplificazione e scriviamo: Meeting di Cl. Ma sono molte le cose a Rimini che non c’entrano con Comunione e Liberazione e tuttavia sono testimonianza di storie e valori di un Cristianesimo vissuto. E per fortuna, verrebbe da dire.
Una di queste è certamente la mostra dedicata a don Carlo Gnocchi (come anche sarebbe da portare in tutte le scuole italiane quella su Don Bosco nel 150esimo dell’unità d’Italia!), proclamato recentemente Beato e vero gigante del secondo dopoguerra italiano.
La mostra al Meeting fa ripercorre passo passo la vita straordinaria di un prete partito cappellano in Russia nel 1942 con i nostri alpini e da allora diventato uno straordinario operatore di carità nei confronti degli ultimi. Ultimi che cambiano, che hanno diverse esigenze e a cui la scienza e la modernità possono dare molto.
 
Così prima si occupa degli alpini stessi e degli orfani che lasciano nelle loro case. Da qui i bambini rovinati dagli ordini di guerra, i mutilatini, anch’essi vittime totalmente innocenti di un conflitto che non vuole finire. Poi gli handicappati in genere, ma soprattutto i poliomielitici che a un certo punto diventano “un’ossessione”.
Oggi (perché la fondazione don Gnocchi è una realtà che tanti italiani conoscono) i disabili gravissimi, le persone in coma o in stato vegetativo. Tutto il suo carisma nasce dall’impatto terribile, durante la ritirata di Russia, col dolore innocente, come lui lo chiama.
 
Che senso hanno le morti di quei ragazzi? Che senso ha la sofferenza di un bambino devastato da una bomba mentre gioca? Don Carlo arriva ad una specie di fondo della questione, sente la vertigine. “Veder”, come scrive, “l’anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla morte”. Ma durante la guerra, rischiando di morire lui stesso, percepisce che la vita gli viene “prorogata” per un compito.
E alla vista di un alpino morente, ha l’illuminazione che cambierà la sua vita: “La memoria esatta dell’irrevocabile incontro mi guidò d’istinto a scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore”. L’esperienza lo segna in modo definitivo. “Ora quelle promesse mi impegnano come una cambiale firmata davanti a Dio”, scrive al cardinal Schuster.
Don Carlo, faccia aguzza anni Cinquanta, alto coi capelli indietro, che lo fa somigliare al giovane Primo Levi, terremota Milano e la Brianza, coi suoi bambini mette a soqquadro mass media e Chiesa ambrosiana, facendosi anche rimproverare per la sua “irrequietezza”. Ma non molla, lotta come un leone per i suoi bambini, anche con un grande genio creativo. Scomoda il Quirinale e Vittorio De Sica. Si fa regalare una Vespa, organizza la prima Freccia Rossa (altro che Alta Velocità) con un motorino Guzzi da 65 cavalli che arriva fino ad Oslo, mobilita i giornali popolari.
Sempre per raccogliere i fondi. Ed è modernissimo. Ai suoi superiori scrive (la lettera è nella Mostra) che non vuole per questi bambini “ricoveri di carità”. Mitico nella sua schiettezza. Vuole solo il meglio del meglio della scienza, della chirurgia, della fisioterapia, della riabilitazione.
Fa giocare i mutilatini a pallone con le stampelle. Fa scrivere e leggere i ciechi. Per lui sono uomini a tutti gli effetti, non oggetti di compassione. Da morto romperà il tabù cattolico del trapianto degli organi, donando le sue cornee a due bambini ciechi, portando tutta la Chiesa sulla strada giusta. Da vivo scriverà a una sua collaboratrice che vede troppa burocrazia nelle tante opere generate, cioè “disinteresse e distacco”.
Mentre chiede di tornare alla poesia iniziale: “E’ una cosa che solo si spiega con la divina Provvidenza, per quanto riguarda la parte di Dio e con la nostra passione, per quanto riguarda la parte degli uomini”. Provvidenza e passione. Binomio lombardo, pratico e dunque poetico.

Postato da: giacabi a 17:27 | link | commenti
don gnocchi

domenica, 13 dicembre 2009

Il santo don Gnocchi
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http://www.cinziathtorrini.com/italiano/images/stories/DonGnocchi/don%20gnocchi%20con%20bambini.jpg
Che cosa ha provato nel vedere don Gnocchi (il prete che ha celebrato il suo matri­monio) proclamato beato?
«Me l’aspettavo, fin da prima che morisse! Ho conosciuto almeno due santi 'massicci' – oltre  a certe figure minori del popolo: don Gnocchi e don Giussani. Il primo, avendoci a che fare, lo dicevano tutti: quello lì è un santo! Me lo ricordo... Mi sgridava perché a trent’anni non ero ancora spo­sato. Una volta alla Stazione centrale, a­vendolo intravisto mentre prendeva il treno, l’ho inseguito: 'Don Carlo, adesso è venuto il momento. Ma non posso certo pretendere che venga lei a celebrare il matrimonio fino in Umbria'. Invece ha tirato fuori un taccuino, come quello che usava in Russia per annotare i nomi dei morti e poi comunicarli ai parenti, e ha segnato la data. La notte prima del matrimonio, passeggiavo con lui e i miei due testimoni per le strade di Assisi: era elettrizzato perché in Francia avevano scoperto un metodo di chirurgia plastica per correggere i difetti del viso. Era un sistema che avrebbe dovuto interessare le dive del cinema, ma lui era saltato sul treno, era andato a Parigi e aveva convinto i responsabili della clinica a operare anche i suoi mutilatini, soprattutto le femmine: 'Io le mie bambine le voglio tutte belle', diceva. Questo era don Carlo».
di Luigi Mascheroni
Tratto da Il Giornale dell'11 dicembre 2009  Intervista a Eugenio Corti

Postato da: giacabi a 13:35 | link | commenti
don gnocchi

sabato, 24 ottobre 2009
Il cristianesimo di Don Gnocchi
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Renato Farina                             da: ilsussidiario.net
venerdì 23 ottobre 2009
Sarà bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo. Consola sapere che la Chiesa, esperta in umanità, ha visto e approva, dopo che Dio concedendo il miracolo ha detto di sì. Interessante anche il tipo di miracolo. Un elettricista brianzolo che lavorava da volontario a un centro per disabili a Inverigo ed è rimasto folgorato, impossibile sopravvivere. Ma la folgore non lo ha ucciso avendo egli invocato istantaneamente don Gnocchi.Prima dell’incarnazione di Dio in Gesù non si poteva vedere Dio senza morire, ora invece lo si può guardare, contemplare nel volto dei santi. Il cristianesimo di don Gnocchi è questo: una folgore che invece di uccidere dona la vita, dentro la vita, dentro il dolore, il marcio della condizione umana, dentro le cose normali. La folgore di una umanità diversa.Per chi non abbia tempo di leggere le biografie a lui dedicate, ecco un riassunto. Carlo nasce nel 1902 a San Colombano al Lambro, nella Bassa. Il padre muore quando ha cinque anni di silicosi, era operaio marmista. La mamma si trasferisce a Milano, i suoi fratelli sono uccisi dalla tbc. A questo punto Carlo si fa brianzolo, a Montesiro incontra un sacerdote che lo affascina, va in seminario, è prete a 23 anni. Quindi l’oratorio, l’educazione dei ragazzi. Infine è alpino. Se i suoi studenti, amici e fratelli vanno in guerra lui è lì con loro, non obietta, parte, odiando la guerra, ma lì. Va nei Balcani, poi in Russia. Tra i soldati, uno di loro, però testimone di una Presenza straordinaria. La purezza della castità, contento di essere prete, senza astrarsi, senza fuggire dalla sporcizia e dal sangue. Anche in battaglia. La famosa battaglia di Nikolaevka.Nel suo libro “Cristo con gli alpini” scrisse: «In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari emersi dalle profondità dell'essere». Amare questi uomini come Cristo, amico senza giudicarli, senza escluderli perché preda degli “istinti più elementari”, nessuno scandalo, perché l’uomo nel dolore e nella malattia è salvato. Ritorna. Ha ricevuto le confidenze dei morti, le lettere. Gira per l’Italia a portare alle famiglie notizie tragiche di persone che ha visto morire. Si prende cura degli orfani. Poi si dà da fare per i bambini mutilati dalla guerra e ancora falcidiati dalle bombe abbandonate. Mette su istituti (la “Pro Juventute”), si fa tutto a tutti, specie con i bambini perché consegnino le loro sofferenze a Gesù.
Prende sul serio i bambini, non li considera bambole di pezza parlanti. Sa che anch’essi cercano il senso della vita, e persino il loro dolore assurdo trova senso sul costato del Crocifisso (e Risorto). Le opere si moltiplicano. Il riconoscimento dei politici non manca; ancor oggi Giulio Andreotti, che ebbe da De Gasperi l’incarico di sostenerlo nelle varie iniziative, dice di lui: «Non gli si dirà mai grazie abbastanza». Don Carlo si consuma. Ha il volto bianco come la neve.A proposito di neve. A me resta impressa questa frase: «Com'è bello giocare con la neve quando è pulita e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando sono bianche e pulite; ma se diventano sporche a Gesù non piacciono più…». Cosa colpisce? Egli sa che esiste la libertà, gli uomini possono dire sì o no, anche quando sono bambini. La drammaticità dell’esistenza umana inizia presto. E per questo c’è bisogno di adulti che rischino tutto per i loro ragazzi, i quali si affidino a loro volta al maestro, dentro un’affezione che corrisponde al bisogno del cuore.Egli, magro, consumato, felice, morì a 54 anni dicendo: «Grazie di tutto». Lo diceva a Dio, lo diceva agli amici, ai bambini, agli alpini, a noi. Nelle varie polemiche che si sono susseguite in questi anni (ma durano da secoli) a proposito della risposta cristiana al mistero del dolore innocente, la risposta di don Gnocchi all’enigma è bianca come la neve e rossa come il sangue di Cristo. E si scusi l’immagine un po’ ardita, ma in fondo Gnocchi era ardito e ardente. Egli sapeva che quel dolore dei bambini, perché non fosse buttato via, andava versato nella mano del Signore, ma nel far questo ha fatto di tutto per lenirlo, per combatterlo. Se uno vuol bene dice: “donna non piangere!”, come Gesù alla vedova di Naim.
Negli ospedali di don Gnocchi, nelle sue case, non si lesinavano denari per acquistare le migliori tecnologie per estirpare il dolore, per consentire di camminare meglio ai mutilati. È stato il primo a donare le sue cornee per consentire a due ciechi di vedere, anticipando la legge con il suo gesto profetico. Altro che oscurantismo cattolico o dolorismo sadico. Tutto per Cristo e per gli uomini. Perché i bambini si immedesimino in Lui, e anche gli adulti siano pienamente uomini come Lui. Disse: «Cristo vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente umana».
Aveva visto l’orrore in guerra, l’istinto belluino, quello di vivere anteposto a tutto, nel gelo russo. Eppure don Carlo anche lì riuscì a essere - e la sua testimonianza vale tuttora - “seminatore di speranza”, secondo la definizione per lui coniata da Giovanni Paolo II. Il destino è buono. L’uomo è capace di male, ma è più forte la grazia.
Diceva: «L’ultima parola spetta sempre al bene». E si rivolgeva sempre, nel buio e nella melma, alla «Madre tenerissima, mediatrice di Grazia». Per questo è bello che sia stato fatto Beato, e la sua faccia lunga e lieta appaia sul grande stendardo domenica in Piazza Duomo a Milano, sotto la Madonnina d’oro.

Postato da: giacabi a 21:13 | link | commenti (2)
santi, don gnocchi

sabato, 10 ottobre 2009
L’educatore,
uomo della speranza
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Brani di don Carlo Gnocchi sull'educazione
La vita non si inventa né si improvvisa con un atto di volontà, sincero ed eroico finché si vuole; la vita si costruisce, come una casa, pietra su pietra, atto per atto, giorno per giorno. Niente d’improvviso nella natura.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Se ricostruire bisogna, la prima e fondamentale di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità. Bisogna rifare l’uomo. Senza questo, è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa che, fra poco, egli stesso distruggerà con le proprie mani dissennate.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)

Costruire non è tutto, bisogna difendere l’opera delle proprie mani [...]. L’educatore è l’uomo della speranza secondo il grido vittorioso di Cristo nella notte della passione.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)

Al giovane va proposto “un ideale”, e non solo “un’idea”, anche «se in un mondo accanitamente in lotta per la vita, è inesorabilmente handicappato chi vuol fare della poesia».
(da C. Gnocchi, L’aratro e la stella, in Problemi giovanili, n. 38)

Perché considerare l’educando semplicemente come un soggetto passivo dell’educazione? L’educando è un vivente. Come tale non può assimilare virtù e verità se non con un processo vitale e quindi eminentemente attivo. L’educazione è un’opera di collaborazione tra l’educatore e l’educando, perché il ragazzo non è una “cosa”, ma una “persona”.
(da C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, La Scuola 1956)

Come è tetra l’aria di certi ambienti educativi! Non vi risuonano che allarmi, non brillano nel buio che occhi di semafori rossi… Nulla è più deprimente sull’animo giovanile di queste apocalissi. Anche perché nulla è più falso. Bisogna spalancare le finestre dell’anima al più solare ottimismo.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Bisogna far sentire ai giovani che i buoni non sono pochi, che la virtù esiste ancora, anche se nascosta - anzi appunto perché nascosta - bisogna dar loro il senso corroborante della solidarietà nel bene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

L’educazione dell’amore non è una lezione scolastica che si possa impartire in un’ora o in parecchie ore di insegnamento, assisi cattedraticamente in poltrona, col piccino seduto compostamente dinanzi. Non è una lezione di astronomia né un itinerario di viaggio. È l’educazione di tutto l’uomo e la vita appena può bastare a iniziarla.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Forse pochi educatori conoscono l’alto potenziale di sacrificio che spesso rimane latente nei giovani. Temono di esigere troppo… Bisogna battere al cuore dei giovani con fermo coraggio, senza il dubbio di Mosè dinanzi alla rupe dell’acqua viva. Bisogna chiedere il tutto per tutto. Solo così si ottiene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Se la formazione delle menti e delle coscienze giovanili nella scuola moderna, fatta oggi per necessità e quasi totalmente con opera collettiva, non è completata da un’educazione e istruzione strettamente individuale e personale, affidata alla scienza e all’educazione di un maestro… se inoltre la parte dello studio mnemonico e della cultura passiva, che deve pur stare alla base di ogni testa ben fatta, non è completata e ravvivata da un lavoro di ricerca personale, dallo stimolo all’esercizio delle tendenze individuali, la scuola finisce per diventare una monotona matrice di figurini umani e una macchina rotativa per la stampa di diplomati e laureati.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)

È strettamente indispensabile una larga e profonda scienza del composto umano e una viva conoscenza psicologica del giovane e specialmente del giovane moderno... E chi ha letto anche solo il Carrel o il Biot sa quale mistero si nasconda sotto queste espressioni apparentemente semplici e quale intreccio di interferenze leghi e fonda in una unità sostanziale la vita del corpo e la vita dell’anima. L’unione e la compenetrazione dei due principi è tanto intima e completa che nulla vi è nell’uomo che sia esclusivamente spirituale e nulla che sia puramente fisico.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)

I ribelli presentano i casi pedagogicamente più interessanti. Dalle volontà forti e personali sono sempre balzati gli uomini grandi della storia civile e religiosa, i cavalieri dell’ideale, i santi, i condottieri ed i genii. Bisogna però di cercare di piegarli all’obbedienza senza violenza. Disgustare questi caratteri significa spesso allontanare dei soggetti che, passata la mattana giovanile, finiscono di solito per diventare i giovani più ardenti e generosi.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)

Mai come oggi si è acutizzata la crisi del carattere. C’è attorno, nella gioventù moderna, un’aria di conformismo livellatore e di incoscienza festaiola da asfissiare. Bisogna formare uomini di carattere. Anche lo Stato lo vuole.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)

L’uomo ridotto dalla categoria di fine a quello di strumento e di mezzo per il trionfo di una economia o di una razza o di una classe sociale o peggio di un dittatore paranoico... L’uomo è qualcosa di assoluto, che esige un rispetto incondizionato e perciò non può essere mai ridotto a rango di un mezzo, essendo egli stesso un fine per tutto l’universo, materiale e biologico, che sta sotto di lui e che a lui è stato ordinato. Col valore dell’uomo crollano tutti i valori della vita umana.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)
da: www.tracce.it 10/09

Postato da: giacabi a 09:04 | link | commenti
educazione, don gnocchi

domenica, 13 settembre 2009
CHIESA/
 Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità
Stefano Zurlo
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Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.
La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.
Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.
Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».
La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.
Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.
Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.

Postato da: giacabi a 14:42 | link | commenti
don gnocchi

venerdì, 25 gennaio 2008
Testimonianze
Don Gnocchi
  Poi, nelle steppe russe, accade ciò che il vostro libro definisce come il disincantamento...

I mutilatini del Centro di Don Gnocchi in una immagine del dopoguerra
     RUMI: Sempre per seguire i suoi giovani, il pezzo di popolo di Dio che gli è stato affidato, il cappellano Gnocchi si trova insieme agli alpini “là dove si muore”: in Albania, Grecia, Montenegro, Polonia, Ucraina, fino alla campagna di Russia. L’impresa, all’inizio, gli appare giustificabile con motivi patriottici e religiosi: i russi sono comunisti, sono slavi e non sono cattolici. Ma nelle campagne russe si imbatte in povere genti contadine cristiane come lui, che non mostrano alcun trasporto per l’ideologia bolscevica, e che la guerra condanna a una vita fatta di miserie, sofferenze e morte. Le stesse che riserva agli alpini decimati dal gelo e dalle battaglie. È lì che vengono spazzati via tutti gli orpelli ideologici, e la condizione umana si rivela nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola: crudeltà, egoismi, dolore senza ragione. Scrive don Gnocchi nel libro Cristo con gli alpini: «Ho visto contendersi il pezzo di pane e di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte come il naufrago alla tavola di salvezza… Ho visto un uomo sparare nella testa del suo compagno che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto e dormire…». Egli stesso si salva dalla morte per freddo in maniera fortuita. Un tenente medico, riconoscendolo in mezzo alla colonna di disperati che si trascina nella neve durante la ritirata, lo carica quasi a forza su una slitta.
      Quale effetto ha questo impatto duro sulla vicenda umana e cristiana di don Gnocchi?
      RUMI: Lì tutto viene ricondotto alla realtà nuda. Anche la fede. Svanite le teorie astratte sulla civiltà cristiana, le sovrastrutture ideologiche, le aure gladiatorie, emerge che l’unica cosa reale, che agisce, è la tenerezza di Gesù stesso verso gli uomini afflitti e bisognosi di salvezza. E siccome, come dice il cardinal Biffi, gli angeli non hanno le mani, le mani del Signore diventano le opere di carità di chi crede in Lui. È sul fronte che prende corpo la sua vocazione. Nel settembre 1942 scrive a un suo cugino: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera».
De Gasperi, presidente del Consiglio, all'inaugurazion del Centro a Roma nel 1950
      Perché la sua opera si rivolge proprio ai mutilatini?
      RUMI: C’è, forse, nella scelta di don Gnocchi, un desiderio di espiazione della colpa storica di aver seguito il fascismo per un tratto non piccolo. Nell’Italia del dopoguerra c’è una pulsione generale di ripresa, una voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le sofferenze. Ma il dolore innocente dei mutilatini è tagliato fuori anche da questo flusso. Appare senza possibilità di riscatto. Rimangono ai bordi della strada, come testimoni muti e dimenticati che portano per sempre impressi nella propria carne gli effetti del disastro di tutta una generazione. Alla fine della guerra ottiene di essere nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Così descriverà le impressioni avute nel suo incontro con Bruno, il primo ragazzo mutilato ospitato presso quella struttura: «Le sue lacrime e il suo sangue mi accusano insopportabilmente. Quando noi si farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza egli non chiedeva che di vivere e di giocare un poco».
      Don Gnocchi parla di educazione al dolore. Dopo la creazione della Federazione pro infanzia mutilata, una delle sue iniziative sarà quella delle settimane del dolore. In queste formule non c’era il rischio di un certo “dolorismo”?
      RUMI: È il contrario. Don Gnocchi vede bene che il dolore, di per sé, rende cattivi. Inaridisce. Spegne i volti e i cuori. Racconta egli stesso, come una delle sue esperienze più decisive, l’incontro con Marco, un mutilatino che era saltato su una mina e a cui erano state amputate le gambe. Don Carlo gli chiese: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». E lui rispose: «A nessuno». La sua opera di carità partiva proprio dallo sgomento davanti all’“irreparabile sciagura” del dolore innocente che si perde nel vuoto. E dall’esperienza fatta tante volte di come la grazia di Gesù poteva prendere in braccio i poveri e i sofferenti che da soli si sarebbero perduti, redimendo misteriosamente anche il loro dolore. Come scrive don Gnocchi, «la redenzione di Cristo deve estendere i suoi benefici anche alle conseguenze materiali della colpa originale e perciò deve mirare anche a sanare o almeno attenuare il dolore fisico e combatterne tutte le cause. Sanare il dolore non è allora soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo». Tutta la vita di don Gnocchi è una lotta al dolore. Per questa ragione giungerà a occuparsi di meccanica, di leghe metalliche, di marchingegni tecnologici. A servirsi di tutti i ritrovati messi a disposizione dalla più avanzata ricerca tecnica e medico-sanitaria.
      Il suo vescovo, il cardinale Schuster, aveva qualche riserva sulle scelte di don Gnocchi…
      EDOARDO BRESSAN: Schuster era un padre che considerava don Gnocchi un figlio un po’ irrequieto. Il vescovo aveva su di lui un progetto diverso. Pensava di affidargli una parrocchia, e che tutte le sue esperienze avrebbero ben potuto confluire in un ministero parrocchiale ordinario, quello di tutti gli altri preti ambrosiani. Ma per don Gnocchi la parrocchia era la sua opera per i mutilatini, quella che chiamava «la mia baracca». Non era facile resistere al vescovo benedettino con quel cognome così tedesco. Ma alla fine Schuster lasciò fare, e benedì i frutti inattesi di quella grande Opera.
      Nel dopoguerra, l’Opera per l’infanzia mutilata (che dal 1951 diventa Fondazione pro iuventute) assume rilevanza nazionale nel settore dell’assistenza. Riceve finanziamenti dal governo. C’è anche qualche bisticcio con chi vuole preservare il carattere statale degli istituti di cura.
      BRESSAN: Le difficoltà si superarono senza troppe guerre ideologiche. Le disposizioni giuridiche tendevano a ribadire un controllo pubblico del settore, ma nell’attuazione pratica la legge stessa diventò lo strumento per riconoscere alla Pro juventute la leadership di fatto nella gestione del problema. In don Gnocchi non c’era alcuna animosità o competizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Lui cercava il loro sostegno, e il governo De Gasperi appoggiò con decisione l’inizio della sua impresa. Nella sua vicenda ci fu una collaborazione e compenetrazione concreta tra pubblico e privato vantaggiosa per lo Stato. In termini attuali, fu un caso esemplare di applicazione del criterio della sussidiarietà.
Don Gnocchi in Russia
      Insomma, la carità fa bene anche allo Stato…
      BRESSAN: Don Gnocchi diceva: «Non si può fare la carità in carta da bollo. Ma lo Stato ci costringe spesso a fare questo». Nell’Istituto grandi invalidi di Arosio, don Gnocchi aveva visto negli adulti mutilati durante la guerra gli effetti negativi della “burocratizzazione del dolore”. Descriveva così la situazione: «Il dannunzianesimo e il fascismo hanno lasciato in eredità a queste anime sofferenti (più di 600mila) uno spirito esasperato, esaltato, pretenzioso soltanto di diritti, inquieto e senza consolazione». Sperava che ai mutilatini non toccasse la stessa sorte. E secondo lui solo chi era mosso dalla carità cristiana poteva aiutarli a non ripiegarsi e incattivirsi. «Noi» scriveva «non vogliamo assolutamente che diventino come sono spesso gli altri, degli esosi il cui scopo principale della vita è quello di mirare al 27 del mese per far coda impaziente davanti agli sportelli delle pensioni contando avaramente il denaro ricevuto e bestemmiando il governo. Vogliamo farne degli uomini superiori, capaci di far dono del tesoro della loro sofferenza a Dio e agli uomini, per la ricchezza di tutti».
      Nel sottotitolo del vostro libro, don Carlo è definito imprenditore della carità
      BRESSAN: In una lettera, una volta, don Gnocchi scrisse: «Io ammiro le persone e le istituzioni che tutto attendono dalla Divina Provvidenza, nulla cercando e nulla rifiutando, ma io non ho la loro Grazia speciale. Nella ricerca dei mezzi per la vita dei miei poveri, io cerco di ispirarmi più a don Bosco che “cercava” che al Cottolengo che “attendeva”». Forse era un paragone un po’ ingiusto per il Cottolengo… ma certo
don Gnocchi ebbe un’energia fantasiosa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e occasioni per far crescere la sua “baracca”. Usava con totale libertà i contatti umani, il mondo dei mass media, le sue entrature con l’alta società lombarda per far affluire fondi e risorse all’Opera. Inventò iniziative come le catene di solidarietà o altre, più spettacolari, come il volo aereo del cosiddetto “Angelo dei bimbi” da Milano a Buenos Aires, o come la collaborazione con Cesare Zavattini nel film Tutti i bambini del mondo: tutto poteva esser utile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei mutilatini. E fu rapido ed efficace anche nel “riconvertire” la sua opera alle nuove situazioni. Man mano che ci si allontanava dalla guerra, e diminuiva il numero dei mutilatini, tutte le case della Pro juventute cominciarono ad ospitare i poliomelitici, e altre categorie di persone bisognose di assistenza…
      Il processo di beatificazione di don Gnocchi ha
superato la sua fase diocesana e adesso è “fermo” a Roma. Il sempre più vasto e vitale mondo del volontariato potrebbe prendere a cuore questa causa…
      BRESSAN: Potrebbe essere un’idea: san Carlo Gnocchi, patrono del volontariato e del no profit…

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