La felicità del mondo
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«Diceva don Gnocchi, che alla sofferenza altrui ha dedicato la vita, che la felicità del mondo è data dal dolore umano offerto a Dio. Tale offerta è chiave di volta per il senso dell’universo». don Luigi Giussani nel libro “Perché la Chiesa. Il segno efficace del divino nella storia”.
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Postato da: giacabi a 08:15 |
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don gnocchi
L'amore
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L'amore è la più benefica, universale e santa di tutte le forze naturali, per la quale l'uomo può evadere dalla clausura dell'io per donarsi, e diventare fonte viva e luminosa di altre vite nel mondo.(Don Gnocchi)
Postato da: giacabi a 20:19 |
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don gnocchi, amore
DON GNOCCHI/ Quell'uomo
che ha dato un volto alla sofferenza
giovedì 26 agosto 2010
Tante
volte i giornalisti, noi giornalisti, usiamo la semplificazione e
scriviamo: Meeting di Cl. Ma sono molte le cose a Rimini che non
c’entrano con Comunione e Liberazione e tuttavia sono testimonianza di
storie e valori di un Cristianesimo vissuto. E per fortuna, verrebbe da
dire.
Una
di queste è certamente la mostra dedicata a don Carlo Gnocchi (come
anche sarebbe da portare in tutte le scuole italiane quella su Don Bosco
nel 150esimo dell’unità d’Italia!), proclamato recentemente Beato e
vero gigante del secondo dopoguerra italiano.
La
mostra al Meeting fa ripercorre passo passo la vita straordinaria di un
prete partito cappellano in Russia nel 1942 con i nostri alpini e da
allora diventato uno straordinario operatore di carità nei confronti
degli ultimi. Ultimi che cambiano, che hanno diverse esigenze e a cui la
scienza e la modernità possono dare molto.
Così
prima si occupa degli alpini stessi e degli orfani che lasciano nelle
loro case. Da qui i bambini rovinati dagli ordini di guerra, i
mutilatini, anch’essi vittime totalmente innocenti di un conflitto che
non vuole finire. Poi gli handicappati in genere, ma soprattutto i
poliomielitici che a un certo punto diventano “un’ossessione”.
Oggi
(perché la fondazione don Gnocchi è una realtà che tanti italiani
conoscono) i disabili gravissimi, le persone in coma o in stato
vegetativo. Tutto il suo carisma nasce dall’impatto terribile, durante
la ritirata di Russia, col dolore innocente, come lui lo chiama.
Che
senso hanno le morti di quei ragazzi? Che senso ha la sofferenza di un
bambino devastato da una bomba mentre gioca? Don Carlo arriva ad una
specie di fondo della questione, sente la vertigine. “Veder”, come
scrive, “l’anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al
dolore, al pericolo e alla morte”. Ma durante la guerra, rischiando di
morire lui stesso, percepisce che la vita gli viene “prorogata” per un
compito.
E alla vista di un alpino morente,
ha l’illuminazione che cambierà la sua vita: “La memoria esatta
dell’irrevocabile incontro mi guidò d’istinto a scoprire i segni
caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di
ogni uomo percosso e denudato dal dolore”. L’esperienza
lo segna in modo definitivo. “Ora quelle promesse mi impegnano come una
cambiale firmata davanti a Dio”, scrive al cardinal Schuster.
Don
Carlo, faccia aguzza anni Cinquanta, alto coi capelli indietro, che lo
fa somigliare al giovane Primo Levi, terremota Milano e la Brianza, coi
suoi bambini mette a soqquadro mass media e Chiesa ambrosiana, facendosi
anche rimproverare per la sua “irrequietezza”. Ma non molla, lotta come
un leone per i suoi bambini, anche con un grande genio creativo.
Scomoda il Quirinale e Vittorio De Sica. Si fa regalare una Vespa,
organizza la prima Freccia Rossa (altro che Alta Velocità) con un
motorino Guzzi da 65 cavalli che arriva fino ad Oslo, mobilita i
giornali popolari.
Sempre per raccogliere i fondi. Ed è modernissimo. Ai suoi superiori
scrive (la lettera è nella Mostra) che non vuole per questi bambini
“ricoveri di carità”. Mitico nella sua schiettezza. Vuole solo il meglio
del meglio della scienza, della chirurgia, della fisioterapia, della
riabilitazione.
Fa
giocare i mutilatini a pallone con le stampelle. Fa scrivere e leggere i
ciechi. Per lui sono uomini a tutti gli effetti, non oggetti di
compassione. Da morto romperà il tabù cattolico del trapianto degli
organi, donando le sue cornee a due bambini ciechi, portando tutta la
Chiesa sulla strada giusta. Da vivo scriverà a una sua collaboratrice
che vede troppa burocrazia nelle tante opere generate, cioè
“disinteresse e distacco”.
Mentre
chiede di tornare alla poesia iniziale: “E’ una cosa che solo si spiega
con la divina Provvidenza, per quanto riguarda la parte di Dio e con la
nostra passione, per quanto riguarda la parte degli uomini”.
Provvidenza e passione. Binomio lombardo, pratico e dunque poetico.
Postato da: giacabi a 17:27 |
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don gnocchi
Il santo don Gnocchi
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Che cosa ha provato nel vedere don Gnocchi (il prete che ha celebrato il suo matrimonio) proclamato beato?
«Me l’aspettavo, fin da prima che morisse! Ho conosciuto almeno due santi 'massicci' – oltre a certe figure minori del popolo: don Gnocchi e don Giussani. Il primo, avendoci a che fare, lo dicevano tutti: quello lì è un santo! Me lo ricordo... Mi sgridava perché a trent’anni non ero ancora sposato. Una volta alla Stazione centrale, avendolo intravisto mentre prendeva il treno, l’ho inseguito: 'Don Carlo, adesso è venuto il momento. Ma non posso certo pretendere che venga lei a celebrare il matrimonio fino in Umbria'. Invece ha tirato fuori un taccuino, come quello che usava in Russia per annotare i nomi dei morti e poi comunicarli ai parenti, e ha segnato la data. La notte prima del matrimonio, passeggiavo con lui e i miei due testimoni per le strade di Assisi: era elettrizzato perché in Francia avevano scoperto un metodo di chirurgia plastica per correggere i difetti del viso. Era un sistema che avrebbe dovuto interessare le dive del cinema, ma lui era saltato sul treno, era andato a Parigi e aveva convinto i responsabili della clinica a operare anche i suoi mutilatini, soprattutto le femmine: 'Io le mie bambine le voglio tutte belle', diceva. Questo era don Carlo». |
Postato da: giacabi a 13:35 |
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don gnocchi
Il cristianesimo di Don Gnocchi
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Renato Farina da: ilsussidiario.net
venerdì 23 ottobre 2009
Sarà
bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto
per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo. Consola sapere
che la Chiesa, esperta in umanità, ha visto e approva, dopo che Dio
concedendo il miracolo ha detto di sì. Interessante anche il tipo di
miracolo. Un elettricista brianzolo che lavorava da volontario a un
centro per disabili a Inverigo ed è rimasto folgorato, impossibile
sopravvivere. Ma la folgore non lo ha ucciso avendo egli invocato
istantaneamente don Gnocchi.Prima dell’incarnazione di Dio in Gesù non
si poteva vedere Dio senza morire, ora invece lo si può guardare,
contemplare nel volto dei santi. Il cristianesimo di don Gnocchi è
questo: una folgore che invece di uccidere dona la vita, dentro la vita,
dentro il dolore, il marcio della condizione umana, dentro le cose
normali. La folgore di una umanità diversa.Per chi non abbia tempo di
leggere le biografie a lui dedicate, ecco un riassunto. Carlo nasce nel
1902 a San Colombano al Lambro, nella Bassa. Il padre muore quando ha
cinque anni di silicosi, era operaio marmista. La mamma si trasferisce a
Milano, i suoi fratelli sono uccisi dalla tbc. A questo punto Carlo si
fa brianzolo, a Montesiro incontra un sacerdote che lo affascina, va in
seminario, è prete a 23 anni. Quindi l’oratorio, l’educazione dei
ragazzi. Infine è alpino. Se i suoi studenti, amici e fratelli vanno in
guerra lui è lì con loro, non obietta, parte, odiando la guerra, ma lì.
Va nei Balcani, poi in Russia. Tra i soldati, uno di loro, però
testimone di una Presenza straordinaria. La purezza della castità,
contento di essere prete, senza astrarsi, senza fuggire dalla sporcizia e
dal sangue. Anche in battaglia. La famosa battaglia di Nikolaevka.Nel suo libro “Cristo con gli alpini” scrisse: «In
quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo
nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più
grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli
istinti più elementari emersi dalle profondità dell'essere». Amare
questi uomini come Cristo, amico senza giudicarli, senza escluderli
perché preda degli “istinti più elementari”, nessuno scandalo, perché
l’uomo nel dolore e nella malattia è salvato. Ritorna. Ha ricevuto le
confidenze dei morti, le lettere. Gira
per l’Italia a portare alle famiglie notizie tragiche di persone che ha
visto morire. Si prende cura degli orfani. Poi si dà da fare per i
bambini mutilati dalla guerra e ancora falcidiati dalle bombe
abbandonate. Mette su istituti (la “Pro Juventute”), si fa tutto a
tutti, specie con i bambini perché consegnino le loro sofferenze a Gesù.
Prende
sul serio i bambini, non li considera bambole di pezza parlanti. Sa che
anch’essi cercano il senso della vita, e persino il loro dolore assurdo
trova senso sul costato del Crocifisso (e Risorto). Le opere si
moltiplicano.
Il riconoscimento dei politici non manca; ancor oggi Giulio Andreotti,
che ebbe da De Gasperi l’incarico di sostenerlo nelle varie iniziative,
dice di lui: «Non gli si dirà mai grazie abbastanza». Don Carlo si
consuma. Ha il volto bianco come la neve.A proposito di neve. A me resta
impressa questa frase: «Com'è bello giocare con la neve quando è pulita
e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando
sono bianche e pulite; ma se diventano sporche a Gesù non piacciono
più…». Cosa colpisce? Egli sa che esiste la libertà, gli uomini possono
dire sì o no, anche quando sono bambini. La drammaticità dell’esistenza
umana inizia presto. E per questo c’è bisogno di adulti che rischino
tutto per i loro ragazzi, i quali si affidino a loro volta al maestro,
dentro un’affezione che corrisponde al bisogno del cuore.Egli, magro,
consumato, felice, morì a 54 anni dicendo: «Grazie di tutto». Lo diceva a
Dio, lo diceva agli amici, ai bambini, agli alpini, a noi. Nelle varie
polemiche che si sono susseguite in questi anni (ma durano da secoli) a
proposito della risposta cristiana al mistero del dolore innocente, la
risposta di don Gnocchi all’enigma è bianca come la neve e rossa come il
sangue di Cristo. E si scusi l’immagine un po’ ardita, ma in fondo
Gnocchi era ardito e ardente. Egli sapeva che quel dolore dei bambini,
perché non fosse buttato via, andava versato nella mano del Signore, ma
nel far questo ha fatto di tutto per lenirlo, per combatterlo. Se uno
vuol bene dice: “donna non piangere!”, come Gesù alla vedova di Naim.
Negli
ospedali di don Gnocchi, nelle sue case, non si lesinavano denari per
acquistare le migliori tecnologie per estirpare il dolore, per
consentire di camminare meglio ai mutilati. È
stato il primo a donare le sue cornee per consentire a due ciechi di
vedere, anticipando la legge con il suo gesto profetico. Altro che
oscurantismo cattolico o dolorismo sadico. Tutto
per Cristo e per gli uomini. Perché i bambini si immedesimino in Lui, e
anche gli adulti siano pienamente uomini come Lui. Disse: «Cristo
vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare
e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente
umana».
Aveva
visto l’orrore in guerra, l’istinto belluino, quello di vivere
anteposto a tutto, nel gelo russo. Eppure don Carlo anche lì riuscì a
essere - e la sua testimonianza vale tuttora - “seminatore di speranza”,
secondo la definizione per lui coniata da Giovanni Paolo II. Il destino
è buono. L’uomo è capace di male, ma è più forte la grazia.
Diceva: «L’ultima parola spetta sempre al bene».
E si rivolgeva sempre, nel buio e nella melma, alla «Madre tenerissima,
mediatrice di Grazia». Per questo è bello che sia stato fatto Beato, e
la sua faccia lunga e lieta appaia sul grande stendardo domenica in
Piazza Duomo a Milano, sotto la Madonnina d’oro.
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Postato da: giacabi a 21:13 |
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santi, don gnocchi
L’educatore,
uomo della speranza
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Brani di don Carlo Gnocchi sull'educazione
La
vita non si inventa né si improvvisa con un atto di volontà, sincero ed
eroico finché si vuole; la vita si costruisce, come una casa, pietra su
pietra, atto per atto, giorno per giorno. Niente d’improvviso nella
natura.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)
Se ricostruire bisogna, la prima e fondamentale di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna
ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per
conseguirla e una chiara norma di moralità. Bisogna rifare l’uomo.
Senza questo, è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una
casa che, fra poco, egli stesso distruggerà con le proprie mani
dissennate.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)
Costruire
non è tutto, bisogna difendere l’opera delle proprie mani [...].
L’educatore è l’uomo della speranza secondo il grido vittorioso di
Cristo nella notte della passione.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)
Al giovane va proposto “un ideale”, e non solo “un’idea”, anche «se in un mondo accanitamente in lotta per la vita, è inesorabilmente handicappato chi vuol fare della poesia».
(da C. Gnocchi, L’aratro e la stella, in Problemi giovanili, n. 38)
Perché considerare l’educando semplicemente come un soggetto passivo dell’educazione? L’educando
è un vivente. Come tale non può assimilare virtù e verità se non con un
processo vitale e quindi eminentemente attivo. L’educazione è un’opera
di collaborazione tra l’educatore e l’educando, perché il ragazzo non è
una “cosa”, ma una “persona”.
(da C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, La Scuola 1956)
Come
è tetra l’aria di certi ambienti educativi! Non vi risuonano che
allarmi, non brillano nel buio che occhi di semafori rossi… Nulla è più
deprimente sull’animo giovanile di queste apocalissi. Anche perché nulla
è più falso. Bisogna spalancare le finestre dell’anima al più solare
ottimismo.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)
Bisogna
far sentire ai giovani che i buoni non sono pochi, che la virtù esiste
ancora, anche se nascosta - anzi appunto perché nascosta - bisogna dar
loro il senso corroborante della solidarietà nel bene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)
L’educazione
dell’amore non è una lezione scolastica che si possa impartire in
un’ora o in parecchie ore di insegnamento, assisi cattedraticamente in
poltrona, col piccino seduto compostamente dinanzi. Non è una lezione di
astronomia né un itinerario di viaggio. È l’educazione di tutto l’uomo e
la vita appena può bastare a iniziarla.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)
Forse
pochi educatori conoscono l’alto potenziale di sacrificio che spesso
rimane latente nei giovani. Temono di esigere troppo… Bisogna battere al
cuore dei giovani con fermo coraggio, senza il dubbio di Mosè dinanzi
alla rupe dell’acqua viva. Bisogna chiedere il tutto per tutto. Solo così si ottiene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)
Se
la formazione delle menti e delle coscienze giovanili nella scuola
moderna, fatta oggi per necessità e quasi totalmente con opera
collettiva, non è completata da un’educazione e istruzione strettamente
individuale e personale, affidata alla scienza e all’educazione di un
maestro… se inoltre la parte dello studio mnemonico e della cultura
passiva, che deve pur stare alla base di ogni testa ben fatta, non è
completata e ravvivata da un lavoro di ricerca personale, dallo stimolo
all’esercizio delle tendenze individuali, la scuola finisce per
diventare una monotona matrice di figurini umani e una macchina rotativa
per la stampa di diplomati e laureati.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)
È
strettamente indispensabile una larga e profonda scienza del composto
umano e una viva conoscenza psicologica del giovane e specialmente del
giovane moderno... E chi ha letto anche solo il Carrel o il Biot sa
quale mistero si nasconda sotto queste espressioni apparentemente
semplici e quale intreccio di interferenze leghi e fonda in una unità
sostanziale la vita del corpo e la vita dell’anima. L’unione e la
compenetrazione dei due principi è tanto intima e completa che nulla vi è
nell’uomo che sia esclusivamente spirituale e nulla che sia puramente
fisico.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)
I
ribelli presentano i casi pedagogicamente più interessanti. Dalle
volontà forti e personali sono sempre balzati gli uomini grandi della
storia civile e religiosa, i cavalieri dell’ideale, i santi, i
condottieri ed i genii. Bisogna però di cercare di piegarli
all’obbedienza senza violenza. Disgustare questi caratteri significa
spesso allontanare dei soggetti che, passata la mattana giovanile,
finiscono di solito per diventare i giovani più ardenti e generosi.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)
Mai
come oggi si è acutizzata la crisi del carattere. C’è attorno, nella
gioventù moderna, un’aria di conformismo livellatore e di incoscienza
festaiola da asfissiare. Bisogna formare uomini di carattere. Anche lo
Stato lo vuole.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)
L’uomo
ridotto dalla categoria di fine a quello di strumento e di mezzo per il
trionfo di una economia o di una razza o di una classe sociale o peggio
di un dittatore paranoico...
L’uomo è qualcosa di assoluto, che esige un rispetto incondizionato e
perciò non può essere mai ridotto a rango di un mezzo, essendo egli
stesso un fine per tutto l’universo, materiale e biologico, che sta
sotto di lui e che a lui è stato ordinato. Col valore dell’uomo crollano
tutti i valori della vita umana.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)
da: www.tracce.it 10/09 |
Postato da: giacabi a 09:04 |
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educazione, don gnocchi
CHIESA/
Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità
Stefano Zurlo
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Lo beatificheranno il 25 ottobre,
ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era
un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei
protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran
lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi
dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima
con i bisogni del corpo.
La
storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso,
ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione
particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su
quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra
quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le
piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati
sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un
percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini,
osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla
morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della
Russia. Torna
però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle
spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e
abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare
la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà.
O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano
che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.
Il
resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente
nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo
muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai
mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito.
L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra
paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione.
Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare
nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo
diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha
alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati,
spesso da famiglie poverissime, in istituto.
Lui
li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi
famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di
rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con
loro va in
udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con
garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei
ragazzi sarei anche più contento».
La
vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande
uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno.
Muore
donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti
della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi
moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in
cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua
morte una grande fioritura.
Ai
suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al
microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.
Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.
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Postato da: giacabi a 14:42 |
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don gnocchi
Testimonianze
Don Gnocchi
da: www.30giorni.it
Poi, nelle steppe russe, accade ciò che il vostro libro definisce come il disincantamento...
Quale effetto ha questo impatto duro sulla vicenda umana e cristiana di don Gnocchi? RUMI: Lì tutto viene ricondotto alla realtà nuda. Anche la fede. Svanite le teorie astratte sulla civiltà cristiana, le sovrastrutture ideologiche, le aure gladiatorie, emerge che l’unica cosa reale, che agisce, è la tenerezza di Gesù stesso verso gli uomini afflitti e bisognosi di salvezza. E siccome, come dice il cardinal Biffi, gli angeli non hanno le mani, le mani del Signore diventano le opere di carità di chi crede in Lui. È sul fronte che prende corpo la sua vocazione. Nel settembre 1942 scrive a un suo cugino: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera».
Perché la sua opera si rivolge proprio ai mutilatini?
RUMI: C’è, forse, nella scelta di don Gnocchi, un desiderio di espiazione della colpa storica di aver seguito il fascismo per un tratto non piccolo. Nell’Italia del dopoguerra c’è una pulsione generale di ripresa, una voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le sofferenze. Ma il dolore innocente dei mutilatini è tagliato fuori anche da questo flusso. Appare senza possibilità di riscatto. Rimangono ai bordi della strada, come testimoni muti e dimenticati che portano per sempre impressi nella propria carne gli effetti del disastro di tutta una generazione. Alla fine della guerra ottiene di essere nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Così descriverà le impressioni avute nel suo incontro con Bruno, il primo ragazzo mutilato ospitato presso quella struttura: «Le sue lacrime e il suo sangue mi accusano insopportabilmente. Quando noi si farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza egli non chiedeva che di vivere e di giocare un poco». Don Gnocchi parla di educazione al dolore. Dopo la creazione della Federazione pro infanzia mutilata, una delle sue iniziative sarà quella delle settimane del dolore. In queste formule non c’era il rischio di un certo “dolorismo”? RUMI: È il contrario. Don Gnocchi vede bene che il dolore, di per sé, rende cattivi. Inaridisce. Spegne i volti e i cuori. Racconta egli stesso, come una delle sue esperienze più decisive, l’incontro con Marco, un mutilatino che era saltato su una mina e a cui erano state amputate le gambe. Don Carlo gli chiese: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». E lui rispose: «A nessuno». La sua opera di carità partiva proprio dallo sgomento davanti all’“irreparabile sciagura” del dolore innocente che si perde nel vuoto. E dall’esperienza fatta tante volte di come la grazia di Gesù poteva prendere in braccio i poveri e i sofferenti che da soli si sarebbero perduti, redimendo misteriosamente anche il loro dolore. Come scrive don Gnocchi, «la redenzione di Cristo deve estendere i suoi benefici anche alle conseguenze materiali della colpa originale e perciò deve mirare anche a sanare o almeno attenuare il dolore fisico e combatterne tutte le cause. Sanare il dolore non è allora soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo». Tutta la vita di don Gnocchi è una lotta al dolore. Per questa ragione giungerà a occuparsi di meccanica, di leghe metalliche, di marchingegni tecnologici. A servirsi di tutti i ritrovati messi a disposizione dalla più avanzata ricerca tecnica e medico-sanitaria. Il suo vescovo, il cardinale Schuster, aveva qualche riserva sulle scelte di don Gnocchi… EDOARDO BRESSAN: Schuster era un padre che considerava don Gnocchi un figlio un po’ irrequieto. Il vescovo aveva su di lui un progetto diverso. Pensava di affidargli una parrocchia, e che tutte le sue esperienze avrebbero ben potuto confluire in un ministero parrocchiale ordinario, quello di tutti gli altri preti ambrosiani. Ma per don Gnocchi la parrocchia era la sua opera per i mutilatini, quella che chiamava «la mia baracca». Non era facile resistere al vescovo benedettino con quel cognome così tedesco. Ma alla fine Schuster lasciò fare, e benedì i frutti inattesi di quella grande Opera. Nel dopoguerra, l’Opera per l’infanzia mutilata (che dal 1951 diventa Fondazione pro iuventute) assume rilevanza nazionale nel settore dell’assistenza. Riceve finanziamenti dal governo. C’è anche qualche bisticcio con chi vuole preservare il carattere statale degli istituti di cura. BRESSAN: Le difficoltà si superarono senza troppe guerre ideologiche. Le disposizioni giuridiche tendevano a ribadire un controllo pubblico del settore, ma nell’attuazione pratica la legge stessa diventò lo strumento per riconoscere alla Pro juventute la leadership di fatto nella gestione del problema. In don Gnocchi non c’era alcuna animosità o competizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Lui cercava il loro sostegno, e il governo De Gasperi appoggiò con decisione l’inizio della sua impresa. Nella sua vicenda ci fu una collaborazione e compenetrazione concreta tra pubblico e privato vantaggiosa per lo Stato. In termini attuali, fu un caso esemplare di applicazione del criterio della sussidiarietà.
Insomma, la carità fa bene anche allo Stato…
BRESSAN: Don Gnocchi diceva: «Non si può fare la carità in carta da bollo. Ma lo Stato ci costringe spesso a fare questo». Nell’Istituto grandi invalidi di Arosio, don Gnocchi aveva visto negli adulti mutilati durante la guerra gli effetti negativi della “burocratizzazione del dolore”. Descriveva così la situazione: «Il dannunzianesimo e il fascismo hanno lasciato in eredità a queste anime sofferenti (più di 600mila) uno spirito esasperato, esaltato, pretenzioso soltanto di diritti, inquieto e senza consolazione». Sperava che ai mutilatini non toccasse la stessa sorte. E secondo lui solo chi era mosso dalla carità cristiana poteva aiutarli a non ripiegarsi e incattivirsi. «Noi» scriveva «non vogliamo assolutamente che diventino come sono spesso gli altri, degli esosi il cui scopo principale della vita è quello di mirare al 27 del mese per far coda impaziente davanti agli sportelli delle pensioni contando avaramente il denaro ricevuto e bestemmiando il governo. Vogliamo farne degli uomini superiori, capaci di far dono del tesoro della loro sofferenza a Dio e agli uomini, per la ricchezza di tutti». Nel sottotitolo del vostro libro, don Carlo è definito imprenditore della carità… BRESSAN: In una lettera, una volta, don Gnocchi scrisse: «Io ammiro le persone e le istituzioni che tutto attendono dalla Divina Provvidenza, nulla cercando e nulla rifiutando, ma io non ho la loro Grazia speciale. Nella ricerca dei mezzi per la vita dei miei poveri, io cerco di ispirarmi più a don Bosco che “cercava” che al Cottolengo che “attendeva”». Forse era un paragone un po’ ingiusto per il Cottolengo… ma certo don Gnocchi ebbe un’energia fantasiosa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e occasioni per far crescere la sua “baracca”. Usava con totale libertà i contatti umani, il mondo dei mass media, le sue entrature con l’alta società lombarda per far affluire fondi e risorse all’Opera. Inventò iniziative come le catene di solidarietà o altre, più spettacolari, come il volo aereo del cosiddetto “Angelo dei bimbi” da Milano a Buenos Aires, o come la collaborazione con Cesare Zavattini nel film Tutti i bambini del mondo: tutto poteva esser utile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei mutilatini. E fu rapido ed efficace anche nel “riconvertire” la sua opera alle nuove situazioni. Man mano che ci si allontanava dalla guerra, e diminuiva il numero dei mutilatini, tutte le case della Pro juventute cominciarono ad ospitare i poliomelitici, e altre categorie di persone bisognose di assistenza… Il processo di beatificazione di don Gnocchi ha superato la sua fase diocesana e adesso è “fermo” a Roma. Il sempre più vasto e vitale mondo del volontariato potrebbe prendere a cuore questa causa… BRESSAN: Potrebbe essere un’idea: san Carlo Gnocchi, patrono del volontariato e del no profit… |
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