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martedì 7 febbraio 2012

Don Orione

da:www.30giorni.it
Il santo dell’imprevisto
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Dalla sua amicizia con i modernisti alla politica del Pater noster l’unica efficace. Dagli inizi a Tortona ai viaggi in America Latina. Alcuni episodi della vita di don Luigi Orione che ne fanno percepire il fascino
di Stefania Falasca

 


Don Orione insieme a un gruppo di amici e benefattori
     No. Proprio non si può rimanere lontani da uno così. E va detto subito: per adottare i suoi atteggiamenti, i suoi gesti inconfondibili, bisognerebbe essere lui, don Luigi Orione... ossia, qualcosa di unico, provvidenziale e, soprattutto, imprevedibile. Già. E diciamo anche questo subito. Perché forse mai come in quest’uomo l’imprevedibilità è andata a braccetto con la santità. Anzi. È stata tutt’uno.
     Del resto basta guardare a quell’inatteso che è stata tutta la sua sconfinata vita, da quel 23 giugno 1872 a quel 12 marzo 1940: un mare aperto d’impreviste storie, circostanze e grandi opere, un mescolarsi continuo e sorprendente di pontefici e avanzi di galera, uomini di Stato e poveri cristi, eremiti, politici e derelitti, letterati, orfanelli, santi e stinchi di santi. Neppure lo scrittore più scaltrito riuscirebbe a raccontare tutto, contemporaneamente. Dovrebbe seguirlo su una strada, e a un certo punto tornare indietro a riprendere l’altra, e quindi un’altra ancora. Mentre il protagonista le percorre tutte insieme, senza preoccuparsi di sapere dove andranno a portare. E se con lui la penna è sempre in ritardo e la pagina gli va stretta, c’è sempre immancabilmente qualcosa che è rimasto fuori. E non sono soltanto frammenti. È ancora una vita che continuamente straborda sopra le righe e che lo vede intento come «facchino della Provvidenza» ad aprire porte, spalancare porte, lasciandosi provocare dalla realtà, leggendo e anticipando i tempi con intuito formidabile. In tanti ci hanno pensato a dargli una stretta. Si sono dovuti arrendere al «folle di Dio». «Una delle personalità più originali ed eminenti del ventesimo secolo» hanno detto. Lo scrittore inglese Douglas Hyde, ateo convertito, in una sua celebre biografia lo ha definito «il bandito di Dio», lui «genio della carità», sì, soprattutto perché ha fatto capolavori senza rendersene conto. Quel che è certo è che questo prete dall’aria un po’ goffa, che «ebbe la tempra e il cuore dell’apostolo Paolo, impulsivo e tenace, tenero e sensibile fino alle lacrime, infaticabile e coraggioso fino all’ardimento», ha avuto il dono di illuminare uomini senza fede. Qualcuno ha osservato che riusciva perfino a commuovere e a far piangere i preti. Pare sia una cosa piuttosto difficile. La predicazione di don Orione era accompagnata anche da questo miracolo. Non ci resta allora che tentare di tallonarlo nelle strade di quell’imprevisto e chiedere che ci venga incontro, e avvicinarci e lasciarci scaldare al fuoco avvampante di quella carità.
          

Sopra, don Orione e alla sua sinistra don Luigi Guanella, al termine di un’udienza con Pio X nel 1914
     Come il fascino di un vento leggero
     Aveva superato brillantemente lo scoglio della quarta ginnasiale all’oratorio di Valdocco. E alla fine di giugno arrivò puntuale, per gli esercizi che dovevano preludere alla domanda di ammissione al noviziato. Ma al termine di quelle giornate, improvvisamente, abbandona la famiglia salesiana. Rimasero tutti increduli: superiori, compagni. Inutile chiedere spiegazioni all’interessato. Non ne forniva. Il fatto è che lui stesso non sapeva che dire. Era una cosa di cui non riusciva a darsi una ragione. Sapeva però, con certezza, che doveva uscire. Confesserà: «Io, che non avevo mai avuto un dubbio sulla mia vocazione a farmi salesiano, proprio in quei giorni mi balenò il pensiero di entrare nel seminario della diocesi». Il 16 ottobre 1889 Luigi Orione entra così nel seminario diocesano di Tortona. E subito, questo chierico tanto obbediente quanto vivace, viene notato per le sue doti, e per il nugolo di ragazzi che all’oratorio gli si affolla sempre più numeroso intorno. Alcuni tra i suoi compagni di seminario lo prendono in giro, qualcuno lo reputa «un po’ strano», «un po’ matto», e quando, il 16 settembre 1893, il vescovo se lo vede arrivare di buon mattino nella sua residenza, ha proprio l’impressione che abbia perso per strada quel «po’» e sia rimasto solo il «matto». Il chierico gli racconta che ci sarebbero una quindicina di ragazzi poveri disposti ad entrare in un collegetto per loro... «Un giorno potrebbero diventare buoni sacerdoti...», avanza. Il vescovo ascolta, perplesso, poi con pazienza cerca di fargli capire che gli sembra una cosa campata per aria, e non certo da realizzarsi così, su due piedi... Ma Luigi, deciso, risolve subito: «Io ho fede nella divina Provvidenza». L’interlocutore adesso comincia visibilmente a perdere la pazienza: «Insomma, che vuoi da me?». «Niente, eccellenza, soltanto la vostra approvazione e la vostra benedizione», ribatte l’altro. «Quand’è così, ti do l’una e l’altra» taglia corto il vescovo, nella convinzione di aver interrotto per sempre l’argomento e di essersi tolto di torno il ragazzo. E invece la Provvidenza aveva avuto il suo gran da fare. La voce si era sparsa attraverso le valli del Curone, della Staffora, del Borbera. Il collegetto, nel quartiere malfamato di San Bernardino a Tortona, viene aperto il 15 ottobre 1893. Non c’è dubbio: quello è il nucleo originario della Piccola Opera. Luigi Orione ha solo ventun anni. Il 13 aprile di due anni dopo è ordinato sacerdote e, nello stesso giorno, a sei dei suoi ragazzi viene dato l’abito clericale. Ecco iniziata l’avventura. Da quel momento, incontri, case, collegi, orfanotrofi, colonie agricole, eremi e istituti, spunteranno senza preavviso. Del resto c’erano di mezzo gli occhi della Provvidenza. Che nel suo caso è proprio tutto: “programma” e “fine specifico” dell’Opera. Ma ci sono di mezzo anche i suoi, di occhi, quelli di un inesorabile cecchino della misericordia di Dio. «Difficile sottrarsi a quello sguardo che, una volta incrociato, non lo dimenticavi più. Ti rimaneva dentro come il fascino di un vento leggero...», scrive Ignazio Silone, parlando di lui, e non è che uno dei tanti pronti a confermarlo. Basta calarsi nelle testimonianze, negli itinerari nascosti di tanti che lo incontreranno nelle strade aperte e impervie del suo apostolato. E di quei personaggi, alcuni illustri, che magari in punto di morte non volevano preti, ma accettavano quello «strano prete». «Anime, anime... Se il Signore mi permettesse di andare all’inferno, in un soffio d’amore vorrei cavarle anche di là». «Anime, anime» è l’anelito che lo porta a supplicare: «Ponimi, o Signore, ponimi sulla bocca dell’inferno perché io per la Tua misericordia la chiuda». In fondo lo aveva chiesto come grazia il giorno della sua ordinazione: «Ho chiesto alla Madonna una grazia particolare: che tutti quelli che in qualche modo avessero a trattare con me si fossero salvati...».
          
     Nel terremoto modernista
     All’alba del 28 dicembre 1908, Messina non esiste più. Un terremoto l’ha inghiottita. Resteranno le macerie di chi è rimasto. Don Orione sale sul treno diretto a Messina il 4 gennaio 1909. In quelle rovine di disperazione si getta senza riserve. Chi l’ha avvicinato in quei tempi concorda che se non lo si è visto lì, muoversi in mezzo a quella desolazione, non è possibile capire chi è don Orione. Ma tra le macerie di quel terremoto si trovò ben presto in mezzo ai rovesci di un’altra tempesta.
     Nel 1907 la Chiesa, con l’enciclica Pascendidi Pio X e il decreto Lamentabili del Sant’Uffizio, aveva condannato il modernismo. Nel marzo del 1909 si costituisce l’“Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno”, con lo scopo di aiutare le popolazioni colpite dal disastro. Ne fa parte anche un bel nugolo di modernisti, in particolare quelli che facevano capo alla rivista lombarda Il Rinnovamento, scomunicata dall’autorità ecclesiastica. C’erano Aiace Alfieri, Antonio Fogazzaro, del quale era stato messo all’indice il romanzo Il Santo, ed altri esponenti del pensiero cattolico liberale, come il dotto letterato Tommaso Gallarati-Scotti. Don Orione, manco a farlo apposta, li conosceva tutti. Alcuni strettamente. E proprio lì, a Messina, ebbe modo di frequentarli, non mancando di manifestare loro la sua stima e il suo aiuto. E non erano questi i soli modernisti con cui aveva rapporti. Era legato da fraterna amicizia a molti sacerdoti incorsi in diversi provvedimenti ecclesiastici a causa delle loro idee moderniste: Romolo Murri, don Brizio Casciola, padre Giovanni Genocchi, padre Giovanni Semeria, padre Giovanni Minozzi, don Ernesto Buonaiuti. Alcuni erano suoi amici di vecchia data. Nel 1904 scriveva a Romolo Murri chiedendogli un articolo per la sua rivista La Madonna: «Tu mi devi scrivere qualche cosa di bello, tutto pieno della tua fede e dall’anima tua: vorrei che fosse qualcosa come “la Madonna e la democrazia”, o in quel senso; vedi che è un campo vastissimo, e tutta luce e ancora inesplorato. Sarà anche l’omaggio tuo alla Madonna in quest’anno!». Nel febbraio del 1905, mentre stava pensando a un’opera in favore dei minorenni usciti dal carcere, scriveva a don Brizio Casciola: «Tu mi aiuterai tanto; Semeria, Murri, tutti mi dovete aiutare tanto...».

Qui accanto, con don Umberto Terenzi, (il primo da sinistra), al santuario del Divino Amore; in basso, con il cardinale Ildefonso Schuster durante la cerimonia di posa della prima pietra dei nuovi padiglioni del Piccolo Cottolengo milanese, nel settembre del 1938
     Ma bisogna immaginarsi quale clima di caccia alle streghe era venuto a instaurarsi dopo la Pascendi, e soprattutto dopo l’introduzione del giuramento antimodernista tra i sacerdoti e l’istituzione delle commissioni diocesane di vigilanza sull’ortodossia dottrinale. In quel momento, anche il solo  sospetto equivaleva già ad una condanna. I cosiddetti «zuavi in sottana», i tagliatori di teste dei modernisti più accesi per intenderci, non guardavano tanto per il sottile e maneggiavano la penna come una spada, intingendola spesso e volentieri nel veleno. Così anche per don Orione, da monsignor D’Arrigo, arcivescovo di Messina, parte una bella lettera d’accusa che arriva dritta dritta nelle mani del cardinal De Lai, prefetto del Sant’Uffizio. La lettera accusatoria,in cui il prete di Tortona è definito «uomo di mezza coscienza che sa accomodarsi con tutti», viene passata a Pio X, e don Orione viene invitato a presentarsi. Quando Pio X si ritrovò ai suoi piedi lo «strano prete», ne rimase, invece, addirittura commosso. E, per tutta risposta, volle sigillare la sua estrema fiducia nominandolo, niente di meno, vicario generale della diocesi di Messina, cosa che lasciò di sasso il povero don Orione, per il quale quell’incarico avrebbe poi significato tre anni d’inferno nelle fornaci ardenti delle gelosie clericali. Non solo, proprio l’autore della Pascendilasciò a lui completa libertà d’azione nei rapporti con i modernisti.
     Con questa nomina, quel prete ben noto per la sua ortodossia e fedeltà papale, rischia ora di apparire agli occhi di certi modernisti uno zelante, uno che cerca di convertirli, un importuno... E invece no. Lo riconoscono autentico, leale. E non solo, ne ricercano la relazione fraterna, non esitando a gettare nelle sue braccia le loro difficoltà, perfino indirizzano verso di lui anche altri. Scrive a Murri dopo la  sospensione a divinis: «Io ti bacio i piedi e le mani sante e benedette... Non ci rivedremo presto, ma ti aprirò la strada; e sarò con te, e starò sempre con te innanzi a Dio». Ed eccolo pronto ad aiutare, con discrezione, a ricucire strappi, a farsi da ponte. Un riferimento, amato e cercato, per tanti preti borderline, sul filo del rasoio, sospesi a divinis, scomunicati e pluriscomunicati. Basta inoltrarsi nella fitta rete di corrispondenza intercorsa tra questi personaggi, per vedere quale stima e perseverante vicinanza, e a quali sfumature di delicatezza arrivò don Orione nei loro confronti, e viceversa. Testimonia Gallarati-Scotti: «Io devo dire che forse l’unica persona che fu larga e comprensiva con chi poteva avere momenti di dubbiezza e di tormento, riguardo a certi problemi critici, in quel momento, fu don Orione [...]. Sentiva questo bisogno di conciliare, ma di conciliare non nella confusione, come avrebbero voluto altri, bensì in una distinzione amorevole, in un calore di amore autentico e di fervida coscienza che è, in fin dei conti, tutto quello che è veramente buono e tutto quello che ha un riflesso di Dio, anche se apparentemente, delle volte, è lontano da Dio. C’è qualcosa nell’anima umana che risponde, al tocco del santo, perché così profondo e così nascosto, ma vibra quando sente la voce di questa carità che parla. Questa è la prima grande esperienza che io ho avuto di lui e che non dimenticherò mai».
     Anche Ernesto Buonaiuti non lo dimenticò mai. «Mio amico amato» scrive a don Orione, «il ricordo delle parole che mi hai detto, in ore indimenticabili, è sempre vivo e fruttifero nel mio cuore... Io sono sempre assetato del tuo ricordo. Prega per me, mio carissimo amico». Buonaiuti visse fino alla fine la sua condizione di scomunicato vitandus. Un testimone ricorda: «Diceva Buonaiuti che don Orione gli aveva sempre voluto bene, gli aveva dichiarato di credere alla sua buona fede e di essere sicuro che egli sarebbe morto in modo da salvarsi. Queste assicurazioni, in quell’anima straziata, erano il più grande conforto della sua vita». Don Orione gli fu sempre accanto. Quando gli giunse notizia di essere stato dichiarato scomunicato vitandus, accelerata dall’intervento del padre Agostino Gemelli, in una lettera al senatore Schiapparelli così commentava quell’estrema decisione: «Non era forse il padre Gemelli la persona più indicata a trattare con lui. [...] E poi non è tanto la cultura che ottiene e apre l’animo: un uomo di cuore ci andava, e che alla cultura e al cuore avesse unito umiltà di spirito, sincerità e la scienza di Gesù Cristo. [...] Non è il sillogismo che fa, ma la carità di Gesù Cristo e la grazia del Signore sopra tutto». E fece di tutto per difenderlo, per permettere la sua reintegrazione al sacerdozio, coinvolgendo in questo aiuto anche un suo grandissimo amico: il gesuita padre Felice Cappello, il “confessore di Roma”.
    
     Sante amicizie
     Padre Cappello, già, un santo. E non è il primo che s’incontra nello snodarsi inconsueto delle sue giornate. Ed ecco aprirsi un’altra strada dai sentieri imprevedibili e imprevisti: quella delle sante amicizie di don Orione. Un altro fitto intrecciarsi di storie. Un’altra estesissima rete di rapporti e di aiuti reciproci, che sta a documentare anche come, seppure allora molte di queste persone non erano note, tra loro invece si conoscono tutte, si cercano, si vogliono bene. Giusto nel putiferio di Messina aveva avuto al suo fianco Annibale Maria Di Francia. Anche don Umberto Terenzi, il padre dei Figli del Divino Amore, era legato a lui da una stretta amicizia, come lo erano pure don Giovanni Calabria, don Luigi Guanella, il cardinale Ildefonso Schuster, per non dire di Pio X, di don Bosco e di tanti altri poi canonizzati o candidati agli onori degli altari. In questa rete c’è anche Padre Pio. E questa è davvero un’amicizia che lascia sbalorditi, perché queste due anime, che pure si conoscevano tanto profondamente e intimamente, non solo non si sono mai incontrate, non si sono mai neppure scambiate due righe. L’incredibile vicenda, che si svolge nel decennio 1923-33, gli anni della tormenta scatenatasi sul santo di Pietrelcina, è minuziosamente documentata da don Flavio Peloso, postulatore del processo di canonizzazione del prete di Tortona. E vede ancora una volta don Orione far luce sulle ombre morali di ecclesiastici implicati in quella controversa questione, e farsi ponte per riscattare Padre Pio dalle accuse. Leggiamo ancora da Gallarati Scotti: «Comprensione, comprensione ed intelligenza. Aveva una straordinaria intelligenza. Riusciva a penetrare nel cuore e nella mente degli altri e capiva tutto: capiva le cose impure come le possono capire i purissimi non mai toccati dall’impurità; capiva i tormenti dello spirito e dell’intelligenza, come può chi ha una fede assolutamente pura, tetragona ai dubbi, alle oscillazioni, ferma nella verità vissuta. Ed è questa, direi, certezza di dove poggiare il piede, che ha fatto di don Orione un tramite a molti erranti del suo tempo, e non solo».
     Si direbbe il prete giusto per circostanze difficili. Il prete delle bufere, per quel suo muoversi con straordinaria sensibilità e spregiudicatezza e, soprattutto, con delicatezza sulla soglia della casa di Pietro, per quell’ardito quanto prudente e discreto lavoro di comunione dentro la Chiesa stessa. Dunque sorprende, ma non fa meraviglia che nei documenti riservati delle diverse congregazioni vaticane sono stati ritrovati, in fondo alle pagine di questioni scottanti, gli appunti autografi di Pio XI: «Su questo, consultate don Orione. […] Per questo, raccomando, mandate don Orione». La sua, non si può negarlo, è anche un’intelligenza intuitiva, capace di leggere in controluce gli avvenimenti, capace di decifrare i tempi. Dal di dentro. Un esempio tra tanti: la questione romana. Forse non a molti è noto che don Orione fu coinvolto in prima persona nella complessa trattativa tra lo Stato italiano e la Santa Sede che portò ai Patti lateranensi.   
    
     La lungimiranza della “sua” politica
     Nell’archivio generale della Congregazione orionina è stato ritrovato un documento d’eccezione. È la lettera che di proprio pugno don Orione firmò e inviò il 22 settembre 1926 a Mussolini. Vi si legge: «Penso che Vostra Eccellenza, se vuole, può, col divino aiuto, finire l’amaro e funesto dissidio che è tra la Chiesa e lo Stato. E umilmente la prego, e come sacerdote e come italiano. Trovi una base ragionevole, e proponga una soluzione. Spetta al Governo italiano stendere nobilmente la mano al Vinto».
     Questa lettera è un tassello importante per capire la parte da lui svolta nei preliminari e nell’avvio delle trattative stesse. Del resto è documentato che don Orione è stato tra i primi ad intuire, nel 1923, che il nuovo clima politico nazionale avrebbe potuto chiudere la controversia tra Stato e Chiesa, ed è altresì documentato che prese parte alla prima riunione preparatoria, insieme al padre Genocchi, svoltasi in casa dei conti Santarelli a Roma. In questa lettera si è voluta vedere l’espressione stessa della Santa Sede che volle affidare, a un sacerdote di fiducia e di riconosciuto valore morale nell’opinione pubblica, un chiaro messaggio al governo italiano senza impegnare la propria autorità.
     Di fatto, non si sa se post hoco propter hoc, a pochi giorni da quella lettera di don Orione le trattative vennero dichiarate ufficiali ed iniziarono i lavori veri e propri. Il resto è storia nota. Giunse l’11 febbraio 1929, data della storica firma dei Patti lateranensi.L’Osservatore Romano, che dal 1870 usciva listato di nero, quel giorno fu stampato finalmente senza il segno del lutto. Due giorni dopo, Pio XI commentò: «È con profonda compiacenza che crediamo di avere con il Concordato ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio». Questa pagina di storia pare finire così in gloria, con soddisfazione di tutti. Eppure don Orione, che tanto ebbe a cuore la soluzione della questione, non esultò, al momento, più di tanto. Quando seppe della firma dei Patti, baciando la foto di Pio XI, riprodotta sul giornale che portava la notizia, esclamò: «Povero Papa! Quanti dolori ne avrà!». «La Conciliazione si doveva fare» spiegò, «ma non in questo modo. Non mi pare per ora una saldatura che tenga. Io vorrei sbagliarmi, ma vedrete brutti giorni». Per don Orione c’erano, riguardo a certi temi, alcuni punti deboli. Temeva in particolare che Mussolini approfittasse del nuovo prestigio ottenuto per mettere in atto nuovi e ingiusti interventi a danno della Chiesa in Italia. E quel giorno stesso, in una riunione della Congregazione, disse ai suoi sacerdoti: «Quando i fascisti entreranno negli Istituti per prenderci i giovani, il Signore ci ispirerà quello che si dovrà fare». Lo aveva capito subito. Ed è quello che puntualmente accadde. Erano infatti appena cessati gli evviva al Concordato quando Mussolini riprese la politica vessatoria nei confronti delle organizzazioni cattoliche.
     Una lucidità, una lungimiranza, certo. Doti per le quali, bisogna dirlo, era ascoltato, oltre che dai papi, anche dai politici. A Roma, nella residenza in via delle Sette Sale, andavano a bussare alla sua porta Gaetano Salvemini, il senatore Zanotti Bianchi, anche quel «pezzo di corda» di Achille Malcovati, grosso personaggio dell’industria ed eminenza grigia di molti politici di spicco. Tanto per citarne qualcuno. Andavano da lui che, diceva a chiare lettere, di programmi politici non s’intendeva e né intendeva occuparsi, ostinato com’era a seguire la “sua”, di politica: «Quella del Pater noster». L’unica efficace. L’unica che non si chiude in confini ed «è pienamente realizzabile», precisava. L’unica per la quale era disposto anche a varcare l’oceano. Dopo il terremoto in Sicilia e quello nella Marsica del 1915, affondando le braccia e il cuore nelle macerie delle miserie umane, non aveva nascosto il suo desiderio d’imbarcarsi missionario per le Americhe. Un giorno questo suo desiderio lo aveva confidato allo stesso Pio X, e questi, per tutta risposta, lo aveva spedito di filato nella “Patagonia romana”, la periferia abbandonata ad est di Roma. Ma venne il giorno in cui partì. 
         
     Cose dell’altro mondo
     Per l’America Latina salpa il 24 settembre del 1934.
     A dire il vero ci aveva già messo piede nel ’21. E neanche là era passato inosservato questo prete non catalogabile, intraprendente, dai toni a volte esplosivi, che non usa mezzi termini quando si tratta di denunciare i soprusi e l’ingiustizia sociale e predica che la vera rivoluzione si fa in ginocchio di fronte al tabernacolo.
     In Brasile aveva lasciato attonito il clero locale con la sua “pastorale dei negri”. Ancora una volta aveva solo anticipato i tempi. Ad insistere perché andasse era stata una sua figlia spirituale: madre Teresa Michel, una “pazza” come lui. Temibile concorrente in fatto di fede nella Provvidenza, e alla quale don Orione era riconoscente per aver ricevuto consigli e conforto in circostanze difficili.
      Questa volta, sulla poppa del “Conte Grande” che lo porta in Argentina, c’è anche il futuro Pio XII, là diretto per il Congresso eucaristico internazionale. Il cardinale Pacelli, durante la traversata, aveva trovato occasione per manifestargli la sua stima. Don Orione conosceva bene suo fratello, l’avvocato Francesco, che aveva preso parte alle trattative ufficiali del Concordato. Ma “il confessore del Conte Grande”, come lo avevano ribattezzato sulla nave, schivo ai trionfi, giunto a Buenos Aires tiene gli occhi spalancati su un panorama enorme di miserie. Ricorda don Dutto: «Ricomincia a frugare nei tuguri, negli angiporti, in quartieri malfamati, per trovare storpi, menomati, incurabili, alcolizzati, dementi: li elegge a suoi padroni, ne lava con le sue mani le piaghe, li serve». In via Carlos Pellegrini a Buenos Aires, nella casa, donatagli da una nobildonna, che condivideva con un ex prete, un bambino sordomuto scortato dalla sorella malata e dalla madre vedova, manco a dirlo, viene a bussare alla porta un sempre più fitto e diversificato drappello di gente: poveri diavoli, ricchi proprietari terrieri, professionisti, religiosi, ufficiali. Nel ’36 vi ospita Jacques Maritain, tiene contatti con l’arcivescovo Copello, col nunzio, anche col capo di Stato. I suoi noviziati, le sue case si aprono uno dietro l’altra, così, come sempre fioriscono le opere che lascia dietro il suo passo: un gesto concreto, una risposta immediata, un’intuizione, un incontro fortuito, una circostanza rocambolesca, e si realizzano con i soldi che sembrano uscire direttamente dalla barba di san Giuseppe e dalle tasche di quei ricchi che, fiduciosi, non esitano a mettere il loro denaro al sicuro nelle sue tasche bucate.  In quella terra di ampi spazi e vasti orizzonti, sembra averci messo le radici e a nulla valgono gli inviti a tornare che dopo un po’, sempre più insistenti, gli giungono dall’Italia. Lui imperterrito continua ad aprire porte. Chiede ancora personale. Il buon don Sterpi, all’altro capo dell’oceano, lasciato a dirigere la Congregazione, non sa più da che parte mettere le mani, e lo supplica, lo scongiura di tornare. Oltretutto cominciano a spirare venti di guerra, e ci sono grane col vescovo di Tortona. Alla fine, esaurita ogni sorta di convincente argomento, gli scrive: «Quantunque le vostre lettere mi siano arcicarissime, vi prego di non scrivermi più, perché dandomi notizia di sempre nuove case, voi mi ammazzate».  In tre anni percorre una distanza dieci volte superiore a quella tra l’Italia e l’Argentina, «pregando il Signore di moltiplicare le Sue opere», in un continuo immergersi nella realtà che non conosce ostacoli: «Ne avessi cento, mille di braccia e arrivare là dove nessuno vuole», e dare vita e vita ancora a quel fuoco che indomabile gli brucia dentro. L’Argentina non lo dimenticherà più.
          

Don Orione sul monte Soratte in visita ai suoi eremiti nel settembre 1934. In calce alla foto la curiosa scritta autografa: «Lui ed io siamo due»
     Un prete e basta
     Al porto di Napoli rimette piede nell’agosto del ’37.
     Di ritorno dalle Americhe lo invitano a parlare. Del resto non aveva alcuna intenzione di nascondere le opere della Provvidenza. Allergico agli onori, nascondeva, invece, per quanto dipendeva da lui, la propria persona. Durante uno dei suoi interventi, nell’Aula magna dell’Università Cattolica di Milano, è costretto ad ascoltare l’oratore ufficiale che snocciola le sue benemerenze. I vicini lo vedono coprirsi il volto con le mani, agitarsi sulla sedia, quasi stesse subendo una tortura. E, senza la minima ostentazione, con tutta la veemenza del suo carattere impetuoso, ad un tratto sbotta: «Ma che don Orione, che don Orione contadino di Pontecurone! Non gli credete! Non gli credete!». Un’ altra volta, all’inaugurazione dell’istituto San Filippo a Roma, gli tocca lo stesso supplizio. Raggomitolato in terza fila, aggrondato, sente le espressioni che il senatore Cavazzoni impiega per tessere il suo elogio. Si guarda attorno per esplorare se c’è una via di fuga. Niente da fare. Folla strabocchevole, è presente anche il presidente del Senato, accanto a lui il cardinal Salotti e numerose autorità. Alla fine, viene chiamato sul palco. La voce tradisce la timidezza sincera e lo sforzo di ricacciare in gola parole poco opportune, così inizia: «Io non so parlare. Io non so che fare pasticci... e sono certo che di tutti i preti qui presenti non ce n’è uno più peccatore di me». E poi rivolgendosi all’oratore: «Mio caro senatore, ma chi le ha detto tutte queste sciocchezze sul mio conto?». E alzando quindi la voce in modo da essere inteso: «La verità è questa, e voglio sia viva e presente a tutti, ch’io non sono il fondatore di niente! Io non c’entro proprio niente!». E siccome torna fresco fresco dall’Argentina, ricorre allo spagnolo di san Giovanni della Croce: «Nada! Nada!... Che se ho dovuto girare mezzo mondo, fino alle lontane Americhe, è perché così si fa con uno scimmiotto e con un macaco qualunque». Non così invece quando si tratta di addossarsi qualche manchevolezza, per questo era pronto a farsi avanti, riconoscendo anche pubblicamente i propri torti. Chiariva: «Se qualche cosa di buono c’è nella Piccola congregazione è tutto opera e bontà della divina Provvidenza. Se vi è qualche cosa di difettoso e di storpio è tutta roba mia, robaccia mia, e forse anche di qualcuno di voi, o miei cari figlioli». Se le lodi lo ferivano, anche le ingiurie però, ma queste le prendeva come un bene. Riferisce don De Paoli: «Un suo figliolo, al momento di abbandonare la Congregazione, lo ricoprì di insulti e villanie. Ero presente. Don Orione volle dargli del denaro, lo abbracciò con tenerezza, lo baciò con affetto in fronte, gli augurò ogni bene e volle che noi pregassimo per lui come per un benefattore».
     In calce a una fotografia che lo immortala durante l’arrampicata al monte Soratte, mentre è diretto a visitare i suoi eremiti in groppa a un asino, scrive: «Lui e io siamo due». Tanto per ricordare, con la sua schietta ironia, che non si teneva in nessun conto. A Tortona, intanto, le acque sono di nuovo agitate. Il vescovo si lamenta. Malignità, pettegolezzi, accuse, calunnie. Ancora ostilità e tormenti. A un amico a Roma manda un biglietto: «Io perdono a tutti e sono ben contento d’essere lontano dalle mene e dal putiferio di Tortona. I miei sacerdoti pregano, tacciono e attendono con me, fidentes in Domino... I nemici mi cavino pure gli occhi; basta mi lascino il cuore per amarli...». Un suo religioso, a cui aveva dato incarichi di fiducia, gli scrive una lettera «brutta e mendace». Ci rimane male. Don Cribellati lo interpella per adottare provvedimenti. Don Orione risponde: «Niente... Per queste persone: a) si prega Dio; b) si perdona; c) si ama».
     «La nostra carità è un dolcissimo e folle amore di Dio e degli uomini che non è della terra», aveva scritto andando in Argentina. Da lì a qualche anno il suo cuore comincia a fargli degli scherzi. Nel ’39 ha un grave attacco di angina pectoris, nel febbraio del ’40, un altro. L’8 marzo, a Tortona, nella Casa madre, chiede gli ultimi sacramenti e saluta tutti con l’ultima “buona notte”. Il giorno seguente parte per Sanremo, sapeva che non sarebbe più ritornato, andando incontro alla morte come per aprire un’altra porta: «Gesù, Gesù.... vado». E questo in fondo è lo scherzo più clamoroso che il suo cuore ci abbia giocato: per parlare di lui bisogna necessariamente aprire ad un Altro. Mirabile è Dio nei suoi santi. Quanto a se stesso, nell’epigrafe scolpita sulla sua tomba, è inciso: Aloysius Orione Sacerdos. Te Christus in Pace.Nient’altro. Sacerdos. Ecco, l’unica cosa che avrebbe forse accettato di sentirsi dire, quello che semplicemente è, ed è stato: un prete, e basta. Che san Luigi Orione ci perdoni.

Postato da: giacabi a 20:09 | link | commenti
don orione

venerdì, 20 agosto 2010

La bontà vince sempre
***
La bontà vince sempre: segretamente è stimata anche dai cuori più freddi, più solitari, più lontani
(San Luigi Orione).

Postato da: giacabi a 21:16 | link | commenti
don orione, amore

sabato, 26 settembre 2009
Chi si fida di Dio
***

 
 Chi si fida di Dio mette Dio in obbligo di prendersi cura di lui.
B. Luigi Orione

Postato da: giacabi a 22:39 | link | commenti
fede, don orione

lunedì, 24 marzo 2008
LA PRIMA OPERA DI  GIUSTIZIA «DARE CRISTO AL POPOLO»
                        ***                                         
Cristo ritorna, e tornerà sempre finche la terra avrà lacrime e schiavi; tornerà a dare pienezza di libertà alla sua Chiesa, tornerà in trionfo, portato a braccia di popoli, su un trono di cuori.
Quando il popolo sembrerà strappato per sempre a Dio, allora si risveglierà come un forte e comprenderà che solo Cristo è la sua vita e la sua felicità, e a voce grande e angosciosa invocherà il Signore, il Dio della misericordia.
Basterà allora alzare un Crocifisso, che il popolo gli cadrà ai piedi, per risorgere a vita più alta; che neanche gli altari andranno rovesciati, e le pietre del santuario disperse. E  peggio finchè sulle ruine resti un troncone di Colui che noi adoriamo o un lembo del manto di Maria, basterà, o fratelli basterà quello! E il popolo tornerà a credere, ad amare e ad adorare, a vivere, e il mondo avrà un nuovo e più vasto. risorgimento cristiano e civile.
Coll'odio non si vive e Gesù sta preparando un grande ritorno. L' ora si avvicina: tutto ce lo  dice. L 'ultimo a vincere e sempre Dio, e Dio vincerà da Salvatore e da Padre, e sarà un' ora grande di universale misericordia. Vogliamo portare Cristo al cuore degli umili e dei piccoli,  del popolo e portare il popolo ad amare ognora più Cristo, la famiglia e la patria.
Instaurare omnia in Christo: e necessario fare cristiano l'uomo e il popolo, e necessaria una restaurazione cristiana e sociale della umanità. (...) Ma bisogna educare sempre più a Dio la gioventù e andare al popolo, vivere la sua vita, soffrire le sue sofferenze.
E in quest' ora del mondo, ora tanto dolorosa, tanto triste, risolviamo, o Amici, di conservare inestinguibile e ognor più divampante il sacro fuoco dell'amore a Cristo e agli uomini. E realizziamo la carità, in special modo con lo stendere fraternamente la mano e il cuore alle classi del proletariato, ai poveri operai, ai pù umili e più infelici.
Spargiamo nel popolo, nella gioventù, nella patria questo vivificante cristiano amore.
Senza questo sacra fuoco, che e amore e luce, che resterebbe della umanità? Ottenebrata la intelligenza, il cuore fatto freddo, gelido più che il marmo di una tomba, l'umanità vivrebbe convulsa tra dolori d'ogni genere senza alcun altro conforto, solo abbandonata ai tradimenti, ai vizi, alle scelleraggini senza nome.
Che sarebbe dell'uomo e della civiltà quando, dominata dall'egoismo, da basse cupidigie, avvelenata da deleterie teorie comuniste, le masse popolari rompessero ogni legge, ogni freno di onesto vivere cristiano e civile? (...) Il mondo ne andrebbe incendiato, gli uomini finirebbero a sbranarsi come mai s'e visto, neppure tra le belve.
Che guadagnerebbe l'umanità rinnegando la carità di Cristo?
Con Cristo tutto si eleva, tutto si nobilita: famiglia, amore di patria, ingegno, arti, scienze, industria, progresso, organizzazione sociale: senza Cristo tutto si abbassa, tutto si offusca, tutto si spezza: il lavoro, la civiltà, la libertà, la grandezza, la gloria del passato, tutto va distrutto, tutto muore.
Don Orione Nel nome della Divina Provvidenza  Piemme

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cristianesimo, don orione

sabato, 15 dicembre 2007
Catechismo e carità 
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L'Opera della Divina Provvidenza è cominciata sette anni fa in un giorno di quaresima, e propriamente con un po' di Catechismo ad un ragazzo che piangeva, fuggito di  chiesa.
Quel figliolo divenne poi buono e più cristiano, ed ora, benché soldato, ricorda ancora con piacere quel giorno tempestoso e felice per lui.
Ma e dopo lui quanti figliuoli col Catechismo e colla grazia del Signore divennero più buoni e più cristiani!
Ah l'efficacia del Catechismo! Sapete o figliuoli, che cosa sia e che cosa importi il Catechismo?
Gesù trasformò da capo a fondo la società: la trasformò nelle idee, nei costumi, nelle leggi, in tutto.
E con qual mezzo visibile? Con un mezzo semplicissimo. Udite. Chiamò intorno a sé dodici poveri pescatori e, dopo avere per tre anni scritto il Catechismo nella loro mente e nel loro cuore, disse: "Andate, ammaestrate tutti i popoli: insegnate loro ciò che io ho insegnato a voi, e i vostri successori proseguano l'opera vostra fino al termine de' tempi".
E così fecero, e il mondo divenne cristiano. (...)

Volete forse il segreto per guadagnarvi l'affetto e trascinarvi dietro le turbe dei ragazzi? Eccovelo, il grande segreto: vestite la carità di Gesù Cristo!
Per piantare e tenere viva l'opera del Catechismo una cosa sola basta: la carità viva di Gesù! Tutti gli ostacoli cadono, tutto si ottiene, quando chi fa il Catechismo ha la carità di Gesù Cristo.
Se sarete scelti dall'alto privilegio di aiutare il vostro parroco a fare il Catechismo, domandate al Signore che vi dia carità grande.
Quella carità paziente e benigna, umile, garbata, che tutto soffre, tutto spera, tutto sostiene, e non viene mai meno.
Ripieni di questa carità, andate in cerca dei fanciulli che la domenica specialmente vanno errando per le vie e per le piazze, guadagnateli con questa carità: non stancatevi mai, dissimulate i difetti, sappiate soffrire e compatire tanto.
Abbiate un sorriso, una parola soave, amabile per tutti, senza differenze, o figli miei, fatevi tutti a tutti per portare tutte le anime a Gesù. Siate pronti per un'anima a dare la vita e a dare mille vite per un'anima! Colla dolcezza di Gesù voi, o cari figliuoli, vincerete e guadagnerete tutti i fanciulli del vostro paese.
La carità del Signore Nostro Crocifisso, ecco il segreto, anime dei miei figli e de' miei fratelli, ecco l'arte di tirare a noi, di toccare i cuori, di convertire, di illuminare e di educare i fanciulli, speranza dell'avvenire e delizia del Cuore di Dio!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! E rinnoveremo la gioventù! Oh quanti poveri figliuoli ho conosciuto sviati, disonesti, arrabbiati contro noi preti... che ci odiavano senza conoscerci,... giovani creduti incorreggibili..., eppure non avevano bisogno che d'una buona parola, d'una parola santa di carità, di uno sguardo dolce per essere vinti!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! Colla carità faremo tutto, senza la carità faremo niente!
Oh vieni! O carità santa e ineffabile di Gesù e vinci e guadagna il cuore i tutti e vivi grande e affocata nella povera anima mia!
San Luigi  Orione Nel nome della Divina Provvidenza, Don Orione, Ed.Piemme


 

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don orione

domenica, 11 novembre 2007
San Luigi Orione
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Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

Si era a pochi giorni dopo il terremoto (del 1915, nella Marsica, in Abruzzo). La maggior parte dei morti giaceva ancora sotto le macerie. I soccorsi stentavano a mettersi in opera. Gli atterriti superstiti vivevano nelle vicinanze delle case distrutte in rifugi provvisori. Si era in pieno inverno, quell'anno particolarmente freddo. Nuove scosse di terremoto e burrasche di neve ci minacciavano (...).
Durante certe notti gli urli delle belve non ti lasciavano prendere sonno (...). Una di quelle mattine grigie e gelide, dopo una notte insonne, assistei ad una scena assai strana. Un piccolo prete sporco e malandato, con la barba di una decina di giorni', si aggirava tra le macerie attorniato da una schiera di bambini e ragazzi rimasti senza famiglia. Invano il piccolo prete chiedeva se ci fosse un qualsiasi mezzo di trasporto per portare quei ragazzi a Roma. La ferrovia era stata interrotta dal terremoto, altri veicoli non vi erano per un viaggio così lungo.
In quel mentre arrivarono e si fermarono cinque o sei automobili.
Era il re (Vittorio Emanuele III) col suo seguito che visitava i comuni devastati. Appena gli illustri personaggi scesero dalle loro macchine e si allontanarono, il piccolo prete, senza chiedere il permesso, cominciò a caricare sopra una di esse i bambini da lui raccolti. Ma, com'era prevedibile, i carabinieri rimasti a custodirle vi si opposero, e poiché il prete insisteva, ne nacque una vivace colluttazione al punto da richiamare l'attenzione dello stesso Sovrano.
Per nulla intimorito, il prete si fece allora avanti e, col capello in mano, chiese al re di lasciargli per un po' di tempo la libera disposizione di quelle macchine in modo da poter trasportare gli orfani a Roma, o almeno alla stazione più prossima ancora in attività. Date le circostanze, il re non poteva non acconsentire.
Assieme ad altri, anch'io osservai con sorpresa e ammirazione tutta la scena. Appena il prete, col suo carico di ragazzi, si fu allontanato, chiesi attorno a me: "Chi è quell'uomo straordinario?". Un vecchio, che gli aveva affidato il suo nipotino, mi rispose: "Un certo don Orione, un prete piuttosto strano".
Così lo scrittore Ignazio Silone ha raccontato in "Uscita di sicurezza" il suo primo incontro con don Orione, avvenuto quando egli, appena quindicenne, perse casa e famiglia proprio durante quel terribile terremoto di cui parliamo.
Allora, nel 1915, quello strano prete era già il fondatore amato e rispettato di un istituto religioso che si occupava dei poveri d'ogni specie. Tuttavia era accorso subito personalmente, tra le montagne dell'Appennino, a cercare gli orfani sperduti tra i casolari.
A volte doveva contendere ai lupi quei poveri orfanelli seminudi che cercava portando con sé vestitini, biscotti e gianduiotti, restandosene per giorni e giorni tutto inzuppato d'acqua, a percorrere instancabilmente sentieri pieni di neve, per raggiungere paesini diroccati sui loro monti.
"Oh, questi cagnacci non la vogliono proprio smettere.. .", spiegava ai bambini raccolti su un camioncino di fortuna che si era arrampicato sul Monte Bove, fino a 1.300 metri, ma erano proprio lupi che saltavano attorno, cercando di azzannare i piccini terrorizzati
Sembrava una scena da favola, da raccontare attorno al fuoco. Era, invece, la tragica realtà: per salvare decine di bambini don Orione si sfiniva nel digiuno, nel freddo, nella disumana fatica, fino a che cadde esausto.
Quando giunsero altri collaboratoti del suo stesso istituto, lo trovarono febbricitante da far pena. Egli si affidò alle loro cure mormorando: "In questi giorni se ne sono andati due anni della mia vita".
Un altro celebre studioso del tempo, il barone Von Hùgel, ebbe l'occasione di ascoltare il racconto di queste imprese dalla bocca della sua stessa figlia che era stata testimone oculare. A conclusione dei suoi Essays and Addresses on the Philosophy and Religion (Saggi di filosofia religiosa) ricordò l'esperienza della figlia ormai defunta.
Scrisse: "Quando la mia figlia maggiore, circa otto mesi prima della sua morte, poté da Roma giungere al centro della terribile devastazione, proprio allora causata da un terremoto eccezionalmente violento, un contrasto impressionante venne a colpire d'un tratto il suo spirito.
Nel mezzo della morte e del disordine si muoveva, completamente assorto nella sventura di quei poveri, don Orione, un umile prete, un uomo cui molti guardavano già come a un santo, sorto dagli umili e dai poveri, per gli umili e per i poveri.
Egli portava due bimbi, uno su ciascun braccio, e ovunque andasse recava ordine, speranza e fede in mezzo a tutto quello scompiglio e quella disperazione.
Mia figlia mi disse che ciò faceva sentire a tutti che l'Amore era proprio in fondo a tutte le cose, un Amore che appunto là, per quei luoghi, si manifestava attraverso il completo, affettuoso dono di sé, di quell'umile prete...".
In verità don Orione aveva già una lunga esperienza di come portare amore in tali sciagure,
Appena sette anni prima, un altro terribile terremoto aveva raso al suolo in pochi istanti le città di Messina e di Villa San Giovanni. Solo nella cittadina siciliana, su 150.000 abitanti, ne erano morti 80.000.
Già allora egli era stato in prima linea, organizzando i soccorsi, installando il suo primo quartier generale a Reggio Calabria, in un vagone abbandonato sui binari morti della ferrovia.
Ma ben presto dalle sue mani era passata tutta la rete dei soccorsi ed era lui che coordinava gli aiuti che provenivano dal Papa e dalla casa reale.
Lavorò al punto che Pio X decise di nominarlo temporaneamente lui, un piccolo prete piemontese, superiore di una Congregazione religiosa appena formata! Vicario Generale della diocesi di Messina. Abitò di conseguenza, per due anni nella curia arcivescovile di quella città disastrata.
Non era un tipo da compromessi ed era costretto ad operare in una regione dove gli accomodamenti erano continuamente sollecitati e richiesti. Non mancarono perciò croci, vessazioni e tentativi di infamarlo.
Ma don Orione non era il tipo da cedere. Sullo stemma di un vescovo aveva letto un giorno l'antico e ambizioso motto desunto dalle odi del poeta latino Orazio "Frangar nec flectar" ("Anche se spezzato non mi lascerò piegare!"). Aveva commentato: "io non mi lascerò nè spezzare ne piegare!".
Pio X, che gli aveva affidato quell'incarico oneroso, da Roma gli mandava accorati messaggi: "Portate a don Orione la mia benedizione e ditegli che abbia pazienza, pazienza, pazienza, e che con la pazienza si fanno i miracoli".
I miracoli di don Orione erano intanto gli orfanotrofi che riusciva ad aprire sia in Calabria che in Sicilia.
Ma è tempo di riandare alle origini di quella avventura. Colui che fu definito "padre degli orfani e dei poveri" nacque a Pontecurone, vicino ad Alessandria, nel 1872, da una famiglia molto umile che abitava in una casetta rustica, aggrappata alla villa di Urbano Rattazzi, allora celebre statista.
Il papà faceva il selciatore di strade e si vantava di essere "garibaldino" e anche un po' anticlericale; la mamma guadagnava qualche soldo al tempo della mietitura quando, alle tre del mattino, partiva per andare a spigolare sui campi, portando il piccolo Luigi avvolto nello scialle.
Era l'ultimo di quattro figli e i vestitini gli arrivavano quando già gli altri tre fratelli li avevano ben consumati. Era, però, una povertà onesta.
"Quella povera vecchia contadina di mia madre, racconterà poi don Orione, si alzava alle tre di notte e via a lavorare, e pareva sempre un fuso che andasse, sempre s'industriava, faceva da donna e, con i suoi figli, sapeva fare anche da uomo, perché nostro padre era lontano a lavorate nei Monferrato.
Batteva il falcetto per fare l'erba e lo batteva lei, senza portarlo all'arrotino, faceva la tela con canapa filata da lei, e i miei fratelli si divisero tante lenzuola, tanta bella biancheria, povera mia madre... Quando è morta, le abbiamo ancora messo il suo vestito da sposa, dopo cinquantuno anni che era sposata; se l'era fatto tingere in nero e faceva ancora la sua bella figura, ed era il suo vestito più bello. Vedete, cari figli miei, come facevano i nostri santi e amati vecchi?".
Ma la mamma era soprattutto profondamente credente e don Orione ricorderà sempre con commozione non solo che ella andava spesso a ricevere l'Eucaristia, ma che al ritorno diceva sempre ai figlioli:
"Ho pregato prima per voi e poi per me. Ho ricevuto il Signore per voi e per me". Al piccolo Luigi sembrava quasi che la mamma si levasse il pane di bocca per darlo a lui, perfino quando faceva la Comunione!
Ricorderà ancora:
"Mia madre, anche quando io e i miei fratelli eravamo già grandi, ci fissava il posto in chiesa; "Perché vi voglio vedere...". Voleva sapere dove si era in chiesa, e voleva sentire anche la nostra voce pregare...".
"Mia madre ci faceva dire le preghiere seduti, solo quando eravamo malati...".
Sono bozzetti d'altri tempi, e tuttavia ci fanno respirare il clima di umiltà, di forza e di fede, da cui Luigi trasse quella incredibile resistenza alla fatica che doveva poi caratterizzarlo, e quella passione "cristiana" per i poveri che non l'avrebbe mai abbandonato.
Quando, al termine della sua vita, lo costringeranno ad andare in un pensionato per convalescenti a San Remo dopo vari attacchi al cuore, e dopo che aveva già ricevuto gli ultimi sacramenti, si lamenterà: "Non è tra le palme che io voglio vivere e morire, ma tra i poveri che sono Gesù Cristo".
Per molti cristiani, questo amore "ai poveri che sono Gesù Cristo" nasce tardi, come maturazione della fede adulta e non senza fatica. Per lui cominciò naturalmente, come attaccamento mai dimenticato, stima e venerazione, verso quei poveri cristiani che erano papà, mamma e i suoi fratelli. Egli stesso, del resto, dai dieci ai tredici anni aveva aiutato il papà a selciare le strade e trascinare carriole, vagando lontano da casa.
Sognava già allora di entrare tra i francescani, perché li considerava i frati del popolo e degli umili che volevano aiutare e soccorrere.
Ci provò infatti, a tredici anni, ma una brutta polmonite lo costrinse a tornare in famiglia.
Riuscirono poi a trovargli un posto nel collegio di quel prete torinese che tutti ormai consideravano l'apostolo della gioventù abbandonata. Mi riferisco a don Bosco al quale, alla fine del 1886, restava poco più di un anno di vita.
Quando giunse il piccolo Orione chiese un permesso speciale per potersi confessare da don Bosco che di solito si dedicava ai ragazzi più grandi, dalla quarta ginnasiale in su.
Per essere sicuro di fare una buona e completa confessione, aveva consultato alcuni formulari di "esame di coscienza" e li aveva trascritti quasi integralmente. Solo alla domanda: "Hai ammazzato?", aveva risposto negativamente. Gli altri peccati li aveva copiati tutti, riempiendo alcuni quadernetti.
Ma vale la pena ascoltare il racconto dalla sua stessa bocca;
"Con una mano nella tasca dei quaderni e l'altra al petto, aspettavo in ginocchio, tremando, il mio turno. "Che cosa dirà don Bosco pensavo tra me, quando gli leggerò tutta questa roba?". Venne il mio turno. Don Bosco mi guardò un istante e senza che io aprissi bocca, tendendo la mano disse: "Dammi dunque questi tuoi peccati". Gli allungai il quaderno, tirato su accartocciato dal fondo della tasca. Lo prese e senza neppure aprirlo lo lacerò. "Dammi gli altri". Subirono la stessa sorte. Ed ora, concluse, la tua confessione è fatta, non pensare mai più a quanto hai scritto e non voltarti più indietro a contemplare il passato". E mi sorrise, come solo lui sapeva sorridere".
Per delineare la personalità di san Giovanni Bosco e la genialità del suo metodo pedagogico, un episodio simile vale più di tanti volumi.
Non c'è da meravigliarsi se quando il santo si ammalò gravemente ci furono sei ragazzi dell'oratorio che durante una Messa solenne, in maniera esplicita, offrirono la loro vita per lui. Tra di essi c'era il piccolo Orione.
Anche il mistero della Chiesa emerge in tutta la sua bellezza quando si guardano insieme, in un unico colpo d'occhio, il vecchio e saggio sacerdote che confessa ed educa il ragazzo timido e scrupoloso. Ambedue avevano il cuore ardente d'amore per Dio e per il prossimo, ambedue erano decisi per la santità. Oggi ambedue sono ugualmente santi e venerati nella Chiesa.
Era logico attendersi allora che Orione restasse tra i salesiani e divenisse, col tempo, uno dei più fedeli e geniali collaboratori. Tanto più che don Bosco, dopo quella famosa confessione, gli aveva detto con intenzione guardandolo fisso negli occhi: "Ricordati che noi saremo sempre amici".
Luigi, del resto, già si disponeva con un corso dì esercizi spirituali a fare il suo ingresso nel noviziato dei salesiani, seguendo una vocazione di cui mai aveva dubitato.
I dubbi gli vennero nella preghiera, quando gli si affacciò alla mente la possibilità di entrare invece nel seminario diocesano. Cacciò quei dubbi come una tentazione, essi diventarono più forti. Passò un'intera notte a piangere e a pregare, appoggiato alla tomba di don Bosco, che era in mezzo al giardino della casa chiedendogli tre segni ("Fu una ragazzata, dirà poi, ma tant'è... !"). Uno dei segni però era molto importante: riguardava il ritorno del papà alla pratica religiosa. Si avverarono tutti e tre.
Le ultime ansie scomparvero la notte successiva, quando sognò don Bosco che lo aiutava, sorridendo con tanta paterna tenerezza, a indossare la veste talare che avrebbe dovuto portare in seminario.
Oggi possiamo dire che don Bosco, dal cielo, sapeva perché Orione non doveva diventare salesiano: la sua opera era infatti destinata soltanto ai giovani, quella di don Orione invece doveva riguardare i bisognosi di ogni genere e il sollievo di ogni possibile miseria.
Egli si sarebbe impegnato in tutte le "opere di misericordia" che, secondo il catechismo, sono ben quattordici! Qualcosa di tutti gli altri fondatori di istituti religiosi, anche dei più grandi, sarà presente in lui e nella sua attività. Lo vedremo.
Si presentò dunque al seminario di Tortona dove completò gli studi ginnasiali rivelandosi, a detta di tutti, un allievo veramente modello: eccelleva nello studio, nella carità, e in quell'entusiasmo contagioso che lo avrebbe poi sempre caratterizzato. "Ero buono, allora!", dirà da vecchio, ricordando sempre con nostalgia quegli anni in cui aveva imparato ad appassionarsi a Cristo e alla sua Chiesa.
Quando cominciò lo studio della teologia, gli morì il papà e venne meno anche il piccolo sussidio economico che la famiglia poteva granatigli.
Per fortuna ad Alessandria vigeva l'usanza di offrire, ai tre seminaristi più poveri, la possibilità di lavorare come custodi della cattedrale; potevano frequentare i corsi di studio del seminario, ma vivevano in alcune stanzette sotto la volta del duomo vicino al campanile. Servivano due o tre messe al giorno, curavano i paramenti e le candele e ricevevano un piccolo stipendio, oltre qualche mancia da parte dei canonici.
Non era molto, ma bastava per vivere; bisognava solo studiare più intensamente, perché il tempo se ne andava più in fretta.
In quella soffitta, il chierico Orione studiava, pregava, lavorava... e si preparava alla sua missione. La libertà dalla ferrea disciplina del seminario non la utilizzò per dissiparsi, ma pur attizzare quel fuoco che don Bosco gli aveva lasciato in cuore.
Le stanzette sotto le volte del duomo divennero un ritrovo di monelli di strada che Orione ricercava e portava a casa in gran numero. Qui faceva loro un po' di catechismo, lì faceva divertire, giocando a nascondino nelle vaste soffitte, e non mancava il momento delle castagne abbrustolite. Faceva insomma quello che aveva visto fare nell'oratorio di don Bosco, ma lo faceva in alto, tra i vecchi Santi di legno messi a riposare tra la polvere.
C'era qualche problema, evidentemente. Ogni tanto gli anziani canonici, da laggiù, sentivano in alto strani calpestii; soprattutto la sacrestia era diventata frequentatissima, non da devoti o penitenti ma da file di monelli che chiedevano la strada per "andare su da Orione".
Non poteva durare. Anche in città, quando lo vedevano a passeggio con quella sua rumorosa masnada, molti lo guardavano perplessi, qualcuno anche con fastidio e sospetto.
C'era poi il problema del denaro: il piccolo stipendio da sacrestano non bastava più da quando aveva cominciato a soccorrere le miserie più gravi dei suoi ragazzi.
Comunque, per disposizioni superiori, quell'oratorio improvvisato sulle volte del Duomo doveva finire.
I ragazzi si ritrovarono allora tutti in strada. Si radunavano in una piazzetta e là li aspettava Orione: poi li conduceva su verso il castello diroccato, giocando, e sui prati faceva la sua lezione di catechismo: un oratorio itinerante.
Era la settimana santa, vero tempo di passione per il povero chierico che non sapeva più come fare, e che tuttavia sapeva che Dio gli chiedeva proprio quell'insolito lavoro.
Per fortuna il vescovo della città era un vero padre. Già da tempo egli osservava la strana creatività apostolica di quel giovane seminarista e pensava che i parroci avrebbero dovuto prendere esempio e realizzare a loro volta degli oratori.
Perciò chiamò Orione e gli mise a disposizione il giardino dell'episcopio. A soffrire, un po', fu la vecchia mamma del vescovo che vide distrutti, in una sola domenica, tutti i suoi fiori, le sue aiuole, i vialetti ben curati.
Ora c'era soltanto un cortile, ben spianato, e decine di ragazzi vocianti. Di verde era rimasto solo un vecchio pino, perché si diceva che su di esso fosse apparsa in tempi lontani la Madonna. Ma c'era bisogno d'altalene e anche il pino finì per dare ottime tavole.
Orione era convinto che anche la Madonna fosse contenta, lei che sorrideva ora da una bella statua, come una mamma che guarda compiaciuta i suoi ragazzi giocare.
"E c'era chi borbottava, chi faceva della critica, chi rideva e derideva e chi dava del pazzo", ricorderà tanti anni dopo.
Le critiche non lasciano lividi, ma logorano la buona volontà e la fiducia. Fatto sta che a distanza di poco più di un anno, il vescovo gli comunicò la necessità di chiudere l'oratorio, benché i ragazzi fossero già centinaia.
C'era di mezzo la politica e anche l'impetuosità giovanile del nostro santo ("Io da giovane, dirà simpaticamente, ero anche un po' politico…").
Per difendere il Papa, attaccato dai laicisti, il giovane aveva fatto un discorso in cui, racconta, "Citai Vittorio Emanuele II e dissi ciò che non era prudente dire. Fatto sta che sguinzagliarono alle mie calcagna i poliziotti...".
E ora il Prefetto, per tacitare la questione, esigeva la chiusura di quell'oratorio che, a suo dire, poteva diventare un covo di sediziosi.
Luigi ricevette la notizia a capo chino. Prese la chiave e andò a depositaria nelle mani della statua della Madonna. Poi salì nella sua stanzetta a piangere. Se ne stava al buio, con la fronte appoggiata ai vetri di una finestrella che dava proprio sul cortile, di fronte alla Vergine. Ascoltiamo il suo stesso racconto:
"Mi misi a guardare giù l'oratorio che non si sarebbe più aperto; a piangere e pregare, perché sembrava che tutto fosse finito. Piansi, come piange un bambino, con l'abbandono, l'innocenza e la fede di un bambino... E pregai la Madonna, e misi me e tutto l'oratorio nelle sue mani...
E così, pregando e piangendo, e facendo il sacrificio di tutto, e offrendo tutto alla Madonna, senza accorgermi appoggiai il braccio al davanzale... e mi addormentai... E feci questo grande e santo sogno che non ho dimenticato mai più…".
La descrizione del sogno è ampia, molto bella, ed è un peccato doverla ora riassumere. Egli vide scomparire il muro di cinta del giardino, scomparire le case e farsi una grande pianura.
Della cinta del giardino restava un unico pioppo sul quale stava una Madonna di indescrivibile bellezza, col Bambino tra le braccia, e il suo manto, più bello dell'azzurro del cielo, si allargava sempre di più, fino a ricoprire quell'immensa pianura nella quale si assiepavano migliaia e migliaia di ragazzi, di ogni razza e colore a perdita d'occhio, e il loro numero cresceva, cresceva e in mezzo ad essi c'erano chierici, sacerdoti, suore...
Riprendiamo il suo racconto:
"La Madonna si volse a me indicandomeli. E si udì da tutta quella massa il canto dolcissimo del Magnificat... E i ragazzi cantavano tutti, ciascuno nella sua lingua, ma i vari idiomi si fondevano in un unico mirabile coro. La Madonna si unì a quel canto... e mi svegliai".
Aveva il cuore inondato di pace.
Che quell'oratorio lo si dovesse chiudere non era più un problema. Voleva dire che bisognava aprirne uno più grande, e con nuove prospettive.
L'occasione giunse molto presto.
Il vescovo aveva appena fatto costruire un bel seminario nuovo che però si era rivelato troppo piccolo per le numerosissime richieste. In più c'era il problema di coloro che erano troppo poveri per pagare la retta.
Orione si offrì per aprire una specie di succursale: un collegio per far studiare ragazzi poveri che, eventualmente, avrebbero potuto prepararsi lì al sacerdozio.
Il vescovo diede un generico permesso, pensando che tanto quel chierico non aveva un soldo, né una casa, tanto meno un collegio! Per prudenza, tuttavia, egli ritiro' il permesso prima che finisse la giornata. Quando, tuttavia, fece richiamare Luigi per dirgli di non pensarci più, si sentì dire che era proprio un peccato. Tutto ormai era pronto; la casa era stata trovata ed era già stato pagato l'affitto per un anno.
Come aveva fatto? Appena uscito dall'episcopio un amico gli aveva detto che suo padre affittava una casa appena fuori Tortona, per quattrocento lire l'anno. Orione l'aveva "fermata" subito, tempo una settimana per pagare. Sulla via del ritorno aveva incontrato una vecchina sua conoscente; avevano parlato del più e del meno, era venuta fuori l'idea del collegio.
"Un collegio? Ci metto mio nipote! Quanto prendete?".
"Poco, quello che mi date".
"Se vi do quattrocento lire (tutti i suoi risparmi), quanto tempo me lo tenete?".
"Per tutto il ginnasio!", aveva esclamato Orione sobbalzando di gioia a quell'evidente segno della Provvidenza.
E il Vescovo restò così pensoso che non volle più rischiare di contrariare il cielo.
Dopo un anno la casa era diventata insufficiente, e Orione rilevò nel centro di Tortona un vecchio convento abbandonato. Soldi non ce n'erano quasi mai. Al vitto si provvedeva con le entrate delle rette, ogni famiglia dava quello che poteva, e con le offerte che spesso giungevano come un miracolo. All'insegnamento provvedevano lo stesso fondatore, che insegnava italiano, storia e geografia, e qualche studente di teologia prestato dal seminario diocesano.
Intanto, benché fosse solo diacono, il vescovo lo mandava spesso a predicare nelle parrocchie della diocesi.
Finalmente, nel 1895, Orione venne ordinato sacerdote. Nella storia della Chiesa egli rappresenta il caso più unico che raro di un seminarista che diviene fondatore di un istituto religioso. E tale esso già era, se si pensa che a quel chierico si riferivano perfino alcuni studenti da Torino e da Genova.
Il giorno della sua ordinazione, il vescovo gli concesse infatti di rivestire dell'abito talare sei convittori che volevano incamminarsi al sacerdozio "sotto la guida ai don Luigi"
Di più ancora, monsignore autorizzò alcuni seminaristi che si sentivano attratti dall'impresa di Orione a lasciare il seminario e a iniziare con lui una forma di vita comune. Nasceva così la Piccola Opera della Divina Provvidenza.
Attorno a questo nucleo di "consacrati", vivevano, come in un'unica famiglia, sia dei ragazzi poveri che volevano soltanto studiare, sia dei seminaristi che non potevano permettersi la retta del seminario, sia coloro che desideravano far parte dell'istituto nascente.
L'ufficio della direzione, quello di don Orione, era l'atrio d'ingresso dell'edificio!
Non passò molto tempo che fu necessario sciamare. Un gruppo si trasferì dunque sulle colline di Voghera, dove si organizzò come "colonia agricola", questa volta con lo scopo di formare attraverso il lavoro quei ragazzi che non avevano inclinazione per lo studio.
Nel 1898 il vescovo di Noto, in Sicilia, che aveva letto un bollettino informativo del nuovo Istituto, scriveva a don Orione, un pretino ventisettenne, ordinato da appena tre anni, per offrirgli una casa dove aprire un collegio vescovile per almeno sessanta alunni. Egli si recò personalmente nell'isola per organizzare la fondazione; quando ripartì per Tortona portava con sé dodici chierici della diocesi siciliana che volevano far parte della sua Congregazione.
Nello stesso anno fondò gli Eremiti della Divina Provvidenza. In un'antichissima abbazia sull'Appennino Pavese, raccolse dei laici abituati al lavoro dei campi, che volevano consacrarsi al Signore, nella contemplazione e nel lavoro, alla maniera benedettina.
In breve nacquero numerose comunità similari, sempre dislocate negli eremi o nelle colonie agricole, come nucleo portante di preghiera e di lavoro.
Ne furono aperte in Piemonte, in Lombardia, in Umbria, nel Lazio, in Sicilia, dove i discepoli di don Orione dissodarono e fecero rifiorire vaste zone da tempo improduttive
Tra questi eremiti consacrati vi erano poi anche dei ciechi: di uno di essi, il celebre "Frate Ave Maria", è in corso il processo di beatificazione.
Nel 1915, Orione comincia a disseminare l'Italia di case di cura chiamate "Piccoli Cottolengo". Ciò che il Cottolengo aveva fatto a Torino in grande, egli lo dissemina in piccolo in tutta Italia e nel mondo (nove fondazioni prima della sua morte!), per accogliervi le miserie più ripugnanti, coloro che la società vuole ad ogni costò togliersi dalla vista.
I malati dovevano essere organizzati in "diverse famiglie", secondo il tipo di malattia, mentre i Piccoli Cottolengo dovevano accogliere solo coloro che non riuscivano a trovare posto in nessun altro ospedale o casa di accoglienza: gli ultimi degli ultimi "di qualunque nazionalità siano, di qualunque religione siano, e anche se fossero senza religione, perché Dio è Padre di tutti".
Ancora nel 1915, don Orione fonda le "Piccole suore missionarie della Carità", come ramo femminile di tutte le sue opere: alle suore erano affidati gli asili, gli orfanotrofi, le opere parrocchiali, l'educazione delle ragazze, l'assistenza ai poveri e agli infermi, nonché l'espletazione delle mansioni femminili di tutti gli altri istituti.
Le prime tre ragazze a cui diede l'abito le chiamò: Suor Fede, Suor Speranza e Suor Carità. Più tardi darà inizio a una diversa congregazione femminile destinata esclusivamente alla cura dei Santuari e per le attività attinenti al culto.
Nel 1927 fonda le "Suore Sacramentine cieche": per l'adorazione perpetua e la preghiera incessante, alle quali affida il compito di essere sostegno e radice di tutte le altre opere.
Degli orfanotrofi abbiamo già detto e i due terremoti dì cui abbiamo narrato diedero un forte impulso alla loro diffusione. Aggiungiamo; parrocchie, santuari, scuole, tipografie, case di riposo.
Sono più di cento le fondazioni di case e di opere a cui don Orione mise mano, prima di essere colto dalla morte a sessantotto anni, percorrendo non solo l'Italia ma anche Brasile, Argentina, Uruguay, Cile, Stati Uniti, Inghilterra, Grecia, Polonia, Albania e Palestina.
Accettò perfino di andare nella "Patagonia romana", così chiamava scherzosamente la periferia di Roma nel quartiere Appio, dove Pio X gli chiese di costruire una parrocchia e un grande istituto scolastico.
Alla sua morte alle varie diramazioni della sua "Piccola Opera della Divina Provvidenza" appartenevano circa 820 religiosi e parecchie centinaia di suore.
Tutto questo egli lo definiva: "un' umile congregazione", perché egli stesso era umile.
Girava il mondo vestito come l'ultimo dei poveri, con la veste rattoppata e le scarpe sformate, senza mai possedere un orologio né un portafoglio, amministrando fiumi di denaro, senza mai sapere se ce n'era abbastanza per il giorno dopo sentendosi soltanto un "servo della divina Provvidenza". II nome della sua congregazione era per lui una convinzione così profonda che dalla Provvidenza attendeva risposte e regali come un bambino li attende dalla mamma.
Giungevano visitatori con ingenti somme di denaro, proprio quando le cambiali stavano per scadere, e raccontavano di strani impulsi interiori a cui non avevano potuto resistere, e il buon Orione sorrideva perché aveva appena finito di litigare con una statua della Madonna o di San Giuseppe.
Oppure, durante la Messa all'altare della Madonna del Carmine, gli accadeva di distrarsi un po' per le preoccupazioni e di introdurre nelle parole della liturgia l'invocazione "Madonna Santa, pagatemi almeno un po' d'affitto!". Dopo la Messa la somma esatta, portata da uno sconosciuto, era in sacrestia che lo attendeva.
Oppure veniva un ispettore ministeriale, mandato dai nemici anticlericali a controllare la scarsa affidabilità economica di quella scuola dei preti; ma se ne andava senza muovere un dito, umiliato. Riferiva ai superiori che si era sentito preso in giro, perché sulla scrivania di Orione aveva visto pacchi di banconote. Don Luigi invece, raccontava ridendo ai suoi collaboratori che su quel tavolo non c'era mai stata una lira.
C'è un libro intero che raccoglie i suoi "fioretti", compresi quelli più ingenui e delicati.
I miracoli gli fiorivano tra le mani. Li raccontava lui stesso con tranquillo candore, timoroso solo che gli ascoltatori fossero così sciocchi da darne il merito a lui, che non c'entrava niente...
Sperava così che i suoi collaboratori imparassero a fidarsi della tenera bontà di Dio.
Infatti c'erano anche miracoli di tenerezza. Confidava ai suoi intimi:
"Vi dico una cosa che non ho mai detto a nessuno e che ho perfino vergogna a dire, ma sia detta a maggior gloria di Dio: quando, nei primi tempi della congregazione, dopo lunghe camminate a piedi per andare a predicare nei paesi, giungevo a casa stremato per la stanchezza, e spesso la notte mi sdraiavo su qualche dura panca di legno, il Signore mi usava una speciale delicatezza; alle volte l'infinita bontà di Dio mi faceva sentire l'impressione, o mi dava la sensazione, che la panca sprofondasse, facendosi soffice e tenera, come una morbidissima panca di gomma, come mi tuffassi in un materasso molle molle, nel quale sì sprofondavano le mie ossa stanche, ricevendone un riposo soavissimo…"
Dio stesso gli dava qualche volta quel conforto che egli non cercava mai, perché gli sembrava di rubarlo ai poveri.
Perciò fu veramente addolorato un pomeriggio d'estate, quando giunse nella casa di noviziato e trovò due novizi che riposavano comodamente su un vecchio divano. Fece portare in mezzo al cortile quell'"oggetto di lusso" e lo fece bruciare alla presenza di tutti.
Diceva che nelle sue case bisognava "sfacchinare da un'Avemaria all'altra".
Erano centinaia i giovani che chiedevano di entrare nella sua Congregazione. Eppure il "programma di vita" che egli incarnava e proponeva non lasciava adito a illusioni:
"Questa piccola e poverissima Congregazione è lo straccio della Madonna e della Chiesa di Roma…, è la congregazione degli straccioni di Dio.
Sai che cosa si fa con gli stracci? Con gli stracci si da' giù la polvere, si puliscono i pavimenti e si strofinano, si tolgono le ragnatele e si puliscono le scarpe… Ebbene, se ti piace essere uno straccio di Dio, uno straccio sotto i piedi di Dio, sotto i piedi immacolati della Madonna Santissima; se ti piace essere uno straccio sotto i piedi della Santa Madre Chiesa e nelle mani dei tuoi Superiori, questo è il tuo posto".
Ma egli poteva usare queste espressioni, perché nessuno poteva equivocare sul loro senso: don Orione descriveva anzitutto se stesso, il suo sconfinato desiderio di essere usato per il bene della Chiesa e del mondo, il suo sogno di essere maneggiato dalle mani di Dio e dalla Vergine Santa senza opporre alcuna resistenza.
Non descriveva umiliazione, ma una dignità.
Perciò non rifuggiva mai dall'umiliarsi, anche se lo faceva a volte scherzando. Indicando una foto che lo ritraeva a cavalcioni di un umile e paziente somarello, diceva con arguzia. "lui e io, siamo in due!". E i presenti si commuovevano pensando a quella sua paziente tenacia che non lo abbandonava mai.
Ma ciò che soprattutto colpiva e impressionava era il suo amore, senza alcuna riserva né misura, al vicario di Cristo in terra.
Scriveva:
"Il nostro Credo è il Papa, la nostra morale è il Papa; il nostro amore, il nostro cuore, la ragione della nostra vita è il Papa. Per noi il Papa è Gesù Cristo: amare il Papa e amare Gesù è la stessa cosa; ascoltare e seguire il Papa è ascoltare e seguire Gesù Cristo; servire il Papa è servire Gesù Cristo; dare la vita per il Papa è dare la vita per Gesù Cristo".
E chiedeva di aggiungere ai tre voti di castità, povertà e obbedienza, uno speciale quarto voto di "fedeltà al Papa". All'epoca non gli fu consentito. Oggi, invece, i figli di don Orione, come i gesuiti, emettono un quarto voto di fedeltà al Papa.
Il loro fondatore sosteneva che tutto il suo lavoro per i poveri e tra i poveri aveva questo scopo: far nascere nel cuore dei miseri "un amore dolcissimo per il Papa"
Diceva; "La Congregazione non potrà vivere, non dovrà vivere che per il Papa: deve essere una forza nelle mani di lui, dev'essere uno straccio sotto i piedi di lui. Vivere operare e morire d'amore per il Papa...".
Quando gli veniva chiesto quale fosse lo scopo distintivo del suo Istituto, dato che molti si dedicavano alle opere di misericordia, rispondeva che "suo fine speciale era trarre e unire con un vincolo dolcissimo e strettissimo di tutta la mente e del cuore i figli del popolo e le classi lavoratrici alla Sede Apostolica".
Egli certo soccorreva personalmente i poveri e i derelitti; ma se costoro avessero amato lui e non il Papa, lo avrebbe considerato una grande sciocchezza, perché lui, Orione, non era altro che una mano caritatevole che agiva a nome del Papa e indirizzava a lui.
Il Papa, del resto, sapeva di potergli chiedere qualunque cosa, qualsiasi sacrificio e qualunque impresa.
Una tale coscienza ecclesiale, concentrata sul ministero di Pietro nella Chiesa, non si era mai vista prima, soprattutto in un fondatore così immerso nei bisogni sociali. E non la si vedrà più fino ai nostri giorni.
Questa testimonianza attende ancora di essere adeguatamente compresa e valorizzata, soprattutto da quei religiosi che trovano nel loro impegno per i poveri una giustificazione per coltivare il loro "complesso antiromano".
Alcuni oggi storcerebbero la bocca a sottoscrivere quello che don Orione tranquillamente insegnava: "Prima il Papa e la Chiesa... e poi, molto dopo, il pane e la vita".
Per lui fu un sogno poter fare i voti perpetui nelle mani stesse del Pontefice. Glielo chiese come grazia specialissima durante un'udienza disposto ad attendere che il Papa si degnasse di fissare un giorno per la cerimonia.
"Anche subito", rispose sorridendo Pio X.
"Padre Santo, come vostra Santità sa, ci vorrebbero almeno due testimoni...".
E il Papa sorridendo: "Per testimoni pigliamo il mio angelo custode e il tuo".
Dobbiamo ancora parlare dell'attività di predicatore e di confessore che don Orione esplicò sempre volentieri e con indubbia fantasia.
Quando si trattava di Dio e delle anime sapeva perfino diventare un commediante.
Una sera lo invitarono a predicare in un paese dove i preti erano particolarmente odiati e dileggiati. Pioveva e si presentò con le scarpe infangate e con la veste sgocciolante. Salì la scaletta del pulpito appoggiandosi pesantemente come un ubriaco e borbottando in dialetto, ma in modo che tutti sentissero, le ingiurie più comuni rivolte contro i preti, e facendo il verso sgraziato delle cornacchie.
Il parroco si mise le mani nei capelli, pensando che fosse impazzito.
Ma quando fu sul pulpito, quel misero prete, e tutti sapevano chi era, li guardò con incredibile fierezza. Poi cominciò: "Così, così si saluta qui il prete, il ministro di Dio, quando passa". Alla fine parlò del sacerdozio in modo da farli piangere.
In un'altra parrocchia si predicavano le missioni popolari e il risultato era scarso. Per la conclusione don Orione chiese di far venire dieci confessori. Al parroco sconfortato, un solo sacerdote sembrava più che sufficiente. Obbedì, comunque.
Quell'ultima sera, quando la chiesa del paese stentava a riempirsi, e il sacrestano suonava rassegnato le campane, si vide a un tratto entrare un tale avvolto da un logoro tabarro, con un cappellaccio in testa; si gettò sul banco e cominciò a lamentarsi ad alta voce: "Ecco come sono ridotto! E pensare che in casa di mio padre non mi mancava nulla...".
Per farla breve: era don Orione che recitava la parabola del "Figlio prodigo", e la gente accorreva, e qualcuno andava a chiamare gli assenti.
Quando la Chiesa fu pienamente affollata, quel prete originale dal pulpito parlò del perdono di Dio fino a far piangere tutti. Piangevano, tra gli altri, anche i dieci confessori, che sembravano comunque troppo pochi. Tutto il paese quella volta si confessò.
Siamo giunti alla fine del nostro racconto. Era il 1940, e don Orione era a San Remo, un po' triste perché gli toccava morire tra le palme, invece che tra i poveri. Vi era giunto il 9 marzo e si era molto agitato: la camera, pur privata di tutto il mobilio superfluo, gli sembrava troppo lussuosa! "Non mi sento, non posso stare qui: fammi la carità, guarda l'orario dei treni!", diceva a un confratello. Poi si calmo, per fortuna in un angolino c'era una statuetta della madonna.
"Guarda com'è bella! - disse- non ti pare che non dovrei fare altro che chiudere gli occhi?".
Li chiuse tre giorni dopo, dicendo: "Gesù, Gesù. Vado!". Per l'ultima volta si sentiva inviato in missione, teso a una pronta obbedienza.
La bara fu portata, in un vero trionfo, fino a Tortona, in un santuario che egli aveva costruito alla Madonna della Guardia. Ad ogni città che il corteo funebre attraversava, Genova, Novi, Alessandria, Milano, c'era ad attenderlo una folla immensa.
A Sant'Ambrogio di Milano, ad attendere la bara c'era il santo cardinale Schuster.
Un francescano scrittore che passava in tram per quelle strade ascoltò questo dialogo tra due operai che lavoravano sdraiati per terra, e ne riferì su un giornale:
"Che succede? Chi è morto?".
"Don Orione".
"E chi è don Orione?".
"Era un prete, ma era un brav'uomo".
Don Orione, certo, avrebbe sorriso.

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