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martedì 7 febbraio 2012

Dostoevskij

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Quando un uomo ha grossi problemi dovrebbe rivolgersi ad un bambino; sono loro, in un modo o nell'altro, a possedere il sogno e la libertà

(Fjodor Dostoevskij)

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dostoevskij

lunedì, 08 agosto 2011
Quel volto nascosto in tutto ciò che è bello
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Michelangelo - Cappella Sistina
 

di Giovanni Fighera
 
06-08-2011



Qual è l’«utilità» della bellezza nella nostra vita? Qual è il legame tra il bello e la civiltà, tra il bello e le altre discipline, tra il bello e le dimensioni concrete dell’esistenza? Affermare che la bellezza sia «disinteressata» coincide con l’attestazione della inutilità della bellezza?

Iniziamo col dire che la bellezza ha una suprema funzione educativa. Se, infatti, il bello produce sull’uomo l’effetto della contemplazione, allora esso ci educa a cogliere la realtà per quella che è. Di fronte al bello, cioè, l’uomo è portato, come primo, iniziale e puro impeto, a contemplarlo: è, quindi, educato a trasformare l’amore di concupiscenza in amore per l’oggetto in sé stesso. Questo sguardo puro, distaccato e contemplativo di fronte alla bellezza del reale si chiama verginità. Dostoevskij non aveva dubbi nel riconoscere l’importanza della bellezza. Scriveva nei Demoni: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono già un frutto, il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! ».

Bisogna, però, sfatare un inveterato luogo comune, quello che la bellezza riguardi solo le discipline artistiche. La bellezza riguarda ogni ambito della vita e della realtà come scrive Dante nel Paradiso: «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante». Quindi, la bellezza è alla base di ogni passione e interesse umano. Così si esprime lo scienziato italiano Antonino Zichichi sullo sviluppo della scienza a partire da G. Galilei: «La scienza nasce da questo atto di umiltà intellettuale: dare a oggetti volgari dignità intellettuale, studiandoli. Questa umiltà intellettuale aveva in Galileo Galilei radici profonde: la fede nel fatto che in ciascun oggetto, fosse esso volgare o inutile, ci doveva esser la mano del Creatore […]. Le grandi scoperte galileiane sono le prime impronte di colui che ha fatto il mondo. Esse sono state ottenute partendo non da tecnologie, ma da semplicissime pietre, spaghi e legni. […] E invece Galilei considera quegli oggetti depositari delle impronte del Creatore».

Senza lo stupore per il creato e per l’ordine nascosto ivi presente, l’indagine scientifica non partirebbe. Quindi, non solo l’arte, ma anche la scienza deriva dall’osservazione e dallo stupore per la bellezza. Anche Albert Einstein afferma che il sentimento religioso dello scienziato «consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo […]. La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza». Stupore, contemplazione, estasi di fronte alla bellezza della realtà: questi sono gli sproni che inducono il «vero uomo di scienza» a ricercare le leggi che descrivono (cioè dicono il «come», ma non il «perché») quell’ordine e quell’armonia che tralucono dal creato. Senza la certezza di un ordine nascosto non vi sarebbe ricerca.

L’uomo medioevale, che certo non possiede gli strumenti tecnici per l’indagine, è, però, convinto dell’esistenza di un ordine e lo comunica attraverso la presenza del numero tre (con valore religioso di richiamo alla Trinità) ovunque. La certezza di quest’ordine appartiene all’uomo prima che questi sia in grado di dimostrarlo scientificamente. È lo sguardo che si fa contemplazione delle cose che lo percepisce e fa scaturire il desiderio di coglierlo più in profondità. La bellezza ha, quindi, la capacità di muovere l’uomo all’ardore della conoscenza e alla ricerca della verità, nel contempo lo sprona al desiderio di bene  come il protagonista del bellissimo film Le vite degli altri dimostra quando si chiede: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver ascoltato questa musica?».

La bellezza e l’arte, poi, consolano l’uomo dalle sofferenze quotidiane. È questa una convinzione da sempre presente nell’espressione artistica. La storia letteraria è un monumento, cioè una testimonianza imperitura, del valore dell’arte come consolazione delle afflizioni, tentativo, seppur sempre parziale e imperfetto, di lenire le sofferenze per la perdita di un caro. Indubbiamente, gli esempi al riguardo si sprecano. Come non ricordare le poesie di Pascoli dedicate alla morte del padre, assassinato nel 1867 («X agosto», «La cavallina storna», …) oppure il resoconto diaristico composto da Ungaretti durante la Prima guerra mondiale, intitolato Il porto sepolto, in cui il poeta si sofferma sulla scomparsa dei compagni di guerra («Veglia», «Soldati», …)? Come scordarsi versi come «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…», scritti sempre da Ungaretti quando vuole raccontare la sua sofferenza per la morte del figlio di soli nove anni?

La funzione eternatrice dell’arte scaturisce, poi, in concomitanza stessa della sua nascita: essa può rendere immortale il nome di chi è stato e non c’è più. Basti pensare ai poemi omerici o, per addurre esempi tratti dalla nostra letteratura, alla poesia dantesca. Quanti personaggi nell’Inferno chiedono che la propria memoria sia rinverdita e procrastinata da Dante, evidentemente attraverso il suo racconto memoriale! Pensiamo a Ciacco che si congeda da Dante viator con una richiesta: «Quando sarai nel dolce mondo, / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi».

Cinquecento anni più tardi, Foscolo costruirà un intero poema sulla bellezza, sull’arte e sull’efficacia che esse hanno nel rendere immortale il nome dei grandi: I sepolcri. Si pensi all’icastica catena di trionfi in cui Foscolo raffigura le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere sul tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge: «Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / Il tempo con sue fredde ale vi spazza/Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/Di lor canto i deserti, e l’armonia/ Vince di mille secoli il silenzio». È somma poesia, questa, ove Foscolo tocca uno dei vertici della letteratura di sempre. Se Foscolo afferma che la bellezza dell’arte e della poesia avrebbe trionfato sul deserto del tempo, Dostoevskij arriverà a scrivere nei Demoni che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Che cosa significa?

Papa Giovanni Paolo II commenta nella «Lettera agli artisti» chiosando che la bellezza genererà sempre quello stupore da cui sorgerà l’entusiasmo che permetterà all’uomo di rialzarsi. Rivolgendosi sempre agli artisti Papa Benedetto XVI spiegherà, poi, che «speranza è vera figlia di bellezza». Charles Moeller scrive in Saggezza greca e paradosso cristiano: «Una sola cosa supera la bellezza della Divina Commedia sulla Terra ed è la bellezza del volto dei santi». Per questo nei primi secoli la Didaché spronava i cristiani a guardare sempre il volto dei santi e a trarre conforto dai loro discorsi. La bellezza del santo deriva dal suo amore per Cristo, il bello e il buono per eccellenza, via verità e vita.

La ricerca della bellezza nella vita riguarda, quindi, la felicità dell’uomo. Ne è ben cosciente Dante che ha scritto la Commedia per «accompagnare gli uomini dalla condizione di peccato e di infelicità alla condizione di felicità e di beatitudine» (si veda la lettera a Cangrande della Scala). Nella poesia «Alla sua donna» Leopardi, poi, scrive rivolgendosi alla bellezza che se l’uomo la incontrasse e la amasse allora la sua vita sarebbe felice, addirittura sarebbe come quella che «nel ciel india».

Per questo san Giustino martire poteva affermare: «Tutto il bello ci interessa, perché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua pienezza. Ne consegue che tutto ciò che di buono è stato espresso da chiunque appartiene a noi cristiani». La bellezza è cioè una modalità con cui Dio ci attira a sé

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einstein, bellezza, dante, dostoevskij

giovedì, 17 marzo 2011

Meriti e limiti del Risorgimento
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Il Cardinale Giacomo Biffi spiega i benefici e i problemi dell’Unità d’Italia
di Antonio Gaspari
Tratto dal sito
ZENIT, Agenzia di notizie l'11 marzo 2011 Il Risorgimento fu positivo sotto molti aspetti. Anche l’Unità d’Italia apportò molti benefici, ma attenti alle esagerazioni, perché l’Italia era grande anche prima dell’Unità. Questo è quanto sostiene il Cardinale Giacomo Biffi nel libro “L’Unità d’Italia” appena pubblicato dalla Cantagalli.
In questo saggio di 88 pagine l’Arcivescovo emerito di Bologna, con la consueta arguzia, ricorda quanto gli eserciti francesi ‘liberatori’ siano stati dei ladri, non solo a Bologna, ma in tutte le città d’Italia.
“Prima di allora i nostri conquistatori austriaci o spagnoli – ha scritto il porporato - non si erano mai permessi di derubarci delle nostre opere d’arte”. Solo a Bologna “asportarono trentun dipinti dei più rinomati maestri (quali il Guercino, i Carracci, Guido Reni, Raffaello ecc.) e allo stesso modo si comportarono in tutte le altre città”.
Il Cardinale Biffi precisa che “per quel che se ne sa, nessuna voce di vergogna o di rammarico è giunta poi fino a noi dalla Francia per questo odioso comportamento”.
“L’esito del Risorgimento - scrive Biffi - fu indubbiamente positivo per molti aspetti”. Anche se “è costato sacrifici”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna precisa poi come l’identità nazionale fosse già ben presente tra le genti che hanno popolato lo stivale. Già i poeti Giovanni Petrarca e Dante Alighieri parlavano, infatti, del Bel paese dove il “sì suona”. La grandezza letteraria, artistica, scientifica, religiosa e sociale dell’Italia esisteva ed era ben solida già prima del 1861.
A questo proposito il Cardinale Biffi riporta i commenti originalissimi e poco conosciuti di due grandi scrittori russi: Fëdor Michailovic(Dostoevskij e Vladimir Soloviev.
Dostoevskij scrisse infatti che “l’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour” e che, nonostante ciò, “anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è stato geniale, ha raggiunto il suo scopo ha fatto l’Unità d’Italia. Ma guardate più addentro e cosa vedete? L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei Papi”.
“E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce – continuava –. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea grande. Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito”.
Dal canto, Soloviev nell’Opravdanie dobra (La giustificazione del bene) elenca i contributi che l’Italia ha dato al mondo, tra cui “il primo europeo a penetrare in Mongolia e in Cina” e cioè “l’italiano Marco Polo. Un altro italiano scopre il Nuovo mondo (Cristoforo Colombo) e un terzo estendendo questa scoperta, gli lascia il proprio nome (Amerigo Vescpucci)”.
“L’influenza della letteratura italiana – aggiungeva Soloviev – resta predominante per diversi secoli; gli italiani vengono imitati nell’epica, nella lirica, nei romanzi; Shakespeare prende da loro i soggetti e la forma dei propri drammi e delle proprie commedie, (...) la lingua e i costumi italiani dominano dappertutto nelle sfere superiori della società”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna sottolinea che l’identità nazionale dell'Italia non è frutto solo di ciò che è avvenuto nel XIX secolo e ricorda che “molti tra i frutti più nobili e preziosi maturati tra noi dallo spirito umano in tutti i campi (del pensiero, della poesie, dell’arte) portano incancellabili i segni della loro dipendenza dalla visione cristiana”.
Detto ciò il Cardinale Biffi afferma che l’unificazione “è indubbiamente un valore” che “non deve essere messa in pericolo né da ideologie senza apprezzabile fondamento né da particolarismi egoistici” e indica in almeno tre i “guadagni provvidenziali del Risorgimento”.
Il primo è quello di “aver definitivamente liberato l’Italia da ogni dominazione non italiana”; il secondo è quello di “aver radunato tutti gli italiani nella realtà politica di un solo Stato”; mentre “il terzo ‘guadagno’ rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del potere temporale pontificio che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere”.
Nelle conclusioni il Cardinale Biffi affronta anche il tema della immigrazione e della identità culturale italiana, affermando che “ai forestieri si fa spazio non demolendo la nostra casa, ma ampliandola e rendendola ospitale sì, ma nel rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza”.

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dostoevskij, risorgimento

giovedì, 03 febbraio 2011
L'UOMO NON PUO' VIVERE SENZA DIO
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Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Con la figura di Dimitrij ricompare la dialettica sopra illustrata: "Fratello - dice ad Alioscia - ho sentito nascere in me , dopo il mio arresto, un essere nuovo; un uomo nuovo è risorto. Esisteva in me, ma non si sarebbe mai rivelato senza quel colpo di folgore. Che cosa mi può importare di scavare vent'anni nelle miniere? Non ho paura. Ma un'altra cosa io temo: che quest'uomo risorto se ne vada da me…Anche laggiù, nelle miniere, si può amare, vivere, soffrire. Si può rianimare il cuore intorpidito di un forzato, si può ricondurre dall'ombra alla luce un'anima grande, rigenerata dalla sofferenza, risuscitare un eroe…Non ho ucciso mio padre, ma accetto l'espiazione. Sì, noi forzati saremo uomini sotterranei, privati della libertà, tenuti a catena, ma nel nostro dolore risusciteremo alla gioia, senza la quale l'uomo non può vivere, né Dio esistere, poiché è lui che dona la gioia…Un forzato non può vivere senza Dio, ancor meno di un uomo libero. E allora noi, uomini di sotto terra, dalle viscere della terra faremo salire un tragico inno al Dio della gioia. Viva Dio e la sua divina gioia”. E ancora: "Io voglio soffrire, e la sofferenza mi purificherà…sono innocente della morte di mio padre! Accetto il castigo, non perché io abbia ucciso quel vecchio, ma perché avevo desiderato di ucciderlo".
Dostoevskij "I fratelli Karamazov"
da:
Libertà e Persona - Associazione culturale

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dostoevskij

venerdì, 10 dicembre 2010
La bellezza della realtà
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Non capisco come si possa passare davanti ad un albero, e non essere felice di vederlo; parlar con un uomo e non esser felice di amarlo. E quante belle cose vi sono ad ogni passo: guardate il bimbo, guardate l'aurora di Dio, guardate gli occhi che vi guardano e vi amano.

Dostoevskij

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bellezza, dostoevskij

lunedì, 16 agosto 2010
La Libertà dono di Dio
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«Invece di impadronirti della libertà umana, l’hai moltiplicata, e hai oppresso per sempre col peso dei suoi tormenti il regno spirituale dell’uomo. Tu volesti il libero amore dell’uomo, volesti che Ti seguisse liberamente, incantato e conquistato da Te. Al posto dell’antica legge fissata saldamente, da allora in poi era l’uomo che doveva decidere con libero cuore che cosa fosse bene e cosa fosse male, e come unica guida avrebbe avuto davanti agli occhi la Tua immagine: ma è possibile che Tu non abbia pensato che alla fine avrebbe discusso e rifiutato anche la Tua immagine e la Tua verità, se lo si opprimeva con un peso così spaventoso come la libertà di scelta?»

Fëdor Dostoevskij – il Grande Inquisitore

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dostoevskij, libertà

giovedì, 06 maggio 2010

150 ANNI/

Con buona pace di Cavour,
è il Papa che unisce l’Italia.
Parola di Dostoevskij
Renato Farina


mercoledì 5 maggio 2010
La domanda è semplice. Perché la Chiesa, in particolare la Chiesa italiana (anche se i puristi direbbero “la Chiesa che è in Italia”) adesso è la più forte sostenitrice dell’unità di questo Paese, quando a suo tempo la visse come un sopruso? È impazzita? Ha cambiato la sua essenza e il suo giudizio? Lo fa per convenienza? O per che altro?
C’è una risposta che discende dall’amore per il popolo, per la sua ricchezza. Provo ad analizzare.
L’unità d’Italia fu cercata certo in nome - da parte di molti, anche da intellettuali cattolici - dell’amore per il suo destino, perché non fosse più in balia dello straniero. Ma la mossa politica e ideologica fu a partire da un disegno illuministico e massonico, tale per cui il popolo in grande maggioranza cattolico andava emancipato dal suo attaccamento a ciò che ostacolava un nuovo ordine, comandato da interessi finanziari di sottomissione della povera gente, e per strappare Dio dalla vita pubblica consegnandolo ad una sfera privata, senza peso nel costruire la società.E ostacolo a questo era il papato. Una chiesa fatta di carne, di iniziativa sociale costruita al di fuori del controllo dei poteri forti. I libri cosiddetti revisionisti ricordano come furono incarcerati vescovi e sacerdoti solo perché non agitarono il turibolo al nuovo Dio che era lo Stato. Il Papa fu fatto prigioniero in casa sua. I beni della Chiesa erano in realtà i beni del popolo. Furono confiscati e rivenduti, impoverendo in particolare il nostro Sud, da cui fu drenato il risparmio intero della Sicilia e del mezzogiorno. Il modello era quello napoleonico. Lo Stato come fonte di ogni diritto. La Chiesa invece, essendo contro il liberalismo che arricchiva i lupi, stava a favore della libertà.
Estremizzo, ovvio. Ma va detto. C’era Dio in prigione, come si faceva a stare dalla parte del suo aguzzino?

La Chiesa - e in particolare Pio XI - ha ottenuto alla fine quel che voleva: con il Concordato e soprattutto i Patti Lateranensi poté avere un minimo territorio (a lui bastava un metro quadrato) che fosse sottratto alla potestà temporale, con la facoltà di imbavagliarlo.
Il tempo passa. La storia si sviluppa. Il popolo - dopo le due grandi guerre - si è trovato dinanzi alla possibilità di dar forma democratica ai suoi ideali. Si è generata una solidarietà. Un sentimento patrio, l’idea di una comunanza basata proprio sul suo sentimento profondo cristiano. È stato questa percezione di sé a permettere la ricostruzione.

Di queste cose ho molto discusso con un grande cattolico liberale e statista: Francesco Cossiga. Mi disse una volta: «Mi interessa l’Italia. Le volte che ho detto “Viva-l’Italia-Viva-la-Repubblica!” sono state tante. E ho sempre pensato allo Stato, a questo Stato, mentre lo dicevo. Ma anche a qualche cosa di più forte e intimo. All’Italia che senza questo Stato ora non ci sarebbe, eppure è più grande dello Stato. Ha un destino spirituale unico. C’è in questa Patria nostra, nei popoli che la costituiscono, un compito universale. Papa Giovanni Paolo II non ha mai compreso questa stranezza italiana. Questa frammentazione di popoli e la Chiesa che amava così tanto l’Italia da non desiderare l’unità nazionale. Un giorno, si decise a chiedermelo. “Senta, lei mi deve spiegare: come mai la Chiesa italiana era contro l’unità nazionale?” Per un polacco era inconcepibile. Io risposi: “Santo Padre, il giorno che Antonio Rosmini verrà fatto beato sarà una cosa molto più importante della conciliazione tra la Santa Sede e lo Stato italiano, perché sarà la conciliazione tra la nazione italiana e la Chiesa italiana”. Perché Rosmini aveva in mente un’Italia che fosse insieme Stato e la Chiesa non fosse libera “in” esso. Ma libera “con” lo Stato. Così come il popolo non era da lui fatto coincidere con lo Stato. È stato fatto beato Rosmini. La Chiesa ora riconosce pienamente l’Italia, si è riconciliata anche simbolicamente con la nazione italiana». Fin qui Cossiga.

Da parte mia sto con Fëdor Dostoevskij,citato dal cardinal Giacomo Biffi. Ricordo che Joseph Ratzinger ha definito questo meraviglioso genio russo come “il più grande letterato cristiano del XIX secolo”. E non era certo papista, da slavofilo ortodosso.
In una sua pagina tratta dal Diario di uno scrittore scrive: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e che cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.

Io credo che l’Italia debba ricordarsi di essere questa intensità unica al mondo. Essere piccoli rispetto a tanti numeri, ma coscienti di essere il luogo dove il particolare può diventare universale: nell’arte, nella scienza, anche nella visione politica.
Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.

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mercoledì, 23 dicembre 2009

 IL FANCIULLO PRESSO GESÙ
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Prefazione
 Il bambino «con la manina»
 
I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e vi immaginate di vederli.
Poco prima di Natale e nel giorno della vigilia mi accadeva sempre di incontrare nella via, al solito angolo, un piccino che non poteva avere più di sette anni. Con quel gelo terribile era vestito quasi come d’estate, ma aveva al collo un vecchio cencio, e ciò significava che vi era ancora chi lo vestiva prima di mandarlo fuori casa, lo mandava in giro «con la manina»: termine tecnico che vuol dire chiedere l’elemosina. Sono stati i bambini stessi a coniarlo. Ce n’è una moltitudine come lui, si aggirano per le vostre strade e ripetono in tono lamentoso quelle formule imparate a memoria; ma questo non si lamentava e parlava in un certo modo inusuale e ingenuo e mi guardava fiducioso negli occhi: doveva esser solo agli inizi della professione. Alle mie domande replicò che aveva una sorella a casa, senza lavoro e malata; forse era la verità, ma solo in seguito scoprii che di piccini così ve ne sono a miriadi; li mandano in giro «con la manina», anche nel gelo più terribile, e se non raccolgono nulla, vi sono senz’altro le botte ad attenderli. Racimolate le copeche, il bimbo ritorna con le dita intorpidite ed arrossate in qualche cantina dove si sta ubriacando una compagnia di perdigiorno, di quelli che «smettono di lavorare in fabbrica il sabato in vista della domenica e non vi fanno ritorno prima del mercoledì sera». Là nelle cantine, si ubriacano con loro anche le mogli affamate e maltrattate, e ancora lì vagiscono affamati i lattanti. Vodka, sporcizia, e depravazione, ma soprattutto vodka. Con le copeche raccolte il piccino viene subito spedito all’osteria, da cui torna con dell’altra vodka. Per divertimento versano anche a lui talvolta in bocca una mezzetta e sghignazzano quando, col respiro mozzato, cade sul pavimento quasi privo di sensi:

... e in bocca l’orribile vodka
senza pietà mi versava...

Una volta cresciuto, verrà spedito senza indugio da qualche fabbrica, ma tutti i suoi guadagni li porterà ancora a quei perdigiorno, che di nuovo se li berranno. Tuttavia già prima della fabbrica questi bimbi diventano dei perfetti delinquenti. Vagabondano per la città e conoscono vari posti nelle cantine dove pernottare indisturbati. Uno di loro pernottò per alcune notti di seguito da un portiere dentro una cesta, senza che questi se ne accorgesse neppure. Va da sé che diventano dei ladruncoli. Il furto si trasforma in passione persino per i bambini di otto anni e talvolta senza che siano minimamente consapevoli della criminosità della loro azione. Alla fine sopportano tutto: fame, freddo, botte solo per un’unica cosa, per la libertà, e fuggono dai loro perdigiorno per vagabondare ormai da soli. Sono dei selvaggi e talvolta non paiono neppure in grado di intendere nulla, né dove vivano, da che nazione provengano, né se vi sia Dio o se esista un sovrano; sul loro conto circolano voci tali da sembrare incredibili, ma tuttavia corrispondono ai fatti.



Ma io sono romanziere, e, mi pare, ho inventato una “storia”. Perché scrivo “mi pare”? Io stesso infatti so di sicuro di averla inventata, ma ho sempre l’impressione che questo sia accaduto chi sa dove e chi sa quando, che sia accaduto precisamente la vigilia di Natale, in qualche immensa città, e con un terribile gelo.
Mi si presenta l’immagine di un fanciullo, molto piccino ancora, di forse sei anni o anche meno. Questo fanciullo si destò un mattino in un sotterraneo umido e freddo. Aveva indosso una specie di giubboncino e tremava. Il suo alito si sprigionava come un bianco vapore, ed egli, stando seduto in un angolo, su un baule, di proposito emetteva quel vapore e si divertiva a vederlo uscir dalla bocca. Aveva però una gran voglia di mangiare. Più volte, fin dal mattino, si era accostato a un tavolaccio dove, sopra un misero pagliericcio e con un fagotto sotto il capo a mo’ di guanciale, giaceva la sua madre inferma. Come mai ella si trovava lì? Probabilmente era venuta col suo bambino da un’altra città e d’improvviso si era ammalata. La padrona di quei “cantucci”[1] la polizia l’aveva arrestata due giorni prima; gli inquilini erano andati in giro, poiché la giornata era festiva, tranne un rivendugliolo rimasto in casa, che già da ventiquattro ore giaceva ubriaco morto, non avendo atteso la festa per ubriacarsi. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchia ottantenne che un tempo era stata bambinaia e ora se ne moriva solitaria, sospirando, borbottando e brontolando contro il fanciullo, tanto che questi temeva ormai di avvicinarsi al “cantuccio” di lei. Da bere egli ne aveva trovato in qualche posto, nell’andito, ma una crosta di pane non aveva potuto scovarla, e forse già per la decima volta si era accostato alla mamma per destarla. Infine cominciò ad aver paura del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma non era stato acceso un lume. Palpato il viso della mamma, si meravigliò che ella non facesse alcun movimento e fosse diventata fredda come il muro. “Fa troppo freddo”, qui pensò, e attese un poco, dimenticandosi, inconsciamente, di levar la mano dalla spalla della morta, poi si soffiò sui ditini per riscaldarli, e a un tratto, avendo a tastoni trovato sul tavolaccio il suo berrettino, uscì alla chetichella e a tentoni dal sotterraneo. Sarebbe già andato via prima, ma aveva sempre avuto paura d’un grosso cane che stava disopra, sulla scala, e ululava tutto il giorno presso la porta dei vicini. Ma il cane ora non c’era, ed egli a un tratto uscì in strada.
Dio mio, che città! Egli non ha ancora mai veduto nulla di simile! Laggiù, donde è venuto, l’oscurità di notte è così nera, con un solo lampione in tutta la via! Le basse casupole di legno hanno tutte le imposte chiuse; sulla strada, appena si fa buio, non c’è più nessuno, tutti si rinchiudono in casa, e solo i cani urlano e abbaiano l’intera notte. Ma laggiù, in compenso, si stava così al caldo e gli davan da mangiare. O Signore, se almeno potesse mangiare anche qui! E che strepito, che chiasso c’è lì, quanta luce, e gente, e cavalli, e vetture; e un gelo, un gelo! Un vapore gelido fluisce dai cavalli frustati, dai musi che respirano ardenti; sulla neve soffice i loro ferri tintinnano urtando nei sassi, e come tutti si sospingono! ed egli ha tanta voglia di mangiare, o Signore, non fosse che un pezzetto di pane, e a un tratto i ditini si son messi a fargli così male! Un guardiano dell’ordine gli è passato accanto e si è voltato in là per non vedere il fanciullo.
Ecco un’altra via: oh, com’è larga! Qui lo schiacceranno certamente; e come tutti gridano, corrono, a piedi o in carrozza, e quanta luce, quanta luce! Ma che è questo? Oh, che vetro grande! e dietro quel vetro una stanza, e nella stanza un albero che arriva al soffitto: è un abete, e sull’abete quanti lumi, quante carte dorate e quante mele, e lì intorno fantocci e cavallini; e per la stanza corrono dei bimbi ben vestiti e lindi, che ridono, giuocano, mangiano e cantano. Ecco una bambina che s’è messa a ballare con un ragazzo, che graziosa bambina! Ed ecco anche una musica, attraverso il vetro la si sente. Il piccolo guarda, è meravigliato e già ride, ma gli fanno male anche i ditini dei piedi, e quelli delle mani si son fatti tutti rossi, non si piegano più e muoverli è doloroso. E a un tratto il piccino s’è accorto che le dita gli dolgono tanto, s’è messo a piangere ed è corso oltre, ma ecco che attraverso un altro vetro torna a scorgere una stanza, e anche lì degli alberi e, su tavole, pasticcini d’ogni sorta – con mandorle, rossi, gialli – e lì stan sedute quattro ricche signore che danno pasticcini a quanti vengono; la porta si apre ogni momento e molti signori entrano e vanno verso quelle signore. Il piccino s’è fatto avanti furtivo, d’un tratto ha aperto la porta ed è entrato. Oh, come si son messi a sgridarlo e ad agitare le mani verso di lui! Una signora gli si è avvicinata in fretta, gli ha ficcato in mano una copeca e gli ha aperto la porta per farlo uscire. Come s’è spaventato! E in quello stesso momento la copeca gli è scivolata di mano, tintinnando sui gradini: egli non ha potuto piegare i ditini arrossati per trattenerla. Il piccino è corso fuori e si è avviato lesto, ma senza sapere egli stesso da che parte. Vorrebbe di nuovo mettersi a piangere, ma ha troppa paura e corre, corre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo afferra, perché improvvisamente si è sentito così solo e pieno di paura. Ma a un tratto, o Signore, che c’è là ancora? Una folla di gente che sta lì e guarda con ammirazione: in una finestra, dietro il vetro, ci sono tre piccoli fantocci agghindati con vestitini rossi e verdi, proprio, proprio come vivi! Uno di essi è un vecchietto seduto che par che suoni un grosso violino, gli altri due sono in piedi e suonano dei violini piccoli piccoli, chinando le testine al ritmo della musica e guardandosi a vicenda; le loro labbra si muovono e parlano, parlano proprio; solo che attraverso il vetro non si sente nulla. Il piccino dapprima pensò che quelle fossero persone vive, ma quando capì che erano fantocci scoppiò a ridere! Aveva anche voglia di piangere, ma gli veniva tanto da ridere davanti a quei fantocci! A un tratto gli parve che qualcuno lo avesse afferrato di dietro per il giubboncino: un ragazzaccio cattivo gli stava accanto, e d’improvviso lo colpì sulla testa, gli strappò via il berrettino, e intanto gli diede uno sgambetto. Il piccino cadde a terra, la gente si mise a gridare, egli rimase intontito, balzò su, e via a correre, correre, e a un tratto entrò di corsa, senza rendersene conto, in un portone, in un cortile, e si accucciò dietro un mucchio di legna: “Qui non potranno trovarmi, e poi è buio”.
Si accucciò e si raggomitolò, e intanto non poteva riprender fiato dallo spavento, e a un tratto, proprio a un tratto, si senti così bene: le manine e i piedini avevano cessato di dolere e gli era venuto caldo, tanto caldo, come in vicinanza di una stufa; ma eccolo sussultar tutto: ah, stava per addormentarsi! Com’era bello addormentarsi là: “Rimarrò qui un momento, poi andrò di nuovo a guardare i fantocci”, pensò il piccino e sorrise, ricordandosene: “proprio come vivi!”. E all’improvviso sentì che la sua mamma s’era messa a cantare sopra di lui: "Mamma, io dormo, ah! com’è bello dormire qui!”...
«Vieni da me a veder l’albero di Natale, piccino», mormorò a un tratto sopra di lui una voce sommessa.
Sulle prime ha creduto che sia stata ancora la mamma a dir questo, invece no, non è stata lei; egli non vede chi l’ha chiamato, ma qualcuno si è chinato su di lui e lo ha abbracciato nel buio; il piccino gli ha teso una mano e... e improvvisamente, oh, quale luce! Oh, che albero di Natale! Anzi non è nemmeno un albero di Natale, egli non ha ancor veduto simili alberi! Dove mai si trova, adesso? Tutto riluce, tutto splende, e tutt’intorno non ci sono che fantocci... ma no, son tutti bambini e bambine, così luminosi, però, e tutti gli turbinano attorno volando, tutti lo baciano, lo prendono e lo portano con sé, e vola anche lui, e vede la mamma che lo guarda e ride gioiosamente.
«Mamma, mamma! Ah, com’è bello qui!» le grida il piccino, e torna a scambiar baci coi bimbi e vorrebbe narrar loro, al più presto, di quei fantocci nella vetrina. «Chi siete voi, bambini? Chi siete voi, bambine?» domanda ridendo, pieno d’amore per essi. «Questo è “l’albero di Natale di Gesù”», gli rispondono. «Gesù ha sempre, in questo giorno, un albero di Natale per i piccoli bimbi che laggiù non ne hanno uno proprio».
Ed egli apprese che tutti quei bambini e quelle bambine erano stati come lui, ma alcuni erano rimasti assiderati già nei panieri entro i quali li avevano abbandonati sulle scale, davanti alle porte degli impiegati di Pietroburgo, altri erano periti presso le balie finlandesi, durante l’allattamento per conto dell’orfanotrofio; altri erano morti sul seno inaridito delle loro madri (al tempo della carestia di Samara); altri ancora erano morti dal puzzo nei carrozzoni di terza classe, e tutti adesso erano lì, in veste di angeli, tutti presso Gesù, ed Egli era in mezzo ad essi e tendeva loro le braccia, benedicendoli insieme con le loro madri peccatrici... E anche tutte le madri di quei bimbi erano lì, in disparte, e piangevano; ciascuna riconosceva il suo bambino o la sua bambina, ed essi volavano verso di loro e le baciavano e asciugavano con le manine le loro lacrime, supplicandole di non piangere, perché lì essi erano tanto felici!...
E laggiù, all’alba, il portiere trovò il cadavere del fanciullo che, entrato là di corsa, era morto di freddo dietro il mucchio di legna; scovarono anche la sua mamma... Era morta ancor prima di lui, ed entrambi si erano incontrati in cielo, presso il Signore...


Fedor Michajlovic Dostoevskij
Da: Il fanciullo presso Gesù e altri racconti, a cura di Eva Amandola Kuhn, Milano 1953.

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natale, dostoevskij

mercoledì, 16 dicembre 2009

Cristo solo uomo non sarebbe il salvatore ***

 

"Su Cristo, potete discutere, non essere d’accordo… tutte queste discussioni sono possibili e il mondo è pieno di esse, e a lungo ancora ne sarà pieno.
Ma io e voi, Šatov, sappiamo che sono tutte sciocchezze,
che Cristo – in quanto solo uomo – non è Salvatore e fonte di vita, e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per l’uomo, la fonte della vita e la salvezza dalla disperazione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: ‘Il Verbo si è fatto carne’ e nella fede in queste parole".

F. Dostoevskij scrisse in un appunto per I demoni:
(da F.Dostoevskij, citato dal card. Giacomo Biffi nella catechesi “La fede di Pietro e la nostra fede” del 20 ottobre 2000, nella chiesa di San Gregorio VII, durante il pellegrinaggio giubilare a Roma)

da: http://www.gliscritti.it/



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dostoevskij, gesù

lunedì, 23 novembre 2009

Romano Scalfi: vi racconto la resistenza della Chiesa clandestina in URSS
***
Romano Scalfi


lunedì 23 novembre 2009


Oggi è alla portata di tutti, in Russia come da noi, conoscere le vicende della persecuzione contro la Chiesa e la fede nell’Urss ad opera del comunismo sovietico; sempre che si sia interessati all’argomento.
Non si può dire altrettanto dell’attività della Chiesa clandestina, di cui si sapeva poco e molto confusamente. L’impressione generale era che si trattasse di un fenomeno di poca rilevanza. A sfatare questa opinione è uscito recentemente a Mosca il libro di Aleksej Beglov, membro dell’Accademia delle Scienze, noto studioso del fenomeno religioso che ha il merito di aver attinto largamente ai documenti segreti del Soviet per gli affari della religione.
Dal suo testo risulta che la Chiesa ortodossa russa, così ricca di martiri, non ha accettato passivamente la persecuzione, ma è stata molto feconda nell’inventare metodi sempre nuovi per conservare la fede.
I primi “monasteri domestici” nascono già nel 1920 e si diffondono sempre più con la progressiva chiusura dei monasteri da parte dei comunisti. In un primo tempo i monaci scacciati dalle loro sedi trovano ospitalità singolarmente in famiglie private, ma ben presto, per ricomporre la comunità monastica cercano di sistemarsi in gruppi da tre fino a venti persone. Ogni monaco svolge un lavoro nella società civile a seconda delle proprie attitudini, e alla sera si ricompone la vita claustrale. I monasteri domestici, almeno inizialmente, fanno di tutto per conservare stretti rapporti con i superiori dell’ex monastero, ma con l’intensificarsi della persecuzione i legami si indeboliscono fino al punto che la maggioranza dei monasteri domestici è costretta a gestirsi autonomamente.
Prima dell’ottobre 1917 monaci e monache erano 94.477. Nella prima metà degli anni 1920 i monasteri domestici raccolgono circa 30.000 persone; soprattutto la parte occidentale del paese è coperta da una rete di monasteri clandestini.
Contemporaneamente ai monasteri domestici nascono delle comunità catacombali, che non provengono da monasteri preesistenti ma sono formate da giovani preoccupati di vivere seriamente la propria vita spirituale. Del resto in questo periodo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, con l’incalzare della persecuzione crescono le vocazioni monastiche e sacerdotali. Nello stesso tempo si registra il ritorno alla Chiesa di diversi intellettuali, prima affascinati e poi delusi dall’utopismo leninista.
Le comunità catacombali giovanili sono meno legate alla regola monastica e più disposte al lavoro pastorale nelle parrocchie (là dove la chiesa è aperta) o in sostituzione della parrocchia quando la chiesa è stata chiusa. Le più famose sono le comunità illegali di Leningrado, promosse dal metropolita Veniamin Kazanskij, in seguito fucilato (1873-1922), e la comunità di Mosca guidata dall’arcivescovo Varfolomej Remov (1888-1935) passato poi alla Chiesa cattolica e pure lui fucilato. Nel 1930 la comunità arriva a contare 200 membri, impegnati per lo più nella parrocchia di San Pietro; alcuni vescovi sostengono clandestinamente le comunità illegali in varie città: Petr Ladygin (a Orenburg), Filipp Gumilevskij e Pitirim Krylov (a Mosca), Aleksandr Trapicyn (a Samara), Arsenij, Stadnickij (a Taskent). In base ai dati si può affermare che l’episcopato ufficiale negli anni 1920-1930 non solo giudicava positivamente la clandestinità cristiana, ma, nei limiti del possibile, la sosteneva anche. La cattedra patriarcale era certamente al corrente del rapporto dei vescovi con le comunità clandestine e lo approvava.
Un altro settore della vita clandestina della Chiesa sono “le parrocchie non registrate”. Al primo settembre 1936 nella Repubblica russa le chiese chiuse sono il 64,4 % del totale, in Ucraina il 90 %, in Bielorussia l’89,1 %. Per questo, dal 1930 in poi, in seguito alla chiusura di moltissime chiese, la fondazione di parrocchie clandestine diventa una faccenda normale: quando una chiesa viene chiusa e la comunità parrocchiale smembrata, i fedeli rimasti continuano a radunarsi in preghiera nelle case private, oppure all’aperto. Se è presente un sacerdote (anche clandestino), amministra i sacramenti, altrimenti a dirigere la comunità può essere un diacono, una monaca o un semplice fedele.
Nel 1916 le parrocchie ortodosse in Russia erano 35.825, nel 1939 quelle legali sono ridotte a 100, mentre quelle illegali sono 4.153. Nell’anno 1937 il Soviet per gli affari religiosi è costretto a constatare che: “I credenti di fede ortodossa hanno incominciato a riunirsi per conversare, leggere libri religiosi, soprattutto dove sono state chiuse le chiese”.
Anche nella vita clandestina non tutto funziona al meglio. La mancanza di un’autorità centrale effettiva che possa garantire l’unità pur nella varietà delle sue espressioni lascia alle comunità un’autonomia che in certi casi finisce per essere in contrasto con la dottrina della Chiesa.
Nel 1944 il partito decide di mandare al confino nelle estreme regioni orientale 1.500 membri della Chiesa dei “veri cristiani ortodossi”. Appartengono a un gruppo staccatosi dalla Chiesa ufficiale perché compromessa con il regime comunista considerato l’incarnazione dell’Anticristo. Predicano l’imminente fine del mondo ed arrivano a dichiarare la Chiesa ortodossa ufficiale serva dell’Anticristo. Partendo da questa posizione esasperata sentono il dovere di boicottare tutte le iniziative del governo. Per loro è opera dell’Anticristo andare a votare, avere il passaporto sovietico, ascoltare la radio, andare al cinema, pagare le tasse e perfino frequentale le chiese legalizzate dal governo.
Il fondamentalismo è sempre segnato, in tutte le correnti e in tutte le ideologie, dall’ossessione di dover innanzitutto condannare il nemico, addossare a lui ogni colpa per autogiustificarsi con maggior facilità; tende a esaurirsi nella protesta illudendosi che qui si manifesti la vera creatività dell’uomo. In questo senso i “veri cristiani ortodossi” non si rendono conto di avere molto in comune con gli ideologi del comunismo, dei quali acutamente aveva profetizzato Dostoevskij: «Arditi nella denuncia, eunuchi nella creatività. Sono capaci di distruggere il mondo, ma incapaci di costruire una catapecchia».
Anche nel ricco alveo della clandestinità cristiana in Russia, dunque, chi ha ceduto all’esasperata condanna del nemico ha finito per vanificare le migliori intenzioni, condannando se stesso alla sterilità.
da : http://www.ilsussidiario.net

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comunismo, dostoevskij, cristianesimo

martedì, 22 settembre 2009
 La coscienza
***
 La scienza senza la coscienza ad altro non può portare che alla rovina dell’uomo
                Giovanni Paolo II
   La coscienza senza Dio è spaventosa, può  smarrirsi  fino a commettere le cose più immorali. Non basta seguire le proprie convinzioni: bisogna anche chiedersi se sono vere le mie convinzioni. La loro unica verifica è Cristo. Questa però non è più filosofia ma fede
F.Dostoeskij

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dostoevskij, giovanni paoloii

lunedì, 21 settembre 2009
 La pretesa
***
Questa sarà la tragedia del secolo XX:
sarà il secolo di quelli che fanno valere i propri diritti   
 F.Dostoevskij


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dostoevskij

domenica, 12 luglio 2009
L’ateo crede più di quanto pensi
***


«Il perfetto ateo si trova in cima alla scala, sul penultimo gradino, che porta alla fede perfetta»
Dostoevskij

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dostoevskij, ateismo

venerdì, 05 giugno 2009
La bellezza
 ***

“... La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono. Io, fratello, sono molto ignorante, ma ho pensato molto a queste cose.

Quanti misteri! Troppi enigmi sulla terra opprimono l'uomo. Scioglili, se puoi, e torna salvo alla riva!

La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l'deale della Madonna e finisca con l'ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel suo cuore l'ideale di Sodoma e tuttavia non rinnega nemmeno l'ideale della Madonna, anzi, il suo cuore brucia per questo ideale, e brucia davvero, sinceramente, come negli anni innocenti della giovinezza.

No, l'animo umano è immenso, fin troppo, io lo rimpicciolirei. Chi lo sa con precisione che cos'è ? Lo sa il diavolo, ecco! Quello che alla mente sembra un'infamia, per il cuore, invece, è tutta bellezza. Ma c'è forse bellezza nell'ideale di Sodoma? Credimi, proprio nell'ideale di Sodoma la trova l'enorme maggioranza degli uomini! Lo conosci questo segreto, o no?

La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. E' qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini.

Già, la lingua batte dove il dente duole... E ora veniamo al fatto. Ascolta.”
DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov ( trad. di Pina Mariani, Sansoni, 1966).

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bellezza, dostoevskij

martedì, 02 giugno 2009
  Il mistero di Dio
 ***
- Che cos'è i! mistero? Tutto è mistero, amico
mio, in tutto, c' è il mistero di Dio. In ogni
albero in ogni filo d'erba è racchiuso questo mistero.
Se un uccellino canta, o se tutte le stelle
splendono in folla di notte in cielo, è sempre lo
stesso identico mistero. E il mistero più grande  è
in quello che aspetta l'anima dell'uomo all'altro
mondo. E' così,  amico mio! (. . .)
- Fai male, amico, a non pregare; è bello, il
cuore si rallegra, e prima del sonno, e appena
svegli, e destandosi la notte. Ora ti dirò una cosa.
D'estate poi, nel mese di luglio, ci affrettavamo al
monastero della Vergine per la festa. Quanto più ci
avvicinavamo al luogo, tanta più gente si univa a
noi ed alla fine ci ritrovammo quasi in duecento,
tutti ansiosi di adorare le sante e integre reliquie
di entrambi i grandi taumaturghi Anikji e Grigorij.
Ci addormentammo, fratello, in aperta campagna,
e mi destai la mattina presto. Tutti ancora dormivano
e nemmeno il sole aveva fatto capolino da
dietro il bosco. Adersi, mio caro. il capo, girai intorno
lo sguardo e sospirai! Una bellezza indicibile
dovunque! Tutto è quieto, l'aria è leggera;
cresce l'erba - cresci, erbetta del Signore; canta
un uccellino - canta pure, uccellino del Signore;
un pargolo in braccio a una donna ha vagito - il
Signore sia con te. piccolo omino, cresci per essere felice, bambinello!  Ed ecco che fu come se
allora per la prima volta, dacché  ero al mondo,
avessi racchiuso tutto ciò in me ... Mi chinai di
nuovo, mi addormentai così leggermente. E' bello
il mondo, caro! lo, per esempio, se mi sentissi
meglio; andrei di nuovo in giro per la primavera.
E, quanto al mistero, è anzi meglio dà sgomento al
cuore e meraviglia, pure anche questa paura fa
allegrezza al cuore: «Tutto è in Te, Signore, e io
stesso sono in Te, accoglimi! ». Non mormorare,
giovane, è tanto più bello che ci sia il mistero -
soggiunse intenerito.
Dostoevskij Il pellegrino Makarij in L'adolescente

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mistero, dostoevskij

lunedì, 01 giugno 2009
  L'idolo sociale
***
S'inseqna dacché mondo è mondo, ma che cosa si è insegnato di buono, perché il mondo fosse
una dimora più bella e allegra e piena di ogni
gioia? E dirò ancora: non hanno bellezza morale,
anzi non la vogliono; tutti sono perduti, solo ciascuno loda la propria posizione, ma di rivolgersi all'unica Verità non pensa, mentre vivere senza Dio non è che tormento. E n'esce che malediciamo
proprio quello che c'illumina e non lo sappiamo nemmeno. E poi, che costrutto c'é mai? Non può nemmeno esistere un uomo che non si pieghi, un uomo simile sarebbe impari a se stesso, a qualunque uomo in generale. E se rinnega Dio, si inchinerà a un idolo di legno o d'oro, oppure immaginario.
Sono tutti idolatri e non atei, ecco come bisogna chiamarli.
Dostoevskij Il pellegrino Makarij in L'adolescente

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dostoevskij

lunedì, 22 dicembre 2008
Che cos’è l’inferno?
***       
Padri e maestri, io mi domando: Che cos’è l’inferno? Io affermo che è il tormento di non essere capaci di amare .
Dostoevskij da: I fratelli Karamazov

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dostoevskij

lunedì, 08 dicembre 2008
Non c'è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo
 ***
 “Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell'anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c'è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c'è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità».
Dostoevskij, nell'anno 1854 all'amica Natalia Fonvizina in una lunga lettera.
  



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dostoevskij, gesù

venerdì, 10 ottobre 2008
Dio vero Padre
 ***
«Un'ora dopo, tornando all'albergo, mi imbattei in una contadina con un bimbo lattante; lei era ancora giovane, il bimbo avrà avuto sei settimane. Il piccino le aveva sorriso, com'ella aveva notato, per la prima volta dalla nascita, e la vidi d'un tratto farsi assai devotamente il segno della croce.Perché lo fai, sposina? », domando. (Allora non facevo altro che interrogare). «Ecco, risponde la gioia che prova una madre, vedendo per la prima volta sorridere il proprio bambino, la stessa gioia la prova precisamente anche Dio, ogni volta che dal cielo vede che un peccatore si mette a pregare di tutto cuore davanti a lui ». Così mi disse la contadina, quasi con le stesse parole, esprimendo un pensiero così profondo, così fine e così autenticamente religioso, un pensiero in cui trova espressione tutta l'essenza del cristianesimo, cioè la nozione di Dio come nostro vero padre e della gioia di Dio davanti all'uomo come gioia del padre davanti al proprio figlio: il pensiero fondamentale di Cristo. Una semplice contadina! E' vero che era una madre….  e, chissà, forse quella donnetta era moglie di quel soldato. Senti, Parfen, poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti ia mia risposta: l'essenza del sentimento religioso sfugge a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c'è in esso qualcosa di inafferabile e ci sarà eternamente, c'è in esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che parleranno eternamente di tutt'altra cosa. Ma quello che più importa è che questo si nota più chiaramente e più facilmente nel cuore dei russi.»
Dostoevski,  in L’Idiota

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dio, dostoevskij

Il mistero
 ***
«- Che cos'è il mistero? Tutto è mistero, amico mio, in tutto, c'è il mistero di Dio. In ogni albero, in ogni filo d'erba è racchiuso questo mistero. Se un uccellino canta, o se tutte le stelle splendono in folla di notte in cielo, è sempre lo stesso identico mistero. E il mistero più grande è in quello che aspetta l'anima dell'uomo all'altro mondo. é così amicio mio! ».
Dostoevskij,  l’adolescente

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mistero, dostoevskij

domenica, 17 agosto 2008
 Dov’è Dio
***
Non nel freddo e nel vuoto del pensiero, ma nel caldo e nel pieno dell'amore troverai il volto del Dio vivente.
F. Dostoevskij

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dio, dostoevskij

lunedì, 16 giugno 2008
Belli perché simili a Lui
 ***
Tutta la vostra infelicità consiste nell'ignorare di essere belli! Ognuno di voi potrebbe rendere felici tutti; e questo potere è concesso a tutti, soltanto che è sepolto così profondamente dentro di voi stessi che non ci credete neppure più.
DOSTOEVSKIJ

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bellezza, dostoevskij

sabato, 24 maggio 2008
Per essere cristiani bisogna essere ragionevoli
 ***
 Invece nel dominio della vita reale, che non ha soltanto i suoi diritti, ma impone anche grandi doveri, in questo dominio, se vogliamo essere umani, cristiani insomma, abbiamo il dovere e l'obbligo di non portare che le convinzioni giustificate dalla ragione e dall'esperienza, passate per il crogiuolo dell'analisi, in una parola di agire in modo assennato, e non insensato come nel sonno e nel delirio, per non nuocere agli uomini, per non tarli soffrire e causarne la perdita. Allora sì sarà,la nostra, opera vera di cristiani,e non soltanto di mistici,e opera ragionevole, veramente umanitaria.”

§  Dostoevskij I fratelli Karamazov- Garzanti

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ragione, dostoevskij, esperienza

La giustizia viene da Dio
 ***
Se Dio non c'è, l'uomo è il re della terra, della Creazione. Magnifico! Ma come farà ad essere virtuoso senza Dio? Ecco il busillis! lo me lo domando di continuo. Poiché l'uomo, allora, chi mai amerà? A chi sarà riconoscente, a chi canterà un inno? Rakltin dice che si può amare l'umanità anche senza Dio. Quel moccioso incimurrito lo può soltanto affermare, ma io non lo posso capire. Per Rakìtin vivere è facile: «Tu, mi diceva oggi, occupati piuttosto dell'estensione dei diritti civili dell'uomo, o magari di quanto occorre fare perché la carne non aumenti di prezzo, con ciò dimostrerai il tuo amore per l'umanità in modo piu semplice e immediato che con le tue filosofie ». Al che io risposi: «Ma tu stesso, se non credi in Dio, alzerai il prezzo della carne, se te ne verrà il destro, e guadagnerai un rublo per copeca.
§  Dostoevskij I fratelli Karamazov- Garzanti                         a P.

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giustizia, dostoevskij

martedì, 13 maggio 2008
Il grande profeta Dostoevskij
***
"Guardate i laici e tutto questo mondo che si è innalzato sul popolo di Dio: il volto di Dio e la Sua verità non vi si sono deformati? Essi hanno la scienza, ma nella scienza c'è appena quello che cade sotto i sensi. Il mondo dello spirito invece, la metà superiore dell'essere umano, la si ripudia completamente, la si bandisce con una cert'aria di trionfo, anzi con odio. Il mondo, specialmente negli ultimi tempi, ha proclamato la libertà, e che cosa vediamo in questa sua libertà? Non altro che servitù e suicidio! Poiché il mondo dice: «Tu hai dei bisogni; appagali dunque, ché tu hai gli stessi diritti degli uomini più ragguardevoli e più ricchi. Non temere di appagarli, moltiplicali anzi », ecco l'odierno insegnamento del mondo. E in ciò scorgono la libertà. E che cosa mai scaturisce da questo diritto alla moltiplicazione dei bisogni? Nei ricchi l'isolamento e il suicidio spirituale, e nei poveri l'invidia e l'omicidio,perché si sono dati i diritti, ma non si sono ancora indicati i mezzi,per soddisfare i bisogni. Affermano che il mondo si unirà ogni giorno di più e formerà una comunione fraterna abbreviando le distanze, trasmettendo il pensiero attraverso l'aria. Oibò! non credete a una simile unione degli uomini. Comprendendo la libertà come moltiplicazione e pronto appagamento dei bisogni, essi deformano la propria natura, poiché fanno nascere in sé molte insensate e stolte brame e abitudini e le più assurde fantasie. Non vivono che per la reciproca invidia, per la sensualità e l'ostentazione. Pranzi, viaggi, carrozze, gradi e servitori si considerano ormai come necessità per le quali si sacrificano anche la vita, l'onore e l'amore dell'umanità, pur di soddisfarle e, se non è possibile soddisfarle, si uccide perfino. In quelli che non sono ricchi vediamo la stessa cosa, ma nei poveri l'inappagamento dei bisogni e l'invidia si soffocano ancora con l'ubriachezza. Presto però, anziché di vino, s'inebrieranno di sangue, tale è la mèta a cui li guidano. Io vi domando: è libero un uomo simile? Io conoscevo un « lottatore dell'idea », il quale raccontava che, quando in carcere gli fu tolto il tabacco, soffri tal mente per questa privazione che per poco non tradì la sua « idea », purché gli dessero del tabacco. Ebbene, costui diceva: «Vado a battermi per l'umanità ». Ma fin dove potrà giungere e di che cosa sarà capace un essere simile? Di un'azione momentanea magari, ma non di una lunga resistenza. E non è a stupire che gli uomini, in luogo della libertà, abbiano trovato la servirtù e, invece di servire la causa della fratellanza e dell'unione umana, siano caduti, al contrario, nella disunione e nell'isolamento, come mi diceva nella mia giovinezza il mio misterioso visitatore e maestro. E però in questo mondo si va sempre più spegnendo l'idea di servire l'umanità, l'idea della fratellanza e solidarietà degli uomini, e in verità questa idea è accolta perfino con lo scherno; come infatti rinunzierà alle sue abitudini e dove andrà questo prigioniero, dopo che tanto si è abituato a soddisfare gli innumerevoli bisogni che egli stesso si è creati? Egli vive nell'isolamento, e che cosa gli importa della collettività? E si è giunti a questo, che di beni materiali se n'è accumulata una maggior quantità, ma la gioia è diminuita."
Dostoevskij I fratelli Karamazov
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Postato da: giacabi a 21:04 | link | commenti
laicismo, dostoevskij

domenica, 11 maggio 2008
Se amerai il creato scoprirai il Mistero Divino
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« Fratelli,non abbiate paura dei peccati degli uomini,amate l’uomo
anche col suo peccato,perché questo riflesso dell’amore divino è
appunto il culmine dell’amore sulla terra. Amate tutta la creazione divina,nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni foglia, ogni raggio di luce! Amate gli animali,amate le piante,amate tutte le cose! Se amerai tutte le cose,scoprirai in esse il mistero divino.
Una volta che lo avrai scoperto,comincerai a conoscerlo sempre meglio,ogni giorno più a fondo. E alla fine amerai tutto l’universo di un amore totale,completo. Amate gli animali: Dio ha dato loro    un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine. Non li turbate,non li tormentate,non togliete loro la gioia,non andate contro l’intenzione di Dio. Uomo,non ti esaltare al di sopra degli animali: essi sono senza peccato,mentre tu,con tutta la tua grandezza, insudici la terra al tuo apparire,lasci dietro di te la tua sudicia traccia, e questo,purtroppo,è vero quasi per ognuno di noi! Amate specialmente i bambini,perché anche loro sono senza peccato,come gli angeli,e vivono per purificare e commuovere i nostri cuori,sono per noi come un monito. Guai a colui che offende un fanciullo!
Quanto a me,è stato padre Anfìm che mi ha insegnato ad amare i
bambini: nei nostri pellegrinaggi,con i soldini che gli regalavano,
quest’uomo  caro  e  silenzioso  comprava spesso dei  piccoli  panpepati e dello zucchero candito per distribuirlo   ai   bambini,   e    non    poteva passare accanto a loro senza commuoversi,è un uomo fatto così.
Certe volte ti sentirai perplesso,specialmente vedendo i peccati degli uomini,e ti chiederai: “Devo ricorrere alla forza oppure all’umiltà e all’amore?”. Decidi sempre per l’umiltà e per l’amore. Se prenderai questa decisione una volta per sempre, potrai soggiogare anche tutto il mondo. L’umiltà e l’amore uniti insieme sono una forza formidabile,la più grande forza che ci sia,non ce n’è un’altra uguale.
Ogni giorno, ogni ora,ogni minuto osserva te stesso e sorvegliati, bada che la tua figura sia bella. ».
Dostoevskij I fratelli Karamazov

                                                                      a M.

Postato da: giacabi a 14:58 | link | commenti
dostoevskij, senso religioso

L’isolamento dell’individuo
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«Per rifare a nuovo il mondo, occorre che gli uomini stessi si mettano psichicamente sopra una nuova strada. Finché tu non sarai diventato per davvero il fratello di tutti, la fratellanza non spunterà. Mai gli uomini sapranno, guidati dalla scienza e dall'interesse, distribuire fra loro senza ingiustizia la loro proprietà e i loro diritti. Nessuno ne avrà abbastanza e tutti mormoreranno, s'invidieranno e si stermineranno a vicenda. Voi domandate quando sarà questo. Sarà, ma deve prima chiudersi il periodo dell'isolamento umano.» -«Che isolamento? », domandoQuello che regna adesso dappertutto, nel nostro secolo più che mai, ma che ancora non si è concluso, ancora non è giunto al suo termine. Ognuno infatti tende oggi a separare la sua personalità quanto più può, vuole sperimentare in se stesso la pienezza  della vita, ma intanto da tutti i suoi sforzi scaturisce, anziché la  pienezza della vita, soltanto un completo suicidio, perché, invece di determinare pienamente l'essere proprio, si cade in un perfetto isolamento. Infatti, tutti nel nostro secolo si sono separati come tante unità, ciascuno si isola nel suo buco, ciascuno si allontana dagli altri, si nasconde e nasconde quel che possiede, e finisce per rifuggire dagli uomini, mentre li respinge da sé. Nel suo isolamento ammassa ricchezze e pensa: "Quanto ora sono forte e ben provveduto! ", e non sa il folle che, quanto più ammassa, tanto pio affonda in un'impotenza suicida. Infatti si è abituato a non confidare che in se stesso e a scindersi come un'unità dal tutto, si è avvezzato in cuor suo a non credere nell'aiuto del prossimo, negli uomini e nell'umanità,  e trema soltanto all'idea che vadano perduti il suo denaro e i diritti con esso acquistati. Dappertutto lo spirito umano diventa oggi visibilmente incapace di comprendere che la vera guarentigia della personalità non consiste nel suo sforzo individuale isolato, ma nella solidarietà generale degli uomini. Ma verrà senza dubbio la fine anche di questo terribile isolamento, e tutti comprenderanno in una  volta quanto fosse innaturale la loro reciproca separazione. Tale sarà la tendenza del tempo e ci si stupirà di essere rimasti cosi a lungo nella tenebra senza vedere la luce. Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'Uomo... Ma fino a quel giorno occorre custodire la bandiera e, anche da solo, l'uomo deve dar l'esempio e trarre l'anima sua dall'isolamento per l'opera di comunione fraterna, a costo di passare per un mentecatto. Questo perché non perisca una grande idea... ».
Dostoevskij I fratelli Karamazov
                                                             ad A.


Postato da: giacabi a 13:47 | link | commenti
dostoevskij

venerdì, 02 maggio 2008

 Brillare veramente...
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Signore, facci ricordare
che il Tuo primo miracolo,
alle nozze di Cana,
lo facesti per aiutare
alcuni uomini a fare festa.

Facci ricordare
che chi ama gli uomini,
ama anche la loro gioia,
perché senza gioia
non si può vivere...

Fammi comprendere, Signore,
che il Paradiso è nascosto
dentro di noi.

Ecco, ora è qui,
nascosto dentro di me.
Se voglio, domani stesso,
comincerà a brillare veramente
per me
e durerà tutta la vita
.
Fedor Michajlovic Dostoevskij

Postato da: giacabi a 22:43 | link | commenti (1)
dostoevskij, felicità

domenica, 27 aprile 2008
La Bellezza
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Esiste qualcosa di inspiegabilmente commovente nella nostra natura pietroburghese quando, con il sopraggiungere della primavera, mostra ad un tratto tutta la sua potenza, tutte le forze datele dal cielo per ricoprirsi, abbellirsi, colorarsi di fiori... In qualche modo mi ricorda involontariamente quella ragazza tisica e deperita che voi guardate a volte con compassione, a volte con un certo affetto pietoso, a volte semplicemente non la notate neppure, ma che improvvisamente, per un attimo solo, in modo disperato, diventa inspiegabilmente di una meravigliosa bellezza, e voi, colpito e inebriato, vi chiedete inconsapevolmente: qual è la forza che dà un tale splendore, un tale fuoco a quei tristi occhi pensosi? Che cosa ha fatto affluire il sangue a quelle pallide gote incavate? Che passione si è riversata sui teneri lineamenti del volto? Per quale ragione il petto ansima così? Che cosa ha provocato improvvisamente la forza, la vita e la bellezza sul volto di quella povera ragazza, lo ha fatto brillare di un simile sorriso e ravvivare da una gaia e scintillante risata? Vi guardate intorno, cercate qualcuno, pensate di intuire... Ma l'attimo fugge, il giorno dopo incontrate di nuovo lo stesso sguardo pensoso e distratto, lo stesso viso pallido di prima, la stessa sottomissione e mitezza nei movimenti e persino un certo pentimento, persino tracce di una tristezza mortale e di stizza per quell'effimero piacere... E vi fa pena che quella bellezza apparsa per un attimo sia svanita così in fretta e così irrevocabilmente e che, ingannevole e vana, abbia brillato davanti ai vostri occhi lasciandovi il rammarico di non aver fatto in tempo ad innamorarvi di lei... Dostoevskij Notti Bianche, Prima Notte                                                    grazie a:Karommah

Postato da: giacabi a 23:05 | link | commenti (3)
bellezza, dostoevskij

sabato, 22 marzo 2008
   Nella soluzione progressista l'io non ha risposta, è alienato
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"Io ho creduto (nel futuro radioso dell'umanità), e perciò voglio vedere anch'io, e se allora sarò già morto mi devono risuscitare, perchè se tutto accadesse senza di me sarebbe avvilente. Non ho sofferto per concimare con le mie colpe e le mie sofferenze una armonia futura in favore di chissà chi! Voglio vederlo coi miei occhi il daino che gioca accanto al leone, e l'ucciso che si rialza e abbraccia l'uccisore. Voglio esserci anch'io, quando tutti sapranno finalmente perché le cose sono andate così”
Dostoevskij I fratelli Karamazov



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