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sabato 11 febbraio 2012

educazione


L'educazione
***
Il vigliacco di oggi è il bimbo che schernivamo ieri;
l’aguzzino di oggi è il bimbo che frustavamo ieri;
l’impostore di oggi è il bimbo che non credevamo ieri;
il contestatore di oggi è il bimbo che opprimevamo ieri;
l’innamorato di oggi è il bimbo che carezzavamo ieri;
il non complessato di oggi è il bimbo che incoraggiavamo ieri;
il giusto di oggi è il bimbo che non calunniavamo ieri;
l’espansivo di oggi è il bimbo che non trascuravamo ieri;
il saggio di oggi è il bimbo che ammaestravamo ieri;
l’indulgente di oggi è il bimbo che perdonavamo ieri;
l’uomo che respira amore e bellezza
è il bimbo che viveva nella gioia anche ieri

(Ronald Russel)

Postato da: giacabi a 16:10 | link | commenti
educazione

sabato, 10 settembre 2011

CAPITOLO I –
LA LEALTÀ CON LA TRADIZIONE
SORGENTE DELLA CAPACITÀ DI CERTEZZA
1. Valore di questo principio
Fatte queste due premesse, entriamo nella definizione delle
prime due grandi parole. La prima è indicata da don Giussani
così: «la lealtà con la tradizione, sorgente della capacità di
certezza»5. Un titolo che sembra difficile, ma in realtà significa
quel che ho appena detto: la lealtà con la tradizione vuol dire
che il bambino ha bisogno di vedere qualcuno. La tradizione
per lui che cosa sarà? Saranno prima di tutto i suoi genitori,
la sua famiglia, ciò che precede. La lealtà con ciò che precede
è in lui la condizione per cui può crescere certo nella vita,
sicuro nella vita. Il contrario di questo è una malattia, dà
origine a una patologia. La certezza del bambino vive della
certezza dell’adulto che ha davanti, della solidità dell’adulto
che gli sta davanti. Solo così il bambino cresce sano, perché
cresce certo. Nella lealtà, nel dialogo, nel paragone con
l’adulto che ha davanti il bambino cresce nella sua certezza.
L’esempio che faccio sempre è questo: immaginate il bambino
che a tre anni comincia a fare le domande e chiede al papà:
 
«Papà, che cos’è quella cosa che c’è su in cielo?», e il pa-
 
pà gli dovesse dire: «Sai che non lo so! Prova a chiedere alla
mamma». Lui chiede alla mamma: «Mamma, che cos’è quella
cosa che c’è su in cielo?» e la mamma risponde: «Boh, secondo
me è la luna però la zia dice che è il sole, la nonna invece
dice che è una roba strana che gira». Immaginate un
bambino che a tre anni, quando pone le domande, invece che
sentirsi dare una risposta dovesse sentire un dubbio su tutto:
sarebbe come uno costretto a camminare sulle sabbie mobili,
verrebbe su storto, inevitabilmente. Invece il bambino ha bisogno
di sentirsi dire: «Figlio mio, è il sole! Si chiama sole!».
Poi il bambino chiederà perché si muove il sole, perché gira
intorno alla terra. Il papà magari, poiché non ha studiato, gli
dà una risposta sbagliata, scientificamente sbagliata, magari
gli dirà «perché la terra è ferma e il sole le gira intorno».È più
importante che il bambino creda a questa affermazione sbagliata
piuttosto che crescere nello scetticismo terribile generato
dall’idea che non ci sia una risposta; perché se lui crede a
quel che gli dice il babbo, a quello che gli dice la mamma, a
quell’ipotesi che gli offre l’adulto, cresce con una ipotesi sicura,
con una certezza, che da grande sarà perfino in grado di
correggere e di verificare. Andrà a scuola e una maestra gli
spiegherà che non è così, che la terra in realtà è lei che gira intorno
al sole, il sole è fermo. Sarà il bambino che corregge
l’ipotesi dell’adulto; ma prima ha diritto a ricevere un’ipotesi,
una possibilità di certezza, altrimenti viene su storto, viene
su malato.
Don Giussani chiama dunque «ipotesi esplicativa della realtà
» la presenza di un adulto capace di comunicare il senso
delle cose; cioè, tornando alla questione iniziale, un adulto capace
di testimoniare un bene della vita, una positività della vita.
Questo è il grande segreto dell’educazione. Don Giussani
lo dice con queste parole: «L’incontro con qualcuno che sia
per il bambino o il ragazzo portatore di quella che abbiamo
chiamato “ipotesi esplicativa della realtà” non è cosa che si
possa evitare»6. Non vi sto dicendo delle cose che se siete
d’accordo bene, se non siete d’accordo non importa... È proprio
così! Il bambino ci guarda così, ha bisogno di ricevere da
noi un’ipotesi della realtà, un’ipotesi sulla realtà, un modo di
stare al mondo, che noi lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli
o no. Possiamo anche negarlo, ma in ogni caso, per
il fatto stesso che gli siamo di fronte, gli comunichiamo un
senso della realtà, buono o cattivo, positivo o negativo.
«Il luogo primo in cui questo avviene è infatti la famiglia:
l’ipotesi iniziale è la visione del mondo che hanno i genitori,
o coloro cui i genitori demandano la responsabilità di educare
il figlio. Non può esistere una cura del figlio e una preoccupazione
della sua formazione, se non nell’almeno vaga e
confusa – quasi istintiva – visione di un senso del mondo.
L’educazione consiste nell’introdurre il ragazzo alla conoscenza
del reale – di tutta la realtà – precisando e svolgendo
questa originale visione. Essa ha così l’inestimabile pregio di
condurre l’adolescente alla certezza dell’esistenza di un significato
delle cose»7. Tutta la tragedia di oggi, tutta quella che
chiamiamo emergenza educativa, è la mancanza di questo: abbiamo
ragazzi che crescono pieni di paura e di incertezza, come
sulle sabbie mobili, perché non hanno davanti adulti capaci
di testimoniare una certezza, non hanno davanti adulti che
abbiano speranza sufficiente di fronte alla vita. Questo è il
problema. Quel che ha scritto quella ragazza è un grido, è un
grido che accomuna tutti i nostri figli e che dovrebbe accomunare
tutti noi: «
Qualcuno abbia pietà di me, qualcuno mi faccia
vedere che la vita ha un senso positivo, ha un senso ultimamente
buono; papà, fammi vedere che valeva la pena veni-
re al mondo. Ho bisogno solo di questo: vi perdono tutto, papà,
mamma, io lo so che anche voi siete due poveri cristi, lo
so che potete sbagliare e vi perdono i vostri sbagli come voi
spero perdoniate i miei; ma vi prego, ditemi, fatemi vedere
che valeva la pena venire al mondo, che c’è una ragione positiva
per l’esistenza»
.
Questa è l’emergenza educativa in cui viviamo: una generazione
di adulti che non ha più speranza sufficiente da comunicare
ai propri figli, da far vedere! Non da comunicare con le
parole, da far vedere. Un’ipotesi esplicativa della realtà! Si
può dire anche in un altro modo, come è scritto nel capitolo
sesto del Deuteronomio: «Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà:
“Che significano queste istruzioni, queste leggi e
queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?” tu risponderai
a tuo figlio...». Vale a dire: noi cerchiamo di insegnare
ai nostri figli le cose buone, a fare i bravi, a fare i buoni, a non
dire le bugie; ma quando il figlio diventa grande è come se ti
chiedesse: «Ma scusa papà, perché dovrei fare il buono in un
mondo che dice esattamente il contrario? Perché non dovrei
mentire quando conviene un po’? Perché non dovrei rubacchiare?
». Perché i valori di per sé non sono niente; i valori devono
essere fondati, devono avere una ragione adeguata.
«Quando tuo figlio ti domanderà: “Che significano queste
istruzioni, queste leggi?”» – come dire: «Papà e mamma, perché
insistete tanto? Perché dovrei impegnarmi e fare la fatica
di imparare il latino, la matematica e la fisica?» – la risposta
peggiore è: «Per il tuo futuro, perché ti servirà quando sarai
grande». Nessuno di noi accetterebbe una risposta così. Non
ci si impegna nel presente per una ragione futura, ci si impegna
per una ragione presente, per un bene presente: «Tu risponderai
a tuo figlio così: eravamo schiavi del faraone in
Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente.

Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi

e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua
casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato
ai nostri padri di darci» (Dt 6, 21-23).
Traduciamola in un linguaggio corrente: che cosa deve rispondere
un genitore a un figlio che gli chiede: «Papà, perché
devo essere buono? Dove fondi questi valori che mi chiedi di
praticare?»? Tu gli devi poter dire: «Ragazzo mio, sono anch’io
come te, siamo sulla stessa barca, ho lo stesso problema
tuo, ho il problema che hai tu di fronte al male, di fronte alla
noia, di fronte al nulla che a volte sembra divorare le cose, vivo
lo stesso dramma che vivi tu, vivo la stessa possibilità che
la vita sia al fondo una tragedia. Da questo, da questa tragedia,
da questa possibilità di male, dalla possibilità che la vita
alla fine sia niente, sia polvere, sia distruzione, sia il nulla che
vince, da questa possibilità di maleio sono stato salvato, tirato
fuori, mi è accaduta una cosa».
Lo dico da cristiano, ma la sfida è uguale per tutti. Se doveste
alzarvi e dirmi: «Ma io non credo», direi che non importa,
vale la stessa cosa perché, giratela nella forma più laica che conoscete,
la sfida è identica, è tuo figlio che ti guarda e ti dice:
«Dimmi comunque qual è l’ipotesi di bene su cui basi la tua
vita». Tu devi poter rispondere, non a parole ma per un’esperienza vissuta, per la testimonianza di un’esperienza vissuta. Io da cristiano cerco di far vedere ai miei figli rispetto a questo «nulla», rispetto a questo male che c’è nelle cose della vita, come io ne sono stato tirato fuori: Dio ha mantenuto la promessa che aveva fatto – per usare il linguaggio biblico – «ai nostri padri», che significa la promessa che ci trasmettiamo di padre in figlio, la promessa che abbiamo strutturalmente, la speranza di cui siamo costituiti. Dio ha mantenuto quella promessa,
Dio mi ha messo nel cuore un desiderio di felicità. «Sappi, figlio
mio, che Dio ha mantenuto la promessa, mi ha portato nel
paese che aveva promesso ai nostri padri di darci». Qual è questo
paese? Un rapporto buono con il reale, la scoperta che la
realtà è ultimamente buona, è ultimamente positiva. Questo è
il paese che ha promesso di dare a ciascuno di noi e a ciascuno
dei nostri figli: un rapporto positivo con il reale, e cioè una
possibilità di speranza: «Si può sperare, sì, figlio mio, valeva
la pena di metterti al mondo perché c’è un bene grande che
vince su tutto». «Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica
tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da
essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto
siamo oggi» (Dt 6, 24).
Tutto il segreto, tutta la meraviglia, tutta la bellezza dell’educazione
sta in questo: che un figlio possa guardare suo
padre e sua madre e sentire che c’è una promessa di bene nella
vita di cui il padre e la madre sono testimonianza. Una promessa
che lo incoraggia, che lo tiene su, che lo fa camminare
speditamente, che lo tira fuori dalle sabbie mobili di un’incertezza
che invece è la malattia del secolo: l’incertezza, l’insicurezza,
una paura della realtà. E perciò, inevitabilmente, una
cattiveria. Quante volte ce lo siamo ricordati: non si può rimanere
a lungo tristi senza diventare cattivi, senza cedere a quell’istintività
che spinge a diventare cattivi. Che cosa dunque
aiuta l’uomo a governare la propria istintività? L’educazione!
Anni e anni di educazione paziente, cioè di un paziente lavoro
per cui uno arriva a diciott’anni e ha visto tanto bene che
gli è più facile praticare la virtù, come diceva il buon Dante:
«Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda»8.La virtù,
essere virtuosi, essere buoni è possibile se si è molto felici;
solo se si è molto felici si può provare a essere buoni. È un
lavoro lungo e paziente: il problema non è insistere con l’altro
perché sia buono, l’altro è quel che è, esattamente come.
noi; bisogna insistere nel farlo felice, bisogna insistere non
nel chiedergli questo e quello, non nelle regole che pure sono
necessarie, ma nella testimonianza di un bene grande. Perché
un cuore felice governa di più la propria istintività, governa di
più la propria capacità di male; conosce di più, governa di più
la propria libertà.
Bisogna accompagnarsi in questa testimonianza di bene.
«Figlio mio, fai quello che ti dico perché io e la mamma e i
nostri amici facciamo queste cose per essere felici come appunto
siamo oggi». Questa è la questione: poter guardare negli
occhi i propri figli e – senza bisogno di discorsi, senza bisogno
di dirlo – far vedere un bene grande, un bene possibile,
una positività vissuta. Si chiama speranza questa cosa che è
l’unica cosa che i nostri figli ci chiedono.

Franco Nembrini
DA:
primo_capitolo_nembrini

Postato da: giacabi a 22:02 | link | commenti
educazione, nembrini


Prima lezione al Corso educatori scuola La Traccia

SECONDA PREMESSA LA REALTÀ NON È MAI VERAMENTE
AFFERMATA SE NON È AFFERMATA L’ESISTENZA
DEL SUO SIGNIFICATO
***
Leggo il di una lettera che ha scritto una ragazza al suo
professore: «In questi giorni sento più che mai di subire la vita
brano
» – ciascuno pensi ai propri alunni e ai propri figli, perché
la consapevolezza di questa ragazza di sedici anni definisce
esattamente quel che vive ciascuno di noi, il dramma che vive
ciascuno di noi – «e così facendo è come se fossi già morta,
e morire è l’ultima cosa che voglio. A essere sincera questo
vuoto, questo senso di persona inutile che vive solo perché
è nata, l’ho riscontrato per la prima volta due anni fa in un
modo acuto, ma come spesso accade poi l’amarezza si è impossessata
di me per poco tempo, poi sono tornata alla solita
vita fingendo che tutto andasse bene. Il punto è che ora sono
stanca, stanca di rimandare la questione, voglio affrontare ciò
che vedo, non importa se dovrò soffrire, perché sono convinta
che la soddisfazione e la pace e la gioia che proverò quando
troverò ciò che sto cercando sarà grande. Ora mi sento
grande abbastanza da sbattere la testa contro la realtà per
quanto dura possa essere. Quando ne parlo con le persone che
mi stanno vicine, i miei amici, i miei genitori e gli adulti che
ho intorno, nella maggior parte dei casi non mi capiscono, anzi
mi dicono che non ho niente di cui lamentarmi perché ho
tutto ciò che serve: sono amata, a scuola vado bene, ho tutto
il necessario. Quante sciocchezze! E la cosa peggiore è che mi
sento incompresa, mi hanno fatto credere che questo problema
riguardi solo me e che quello che sento è frutto dei miei
complessi, e invece credo che in fondo in fondo anche loro»
cioè gli adulti, cioè noi «si sentano come me, ma sono troppo
codardi per ammetterlo e si sono arresi prima ancora di fare
qualcosa. Così continuano la loro vita vuota, senza neanche
tentare di cambiare qualche cosa, perché puoi avere i soldi,
puoi avere la fama, puoi avere successo, ma la felicità, quell’unica
cosa che ti può rendere vivo, è la cosa più difficile da
raggiungere». Poi scrive questa affermazione che individua
già una possibile soluzione, un possibile percorso. Dice, sempre
rivolgendosi al suo prof: «Mi ha colpito molto il fatto che
tu da giovane ti sia sentito come me, perché per la prima volta
mi sono sentita compresa e mi sono sentita normale. Credevo
infatti di essere pazza».

Questo è il contenuto dell’educazione:
questo senso divuoto che chiede di essere colmato, questa tensione alla positività
delle cose è il contenuto dell’educazione

 

Quando nella

prima premessa don Giussani dice che l’educazione è introduzione
alla realtà totale, aggiunge: che cosa vuol dire che l’educazione
è introduzione alla realtà totale? Vuol dire che l’educazione
è introduzione alla realtà affermandone il senso, affermandone
il significato, affermandone una possibilità di bene.
Tutto il nostro compito di adulti sta in questo. Il termine
«educazione» può essere identificato con una parola che indica

già un metodo: «testimonianza». L’educatore non ha altro

da fare se non testimoniare, rendere conto nei fatti – non solo
nelle parole – di un’esperienza di positività. L’educazione è
una testimonianza. Quel che i nostri figli hanno bisogno di vedere,
quel che i nostri alunni hanno bisogno di vedere, è esattamente
questo: un adulto che sa ciò che nella vita bisogna sapere.

Ciò che nella vita bisogna sapere non è la fisica, non è
la matematica, non è il greco. Immagino che qualcuno tra di
voi non abbia fatto studi particolarmente elevati. Quel che dà
la statura della personalità, quel che dice del valore dell’uomo
non è che conosca il greco e il latino. La statura dell’uomo, il
valore della persona, è dato dalla certezza su cui riposa la sua
giornata, la sua vita, la sua decisione.
Questo si aspettano i nostri

figli da noi. Di questo hanno bisogno; e in questo senso al-
lora diciamo subito la questione fondamentale: il problema
non sono i figli.
Se è vero quel che ho cercato di dire, che i figli vengono al
mondo come Dio comanda, vengono al mondo con ciò che è
davvero necessario, tutto il problema dell’educazione è spostato
su di noi. Il problema dell’educazione sono gli adulti,
non i ragazzi, non i bambini. Il mestiere del bambino è guardare.
Non lo sanno, non lo sanno quando hanno un anno,
quando sono nel grembo materno; ma credo che fin dal grembo
materno i nostri figli ci guardino, sempre, con la coda dell’occhio.
Ci guardano sempre. Sembra che facciano altro,
sembra che giochino fra loro, che facciano i capricci, sembra
che mangino, che dormano, che siano all’asilo, che vadano a
scuola; ma l’attività vera che fanno è guardare: guardano sempre
l’adulto che hanno di fronte, prima il genitore e poi mano
a mano le altre figure di adulti che incontrano – cioè la maestra,
gli insegnanti – e poi l’ambiente circostante.Allora capite
in che senso tutto il problema è spostato su di noi: parlare
di educazione è parlare di adulti, non è parlare dei bambini.

Certo, non sono così ingenuo da pensare che non abbia valore
la conoscenza di una serie di dinamiche psicologiche, capisco
bene che c’è da parlare anche del bambino, del suo percorso;
ma l’educazione ha come protagonista, ha come soggetto
attivo l’adulto, perché è lì che è puntato lo sguardo del
bambino, è lì che è puntato lo sguardo dell’alunno.
Seconda premessa, dunque: la realtà non è mai veramente
affermata se non è affermato il suo significato. Che cosa vuol
dire? Vuol dire che la responsabilità dell’adulto è rispondere
in qualche modo a quella domanda di bene, a quella domanda
di senso, di felicità. Cioè vuol dire che l’educazione è una testimonianza;
e questo ha alcune conseguenze importanti. Se è
così l’educazione non è questione di discorsi, le parole in edu-
cazione sono assolutamente secondarie. Noi ci fidiamo molto
dei nostri discorsi, delle nostre prediche, delle nostre raccomandazioni,
e invece le parole in educazione contano pochissimo;
a volte servono – raramente – per descrivere un’esperienza
che si fa, ma mai la possono sostituire. L’educazione è
la testimonianza di un bene che si vive.

FRANCO NEMBRINI

Postato da: giacabi a 17:43 | link | commenti
educazione, nembrini


Prima lezione al Corso educatori scuola La Traccia
Calcinate (Bg), 5 febbraio 2010
È un lavoro impegnativo quello che ci apprestiamo a fare. Il
testo che intendiamo affrontare, Il rischio educativo1, non è
facile. Quella che propongo vuol essere solo una breve presentazione:
vorrei lanciare delle suggestioni, fissare alcune
parole che mi sembrano decisive e fondamentali per capire
come la questione educativa sia proposta da don Giussani.
C’è una premessa: per capirlo, soprattutto per entrare nella
prima parte dove lui propone le due grandi premesse, c’è bisogno
di un atto di umiltà. In un altro testo don Giussani, ricordando
un filosofo, dice: «Gli uomini raramente imparano
ciò che credono già di sapere»2. Perciò, per capire lo sviluppo,
le conseguenze, la dinamica di quella che chiamiamo educazione,
dobbiamo fare lo sforzo di riguardare le cose dall’inizio.
Ci vuole un atto di coraggio, necessario per capire i
termini della sfida che il testo presenta, la proposta che ci fa,
la radice del problema; perché, come sappiamo, l’educazione
è veramente «roba da uomini».
L’educazione infatti si identifica con il rapporto tra gli uomini,
l’educazione è ciò che fa del rapporto tra uomini un rap-
porto davvero umano: quel che fa la differenza tra l’uomo e
l’animale è proprio l’educazione, cioè l’introduzione alla realtà:
l’accompagnamento di un bambino, di un figlio d’uomo,
verso il suo destino, verso il reale, verso il significato delle
cose. L’educazione è cosa che riguarda tutti gli uomini e tutte
le donne. Certo, in particolare è il mestiere dei genitori e, in
altro modo, il mestiere dell’insegnante; ma è prima di tutto il
mestiere dell’uomo. L’uomo per come è fatto e ha relazione
con altri uomini, educa: l’uomo educa sempre. Quello che
facciamo in questo incontro è educarci, quando ci vediamo
per strada ci educhiamo, quando andiamo al lavoro ci educhiamo
ed educhiamo gli altri che ci guardano. Ci vuole questo
coraggio, questa lealtà, per provare a guardare le cose nella
loro struttura originale.
Ho la presunzione dunque di offrire un’introduzione al testo;
la densità stessa del quale mi costringe ad andare quasi
per titoli: cercherò di fare degli esempi e di commentare alcune
pagine, alcuni brani che leggerò, perché ciascuno possa
portare a casa alcune idee fondamentali, alcune parole chiave.
***
PRIMA PREMESSA
L’EDUCAZIONE È INTRODUZIONE ALLA REALTÀ
Partiamo dall’inizio, da una constatazione assolutamente elementare.
Potrebbe apparire ovvia, ma non lo è; come ogni cosa
veramente fondamentale che spesso è data per nota, per conosciuta,
e invece è proprio una cosa che abbiamo bisogno di
riguardare e di recuperare sempre. Mi verrebbe quasi da cominciare
con una domanda filosofica: che cos’è che abbiamo
intorno? Chi siamo? Che cosa siamo? Quando veniamo al
mondo, quando il bambino esce dal ventre di sua madre,
quando un uomo entra nella realtà, che cosa succede? Che co-
sa constatiamo? O, da un altro punto di vista, la domanda potrebbe
essere: che cosa ha fatto Dio quando ha creato il mondo?
Che cosa ha fatto Dio quando ha dato inizio alla creazione?
Ha fatto due cose – e la fedeltà di Dio si vede da questo,
Dio è continuamente ed eternamente creatore perché continua
a fare queste due cose che ha fatto fin dall’inizio –: la realtà,
le cose, l’essere, il mondo, l’universo così come lo guardiamo;
e l’uomo, il cuore dell’uomo
. Bene, l’educazione ha a che
fare con questo, ha a che fare con questo uomo. Immaginate
proprio il bambino che esce dal ventre di sua madre, quando
voi mariti lo avete tenuto in braccio all’ospedale appena vostra
moglie ha partorito, quel bambino lì è entrato nel mondo
dotato dalla natura, cioè da Dio, di queste due cose: la realtà
che ha intorno e sé stesso.Quando don Giussani nella prima
premessa dice che l’educazione è introduzione alla realtà3,
parla esattamente di questo: di che cosa siamo responsabili,
come genitori e come insegnanti? Dell’incontro di questo
bambino, di questo figlio con il reale, con le cose.
La realtà questo bambino ha il diritto di incontrarla intera,
cioè secondo tutte le sue dimensioni, per tutto quello che è,
per tutto quello che rappresenta, per tutto quello che gli suscita:
è innata in lui la necessità di incontrare e di abbracciare
tutta la realtà. Io credo che questa necessità ci sia da quando
Dio gli mette dentro l’anima, cioè dal concepimento, tanto
che gli esperti dicono che perfino nei nove mesi che passa nel
grembo di sua madre il bimbo comincia a costruire questo
rapporto con la realtà, comincia a strutturarsi, anche se in modo
completamente inconsapevole, l’esigenza di un rapporto
con le cose, di un rapporto con la realtà.Allora, quando don
Giussani nella prima premessa dice che l’educazione è l’introduzione
alla realtà totale, intende dire questo: la vita intera è
questa progressiva, mai finita – la fine sarà quando vedremo
il reale e ciò che lo fonda, cioè Dio stesso, faccia a faccia, Gesù
come Egli è, come dice san Paolo – avventura educativa;
passassero cent’anni o ne passassero mille, non finisce mai,
proprio perché è l’entrare passo dopo passo dentro questo mistero
che è la realtà.
Ma si entra dotati di che cosa? Armati di che cosa? Forti di
che cosa? Del nostro cuore; cioè di quel desiderio insopprimibile
che abbiamo di bene, l’esigenza insopprimibile di senso.
Per usare una parola che tornerà molte volte: dotati della nostra
natura; dotati da Dio di questo desiderio di bene, di felicità,
di questa tensione a poter abbracciare le cose, a conoscere
le cose, ad amarle e servirle.Come diceva l’antica formula
del catechismo: perché Dio ci ha creati? I più vecchi tra noi la
ricorderanno: «Per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa
vita e poterLo godere nell’altra in Paradiso».
Conoscere, amare, servire. Questa è l’insopprimibile esigenza
del cuore dell’uomo, di ogni uomo che venga nel mondo.
Conoscere la verità, sapere le cose, sapere perché le cose
esistono, sapere quale sia il senso delle cose; ma non solo saperlo
intellettualmente: non basta all’uomo conoscere la realtà,
ha un’altra esigenza, quella di poterla abbracciare, di potere
amare la verità. Perché l’uomo è fatto di ragione ma anche
di sentimenti, di affezione, di capacità di attaccarsi alle cose;
è esigenza di conoscere il vero ma anche di amare il vero, di
abbracciare il reale e perciò – terza parola – è esigenza che la
vita sia una cosa positiva, sia una bellezza. In termini teologici:
che la vita sia piena di speranza.

Nei termini del catechismo, nei termini dell’esperienza cristiana,
queste esigenze elementari che abbiamo, condensabili
nella parola «felicità», si chiamano «fede», «carità» e «speranza
». Sono le tre virtù teologali, le tre caratteristiche di Dio,
le tre facce di Dio. Sono le tre persone della Trinità: Padre, Fi-
glio e Spirito Santo. Siccome siamo fatti a immagine e somiglianza
di Dio, con tutto il tradimento e con tutto il male che
possiamo fare, che possiamo portarci addosso, siamo insopprimibilmente
fatti così: esigenza di verità, esigenza di bene
ed esigenza di bellezza. La prima cosa che dobbiamo dire
dunque è: se l’educazione è introduzione alla realtà vuol dire
che l’educazione è accompagnamento di un bambino, mano a
mano che diventa grande, a sentire soddisfatto questo desiderio,
a rendersene cosciente e a verificarlo nella vita. Questo è
ciò che facciamo tutti, tutti i giorni.
In questo senso dicevo che bisogna ripetersi le cose che
pensiamo di conoscere, perché proprio le cose che apparentemente
sono più ovvie sono quelle a cui dobbiamo richiamarci
di più, soprattutto in un mondo che le nega in modo sistematico
e organizzato, scientificamente determinato. Dobbiamo aiutarci
a ricordare come siamo fatti e perciò come sono fatti i nostri
figli. Anche il Papa l’ha detto in un memorabile discorso
sull’educazione a Roma alcuni anni fa, ha usato questa espressione:
i nostri figli vengono al mondo come siamo venuti al
mondo noi, e i nostri nonni, i nostri bisnonni, Adamo ed Eva,
cento anni fa, mille anni fa4. Sono come devono essere, nascono
come Dio comanda, cioè con un cuore fatto per la felicità.
L’educazione sarà introduzione alla realtà, cioè l’accompagnamento,
l’aiuto che diamo ai nostri figli a camminare dentro la
vita con sicurezza, brandendo, prendendo sul serio il proprio
cuore, questo desiderio di felicità che li caratterizza e che, diciamolo
subito, è così spesso dimenticato, tradito proprio dalla
cultura in cui siamo, dal mondo in cui siamo.

dal primo capitolo

Postato da: giacabi a 10:18 | link | commenti (2)
educazione, nembrini



La scuola che parla al futuro

Meeting Rimin


***
Grazie a tutti, buongiorno, farò un intervento poco politically correct e lo faccio prendendo
spunto da una lettera che ho ricevuto, che un amico insegnante, uno tra voi, mi ha dato
proprio in questi giorni. Mi è sembrato il modo più semplice di render conto del tentativo
che migliaia di insegnanti nella scuola italiana fanno ogni giorno. E’ una lettera che potrei
aver ricevuto io, potrebbe aver ricevuto ciascuno di voi che è qui. Anzi so per certo che
tutti gli insegnanti che sono qui e tantissimi altri custodiscono lettere come queste, come la
cosa più gelosa della loro vita, potremmo alzarci in tanti e tirar fuori dal taschino, dopo
tanti anni di insegnamento, lettere come questa.
Che ho pensato di leggere perché mi è sembrata descrittiva proprio di quello che mi ha
chiesto il presidente Scholz, provare a dar ragione, in pochissimi minuti, di una esperienza
che c’è, di che cosa sia l’educazione tra noi e per noi, e per tantissimi altri insegnanti, tra
l’altro lo voglio proprio dire, di destra o di sinistra di centro. Cadute le barriere ideologiche,
resta una grande quantità di insegnanti, che partendo anche da posizioni culturali diverse,
sfidano la propria responsabilità e la libertà degli alunni a tentare insieme un cammino
come quello che qui è descritto nella lettera di una classe che saluta il proprio insegnante
che l’anno successivo non avrà più, quindi una lettera scritta alla fine di questo anno
scolastico.
Caro prof. come prima cosa vorremmo ringraziarla di tutto. Grazie di averci fatto capire
che ciò che studiamo deve essere messo in discussione” - e cioè che l’insegnamento sia
un risveglio della criticità dei nostri ragazz
i - “per averci fatto vedere che ciò che studiamo
deve essere messo in discussione e guardato in profondità, grazie di non essere stato né
oggettivo, né imparziale”
- alla faccia della falsa neutralità che ha afflitto la scuola italiana
per decenni, perché invece l’educazione è il porsi di un adulto con un ipotesi di significato,

come è stato detto, è questa sola risveglia la libertà dei nostri figli e dei nostri ragazzi -
“grazie di non essere stato né oggettivo, né imparziale, perché così abbiamo imparato a
mettere in gioco la nostra responsabilità e il nostro senso critico e riusciremo a crescere.
Grazie di non aver nascosto il suo affetto per noi”
- perché se l’avvenimento è sempre una
conoscenza, la conoscenza è sempre un rapporto, è sempre un amore al destino dell’altro

- “Grazie di non aver nascosto il suo affetto per noi, distruggendo quel muro di inimicizia
che sempre divide alunni e insegnanti, grazie di averci mostrato le idee e sentimenti
nascosti tra i versi di una poesia, facendoli entrare nella nostra vita, permettendoci così di
viverla con una nuova responsabilità
” - il ministro deve far finta di non sentire “Grazie di
non aver rispettato i programmi
”, ma a me piace troppo, non ho voluto censurare questa
bellissima affermazione, perché poi in realtà si capisce che questi i programmi li ha fatti,
eccome! - “grazie di non aver rispettato i programmi e di averci guidato in un percorso
diverso, in questo senso lei è stato per noi il nostro Virgilio, senza il quale Dante non
avrebbe mai nemmeno potuto cominciare il suo viaggio. Ora è arrivato il momento di
separarci ed è proprio a questo punto del cammino che si ‘parrà la nostra nobilitat
e’” - cioè
ragazzi che dicono non c’è più, tocca a noi, tocca alla nostra responsabilità. E poi l’ultima
affermazione che mi ha commosso - “Lei ci ha dato gli strumenti per vivere in modo
diverso, per guardare il mondo con occhi più attenti”
- lei ci ha dato gli strumenti, come non
ricordare il grande insegnamento di don Giussani: “non sono venuto a convincervi delle
mie idee, ma offrivi gli strumenti per verificare voi se le mie idee sono giuste
”.
“Lei ci ha dato gli strumenti per vivere in modo diverso, per guardare il mondo con occhi
più attenti, ora tocca a noi trovare nelle profondità del nostro cuore l’ardire e la franchezza
per entrare nel ‘cammino alto e silvestro’”
, sono tutte citazioni di Dante naturalmente.
“Grazie di cuore, la sua quarta I”.
E fatemi dire una battuta su questa ‘la sua quarta I’, perché questi ragazzi hanno potuto
diventare così perché si sono sentiti di qualcuno, come disse, non lo dimenticherò mai,
quel bambino di sei anni, che aveva cominciato la prima elementare e stava male, non
mangiava, non dormiva, piangeva, bisognava trascinarlo a scuola, finché dopo qualche
mese i genitori disperati hanno provato a cambiare scuola, ed improvvisamente questo
bambino sta bene, è contento, si alza prima del tempo per andare a scuola e al papà che
gli chiede che cosa è successo perché adesso è contento, il bambino di sei anni risponde:
“papà, adesso io sono di qualcuno”, sono di qualcuno. Che i nostri figli ed i nostri ragazzi
possano sentirsi di qualcuno davanti ad una proposta, quale che sia, ma una proposta di
un adulto che li sfida, che metta in moto la loro libertà, la loro intelligenza, la loro
responsabilità.

Non so questa classe dove andrà, non so che fine farà, ma certamente si è messa a
correre incontro alla vita con un coraggio, con una baldanza che non avevano prima ed è
la cosa di cui ringraziano i loro insegnanti.
Bene ministro, io sono qui a dirle che tra noi migliaia di persone, centinaia di persone,
hanno lettere così, hanno visto accadere l’educazione così, come un avvenimento,
veramente come una conoscenza, ed è la prima osservazione che voglio fare.
Se l’educazione è questa, tranquilli è sempre possibile.
Prima e oltre ogni riforma, dentro ogni situazione, se l’educazione è questo avvenimento
non ce la porta via nessuno, un adulto così non lo frega nessuno e quindi tranquilli, andare
avanti nel nostro mestiere che è il più bello del mondo.
Gli ebrei facevano scuola ai loro bambini ad Auschwitz, sotto il potere comunista santi
preti e grandi intellettuali hanno educato un popolo attraverso il Samizdat, lo dico per dire
che neanche nelle peggiori condizioni l’adulto viene meno alla sua responsabilità di
educatore.

Detto questo, però, e vengo al secondo punto, ci sono delle condizioni che la favoriscono
ed è esattamente il compito della politica. Vorrei che ci fosse qui, a raccontarci, il mio
amico Chris Bacich di New York, il nostro amico insegnante, che mi ha raccontato delle
cose che faccio perfino fatica a ripetervi, perché non mi sembrano vere, però devo credere
che siano vere, perché me le ha raccontate così, che in America, per aver ricevuto questa
lettera, il nostro amico insegnante potrebbe andare in galera, potrebbe andare in galera
perché è così teorizzato che l’insegnamento non è un rapporto tra libertà che si
incontrano, che diventa reato farlo. Diventa reato andare a mangiare una pizza con i tuoi
alunni, diventa reato accostare un alunno in corridoio, con fare sospetto.
E lo stato di New York ha reso obbligatorio per tutte le scuole, paritarie o statali che siano,
un corso per i bambini dai sei agli otto anni, il cui il titolo è: ‘Impariamo a diffidare degli
adulti’. Allora il mondo sta andando così, siamo ad un bivio, dovremo, credo, difendere coi
denti la natura dell’uomo, la grandezza dell’uomo, che sta tutta nella educazione, sta tutta
in quello che ho appena descritto. E Chris, quando mi ha raccontato queste cose, ad un
certo punto, mi ha fatto venire i brividi, mi ha detto: “oh non pensare, questo è il vostro
futuro”.

No non può essere, io lotterò fino al sangue, fino alla morte, perché non sia il nostro
futuro.
Il nostro futuro voglio che sia il presente di questa lettera, per tutti, non per me o per noi,
per tutti.
E allora, lo dico agli insegnanti, lo dico a chi tra noi, secondo me equivocando un po’,
pensa che il problema educativo si risolva nel rapporto con i suoi alunni: non è più
sufficiente, dobbiamo occuparci di politica, dobbiamo occuparci di riforme, perché si può
andare dall’altra parte, si può andare nella direzione dell’America, capite, dove in fondo
l’educazione è un reato.
E dobbiamo difenderla perciò questa esperienza educativa che c’è. Difenderla con
strumenti adeguati, con riforme adeguate, con richieste adeguate alla politica.
Come mi ha insegnato il mio grande amico Mario Mauro, bisogna occuparsi di politica
perché è la politica che si occupa di te, è inutile che pensi che la lasci fuori dalla porta
dell’aula, si occuperà di te. Fino a cercare di impedirti quello a cui tieni di più, come padre,
come madre, come insegnante.
Allora, terza ed ultima cosa. Le richieste che facciamo alla politica: noi chiediamo da
sempre, umili discepoli di don Giussani, di chi ha gridato per primo ‘fateci andare in giro
nudi ma lasciateci educare’, noi chiediamo che la politica si occupi di scuola, anzi se ne
occupi come una emergenza prioritaria, non la occupi, se ne occupi, che sono due cose
un filino diverse. Se ne occupi, cioè ci lasci fare il nostro mestiere di insegnanti e di
genitori; chiediamo alla politica, come verrà dettagliato poi nelle proposte che sentiremo,
una grande iniezione di libertà. Perché il nostro paese è fermo a quel liberticida di
Napoleone, dal punto di vista della concezione della scuola. La libertà, da rivendicare
ormai con chiarezza per tutti, non è la difesa di una nicchia, non è la difesa della scuola
privata, è la difesa della libertà tout-court, la difesa della libertà di ogni scuola, di tutti,
dell’intero sistema scolastico, chiamiamola autonomia, poi ci sono i termini tecnici per
descriverla e non è il mio compito oggi, ma quel che chiediamo alla politica è di custodire
questa ricchezza, questa tradizione, questa dedizione di tanti ancora tra noi. Custodirla,
difenderla, agevolarla e renderla possibile.

Alla politica chiediamo un po’ di libertà, un po’ di libertà per noi e per tutti, per ogni scuola
e per tutte le scuole.
Grazie.
FRANCO NEMBRINI:
28 ago 2009
DA:www.meetingrimini.org/?id=673&item=4859


Postato da: giacabi a 08:33 | link | commenti
educazione, nembrini

DA:Quotidiano Meeting 2011 - sabato 27 agosto
E voi, da chi siete educati?
***

«Fin da quando nascono, i figli di mestiere
guardano. Guardano sempre».
In uno degli
incontri più affollati del Meeting di ieri
Franco Nembrini ha cominciato così, presentando
con don Stefano Alberto il suo «Di padre
in figlio. Conversazioni sul rischio di educare
» (edizioni Ares, prefazione del cardinale
Camillo Ruini).

Nembrini, preside in una scuola privata di
Bergamo, ha preso di mira il «grigio pragmatismo
della vita quotidiana»: un pragmatismo
che inquina anche le famiglie cattoliche,
trasformando l’educazione non più in una
testimonianza di vita che si propone, ma
in un rincorrere obiettivi fini a se stessi. Il
suo testo è la trascrizione di incontri con insegnanti,
genitori, studenti, avvenuti in questi
ultimi anni, tesi a documentare la biunivocità
del rapporto educativo: «Educare è
l’esser figli dei propri figli ha commentato
– secondo la geniale definizione che Dante
ha dato della Madonna nel XXXIII Canto
del Paradiso. Non è un processo unidirezionale
l’educazione, ma può accadere a chiunque».
Secondo Nembrini, la situazione attuale è
caratterizzata da una serie strutturale di debolezze
e di assenze: di ipotesi, di padri, di
realtà, tali da generare incertezza su tutto.
Ma c’è anche chi costruisce: se stesso e i
giovani. Il titolo del libro ha avuto una genesi
contrastata. Nembrini infatti era convinto
di altre due ipotesi: «Ho visto educare» (perché
«educare non è insegnare qualcosa a
qualcuno, deve essere qualcosa in azione,
qualcosa che si vede») oppure «Lasciateli
stare» (un appello alle madri, come ha ironizzato
Nembrini).
«Educare è partecipare alla manifestazione
della verità», ha proseguito l’autore: «È
incontrare qualcuno e sentire il proprio io risorgere,
sentirsi incuriositi e attratti dall’origine
di quello che vedi».
Come nel caso di quella ragazza che, vedendo
come vivono i suoi genitori, ha voluto
scoprire quale fosse l’origine del loro cambiamento.
«Perché cambiano anche gli adulti:
è un legame, l’educazione, un rapporto
nel quale o c’è la misericordia verso l’altro,
oppure fallisce. La misericordia è amare l’altro
prima che esso cambi, senza imporgli la
gabbia dei nostri pur buoni progetti».
Nembrini ha poi descritto i principali “errori”
commessi, anche per malinteso affetto,
dai genitori: «I figli non hanno bisogno di
genitori opprimenti né di padri-amici, ma di
adulti che li lascino andare e che restino a
garantire una casa in cui si può sempre tornare,
proprio come nella parabola del figliol
prodigo».

Don Stefano Alberto ha poi richiamato
un’immagine del libro di Nembrini, quella
del padre che la sera si inginocchiava e recitava
il Padre Nostro. Che ha fatto tornare in
mente al sacerdote altri due grandi inginocchiati:
il Papa in ginocchio a Madrid e don
Giussani, il 30 maggio del 1998, dolorante,
inchinato come un cavaliere antico davanti a
Giovanni Paolo II. «Non ci ha mai raccontato
quello che si sono detti lui e il Papa, ma si
vedeva la presenza viva di Cristo. Educare è
vedere qualcuno in azione, è vita che si comunica.
Come diceva don Giussani è “introduzione
alla realtà totale”: introduzione, non
spiegazione».
L’incontro si è chiuso non con una formula
ma con una domanda girata a insegnanti e
genitori, presenti in larga maggioranza all’incontro:
«Da chi vi lasciate generare voi,
oggi, per essere capaci di educare a vostra
volta?».

Q.M.

Postato da: giacabi a 07:03 | link | commenti
educazione, nembrini


EDUCAZIONE/

Ci sono ancora i padri capaci
di educare al senso della vita?
***

Franco Nembrini

da:www.ilsussidiario.net/

venerdì 26 agosto 2011
La tragedia del nostro tempo è che non c’è più educazione. Siamo forse la prima generazione di adulti che vive in modo così drammatico il problema della tradizione, cioè della consegna da una generazione all’altra di un patrimonio di conoscenze, di valori, di certezze, di positività, di un’idea buona della vita. Non è più così scontato, non è più così facile che avvenga quel miracolo che sempre è stata l’educazione e che ha garantito, nel bene e nel male, anche in momenti terribili della storia, che il mondo andasse avanti. Evidentemente ci sono delle ragioni. Per esempio, è stata troppo sistematicamente distrutta, da parte di una certa cultura, l’idea del padre. Perché è attorno a questo nodo che si gioca la partita dell’educazione: l’educazione c’è se in primo luogo c’è l’adulto.
Una certa cultura prima ha distrutto l’idea stessa di Dio, di una Paternità grande a cui l’uomo appartiene o è desideroso di appartenere; ma così si è tarlata la certezza stessa dell’uomo di avere qualche cosa di buono e di intelligente da dire ai propri figli, in casa sua. Il problema è il cinismo di una cultura che ha distrutto l’unica cosa di cui i nostri figli hanno bisogno: sapere a chi appartengono, cioè avere un padre e una madre. Sapere di chi sono, perché è l’unica cosa che li educa e li preserva, anche psicologicamente, da tutte le patologie da cui sono ormai massacrati. Ma perché un figlio sappia a chi appartiene, bisogna che anche il padre sappia a chi appartiene. Io da bambino ho questo ricordo vivo di mio padre: quando andavamo a letto a dormire la sera veniva a farci dire le preghiere: entrava, s’inginocchiava in mezzo alla stanza e cominciava: “Padre nostro che sei cieli…”.
Mio padre era uno che non faceva tante prediche, parlava pochissimo; ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: “Io e voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l’unico problema che avete è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi”. E io lo guardavo e capivo che in lui la vita era una saggezza. Lui guardava le cose e le conosceva: lo capivi da come si muoveva, da come stava, da come cantava, da come giocava a carte, da come serviva a tavola noi figli e tutti gli amici che sono venuti dopo.
Era uno che potevi scommetterci che sapeva le cose, le conosceva, che avrebbe potuto spiegarti che cos’è il bene e che cos’è il male, che cos’è la gioia, che cos’è il dolore, perché si muore, perché si fa fatica, perché bisogna vivere e che cosa ci aspetta alla fine. Ed esemplificava con la vita che cosa vuol dire muoversi in pace con se stessi e col mondo, senza dire no a nessuna delle responsabilità, delle provocazioni che vengono dalla realtà. Era uno che a guardarlo, a me da bambino veniva da dire: “Io da grande voglio essere così”. Se poi ci mettete insieme la mia mamma! Figlia di contadini, praticamente sempre chiusa in casa – con dieci figli! -; ma quando è morta abbiamo nel suo armadio trovato una scatola dove c’era scritto: “Se qualcuno trova queste cose, non le butti via perché sono la Storia dentro la storia del mondo”.
C’erano dentro ritagli di giornale che si riferivano alla storia della Chiesa: Papa Giovanni, la beatificazione di questo o di quello… Contadina e aveva la terza elementare, ma aveva una coscienza così delle cose. Io sono diventato grande, grazie a Dio, con due genitori così; per cui mi è sempre stato facile capire che cos’è l’educazione: non è una serie di prediche, non è una preoccupazione da avere. È un uomo che vive. L’educazione non è mai un problema dei giovani, dei figli, degli alunni. È sempre un problema tuo. Cioè l’educazione è la capacità che hai o non hai di rendere testimonianza tu; chiunque tu sia, dovunque tu sia è la testimonianza di una certezza e di una positività che i figli possono guardare. Basta questo.

Postato da: giacabi a 06:51 | link | commenti
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martedì, 06 settembre 2011

La responsabilità dell'educatore

***

a Bologna 02 settembre 2011


Non penso sia inutile, prima di addentraci nel tema, richiamare alcuni elementi costitutivi della responsabilità.
            La persona umana non è solo causa delle sue azioni; ne è anche e soprattutto l’autore. La causalità avviene anche nel mondo fisico: il calore causa la dilatazione del metallo. Non solo, ma la sorgente del calore è a sua volta causata, e così via. In nessun punto della catena causa-effetto c’è un punto che possa qualificarsi come inizio.
            L’inizio si dà solo quando la persona decide di agire, e dice: «io decido di…; io voglio ...». Certamente ci possono essere motivazioni per decidere di scegliere, ma esse non sono l’autore dell’azione.
            L’intima natura della responsabilità sta precisamente in questo: di questa azione io sono l’autore; il che equivale: di questa azione io sono responsabile.
            Anche l’educatore è responsabile di un’azione: quella di educare un’altra persona. Se esiste – ed esiste – una responsabilità dell’educatore, essa ha precisamente il seguente significato fondamentale: io educatore, in quanto pongo in essere un processo educativo, ne sono responsabile.
            Da queste semplici riflessioni siamo già introdotti pienamente nel nostro tema.

1.         L’agire educativo pone l’educatore in rapporto con un’altra persona umana: la persona che chiede, che deve essere educata. Dunque, l’educatore è responsabile, nel modo che vedremo, di una persona umana.
            Ma consentitemi ora una parentesi, nella quale vorrei svolgere brevemente una riflessione di carattere generale.
            Nessuno di noi vive dentro una casa senza porte e senza finestre: vive nel mondo; vive dentro una società di persone. Chiamiamo tutto questo in cui viviamo con il nome di realtà. Facciamoci una domanda: come devo pormi in rapporto con la realtà? La risposta più ragionevole è che il rapporto deve essere misurato sulla realtà, adeguato alla sua natura, al suo valore, al suo senso. Quando l’uomo invece dimentica questo e prevale in lui l’istinto del dominio e del consumo distrugge la realtà. La realtà quindi è affidata all’uomo: egli ne è il responsabile.
            Ritorniamo ora al nostro tema. La responsabilità che l’educatore ha di una persona esige che egli si ponga in modo giusto nei suoi confronti; in modo giusto, cioè adeguato alla sua natura di persona umana, commisurato alla sua dignità e valore.
            Abbiamo così già individuato due significati fondamentali della responsabilità dell’educatore. Egli è autore della sua azione educativa, e quindi ne risponde. Egli è collocato dalla sua azione in relazione con una persona umana, e quindi ne è responsabile.
            Arrivati a questo punto della nostra riflessione la domanda che sorge in noi è la seguente: di quale azione l’educatore è autore e responsabile? Cioè: con quale azione egli deve porsi in relazione con la persona da educare?

2.         La risposta a queste domande esige da noi che descriviamo l’azione educativa come tale.
            So bene che entro in un campo in cui esistono tante dottrine, anche fra loro contrarie. Ma non voglio addentrarmi in discussioni dottrinarie. Non è nemmeno la mia competenza. Procederò in maniera molto più semplice, cercando di essere il più aderente possibile all’esperienza.
            E partiamo da una domanda: di che cosa ha bisogno l’uomo per crescere nella sua umanità? È questa una domanda … trasversale: è secondario che si tratti del bambino nella scuola dell’infanzia o del giovane liceale.
            Il bisogno dell’uomo ha un contenuto molto vasto e variegato, conformemente alla multidimensionalità della persona umana.
            Ha bisogno che le venga insegnato a custodire, difendere, nutrire la sua vita biologica: esiste un ambito di bisogni che sono dell’uomo in quanto essere vivente.
            Ha bisogno che le venga insegnato non solo a vivere, ma a con-vivere poiché la persona umana è costituzionalmente sociale. Nell’ambito di questo bisogno, entriamo in un modo di essere che rivela l’originalità della persona: il concetto e l’esperienza di regola; il rapporto con l’altro [estraneo? nemico? prossimo?]. Insomma la società umana è essenzialmente diversa dal branco degli animali, poiché è formata da due grandi categorie spirituali [ignote agli animali]: la giustizia e la carità.
            Ha bisogno infine che le venga data risposta al suo bisogno di conoscere la realtà, al suo bisogno di felicità.
            In sintesi: la persona umana ha bisogno: a) di vivere: b) di convivere; c) di godere della verità conosciuta.
            L’educazione è la guida della persona; è l’aiuto dato alla persona perché cresca al punto da essere essa stessa capace di vivere, di convivere, di conoscere e godere della verità conosciuta. Volendo dire la stessa cosa in termini quasi banali: educare significa equipaggiare la persona di tutto ciò che è necessario per vivere; per convivere; per conoscere e godere della verità conosciuta. Questa è la responsabilità dell’educatore nei confronti della persona che ha da essere educata.
            Con ciò è detto tutto sulla responsabilità dell’educatore? Oppure se si ponesse termine ora al nostro discorso, non si tralascerebbe forse di parlare della vera, della più grande responsabilità dell’educatore? La cultura in cui viviamo – dirò dopo il perché – rende estremamente difficile la risposta.
            Parto da una costatazione storica e da un’esemplificazione … grammaticale. La costatazione storica. È esistito l’uomo greco e di conseguenza una paideia greca; è esistito l’uomo romano e di conseguenza la institutio romana; è esistito l’uomo rinascimentale e di conseguenza una coerente educazione.
L’esemplificazione grammaticale.
            Esiste un paradigma dei verbi in base al quale viene coniugato qualsiasi verbo. L’uomo greco, l’uomo romano, l’uomo rinascimentale avevano gli stessi bisogni di cui ho parlato prima: da questo punto di vista non erano fra loro diversi. Tuttavia questi stessi bisogni erano pensati e vissuti secondo un “paradigma antropologico” ben diverso in ciascuna delle tre esemplificazioni suddette. Se cambia il “paradigma antropologico”, cambia il modo di pensare e vivere i fondamentali bisogni umani.
            Per “paradigma antropologico” intendo un’immagine dell’uomo, una “forma viva” [R. Guardini] di uomo ritenuto il vero uomo. Non è semplicemente  una dottrina sull’uomo: questa viene di conseguenza, dopo. La dottrina è sempre astratta e non tocca il cuore.
            Sono finalmente arrivato al cuore della responsabilità dell’educatore. Egli è responsabile di fronte alla persona da educare, di condurla alla realizzazione di sé secondo la [immagine della] vera umanità. Detto in altri termini: o l’educatore plasma chi gli è affidato secondo quella forma viva di uomo che ritiene vera o non è un educatore responsabile. Egli non risponderebbe al bisogno più profondo di chi gli è affidato: il bisogno di essere vero uomo; il bisogno di vivere una vita buona; il bisogno di vivere felicemente.
            Il dramma attuale dell’educazione– lo chiamiamo “emergenza educativa” – è che non esiste più una tale immagine dell’uomo: l’educatore può trovarsi in un deserto antropologico, e quindi accontentarsi di rimanere dentro ai bisogni. O come si dice oggi: l’educazione è il know-how; è equipaggiare l’uomo degli strumenti per vivere, senza preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono.
            Anzi, durante questi ultimi decenni è stata delegittimata la concezione della responsabilità dell’educatore di mostrare la “forma viva” della vera umanità. La delegittimazione si è esibita come più adeguata e al sistema democratico, alla condizione di multiculturalismo in cui viviamo, e al dato di fatto che ci troviamo dentro un conflitto di antropologie.

3.         Prima di procedere oltre vorrei però riflettere sul costo che ha una riduzione della responsabilità dell’educatore al semplice know-how; quale prezzo ha esigito e sta esigendo. Lo dico servendomi di una espressione di R. Bodei: il prezzo pagato è la “rottamazione dell’io”. Quando dico “io” intendo il nucleo sostanziale spirituale che costituisce il proprium dell’essere personale, la vera scriminante fra l’humanum e il non humanum.
L’io si costituisce, come abbiamo visto all’inizio, nel momento in cui agisce liberamente. In un certo senso, l’io nasce nella scelta libera; è la scelta libera il suo grembo.
            Ma l’esercizio della libertà umana coincide concretamente colla scelta; potremmo dire colla libertà di scelta. Essa – ce ne accorgiamo subito se facciamo un po’ di attenzione a se stessi presuppone sempre un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità.
            Ma c’è qualcosa di più profondo. Ogni scelta in fondo è radicata in un desiderio naturale, che precede cioè ogni scelta perché ne è la condizione di possibilità: il desiderio di beatitudine, di una pienezza di essere nella quale la “ferita del cuore” è definitivamente sanata. Ultimamente, ogni scelta è fatta o non fatta a seconda che si ritenga essere o non essere risposta a quel desiderio. Di ciò siamo particolarmente consapevoli quando si tratta di fare la scelta del proprio stato di vita, per esempio.
            Se è però vero che siamo come fili d’erba assetati di felicità; se è vero che ciò a cui tende la nostra volontà come al suo fine ultimo è la felicità, la determinazione del bene che si ritiene essere in grado di spegnere la nostra sete, dipende dalla decisione di ciascuno, di ogni singolo. Ed è in questo che l’uomo diventa artefice del suo destino, diventa in senso totale un io. La libertà, nel senso più profondo, è la capacità che ha l’io di disporre di se stesso in ordine a quel bene o valore che ritiene essere il più importante. Ed è nell’esercizio di questa libertà, che la persona umana ha bisogno, cerca di essere illuminata, orientata.
            La vita si decide nella risposta che la libertà decide di dare alla verità ultima circa se stesso, circa la realtà nella sua interezza.
            Il rifiuto da parte dell’educatore nel proporre una visione, una immagine viva dell’uomo nella sua integralità, impedisce alla persona di attingere alla vera ricchezza della sua umanità: il suo io. Se limito la proposta educativa ad un know-how, ad un “equipaggiamento tecnico”, lasciando fuori la ragione e lo scopo per cui ho da mettere in atto la capacità acquisita, escludo dal rapporto educativo la persona in ciò che ha di più profondo. E, di conseguenza, nel momento in cui - al termine del rapporto educativo - lascio la persona che mi era stata affidata, l’abbandono in una sorte di «terra di nessuno [le leggi bronzee dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido] in cui l’io appare come fantasma dominato da forze primordiali» [M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca ed., Castel Bolognese 2006, 38].
            Ho spiegato, spero, in che senso parlo di “rottamazione dell’io”, come prezzo da pagare a chi sostiene e pratica un’azione educativa che nega la responsabilità dell’educatore a trasmettere una immagine, una forma viva di uomo autentico.
            Siamo così giunti all’affermazione più grande circa la responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile della nascita di un io, di una persona. Cioè di quanto esiste di più grande nell’universo. Del resto, da secoli la tradizione cristiana definisce l’educazione come una continuata generazione, a iniziare da S. Paolo.

            4.         Quanto detto però sembra contraddittorio: come si genera un io nella libertà proponendogli una visione della realtà che è propria di chi lo educa? Non è meglio che la responsabilità dell’educatore si limiti entro i confini della trasmissione del sapere; del sapere come vivere e come convivere? Concretamente: a trasmettere semplici regole di comportamento, regole quanto più formali, prive di contenuto.
            La difficoltà oggi non infrequente è una delle radici più importanti del malessere educativo che stiamo attraversando. Essa è una conseguenza di un grave errore antropologico: pensare che il rapporto fra libertà ed appartenenza sia di proporzione inversa. Più libertà se minore è l’appartenenza, fino a pensare che la persona libera è la persona che non appartiene a nessuno.
            Naturalmente non sono negati – e come potrebbero esserlo? – l’appartenenza familiare, nazionale, storica, culturale. Tuttavia sono considerate semplici passaggi psicologici ed emotivi verso la vera libertà intesa come pura auto-determinazione. Non posso ora fermarmi a riflettere lungamente su questa tematica, mi limito ad alcune osservazioni maggiormente attinenti al nostro tema.
            La scelta della libertà non nasce dal niente: dal niente non nasce niente. Nasce dal confronto fra la proposta di vita [che si fonda su una visione del mondo] fatta dall’educatore, e la soggettività della persona che si va sviluppando,  che si ha da educare. L’atto educativo non fa nascere un io libero perché non propone nulla, ma perché propone in modo che chi riceve abbia un terreno su cui porsi ed un referente con cui confrontarsi, un’ipotesi interpretativa della realtà da verificare. E qui tocchiamo il fondo della questione: la fiducia nella ragione.
            Se partiamo dal presupposto che non esista una verità circa il bene della persona; che non esiste nell’uomo un desiderio innato di “sapere come stanno le cose”, ma solo di cercare il proprio bene privato e individuale, essendo ogni proposta di vita un’opinione al servizio della felicità di chi la propone, che diritto ha l’educatore di proporre all’educando la propria visione del mondo?
            Lasciamo per un momento l’ambito della riflessione educativa per una considerazione più generale.
            Se partiamo dalla certezza che esiste una verità circa il bene della persona; che esiste di conseguenza un bene comune fra le persone, l’eventuale controversia sulle ragioni di convinzioni anche opposte, non diventa mai una controversia fra rivali. Diviene un incontro fra alleati nella ricerca comune della verità.
            Se, al contrario, sono convinto che abbia ragione D. Hume quando scrive che non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi, delle due l’una. O si impone colla forza il proprio punto di vista [non necessariamente la forza fisica]; o ciascuno vive in un’insuperabile estraneità all’altro.
            Il relativismo è l’ospite più inquietante ed ingombrante nella dimora dell’educatore, perché genera degli a-polidi non solo e non principalmente in senso politico.
            Ed allora? C’è un fatto originario che contesta la deriva relativista dell’educazione. Esso è narrato in un verso virgiliano stupendo. Rivolgendosi ad un neonato, il poeta gli dice: «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem». Il bambino entra in un territorio che non conosce, nell’universo dell’essere che ignora. Le domande fondamentali che ha dentro sono due: “che cosa è ciò che è?” [domanda di verità]; “ciò che è, mi è ostile o benevolente?” [domanda di bene]. Egli ha la risposta nel modo con cui la madre gli sorride, cioè lo accoglie. L’essere, il mondo è disponibile ad accogliermi: la verità dell’essere è il bene [Benedetto XVI continua a ripeterlo: la realtà è abitata dal Logos; il Logos è Agape]. Quando questo incontro originario con la realtà non accade, sappiamo bene quali conseguenze devastanti ha su tutta la vita della persona. E pensiamo ai bambini buttati nei cassonetti; pensiamo ai bambini rifiutati.
            Un volto indifferente, il volto della sfinge non fa nascere un io libero: «… risu cognoscere matrem».

            Siamo così giunti a scoprire una dimensione drammatica della responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile, è custode della verità dell’essere e della verità circa il bene della persona. È responsabile della nascita di un io, non semplicemente libero, ma veramente libero perché liberamente vero.

5.         Dobbiamo ora infine ma non dammeno chiederci quale è la modalità attraverso la quale l’educatore propone la sua visione del mondo, la sua proposta di vita.
            Tutti, penso, siamo convinti che non si può ridurre l’educazione all’istruzione. All’educatore vero interessa soprattutto non che l’educando apprenda qualcosa, ma diventi qualcuno. In che modo?
            Fondamentalmente se il “qualcuno” che gli è proposto di diventare, è incarnato, ha preso corpo nell’educatore, e in modo affascinante. La modalità propria del rapporto educativo è la testimonianza dell’educatore.
            La testimonianza non è mero insegnamento, il quale come tale si rivolge all’intelletto. La testimonianza tocca intimamente la persona: muove l’io verso la sorgente profonda da cui la testimonianza sgorga.
            Benché non si riduca ad esso, la testimonianza implica l’esempio. Quando l’educatore contraddice con il suo comportamento ciò che propone, normalmente la sua proposta non ha alcuna forza. Agostino non ha più voluto imparare la lingua greca per tutta la sua vita, per le bastonate che prese dal suo primo insegnante di quella materia.
            Ciò non significa che all’educatore non sia permesso sbagliare: è inumano pretendere questo. Ma quando accade, il riconoscere lo sbaglio è profondamente educativo. Il riconoscimento testimonia nei fatti che la verità della proposta fatta è tale da esigere che si prenda posizione a suo favore, anche contro se stesso. Questo può causare un fascino assai profondo sull’educando.
            Abbiamo così scoperto un’altra dimensione della responsabilità dell’educatore: è la responsabilità di testimoniare la verità circa il bene della persona. Socrate è stato il primo grande educatore in Occidente perché ha testimoniato contro il potere la verità circa il bene della persona, fino a subire la morte.

6.         Concludo. Siamo andati scoprendo via via le varie dimensioni della responsabilità educativa. L’educatore ha la responsabilità della nascita di un io veramente libero e liberamente vero; ha la responsabilità della custodia della verità circa il bene della persona; ha la responsabilità della testimonianza alla verità circa il bene dell’uomo.
            Mi chiedo, per concludere, c’è una sorgente nascosta da cui sgorga continuamente questa responsabilità dell’educatore? In ultima analisi c’è un’esperienza interiore che custodirà sicuramente questa responsabilità contro ogni potere che comunque tenta sempre di privarne l’educatore? Esiste. La descrivo colle parole di Romano Guardini: «A dispetto di tutte le regole tratte dall’esperienza, e degli scopi e degli ordinamenti, egli deve – con il suo intimo atteggiamento – sempre di nuovo ritornare a quella consapevolezza che non si esprime con affermazioni come: “questo bambino qui, in mezzo ad altri cinquanta”, bensì dice: “tu, bambino; unico nel tuo essere – di fronte a me” chi non è capace di agire così, è un allevatore di individui utilizzabili dallo Stato; è un addestratore di abili forze economiche – ma non un vero educatore di uomini» [Etica, Morcelliana, Brescia, 2001, 895]. Ed è solo l’amore che fa guardare l’altro come “unico nel suo essere”: «l’educazione è un affare del cuore» [S. Giovanni Bosco].

S. Em. Card. Carlo Caffarra
Arcivescovo Metropolita

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giovedì, 04 agosto 2011

Essere insegnanti
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Essere insegnanti non è solo un mezzo, è uno scopo, è una liberazione, è un'apertura, è la felicità del divenire altro, è, come lo richiama l'etimologia della parola scuola, la forma suprema del piacere. Lo abbiamo dimenticato. Qui, in questa dimenticanza, più ancora che nell'incapacità di offrire ai nostri bambini un avvenire privo di angosce, sta – mi sembra – il nostro fallimento più grave. Poiché, a differenza di un'economia mondializzata, questa incapacità ci è interamente imputabile.
(Alain Finkielkraut, La querelle de l'école, Stock/Panama, 2007, pag. 221))
                                                                                       

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sabato, 09 luglio 2011

La vita frenetica dell'uomo moderno
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"La vita dell'uomo moderno non è favorevole all'approfondimento. Essa si sottrae alla tranquillità e alla contemplazione, è una vita di attività continua e affrettata, una lotta senza scopo e riflessione. Chi si ferma un istante è subito superato [...] Il nostro sguardo è sempre rivolto alla novità più recente, a ogni istante siamo sotto il dominio di ciò che è ultimo, e quello che precede è subito dimenticato, non soltanto prima di comprenderlo, ma addirittura ancor prima di vederlo con esattezza”.
 Nicolai Hartmann da:.La fondazione dell'ontologia (1935)

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lunedì, 04 luglio 2011

L'EDUCAZIONE
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la direzione delle cose della vita appartiene a coloro che sono a contatto con la realtà. La realtà è insieme affettiva, intellettuale e tecnica. È necessario che i professori si limitino al dominio intellettuale, che capiscano che essi non dirigono una parte dell’educazione. L’educazione è affettiva e tecnica, oltre che intellettuale. Essa si forma a contatto con la realtà. Falsità dell’educazione universitaria per tutti. Noi abbiamo bisogno di grandi intellettuali, ma abbiamo un più urgente bisogno di uomini.”

A.Carrel

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martedì, 26 aprile 2011

L'educazione
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"L'educazione delle persone da parte dello stato è un aspetto che va criticato in maniera estremamente vigorosa."
Karl Marx  criticando il programma del Partito Social-Democratico Tedesco (il Programma di Gotha)

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domenica, 20 febbraio 2011

La scuola deve essere una straordinaria carezza dell’anima: il sacrificio dell’apprendimento.
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Una intervista al cantautore Roberto Vecchioni di Marco Gregoretti

Riprendiamo dal sito di Roberto Vecchioni www.vecchioni.it l’intervista pubblicata da CLASS dell’ottobre 2007. Ne è autore Marco Gregoretti ed il testo reca il titolo originario di Onore al rigore e al merito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2007)

Ha due figlie femmine laureate e due figli maschi che ancora studiano. Per 37 anni ha insegnato latino, greco e storia al liceo classico a Milano, Rho e Desenzano. Dal 2000 è in pensione, ma non ha interrotto il suo contatto con gli studenti: gira per le scuole d’Italia a parlare di poesia e musica. Roberto Vecchioni, 64 anni compiuti a giugno, contento di essere dello stesso segno zodiacale di Marcel Proust e di Antonio Gramsci (Cancro), ha vissuto “dall’altra parte della barricata”, quella dei professori, tre decenni di scuola, di contestazioni, di riflusso, di rapporti con il potere, di problematiche insegnanti-genitori, di riforme fatte e annunciate.

Se c’è uno, dunque, che può parlare con cognizione di causa di come era, come è e come dovrebbe essere l’istruzione elementare, media inferiore e media superiore in Italia, è il popolare cantante autore di Luci a San Siro e di Samarcanda. A ottobre, il mese in cui una volta iniziava la scuola, escono un suo libro di poesie per l’editore Frassinelli e, martedì 23, l’ultima fatica musicale: 13 brani per un’ora di durata. “C’è tutto in questo disco”, dice Vecchioni, “pop, rock, rabbia, delusioni, gioie immense. Potrebbe essere l’ultimo”. Quasi un annuncio che l’ex professore lascia nell’aria, mentre seduto su una seggiola di paglia nel giardino della sua casa di Barcuzzi, riflette sui temi dello studio e della scuola, godendosi una vista mozzafiato sul Lago di Garda.

“Forse sono diventato un parruccone e pretendo sempre di più. Ma penso che sia giunto il momento di mettere un freno al permissivismo dilagante e tornare al rigore del metodo, al sacrificio dell’apprendimento”.

Professor Vecchioni, che cosa pensa della scuola di oggi? Funziona bene secondo lei?
Il funzionamento è un dettaglio, per paradosso. I nodi sono molti, e sistemici. A cominciare da un’interpretazione sbagliata dell’istruzione da parte dello Stato italiano. Manca la voglia di essere primi nel mondo, di eccellere nelle arti come nelle scienze e nella tecnologia. L’Italia dovrebbe dare l’esempio perché ha più cultura di tutti, più storia di tutti. Non sono un teorico, naturalmente, parlo di stomaco. Ma qualcosa bisogna fare.

Cosa le suggerisce il suo stomaco?
Di ritornare indietro. Come dire? Un ritorno avanti. Oppure: avanti con ricordo. In concreto: ripartire dal linguaggio, dalla logica, dalla sua applicazione… il linguaggio, la meticolosità dell’uso della parola significano attenzione; la logica permette di andare oltre la superficie, di capire cosa si sta facendo; l’applicazione costringe al rigore. Ripeto, con l’età pretendo sempre di più. Ma come si fa ad essere competitivi se non c’è una base? Per esempio: oggi abbiamo scoperto la tecnologia. Ma siamo i padroni o i suoi servi? Secondo me, i giovani sono servi del computer. Come sono schiavi di tutto ciò che facilità la vita. Eppure penso che i ragazzi di oggi siano bravi…

Allora qual è il problema?
È che si fermano al come. Non affrontano il perché, fondamento che è diretto a ogni cosa. Questo deve dare la scuola: il senso, il significato. Non solo Umanismo, ovvero essere usati o semplicemente aiutati dalla scienza, ma anche Umanesimo, cioè capire il senso, avere il fine.

Quindi lei vede degli studenti di liceo superficiali, svogliati, pigri…
No, no. Penso che si limitino a chiedersi come fare un progetto, come perorare una causa, come studiare… non fanno il salto successivo: perché realizzo questo progetto, perché è giusto perorare una causa, perché studio

Però gli studenti elaborano quello che trovano a scuola…
Attenzione: non è colpa degli insegnanti. Loro si battono. È il vertice, diciamo così, politico che non è sensibile, che presta poca attenzione alla struttura e al sistema scolastico di un paese, l’Italia, che dovrebbe essere un esempio in questo campo. In realtà, non si è fatto proprio nulla. Bisogna ricominciare da capo e fare scuola, farla pesantemente, con gli esami a settembre, la meritocrazia. Credo che questa sia democrazia, non il demagogico permissivismo. Uno Stato deve aiutare chi è capace, chi ha meriti. Anche il mondo dell’economia dovrebbe farsi sotto: quattro anni fa ho fatto un giro per le industrie con un gruppo di ragazzi napoletani. Industriali, perché non andate nelle scuole e prendete i più bravi?

Quando lei dice che è necessario tornare indietro, intende alla scuola degli anni Cinquanta e Sessanta?
Dal punto di vista del metodo sì. La linearità della scuola di 40 anni fa non andava cambiata, bastava abolire l’eccessivo nozionismo. Ma per il rigore e la serietà non ho dubbi: i ragazzi devono faticare. Basta accarezzarli, fategli il culo fin da piccoli. Sono loro che vogliono così: chiedono che gli si dica dei no. Hanno voglia di impegni più gravosi. Fare sacrifici è un’ottima parola chiave. Per i ragazzi, dico, non per gli insegnanti che ne fanno già abbastanza. Mi sembra che l’Italia non riesca ad avere una cultura dell’educazione rigorosa. Invece è un valore aggiunto che dovrebbe avere ogni tipo di studio, dai licei agli istituti professionali: non esistono più scuole di serie A e di serie B.

Un esempio di sacrificio scolastico?
Dare il tempo al sacrificio della letteratura. Tolstoj, Dante Io sono cattolico, però da ragazzo andare a messa, secondo me, era una perdita di tempo. Poi ho capito che quello era il luogo.

Chissà se i genitori sono d’accordo con lei. In fin dei conti partecipano all’epoca del permissivismo…
Guardi, io ho visto per 37 anni che cosa succede nella triangolazione insegnanti-figli-genitori…

Che cosa succede?
Che gli insegnanti conoscono il ragazzo in un modo, i genitori in un altro modo. Quante volte parlando con le madri mi dicevo: questo di cui stiamo parlando non è il ragazzo che conosco io, è un’altra persona. Soprattutto nelle grandi città in provincia è un po’ meglio. A Milano il genitore vuole spiegarti com’è suo figlio. A Desenzano e a Rho, invece, ti chiedono semplicemente com’è a scuola.

E allora come dovrebbero articolarsi i rapporti tra le famiglie e la scuola?
Secondo me, la relazione insegnanti-genitori va interpretata come il militare: qual è la mamma che va a parlare con il tenente? Preciso: sono pacifista e contro la guerra. Ma la prima regola è avere fiducia nei professori. E se vostro figlio torna a casa e dice di essere stravolto, non credetegli, non esistono insegnanti che li stravolgono. I giovani studenti devono sapere che il futuro loro e degli altri dipende dalla formazione di base. E, quindi, devono sbattersi. Se vogliono battere le macchine, devono avere una cultura. Ecco perché non è più accettabile alcun permissivismo. Certo, l’esempio deve arrivare dalla società.

E invece?
Invece, con quello che abbiamo sotto gli occhi i giovani non possono che arrabattarsi.

E la scuola che cosa dovrebbe fare?
Dare a tutti, fino a 16 anni, la possibilità di capire cosa, come (e perché) stanno facendo. Negli ultimi tre anni di insegnamento mi sembrava tutto inutile. Sentivo che da parte dei miei studenti l’ascolto era molto basso. Non riuscivano a capire come materie che a loro sembravano inutili, tipo la storia, il greco e il latino, in realtà siano una straordinaria carezza dell’anima. Ecco, alla scuola chiederei innanzi tutto di insegnare che cosa è bello, di divulgare l’armonia, di spiegare il senso dei valori. Lo studente risponda scoprendo la pazienza, non abbia mai paura che tutto finisca. Mi rendo conto che è difficile oggi, visto che il massimo dei valori è inviare 100 sms al giorno o mangiare i gelati sulla spiaggia. In effetti, secondo me, bisogna che il ministero intervenga drasticamente per abolire ogni facilitazione.

Lei, allora, come immagina che possa riprendere slancio l’istruzione italiana?
Penso che a scuola vada introdotta una tirannide attenta e meditata: è un bruttissimo momento perché non c’è preparazione di base, nello stesso tempo causa e conseguenza del fatto che i ragazzi non riescono a innamorarsi di quello che stanno facendo. Voglio dire che, certo, è importante studiare l’inglese. Ma forse è ancor più importante conoscere l’origine delle nostre parole, l’analisi logica, la logica matematica… se succedesse, beh, ci si potrebbe innamorare anche della tecnologia, del computer.

Secondo lei, dunque, a scuola si va tanto per andarci, al limite per imparare qualche cosa di utile per il lavoro?
Esatto. Come dicevo prima: non basta il come, serve il perché, il senso di quello che si sta studiando

E allora vediamo che cosa risponde a questa domanda. Se lo studio non deve servire ad apprendere qualcosa di utile, perché si va a scuola?
Per diventare una persona.

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domenica, 16 gennaio 2011

La vera educazione dei figli
***

Nel capitolo sulla verginità don Giussani cirichiama al distacco come condizione di un voler bene autentico, così che non prevalga in noi il tentativo di possesso verso la persona amata. Io voglio molto bene ai miei figli, ma mi accorgo che ho paura della loro libertà, dei “no” che essa può porre a Dio e alla Sua volontà. Ti chiedo comeposso voler loro bene sul serio e amare e non temere la libertà. Cosa vuol dire vivere in questo il
distacco che rende la relazione tra noi più vera?». Queste domande dobbiamo guardarle in faccia.
Chi ci ha fatto liberi? Uno che non ci vuole bene o uno che ci vuole bene? Ha avuto, il Mistero,
paura di farci liberi? Dobbiamo immedesimarci con il vero Padre, che non ha avuto paura di
buttarci nel reale attrezzati soltanto con un criterio, il cuore, cosciente di quello che faceva. Perché con questo criterio ci ha dato la possibilità di scoprire il vero in qualsiasi cosa e, soprattutto, di scoprire Lui, nel momento in cui uno Lo può incontrare
. Non ha avuto paura della nostra libertà.
Per questo se noi abbiamo paura della nostra libertà o soccombiamo a questo tentativo di possesso, è
perché non ci immedesimiamo con Colui che ci ha generati, ma vogliamo rispondere al  nostrotentativo invece di abbracciare il disegno che il Mistero ha sui nostri figli; perché noi pensiamo che sappiamo già qual è il disegno e come devono raggiungerlo. Invece siamo noi che dobbiamo piegarci alla modalità con cui il Mistero li porta al destino, che non sappiamo. E capisco che a uno viene la paura come padre, come genitore. Che cosa ha potuto portare il Mistero a generarci così e a correre questo rischio? È soltanto immedesimandoci con quella paternità che noi possiamo imparare a paternità nostra, perché altrimenti creiamo più problemi di quelli che risolviamo. Questo vuol
dire che non possiamo fare niente? No, possiamo fare molto, come ha fatto Lui. Per risolver e il problema non ha tolto la libertà, non si è imposto, si è fatto uomo (lo abbiamo appena celebrato nel Natale): è diventato una Presenza in modo tale che ciascuno potesse, vedendo, riconoscere quello per cui è fatto e potesse scoprire il cammino che compie la libertà. Che cosa possiamo fare noi a
somiglianza di Lui? Diventare una presenza, diventare testimoni, il che non toglie la libertà, ma aiuta mettendo davanti all’altro una presenza che chiarisca la strada: «Guarda, guarda come la vita si compie». Perché è così che possiamo diventare padre e madre, cioè  testimoni, come dice San Paolo: «Non padroni della vostra fede, ma collaboratori della vostra gioia». Questo è essere padre,perché diventiamo una presenza che attira perché corrisponde. Mettiamo davanti ai figli una bellezza fatta carne (non un discorso), una vita vissuta in modo così sovrabbondante che il figlio può avere davanti l’ipotesi realizzata della proposta che voi siete per lui. Capisco che è più
immediato il possesso che diventare testimoni. Ma il possesso non è scambiabile con questaattrattiva della testimonianza di qualcosa che rende la vita più chiara; ciascuno deve  decidere. Non confondiamoci, voler bene al figlio è questo: nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita.
E cosa è dare la vita? Mettere davanti una presenza così.

Julián Carrón
SdC Milano, 12 gennaio 2011

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domenica, 09 gennaio 2011





Si educa molto con quel che si dice,
ancor più con quel che si fa,
ma molto di più con quel che si è.


sant'Ignazio di Antiochia

annina

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venerdì, 29 ottobre 2010


LETTERA A DON MILANI

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Post n°843 pubblicato il 29 Ottobre 2010 da angeloluciorossi
Caro Don Lorenzo,
domani torno al Paese per inaugurare una via intestata a te. Cosa posso dire? Parlerò di te attraverso i tuoi scritti. Racconterò della tua passione educativa. Ti ricordi quella conferenza ai direttori didattici a Firenze in Palazzo Vecchio? Eri stato invitato da Fioretta Mazzei d'intesa con la segreteria del Sindaco Giorgio La Pira. Ti chiesero perchè facevi scuola. Ho imparato a memoria la tua risposta: "Se mi domandate perchè faccio scuola, rispondo che faccio scuola perchè voglio bene a questi ragazzi". Non hai risposto con analisi sociologiche e psicologiche. "Alla fine è successa questa disgrazia d'innamorarmi di loro ed ora mi sta a cuore tutto quello che sta a cuore a loro.Ecco perchè questa scuola poi è diventata una scuola, diciamo così, laica, severamente laica". Ti stava a cuore tutto di loro, tutto quello che per loro è bene, persino l'aritmetica che a te non piaceva. Ora capisco quella grande scritta su una parete: "I CARE". ME NE IMPORTA, MI STA A CUORE. Questa è la tua lezione. Questa è la tua testimonianza. Spesso ripetevi che "con la parola alla gente non gli si fa nulla. Sul piano divino ci vuole la grazia e sul piano umano ci vuole l'esempio". Tu appassionavi i ragazzi. Dobbiamo ripartire da qui. Noi facciamo troppe conferenze. Eppure abbiamo bisogno di ripartire dall'educazione. Nella stessa conferenza a direttori dicevi: "Appassiono perchè ho trovato e uso quella parola che ci voleva e cioè che rispondeva a esigenze ch'esistevano prima della mia venuta: esigenze profonde". Questo problema è rimasto. Non siamo andati troppo avanti. Anche se il tema principale, per noi, per diversi amici, è l'educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l'educazione, un'educazione che sia vera, cioè corrispondente all'umano, all'originale che è in noi. Ci interessa l'educazione per ricostruire il nostro popolo. Bello quando hai sottolineato con forza che ti è "successo di innamorarti del tuo popolo". Domani racconterò di questo tuo entusiasmo. Domani racconterò del mio entusiasmo per continuare a costruire oggi. Un abbraccio. Tuo Angelo

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venerdì, 11 giugno 2010

"L'educazione  è l'arma più potente che può cambiare il mondo"
Nelson Mandela

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giovedì, 14 gennaio 2010

La Vera educazione deve essere una educazione alla critica:
il rischio educativo
 ***
L'idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quel che avviene adesso).

Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l'educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l'educazione, un'educazione che sia vera, cioè corrispondente all'umano. Educazione, dunque, dell'umano, dell'originale che è in noi, che in ognuno si flette in modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti, nella varietà delle espressioni, delle culture e delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell'uomo è uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o continenti.
La prima preoccupazione di un'educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell'uomo come Dio l'ha fatto. La morale non è nient'altro che continuare l'atteggiamento in cui Dio crea l'uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente.
Di tutto quello che si deve dire sull'educazione, a noi importano soprattutto questi punti.

1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un'ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all'ipotesi che si è presa.
In Realtà e giovinezza. La sfida ho scritto: «È la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà, offre una ipotesi di significato, un'immagine del destino». Uno entra nel mondo con un'immagine del destino, con un'ipotesi di significato, che non è ancora svolta in libri: è il cuore, come dicevamo prima. «La tradizione, infatti - prosegue il testo -, è come un'ipotesi di lavoro con cui la natura butta l'uomo nel paragone con tutte le cose».

2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato. Ma se il passato non appare, se non è proposto dentro un vissuto presente che cerchi di dare le proprie ragioni, non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all'educazione: la critica.

3. La vera educazione deve essere un'educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L'ha detto la signora maestra, l'ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l'istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l'italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente.
Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo.

Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche diverse per i connotati vari delle circostanze dell'esperienza.

La nostra insistenza è sull'educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». E così, con l'aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l'uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d'uomo.

Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l'ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l'ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L'identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù.
Il dubbio è il termine di un'indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l'invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura.

Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica - come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) -, il giovane è foglia fragile lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?», diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un'opinione pubblica generale creata dal potere reale.

Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri.

Fin dalla prima ora di scuola ho sempre detto: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un'esperienza che è l'esito di un lungo passato: duemila anni».

Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall'inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperita e trovata nell'esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l'opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento.

Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo «quindi» è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola «razionalità», usa la parola «cuore». La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell'uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé che - come spesso sottolineo ai ragazzi - identifica lo stesso contenuto indicato dalla parola «perfezione» («satisfacere» o «satisfieri», in latino è analogo al termine «perficere», perfezione: perfezione e soddisfazione sono la stessa cosa, come lo sono felicità ed eternità).

Quindi, intendiamo per razionalità il fatto di corrispondere alle esigenze fondamentali del cuore umano, quelle esigenze fondamentali con cui un uomo - volente o nolente, lo sappia o non lo sappia - giudica tutto, ultimamente giudica tutto, in modo imperfetto o in modo perfetto.

Per questo dare ragione della fede significa descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente, gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella sua autenticità, quella la cui «sentinella» è il Papa di Roma. È il cambiamento della vita che, dunque, la fede propone.

Il delitto sta nel concepire, proporre e vivere la fede come una premessa che non viene mantenuta, come una premessa che non c'entra con la vita. Con la vita: la vita è oggi, perché ieri non c'è più, domani non c'è ancora. La vita è oggi. Io oso dire ai ragazzi che ciò che non c'entra in nessun modo con la mia esperienza di oggi, con la mia esperienza presente, non c'è; semplicemente non c'è. Perciò un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento, non c'entra in nessun modo: non c'è, è un Dio che non c'è, è un Cristo che non c'è, è un corpo di Cristo che non c'è; sarà in testa ai teologi, ma non in me, non può essere in me.

La separazione del cielo dalla terra è il delitto che ha reso il senso religioso o, meglio, il sentimento religioso, vago, astratto, come una nube che corre nel cielo e presto si svaga, si fiacca e scompare, mentre la terra resta dominata - volenti o nolenti - ultimamente, come lo fu con Adamo ed Eva, dall'orgoglio, dalla imposizione di sé, dalla violenza.

Il rabbino di Roma, Elio Toaff, ha scritto in un libro recente, Essere ebreo: «L'epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il Cristianesimo: noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l'uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». Quando l'ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il Cristianesimo, perché il Cristianesimo è «Dio in terra» e la nostra opera, tutta la nostra vita, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell'uomo Cristo, dell'uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia, al di qua dell'ultimo limite, perché al di là ci pensa solo Lui a farsi gloria: coincide con l'eterno di là, ma di qua, se io non lo servo, la Sua gloria è minore. [...]

Dice il secondo capitolo della lettera di San Paolo ai Galati: «Pur vivendo nella carne [carne è ciò che è definito nel tempo e nello spazio; si definisce nel contingente] io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Si può concepire una fede al di fuori di questa emozione che nasce da un'esperienza presente (domani sarà esperienza presente nel domani!)? Ecco, la persuasione da cui siamo nati è questa: diversamente non si può concepire la fede, sarebbe assurda e sarebbe assurdi aderirvi! Non c'è amico che mi segua che non senta questo. Può sbagliare, essere incoerente mille volte, essere peccatore come me; ma la strada è questa...

Con ciò voglio sottolineare che se la fede non c'entrasse con la razionalità, la fede non potrebbe c'entrare con la vita, perché la razionalità è il modo di vivere tipico dell'uomo.

Quanto ho detto ha centrato tutto l'assetto teorico del Movimento che Dio mi ha dato la grazia di vedere, e che ha preso origine dal gusto della razionalità, dal gusto della chiarezza di concepire la razionalità, dal gusto di viverla continuamente nell'atto che si pone. Tra l'altro, in questo essendo abbastanza soli nel mondo culturale di allora e di oggi: è come se tra una ragione debole e il nichilismo di oggi, la forza e la corposità rivelatrice del segno fosse affermata.

Non ci sono appena la ragione debole e il nichilismo: c'è questo misterioso, ma reale, sperimentabile fenomeno di una realtà che è segno di un'altra realtà. La fede è l'esaltazione del segno, del valore del segno. Così la razionalità tra di noi diventò la ricerca di un modo autentico di cogliere la realtà giudicando gli avvenimenti, cogliendone la corrispondenza alle esigenze costitutive del nostro animo o del nostro cuore, come dice la Bibbia.

Pretendevamo, così tradurre l'antico adagio scolastico: la verità è una «adequatio rei et intellectus», una corrispondenza dell'oggetto alla autocoscienza, alla coscienza di se stessi, cioè alla coscienza di quelle esigenze che costituiscono il cuore, che costituiscono la persona, senza delle quali essa sarebbe niente!

La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità. La fede così espressa può essere criticabile, ma occorre intendere quel che si vuole dire. La fede viene proposta come appoggiata al supremo vertice della razionalità: quando giunge al suo vertice nell'esame di una cosa, la nostra natura umana sente che c'è qualcosa d'altro.

Questo definisce l'idea di segno: la nostra natura sente che quello che vive, che quello che ha tra mano, rimanda ad altro. L'abbiamo chiamato «punto di fuga»: è il punto di fuga che c'è in ogni esperienza umana, cioè un punto che non chiude, ma rimanda. Questo è un altro concetto fondamentale del nostro insegnamento.

La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensabile.

Giovanni e Andrea, quando sono andati a casa di Gesù, quel pomeriggio, e sono stati là a vederlo parlare, sono tornati a casa loro dicendo: «Abbiamo trovato il Messia». E il testo non dice cosa abbia detto; chissà cosa avevano capito di quello che aveva detto! Ma era chiaro che come quell'uomo non c'era nessuno, perché era qualcosa di oltre. Ed è la domanda che gli rivolsero dopo un po' di tempo, quando nel mare in tempesta lui fece il miracolo di far bonaccia immediata. E i suoi discepoli (che sapevano chi era suo padre, sua madre, i suoi fratelli, dove abitava; sapevano tutto di lui perché erano già alcuni mesi che erano affiatatissimi), spaventati, si chiedevano: «Ma chi è costui?». Era così sproporzionato, quello che l'uomo era, a ciò che loro potevano pensare, immaginare, aspettare, che non potevano darsi ragione: era oltre la ragione. Questo è il processo per cui la fede avviene in me, in te, in chiunque, con la grazia di Dio, naturalmente! [...]

Questo è stato il momento più decisivo della mia vita culturale. Dico «culturale» tanto la fede c'entra con la ragione. Ho intuito che la fede risponde alle esigenze del cuore più di qualsiasi altra ipotesi; per questo è più razionale di qualsiasi altra ipotesi razionale.
La fede viene proposta come la suprema razionalità, in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensata, impensabile. [...]

«Esiste un punto d'arrivo - diceva Kafka -, ma nessuna via». Ed è questo un altro passaggio importante. La fede è proprio la via a ciò che la ragione cerca sopra ogni cosa. Ultimamente, la ragione che cosa cerca, se non il senso della vita, il senso dell'esistenza, il senso di tutto? E tutta la filosofia contemporanea è rassegnata a dire: ci sarà un senso?...
Duemila anni fa il senso stesso è venuto tra noi a dirci: «Io sono la via, la resurrezione, la vita» (cfr. Gv 14,6). L'unico uomo che abbia detto così nella storia del mondo!

Mi permetto di aggiungere un'ultima sola cosa. L'evento di cui tratta la fede è un avvenimento che bisogna vivere, non leggere o discutere: un avvenimento si vive, altrimenti non è adeguato il nostro porci di fronte ad esso. [...] L'evento in questione è che Dio si è fatto carne, uomo, ed è presente: «Sarò con voi tutti i giorni» (cfr. Mt 28,20). È presente, è presente tutti i giorni! Occorre abbandonarsi a questo messaggio e accostare l'esperienza secondo le connotazioni di questo messaggio. Egli disse che sarebbe stato presente ogni giorno nella comunità dei credenti, che li raccoglie e che li fa essere il suo corpo misterioso. Bisogna che noi ci abbandoniamo a questa presenza e viviamo la nostra vita all'interno di questa presenza, sotto l'influsso di questa presenza, giudicata da questa presenza, illuminata da questa presenza, sostenuta da questa presenza.

Il Cristianesimo è un evento: bisogna sottoporgli la vita, la vita intera nell'istante. Come «nell'esperienza di un grande amore - ricordava Guardini - tutto diventa un avvenimento nel suo ambito», così all'evento cristiano bisogna sottoporre l'intera storia della nostra vita. [...]

Nell'Italia fine anni '50: il sorgere di un'intuizione
In una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto cattolico teorico ed etico - parrocchie efficienti con offerta di corsi di catechismo «per tutte le stagioni»; lezione di religione obbligatoria in ogni ordine di scuola fino alla media superiore; tradizione almeno formalmente ben salvaguardata nei criteri familiarmente trasmessi; un certo non ancora sconfessato pudore di fronte ad indiscriminata critica o informazione irreligiosa; una buona percentuale di prassi di Messa festiva - un primo contatto con i giovani studenti delle medie superiori forniva un triplice fattore di rilievo che colpiva l'osservatore interessato.

Innanzitutto una immotivazione ultima della fede. Suggestiva è a questo proposito un'immagine che si trova nei Sermoni di sant'Agostino che nel simbolo della lettura evoca in positivo la certezza di una fede motivata: «Colui che in un libro guarda dei caratteri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l'opera d'arte e ne comprende il senso, colui cioè che non soltanto è in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso...».

In secondo luogo, una scontata inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale, e scolastico in particolare.

Infine, un clima decisamente generativo di scetticità che lasciava libero campo all'attacco alla religione da parte di determinati professori. Tale atteggiamento, quando si verificava, otteneva facilmente una certa attenta stima e custodiva un disinteresse di fondo il cui primo riverbero pratico si identificava in una perdita di eticità.

In una simile situazione sembrava porsi come inevitabile un aut-aut: o si doveva considerare il Cristianesimo come qualcosa che aveva ormai perso ogni forza persuasiva e determinante la vita di un giovane studente, oppure si doveva concludere che il fatto cristiano non veniva presentato, offerto, in modo a lui adeguato.

Accettare la prima ipotesi sarebbe stato evidentemente dare per scontato il giudizio storico gramsciano, ma la chiarezza e l'impeto di una fede cristiana vissuta altrettanto evidentemente non poteva cedere al suggerimento di tale punto di vista culturale.

Una comunicazione, e uno sviluppo, del contenuto tradizionale era quindi legata soprattutto ad un problema di metodo.
Due sono stati i cardini di questa intuizione.
Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani.

Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell'azione, cioè l'evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell'esperienza di un bisogno umano affrontato dall'interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale.

La prova del rischio
In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell'insistere sulla razionalità del progetto di fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica.
E si entra in un rischio quando si dice che è dall'esperienza che una convinzione può scaturire: non si tratta infatti di un «feeling» da evocare, di un'emozione pietistica da suscitare, ma di un impegno che non può barare; si è quindi alla mercé delle sabbie mobili di una libertà.

Ricordo una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: «egli comprende che, per comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà "discepolo". Egli si impegna, si affida al "cammino"».
D'altra parte, senza affrontare la prova del rischio, educatore ed educando partirebbero entrambi da una finzione: un mistero supposto riducibile ad evidenza oculare e una libertà immaginata come meccanicamente reattiva in corrispondenza ad ogni stimolo dato.
 L.Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, pp. XIII-XXIV e 5-7

da:  www.gliscritti.it/


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mercoledì, 30 dicembre 2009

L’educazione
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L’educazione è comunicazione

da cuore a cuore.

(Romano Guardini)


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mercoledì, 28 ottobre 2009

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Il nostro errore più grave è quello di pretendere da uno proprio le qualità che non ha, trascurando di valorizzare quelle che ha.
M. Yourcenar

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domenica, 11 ottobre 2009

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Essere insegnati non è solo un mezzo, è uno scopo, è una liberazione, è un'apertura, è la felicità del divenire altro, è, come lo richiama l'etimologia della parola scuola, la forma suprema del piacere. Lo abbiamo dimenticato. Qui, in questa dimenticanza, più ancora che nell'incapacità di offrire ai nostri bambini un avvenire privo di angosce, sta – mi sembra – il nostro fallimento più grave. Poiché, a differenza di un'economia mondializzata, questa incapacità ci è interamente imputabile.
Alain Finkielkraut, La querelle de l'école, Stock/Panama, 2007, pag. 221)

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sabato, 10 ottobre 2009

L’educatore,
uomo della speranza
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Brani di don Carlo Gnocchi sull'educazione
La vita non si inventa né si improvvisa con un atto di volontà, sincero ed eroico finché si vuole; la vita si costruisce, come una casa, pietra su pietra, atto per atto, giorno per giorno. Niente d’improvviso nella natura.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Se ricostruire bisogna, la prima e fondamentale di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità. Bisogna rifare l’uomo. Senza questo, è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa che, fra poco, egli stesso distruggerà con le proprie mani dissennate.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)

Costruire non è tutto, bisogna difendere l’opera delle proprie mani [...]. L’educatore è l’uomo della speranza secondo il grido vittorioso di Cristo nella notte della passione.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)

Al giovane va proposto “un ideale”, e non solo “un’idea”, anche «se in un mondo accanitamente in lotta per la vita, è inesorabilmente handicappato chi vuol fare della poesia».
(da C. Gnocchi, L’aratro e la stella, in Problemi giovanili, n. 38)

Perché considerare l’educando semplicemente come un soggetto passivo dell’educazione? L’educando è un vivente. Come tale non può assimilare virtù e verità se non con un processo vitale e quindi eminentemente attivo. L’educazione è un’opera di collaborazione tra l’educatore e l’educando, perché il ragazzo non è una “cosa”, ma una “persona”.
(da C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, La Scuola 1956)

Come è tetra l’aria di certi ambienti educativi! Non vi risuonano che allarmi, non brillano nel buio che occhi di semafori rossi… Nulla è più deprimente sull’animo giovanile di queste apocalissi. Anche perché nulla è più falso. Bisogna spalancare le finestre dell’anima al più solare ottimismo.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Bisogna far sentire ai giovani che i buoni non sono pochi, che la virtù esiste ancora, anche se nascosta - anzi appunto perché nascosta - bisogna dar loro il senso corroborante della solidarietà nel bene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

L’educazione dell’amore non è una lezione scolastica che si possa impartire in un’ora o in parecchie ore di insegnamento, assisi cattedraticamente in poltrona, col piccino seduto compostamente dinanzi. Non è una lezione di astronomia né un itinerario di viaggio. È l’educazione di tutto l’uomo e la vita appena può bastare a iniziarla.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Forse pochi educatori conoscono l’alto potenziale di sacrificio che spesso rimane latente nei giovani. Temono di esigere troppo… Bisogna battere al cuore dei giovani con fermo coraggio, senza il dubbio di Mosè dinanzi alla rupe dell’acqua viva. Bisogna chiedere il tutto per tutto. Solo così si ottiene.
(da C. Gnocchi, Educazione del cuore, Ancora 1998)

Se la formazione delle menti e delle coscienze giovanili nella scuola moderna, fatta oggi per necessità e quasi totalmente con opera collettiva, non è completata da un’educazione e istruzione strettamente individuale e personale, affidata alla scienza e all’educazione di un maestro… se inoltre la parte dello studio mnemonico e della cultura passiva, che deve pur stare alla base di ogni testa ben fatta, non è completata e ravvivata da un lavoro di ricerca personale, dallo stimolo all’esercizio delle tendenze individuali, la scuola finisce per diventare una monotona matrice di figurini umani e una macchina rotativa per la stampa di diplomati e laureati.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)

È strettamente indispensabile una larga e profonda scienza del composto umano e una viva conoscenza psicologica del giovane e specialmente del giovane moderno... E chi ha letto anche solo il Carrel o il Biot sa quale mistero si nasconda sotto queste espressioni apparentemente semplici e quale intreccio di interferenze leghi e fonda in una unità sostanziale la vita del corpo e la vita dell’anima. L’unione e la compenetrazione dei due principi è tanto intima e completa che nulla vi è nell’uomo che sia esclusivamente spirituale e nulla che sia puramente fisico.
(da I giovani del nostro tempo e la direzione spirituale, in C. Gnocchi, Gli scritti, Ancora 1993)

I ribelli presentano i casi pedagogicamente più interessanti. Dalle volontà forti e personali sono sempre balzati gli uomini grandi della storia civile e religiosa, i cavalieri dell’ideale, i santi, i condottieri ed i genii. Bisogna però di cercare di piegarli all’obbedienza senza violenza. Disgustare questi caratteri significa spesso allontanare dei soggetti che, passata la mattana giovanile, finiscono di solito per diventare i giovani più ardenti e generosi.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)

Mai come oggi si è acutizzata la crisi del carattere. C’è attorno, nella gioventù moderna, un’aria di conformismo livellatore e di incoscienza festaiola da asfissiare. Bisogna formare uomini di carattere. Anche lo Stato lo vuole.
(da C. Gnocchi, Andate e insegnate, Federazione Oratori Milanesi 1934)

L’uomo ridotto dalla categoria di fine a quello di strumento e di mezzo per il trionfo di una economia o di una razza o di una classe sociale o peggio di un dittatore paranoico... L’uomo è qualcosa di assoluto, che esige un rispetto incondizionato e perciò non può essere mai ridotto a rango di un mezzo, essendo egli stesso un fine per tutto l’universo, materiale e biologico, che sta sotto di lui e che a lui è stato ordinato. Col valore dell’uomo crollano tutti i valori della vita umana.
(da C. Gnocchi, Restaurazione della persona umana, Libreria Editrice Vaticana 2009)
da: www.tracce.it 10/09


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domenica, 31 maggio 2009

Il rapporto educativo
***

 
Parlare di rapporto educativo possiede signi­ficato soltanto nell'orizzonte del dato di fat­to che quest'uomo, in carne ed ossa, esiste. Il suo esserci è fuori dal dominio dell'educazio­ne. Egli entra nella realtà della vita, portando con sé il suo proprio destino; entra, portandosi dietro le sue leggi costitutive, le sue energie, le sue esigenze. Tutto ciò è lì: dato. Non afferriamo che ne era di noi, «prima» che fossimo. Non ci è possibile immaginare che «dietro» di noi stia un momento, nel quale confiniamo con il nulla. Ma è così.
È un mistero il fatto che ad un certo punto abbiamo cominciato ad essere; come questi uo­mini: proprio noi. Lì ricevemmo in noi la nostra stessa esistenza; possibilità e limiti. E ciò che lì venne alla luce, incominciò a destarsi e a crear­si.

Questa è la nostra fortuna, e la nostra zavor­ra. Tutto quanto si chiama «educazione» signifi­ca in fondo permanere in questo mistero, offren­do il nostro servizio, il nostro aiuto, e ponendo rimedio dov'è necessario. Qui, allo stesso modo, l'educazione trova garanzia e sicurezza.
E dobbiamo poter confidare che questo mon­do abbia spazio per noi; non ci emargini, ma ci consideri «dei suoi». Abbiamo purtroppo occa­sione di dubitarne. Constatiamo l'esistenza di po­teri e forze non positivi né benevoli verso l'uo­mo.  Forze che, quando va bene, non s'interessa­no di noi; e, nel caso opposto, ci strumentalizza­no e rovinano.

Quando ho da educare un uomo, lo guardo attentamente, cerco di comprenderlo; mi chiedo qual è la sua essenza, e se egli è come dovrebbe essere. Dunque, lo sottopongo ad una verifica. E mi prendo la libertà di dire: "Fa' questo! Trala­scia quello!" Quand'egli poi non vi corrisponda, allora: «Hai sbagliato», «Hai agito male», gli dico.
Tuttavia, chiunque voglia educare avverte una volta o l'altra sorger dentro di sé l'interroga­tivo: perché mai hai proprio deciso di educare un'altra persona? Di dove prendi il diritto di scrutare, di giudicare, di esigere? E se l'uomo è persona, con la sua dignità e libertà, perché mai voler dire a quest'uomo, come deve realizzar­si?
Ma la questione va più a fondo: che cosa dun­que significa educare? Di certo, non che un pez­zo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano d'uno scultore. Piuttosto,
educare significa che io do a quest'uomo corag­gio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti, ed interpreto il suo cammino - non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria.

Devo dunque mettere in moto una storia umana, e personale. Con quali mezzi? Sicura­mente avvalendomi anche di discorsi, esortazio­ni, stimolazioni e «metodi» d'ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene destata e accesa solo dalla vita
. La più potente «forza d'educazione» consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere. È stato da qualche parte detto che gli educatori sono per lo più uomini che non riescono a vincere se stessi e perciò si proiettano addosso agli altri. Che i giudizi più sicuri e le richieste più esigenti provengano spes­so da uomini intimamente perplessi e confusi, è comunque appurato. Sta proprio qui il punto de­cisivo. E proprio il fatto che io lotti per miglio­rarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudi­ne pedagogica per l'altro.

Ogni uomo possiede una propria configura­zione essenziale, anche l'uomo più comune. Ogni uomo è uscito con un'indelebile impronta dalla mano di Dio. Dobbiamo esserne certi, e di­ventarne coscienti; poiché noi consistiamo in essa.
Tuttavia, non è solo la propria fisionomia ad essere assai significativa per l'uomo.
Non c'è nulla di più importante per la sua intima formazione, del fatto che egli incontri un uomo davve­ro grande, e sperimenti l'influsso della sua figu­ra. Essa s'imprime; opera in lui;feconda; rischia­ra. E, insieme, chiama ad una lotta. Quella gran­dezza viene riconosciuta ed accolta; contempo­raneamente s'accende la battaglia per la propria consistenza personale.
Un tale vivo paragone deve essere profonda­mente familiare alla vita dell'uomo. Del suo spri­gionarsi è responsabile l'incontro, in un qualche momento, con una grande figura d'uomo. L'in­contro con quanto si chiama «grandezza natura­le»; e
con quella soprannaturale, un santo cioè, vale a dire un uomo che non solo è umanamente grande, ma nel quale hanno preso forma anche la ricchezza e la pienezza di Dio.

L'uomo deve offrire a tale figura ecceziona­le la propria dedizione; seguirla; lasciarsi pla­smare da lei. In principio, forse copiando; poi in modo più maturo, più profondamente. Quella figura deve entrare nello spirito e nel cuore, ed operare da dentro. Allora, e con amore pieno, si ridesta la difesa contro il predominio dell'estraneo. E, lentamente, nel resistere balza di nuovo allo scoperto la propria essenza: «Per
quanto ti voglia bene, pure io non sono te; devo affermare me stesso per quello che sono».
1           Romano Guardini Persona e libertà



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sabato, 02 maggio 2009

Se il bambino
***
Se un bambino vive nella critica,
impara a condannare.

Se un bambino vive nell'ostilità,
impara a combattere.

Se un bambino vive nell'ironia,
impara ad essere timido.

Se un bambino vive nella vergogna,
impara a sentirsi colpevole.

Se un bambino vive nella tolleranza,
impara ad essere paziente.

Se un bambino vive nell'incoraggiamento,
impara ad aver fiducia.

Se un bambino vive nella lode,
impara ad apprezzare.

Se un bambino vive nella lealtà,
impara la giustizia.

Se un bambino vive nella sicurezza,
impara ad aver fede.

Se un bambino vive nell'accettazione e nell'amicizia,
impara a trovare l'amore nel mondo.
(Doroty Law Nolte)        

“Il vigliacco di oggi è il bimbo che schernivamo ieri;
l’aguzzino di oggi è il bimbo che frustavamo ieri;
l’impostore di oggi è il bimbo che non credevamo ieri;
il contestatore di oggi è il bimbo che opprimevamo ieri;
l’innamorato di oggi è il bimbo che carezzavamo ieri;
il non complessato di oggi è il bimbo che incoraggiavamo ieri;
il giusto di oggi è il bimbo che non calunniavamo ieri;
l’espansivo di oggi è il bimbo che non trascuravamo ieri;
il saggio di oggi è il bimbo che ammaestravamo ieri;
l’indulgente di oggi è il bimbo che perdonavamo ieri;
l’uomo che respira amore e bellezza
è il bimbo che viveva nella gioia anche ieri”
(Ronalda Russel)       


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lunedì, 23 marzo 2009

AFRICA/
Green (Harvard): io, scienziato laico, sto con il Papa
***.
lunedì 23 marzo 2009
Il dott. Edward Green è il Direttore dell'AIDS Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies. Una voce autorevole in campo medico e con una grande esperienza nella lotta all'AIDS nei Paesi in via di sviluppo. Ilsussidiario.net lo ha intervistato in esclusiva. 

Le dichiarazioni del Papa su AIDS e uso dei preservativi è al centro di un aspro dibattito e molti, da Kouchner a Zapatero, inclusa la UE, hanno definito la sua posizione come astratta e alla fine anche pericolosa. Qual è la sua opinione?
Io sono un liberal sui temi sociali e per me è difficile ammetterlo, ma il Papa ha davvero ragione. Le prove che abbiamo dimostrano che, in Africa, i preservativi non funzionano come intervento per ridurre il tasso di infezione da HIV. Hanno funzionato, per esempio, in Tailandia e Cambogia che hanno dinamiche epidemiologiche molto diverse.
In una recente intervista a National Review Online, lei ha detto che non vi è alcuna consistente relazione tra l’uso del preservativo e un più basso tasso di infezione da HIV. Può approfondire questa affermazione?
Quello che si riscontra in realtà è una relazione tra un più largo uso di preservativi e un maggiore tasso di infezione. Non conosciamo tutte le cause di questo fenomeno, ma parte di esso è dovuto a ciò che chiamiamo compensazione del rischio. Significa che chi usa i preservativi è convinto che siano più efficaci di quanto realmente sono, finendo così per assumere maggiori rischi sessuali. Un altro fatto che è ampiamente trascurato è che i preservativi sono usati in caso di sesso occasionale o a pagamento, ma non sono usati tra persone sposate o con il partner abituale. Perciò, una conseguenza dell’incremento nell’uso dei preservativi può essere un aumento del sesso occasionale.

Quindi, per quanto sorprendente, è provato che un maggior utilizzo di preservativi è collegato ad un più alto tasso di infezione?

Si è cominciato a notare qualche anno fa che, in Africa, i paesi con maggiore disponibilità di preservativi e tassi superiori di loro utilizzo avevano anche il più alto tasso di infezione da HIV. Questo non prova una relazione causale, ma ci avrebbe dovuto portare qualche anno fa a valutare in modo più critico i programmi relativi all’utilizzo del preservativo.

Oltre il caso dell’Uganda, vi sono altre prove che il modello cosiddetto ABC (Abstinence, Be faithful, Condom) possa funzionare?

Stiamo osservando il declino dell’HIV in almeno 8 o 9 paesi africani. In tutti i casi, la proporzione di uomini e donne che dichiarano rapporti sessuali con molti partner è diminuito qualche anno prima che noi riscontrassimo questo declino. Tuttavia, molti programmi contro l’AIDS mettono l’accento su preservativi, controlli e farmaci: questo ampio cambiamento nel comportamento è quindi avvenuto malgrado questi programmi, che hanno posto l’enfasi su elementi errati (almeno per l’Africa). Sono contento di riferire che i due paesi con il più alto tasso di infezione, Swaziland e Botswana, hanno lanciato campagne mirate a scoraggiare i rapporti sessuali con partner multipli e contemporanei. 
L’astinenza tra i ragazzi è un altro fattore, ovviamente. Se le persone cominciano a fare sesso in un’età più adulta avranno meno partner sessuali durante la loro vita, diminuendo così le probabilità di contrarre infezioni da HIV.

Quindi, nella lotta contro l’AIDS la riduzione del numero dei partner sessuali è uno dei fattori più importanti.

Come ho già detto, è la sfida più importante in questa battaglia.

Un’ultima domanda. Nel modello ABC, A e B non sono così economicamente rilevanti come C, che ha alle spalle una forte industria. È improprio dire che non si tratta, quindi, solo di una questione culturale e sanitaria, ma anche economica?

Dipende da cosa intende per aspetti economici. Se consideriamo i programmi ABC, PEPFAR (programma governativo di lotta contro l’AIDS varato nel 2003 da Bush) è l’unico grande donatore che ha immesso reali finanziamenti in A e B e, forse purtroppo, la maggior parte dei soldi, e comunque dell’enfasi, sull’astinenza. Il fattore B è il più importante, con l’astinenza al secondo posto, secondo la mia opinione e in accordo con le evidenze da me riscontrate. 
Se invece il punto è se la povertà dà impulso all’AIDS, anche in questo caso l’Africa è diversa dal resto del mondo, perché in Africa il tasso di infezione è più alto presso i ceti più agiati e più istruiti. Perciò il miglioramento della situazione economica dei paesi africani non porterà una diminuzione delle infezioni. Questa evidentemente non è una buona ragione per abbandonare a se stesse le economie africane.

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mercoledì, 25 febbraio 2009

 Ciò che vale nella vita va incontrato
***
L’istruzione è una cosa ammirevole, ma non tutto può essere insegnato: ciò che realmente vale nella vita, va incontrato
Oscar Wilde

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mercoledì, 28 gennaio 2009

L’educazione
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 Insegnare è facile come scagliare pietre dall'alto di un campanile. Mettere in pratica quello che si insegna invece è difficile come portare pietre in cima al campanile.

S. Serafino di Sarov

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martedì, 27 gennaio 2009

La giovinezza
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 La giovinezza non è un periodo della vita,
essa è uno stato dello spirito, un effetto della libertà,
una qualità dell’immaginazione, un’intensità emotiva,
una vittoria del coraggio sulla timidezza,
del gusto dell’avventura sull’amore del conforto.
Non si diventa vecchi per aver vissuto
un certo numero di anni;
si diventa vecchi perché si è abbandonato il nostro ideale.
Gli anni aggrinziscono la pelle,
la rinuncia al nostro ideale aggrinzisce l’anima.
Le preoccupazioni, le incertezze, i timori, i dispiaceri
sono i nemici che lentamente ci fanno piegare verso terra
e diventare polvere prima della morte.
Giovane è colui che si stupisce e si meraviglia,
che si domanda come un ragazzo insaziabile:’E dopo?’,
che sfida gli avvenimenti e trova la gioia al gioco della vita.
Voi siete così giovani come la vostra fiducia per voi stessi,
così vecchi come il vostro scoramento.
Voi resterete giovani fino a quando resterete ricettivi.
Ricettivi di ciò che è bello, buono e grande,
ricettivi ai messaggi della natura, dell’uomo e dell’infinito.
E se un giorno il vostro cuore
dovesse esser mosso dal pessimismo
e corroso dal cinismo
possa Dio avere pietà della vostra anima di vecchi.
Generale Mac Arthur ai Cadetti di West Point - 1945

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speranza, educazione

venerdì, 23 gennaio 2009

L’educazione
***
« Col signor Bernard le lezioni erano sempre interessanti, per la semplice ragione che lui amava appassionatamente il proprio mestiere. Certo, anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche, si presentava un cibo preconfezionato e s’invitavano i ragazzi a inghiottirlo. Nella classe del signor Germain, per la prima volta in vita loro, sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo.»
A. Camus  da: Il primo uomo, Bompiani



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educazione, camus

lunedì, 29 dicembre 2008

Il Natale e la famiglia
***di Massimo Camisasca 22/12/2008
Durante une serate lasciate libere dagli impegni, sto rivedendo le opere teatrali di Pirandello, attraverso dei DVD offerti da qualche giornale.
Pirandello ha descritto in anticipo la crisi dell'uomo europeo del Novecento, e lo ha fatto attraverso il racconto della fine della famiglia borghese, dopo la quale, secondo lui, l'istituto familiare non si è più ripreso.
Questa relazione così stretta che il commediografo ha stabilito fra le difficoltà dell'uomo e le difficoltà della famiglia, mi ha fatto riflettere. Tali problemi riappaiono continuamente nei dialoghi che ho quasi quotidianamente con le persone che vengono a parlarmi, che vengono a chiedermi aiuto, a consigliarsi con me. Se è vero
il convincimento di Pirandello che la valle oscura attraverso cui passano le famiglie deriva dall'annebbiarsi della coscienza che l'uomo ha di se stesso, le strade attraverso cui ripartire non sono diverse da quelle che possono aiutare la rinascita dell'identità personale.
L'uomo è un essere bisognoso, ha bisogno degli altri per vivere, per prendere coscienza di se stesso, della propria identità culturale, sessuale, morale. I primi "altri" sono i genitori. Poi vengono gli amici e i maestri. è vero che un genitore può essere strappato lontano dalla morte, è vero che una famiglia può spezzarsi per gravi ragioni. Non si tratta di giudicare. Si tratta invece di indicare un ideale concreto, che renda la vita più facile. Avere dei genitori che si amano stabilmente, anche attraverso delle tensioni, difficoltà, prove, è un bene auspicabile per qualunque bambino. Poi ciascuno farà quel che potrà, ma io non posso smettere di indicare ciò che vorrei per tutti, ciò che è stato preparato da Dio per ciascuno. La divisione fra i genitori deve essere sempre una ragione estrema, molto ponderata, di fronte al bene dell'educazione dei figli. Perché questo mio auspicio non sia visto come una formula magica, o un desiderio astratto, voglio indicare alcuni sostegni a esso. Ci vogliono degli amici, che sappiano consigliare e sostenere; degli aiuti economici per l'educazione dei figli, perché i genitori non siano soffocati dal lavoro nei momenti in cui devono stare più vicini ai loro bambini; occorrono scuole che possano coadiuvare l'opera educativa dei genitori. Anche noi sacerdoti dobbiamo considerare l'aiuto alle famiglie come una delle responsabilità primarie del nostro ministero.
Ma soprattutto occorre confidare in Dio, chiedere il suo aiuto, tornare a pregare in casa, anche soltanto alcuni minuti al giorno, prima di mangiare o prima di dormire, o al mattino presto prima di lasciare la casa. Le preghiere semplici che conosciamo tutti, l'Ave Maria, il Padre Nostro, l'Angelus. Dobbiamo, con coraggio, confidare a Dio le nostre difficoltà, e chiedere il suo aiuto.
Oggi siamo sepolti da una valanga di informazioni: la fecondità e la sessualità sono state separate, il genere maschile e quello femminile sembrano non contare più… «Dobbiamo slegarci da ogni rapporto con ciò che è predeterminato: scegliamo noi se essere maschi o femmine, se avere o no un rapporto stabile con un uomo o una donna, se avere o no dei figli, e quali figli avere…».
Assieme a ciò che di negativo vediamo nel nostro tempo, non possiamo negare i passi in avanti che sono stati compiuti: l'aiuto alla famiglia e alla maternità che viene dalle politiche sociali, le ricerche mediche sulle malattie del feto, le analisi sulle ragioni dell'infecondità, ecc. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che la nostra felicità è legata all'accoglienza di dati oggettivi che ci precedono e che rendono possibile la nostra crescita: l'identità sessuale la riceviamo, così come l'innamoramento è un fatto gratuito, ed è un fatto gratuito, un dono, il figlio. Se si scardina questa struttura essenziale della vita, non si cammina verso un bene più grande, ma verso una confusione che rende tutti più infelici.
Il Natale ci riporta la Santa Famiglia di Nazareth. Proprio la sua normalità ha custodito la sua eccezionalità. La sua normalità è stata la fedeltà reciproca fra Maria e Giuseppe che si sono amati veramente e assieme hanno portato la straordinarietà di un figlio, un bambino come tutti gli altri, che pure era nato per opera di Dio senza intervento del padre terreno, e che era Dio stesso fatto uomo.
Quale apertura continua alla diversità, quale animo grande e confidente ha modulato quella Presenza! Chiedo a Dio che sia così anche per ogni famiglia dei miei lettori.
Nella foto: in prima pagina, mosaico di Marko Rupnik: Natività, cappella delle suore adoratrici, Lenno, Como. L’immagine è tratta da un calendario disponibile sul sito www.lipaonline.org.

(da "Fraternità e Missione", dicembre 2008.)

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