La maestra unica
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« La figura della maestra campeggia nella nostra memoria come un totem sacro, e l'asse
attorno al quale ha girato la nostra infanzia , fu la solenne e dolce depositaria di ogni sapere. Poi qualcosa ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi,e da una e' diventata tre, e tre
maestre sono diventate un viavai di voti. Di sicuro qualcosa si e' perso".
Marco Lodoli: Repubblica 27 maggio 2008.
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Postato da: giacabi a 16:38 |
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educazione
Cambiare la scuola?
Le RAGIONI DEL SI
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Da
40 anni è sempre la stessa storia. Lo stesso copione di un film, visto e
rivisto, dal quale proprio non riusciamo a liberarci: più scorre sul
nostro televisore, questo film, e più le sue immagini ci richiamano alla
mente i fasti di un "glorioso" passato che vorremmo a tutti i costi
perpetuare all'infinito.
Siamo
tutti d'accordo, almeno da un ventennio, che il mondo dell'istruzione,
ad ogni livello, ha bisogno di essere cambiato, rinnovato e reso
competitivo rispetto ai cambiamenti del nostro tempo. I mali che affliggono l'istruzione italiana sono noti a tutti, come dimostra il "Quaderno
bianco sulla scuola" redatto dal governo Prodi e firmato,
congiuntamente, dai ministri Padoa-Schioppa e Fioroni, quel che manca è
il coraggio di avviare un vero cambiamento che non sia solo guerra di
cifre o un mero taglio della spesa. Da questo punto di vista ha ragione il professor
Galli Della Loggia nel sostenere che l'Italia è un paese immobile
perchè con lo sguardo eternamente rivolto al passato e pauroso del
proprio futuro.
Al
futuro, però, si può guardare con speranza solo in forza di una
certezza vissuta nel presente. Non è un caso, quindi, che buona parte
delle proposte di rinnovamento della nostra società provengano dal mondo
cattolico: tra tutte si pensi al principio di sussidiarietà. C'è,
infatti, una parte consistente della società italiana che alle piazze
preferisce un lavoro quotidiano di costruzione del bene comune.
In
questa scia si inserisce un volantino redatto dall'AGESC del quale
SamizdatOnLine proprone la lettura, sperando che esso susciti, in chi lo
legge, spunti di riflessione per un dibattito che non sia solo scontro
ideologico :
Era
facile prevederlo. E sta accadendo. Alla prima iniziativa che và contro
l’immobilismo in cui giace la scuola italiana subito parte l’attacco
personale al Ministro.
Era
accaduto per Berlinguer, era accaduto anche per la Moratti, sarebbe
successo per Fioroni (se il governo di cui faceva parte avesse
continuato la legislatura), accade ora per la Gelmini.
Perché è necessario mettere mano al sistema scolastico italiano?
Alcune motivazioni:
• Le statistiche OSCE collocano la scuola italiana agli ultimi postiperrendimento degli studenti.
• Il
costo medio allo Stato, di uno studente è quasi il doppio di una retta
pagata dalle famiglie che scelgono una scuola paritaria, che notoriamente hanno un livello di sevizi più adeguato alle esigenze delle famiglie e dei ragazzi.
•
La scuola statale italiana ha un esercito di dipendenti che supera nel
numero i dipendenti del ministero della difesa degli Stati Uniti
(Pentagono).
• La spesa dello Stato per l’istruzione, maggiore rispetto ad altri Paesi UE, viene assorbita per il 95% dal costo del personale: se ne deduce che non rimangono adeguate risorse per l’ammodernamento delle scuole e dell’attività didattica.
•
Non è riconosciuto il merito dei molti insegnanti che si dedicano alla
loro attività con professionalità e competenza e lo stipendio non è
adeguato all’impegno e alla responsabilità.
• Occorre introdurre metodi e criteri di valutazione degli apprendimenti, dei docenti, delle scuole e dell’intero sistema.
• Deve essere realmente incentivata l’autonomia degli istituti scolastici, chiamati ad esprimere un proprio progetto di scuola in grado di raccogliere consenso dalle famiglie.
• Il
reclutamento degli insegnanti deve essere nominativo, in carico ai
singoli istituti e funzionale al progetto educativo e formativo degli
stessi.
• L’autonomia
deve essere il presupposto al legame tra scuola, territorio e mondo del
lavoro, affinché l’attività didattica non sia avulsa dal contesto in
cui si trova la scuola. Vi sono poi altre motivazioni di contorno ma non
marginali:
• Occorre che i genitori tornino a poter esprimere la loro responsabilità educativa anche nel momento scolastico.
• La scuola deve tornare ad avere una funzione sussidiaria rispetto alle famiglie.
• Occorre
definire un trattamento equipollente tra scuole statali e scuole non
statali così come occorre consentire alle famiglie di poter scegliere la
scuola tra le varie proposte educative e formative senza vincoli di
carattere economico.
A.Ge.S.C. ASSOCIAZIONE GENITORI SCUOLE CATTOLICHE Milano
SCUOLA ITALIANA. FORSE NON TUTTI SANNO CHE...
Ecco alcuni dati relativi alla scuola italiana che è bene conoscere, per avere un'idea più chiara della situazione reale.
Il
Ministero dell'Istruzione spende per la scuola 42 miliardi di euro
all'anno. Di questi, il 97% (cioè la bellezza di 41,2 miliardi) sono
unicamente per il personale (docente, direttivo, Ata - bidelli e amministrativi).
Qualcuno
potrebbe dire, allora, che sarebbe giusto spendere di più. Il problema è
che già lo facciamo, come dimostrano i dati dell'Ocse.
Gli italiani spendono 5.710 euro ad alunno; i francesi 5.228; gli inglesi 4.964; i tedeschi 4.856.
Siamo primi in questa classifica e ben al di sopra della media europea, che è di 4.623 euro ad alunno.
Spendiamo dunque di più degli altri, ma, nella graduatoria del successo scolastico e dell'apprendimento, siamo molto al di sotto degli altri.
Evidentemente il problema non è quanto spendiamo, ma come spendiamo.
I
docenti italiani sono 776.000. Molti di più rispetto agli altri Paesi
europei. Ce n'è uno ogni 11 studenti. In Germania il rapporto è di 1 a
18; in Francia ed Inghilterra di 1 a 20.
Abbiamo, dunque, una situazione invidiabile, ma risultati molto peggiori.
Il Ministero spende altri 60
milioni di euro all'anno solo in rimborsi, telefonate e telegrammi per
reperire i supplenti. Il numero di bidelli si aggira intorno a 167.000,
una media di 15,6 per ogni scuola (anche se molti Istituti ormai appaltano le pulizie a delle ditte esterne).
Le cose non vanno certo meglio se si parla dell'Università.
Bisogna fare una premessa: non c'è nessun ateneo italiano nei primi 150 posti delle classifiche mondiali. Questo dato la dice lunga sul valore della ricerca nelle nostre Università.
Gli atenei sono 94. Le
sedi distaccate sono 320. Tra il 1999 e il 2006 sono stati messi a
concorso più di 13.000 posti per docenti associati. Ne sono stati
riconosciuti idonei il doppio, 26.000.
Per molti si è dovuto trovare un posto, ed è così che abbiamo in Italia 5.500 corsi di laurea (quasi il doppio della media europea) e più di 300 facoltà che non superano i 15 iscritti.
Questi
sono alcuni dati a partire dai quali il Ministro Gelmini ha chiesto una
riflessione con gli studenti. La risposta è stata: "via il decreto!".
Nessuna riflessione, nessun dialogo, nessun confronto. Questa scuola non
si tocca. Deve restare così com'è.
Questa è la scuola per la quale gli studenti italiani scendono in piazza!
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Postato da: giacabi a 21:58 |
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educazione
Educazione
Il consiglio di Ambrogio
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Postato da: giacabi a 21:21 |
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educazione, sambrogio
A quanto pare il maestro unico nelle elementari non è una novità
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SEMPRE SULLA SCUOLA...
... Tanto per essere chiari.
Ma
non sono loro, i nostri maestri "politicizzati" che protestano, quelli
che ci insegnano sempre che bisogna guardare all'Europa? Beh! Ora tutti
lì a decantare la scuola
elementare italiana (si sa, basta "passare parola" e una invenzione, una
frase buttata lì per scherzo, per questi signori diventa realtà... e
realtà da commentare...). E
allora, proprio per riportare i recalcitranti protestatari alla realtà,
sarà bene vedere come si regolano, sul maestro unico, gli altri paesi
europei. Copia-incollo da altro sito:
fonte: www.ilsussidiario.net/
Stupefacente, vero? Sequestrano interi istituti per protestare e noi si sta zitti. Ci
hanno fatto credere di essere dei retrogradi "reazionari"... Tutti
idioti i nostri partner europei, per altri versi (proprio da questi
"progressisti") sempre additati a nostro modello? Ma insomma, cerchiamo
di essere seri... Il re è nudo. E' il momento di dirglielo!
postato da : http://topenz.splinder.com/
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Postato da: giacabi a 13:52 |
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educazione
L’educazione
è questa misericordia in atto
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« Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho
avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia
carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non
ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì
dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi, col tuo temperamento, con i tuoi peccati.
Vedere Giussani
che senza paura, senza venir meno a niente di se stesso, regalava Carlo
Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire
questa idea: che l’educazione
è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove
siamo. Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con
Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi
bene: mi voleva bene così come ero.
Testimonianza di Franco Nembrini
Convegno Ecclesiale Diocesano
GESU’ E’ IL SIGNORE
EDUCARE ALLA FEDE, ALLA SEQUELA, ALLA TESTIMONIANZA
Basilica di San Giovanni in Laterano, 11-12 e 14 giugno 2007
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Postato da: giacabi a 20:53 |
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educazione, nembrini
L'educazione
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La via d’imparare è lunga se si va per regole, breve ed efficace se si procede per esempi.
Seneca
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Postato da: giacabi a 21:01 |
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educazione, seneca
L’educazione
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Bisogna insegnare agli adolescenti l'arte di ammirare: in ciò consiste, a mio parere, uno dei segreti dell'educazione.
Jean Guitton
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Postato da: giacabi a 18:13 |
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educazione, stupore, guitton
L’educazione
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« Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare».
Pier Paolo Pasolini da Gennariello in Lettere Luterane
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Postato da: giacabi a 20:13 |
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pasolini, educazione
L’educazione
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L'educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche o sociologiche. È
l'offerta della propria vita alla vita dell'altro. È l'offerta di una
proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le
sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone.
Franco Nembrini
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Postato da: giacabi a 18:23 |
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educazione, nembrini
L’educazione
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Al termine del processo educativo che abbiamo tentato di esaminare nelle sue direttive di fondo, l'adolescente
si avvia alla fase matura della gioventù: la famiglia e la scuola
debbono avere ormai svolto l'essenza del loro compito formativo, devono
avere messo il giovane nella condizione di fare oramai il cammino con le
proprie energie. Lentamente, in un processo che solo una genialità assai attenta avrà potuto seguire ed impostare senza ritardi e forzature, l'educatore
si è distaccato sempre più dal discepolo, sollecitandolo sempre più ad
un impegno ed a un giudizio personali; lo ha introdotto nella realtà
totale, dandogli il vivo senso della dipendenza da quella realtà e dal
suo significato ultimo. Ora
tocca al giovane proseguire la ricerca, non scetticamente, ma nella
salda convinzione della positività delle cose e dell'esistenza della
loro spiegazione. Ha forse l'educatore finito qui il suo compito? Il
giovane, cosi capace di affrontare da solo il mondo che lo circonda, si
deve forse isolare, nella convinzione di, non avere più nulla a che fare
con alcun altro? Ovviamente no. E invece l'inizio di un cammino nuovo, e
proprio nella sua novità sta la ragione di un maggiore nesso. Ora
educato ed educatore sono due uomini, sono due fra gli uomini: è il
tempo di quella compagnia matura e forte che lega coloro che vivono una
stessa esperienza del mondo, che incontrano il richiamo dell'essere in
ogni istante del loro cammino; è il tempo in cui si lavora insieme,
fianco a fianco, per un destino che tutti riunisce.
don Giussani Il Rischio educativo
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Postato da: giacabi a 19:14 |
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educazione, giussani
L'educazione dei figli
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"L'educazione dei figli è impresa per adulti disposti ad una dedizione che non dimentica se stessa... il bene dei vostri figli sarà quello che sceglieranno, non sognate per loro i vostri desideri... non arrogatevi il diritto di prendere decisioni al loro posto, ma aiutateli a capire che decidere bisogna e che non si spaventino se ciò che amano richiede fatica e fa qualche volta soffrire.... più dei vostri consigli li aiuterà la stima che hanno di voi e la stima che voi avete di loro. Più di mille raccomandazioni soffocanti, saranno aiutati dai gesti che vedono in casa:
gli affetti semplici, certi ed espressi con pudore, la stima
vicendevole, il senso della misura, il dominio delle passioni, il gusto
per le cose belle, per l'arte, per la forza che li fa sorridere...
i vostri figli abitino la vostra casa con quel sano trovarsi bene che
ti mette a tuo agio, ti incoraggia anche ad uscire di casa perchè ti
mette dentro la fiducia di Dio ed il gusto di vivere bene. ci conceda il
Signore di vivere così"
S.Ambrogio
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Postato da: giacabi a 17:58 |
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educazione
Chi educa
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Ti educa non uno che ti spiega la vita
“guardando i tori dagli spalti”, che ti dà istruzioni per l’uso, ma uno che vive davanti a te seguendo la modalità attraverso cui il Mistero si rende presente nel reale: ti può introdurre nel reale, perché lui stesso segue il Mistero nel segno.
Questa è l’educazione, la funzione educativa della Chiesa, in
continuità con la funzione educativa di Cristo: educare il senso
religioso, educare alla religiosità,cioè educare a entrare nel reale
fino al suo sorgere, fino al Mistero.
Può educare solo chi vive questa religiosità, cioè chi penetra la
realtà fino al suo cuore, chi ci porta fino al fondo dell’apparenza,chi arriva fino al Tu. Solo chi vive questo educa, vale a dire può far venire fuori l’io, perché l’io non viene fuori attraverso istruzioni per
l’uso, ma soltanto davanti al Mistero. Chi ha una capacità di fascino
tale da prendere tutto il nostro io, se non il Mistero? Chi ci corrisponde, se non il Mistero? Per questo, se non c’è chi mi accompagna e mi mette in rapporto con il Mistero, non viene fuori il mio io. Per questo, quando
ci sostituiamo all’altro, non educhiamo: creiamo dei soldatini, che è
quello che possono produrre le istruzioni per l’uso, ma non permettiamo
che venga fuori l’io.
Solo il Mistero è in grado di suscitare l’io nella sua interezza.
Noi non accompagniamo dunque facendo i gestori, i “mediatori”
degli altri nel rapporto con il Mistero. Il “mediatore” ti vuole
risparmiare
la vertigine del Mistero («Ci penso io». «No, grazie»), pensa di avere
il filo diretto con il Mistero, di sapere già che cosa vuole il Mistero
nel rapporto con te. No! L’io è rapporto diretto con il Mistero. Sembra pochissimo quello che dice don Giussani, ma è decisivo. Il mediatore crede di sapere che cosa il Mistero ti riserva.
Ma chi ti risparmia il Mistero, ti prende in giro: è un tentativo
di possesso. C’è un solo vero mediatore: Cristo. Che cosa vuole dire Cristo come figura? Cristo è il mediatore, perché ha vissuto in
prima persona il Suo rapporto con il Mistero, col Padre, e quando
qualcuno ha cercato di staccarlo da questo, come Pietro, lo ha
mandato a quel paese: «Allontanati da me»72. Cristo ha generato i
discepoli,
non perché ha spiegato loro delle cose, ma perché ha vissuto in prima
persona, fino alla croce, fino all’ultimo istante, il Suo rapporto unico
e personale con il Mistero. Il Suo problema non era organizzare la Chiesa, ma vivere la volontà del Padre, e così ha generato la Chiesa, ha generato il popolo, e genera noi.
Il
nostro problema non è la gestione o l’organizzazione del nostro popolo:
il mio e il tuo problema è vivere! Soltanto chi vive può generare un
popolo, può essere veramente tramite al rapporto diretto con il Mistero, perché mette l’altro in rapporto con Lui. Don Giussani diceva una frase che non mi sono mai più scordato:
«Gesù non legava a sé, ma al Padre»73.
E questo è quello che ha detto paradossalmente il Papa di don Giussani,
al suo funerale:«Non legava a sé, ma a Cristo, e perciò ha generato un
popolo»
Quello
che noi abbiamo vissuto è la presenza di Cristo oggi attraverso la
figura di don Giussani, che, proprio in quanto ha vissuto così
intensamente il rapporto con il Mistero, ci ha educato, con tenacia, a
non avere nella vita altro scopo che questo.
Noi possiamo - a immagine di Cristo, nella sequela di don Giussani
- generare, se noi per primi seguiamo, così che siamo facilitati
a riconoscere il Mistero. Il metodo non può essere altro che
seguire
uno che segue, guardare uno che guarda, riconoscere tra di noi le
persone che vivono così, quelle che il Signore ci dà per facilitare il
nostro cammino, per aiutarci, per educarci alla religiosità, fossero anche gli ultimi arrivati. Non è un problema diruoli, è un problema di verità: solo chi vive un rapporto vero con il reale ci educa.
Don Carron: Amici, cioè testimoni L A T H U I L E A G O S T O 2 0 0 7
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Postato da: giacabi a 15:36 |
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educazione, carron
L’EDUCAZIONE SECONDO GIUSSANI
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Con
l’uscita dell’edizione italiana del “Rischio educativo”, il libro più
originale scritto dal fondatore di CL, il suo successore lancia un
appello sull’emergenza-educazione.
Incontriamo
don Julian Carron, 55 anni, docente di teologia all'Università di
Madrid, che ha vissuto accanto a don Giussani gli ultimi mesi della sua
lunga malattia e che gli è succeduto nel marzo scorso alla guida di
Comunione e Liberazione. Don Carron, che attualmente vive a Milano e
insegna Introduzione alla teologia all'Università Cattolica (la cattedra
che fu di Giussani) quest'estate è stato ricevuto dal papa in occasione
del Meeting di Rimini. Inoltre per la stima che il Papa ha dimostrato
verso il carisma di don Giussani Carron è stato invitato al Sinodo dei
vescovi sull'Eucarestia.
Al successore di mons. Luigi Giussani abbiamo posto alcune domande sull'educazione, in occasione dell'uscita del libro Il rischio educativo (Rizzoli), breve e intenso testo di don Giussani in cui emergere tutta l'originalità del suo metodo educativo, che ha saputo risvegliare in moltissimi giovani e adulti il gusto di vivere la fede. - Don Carron, come ha vissuto quest'anno così intenso? «E stato davvero un anno decisivo, straordinario: sono successi fatti come la morte di don Giussani e di papa Woityla e l'elezione di Benedetto XVI che ci hanno segnato profondamente». - Come vive le sue giornate il successore di don Giussani? «Dedico la mattina allo studio e alla preparazione degli incontri, il pomeriggio ricevo le persone o sono in Cattolica dove insegno, seguo gli studenti, partecipo alla vita del movimento». - Nel suo recente intervento al Sinodo dei vescovi lei ha detto che la Chiesa, attraverso l'eucarestia, incide nella storia perché suscita ed educa persone che si sono lasciate coinvolgere nella novità della vita di Cristo. Si può dire che l'uomo moderno e la nostra società hanno ancora bisogno di un'educazione che dia senso alla vita? «Le persone oggi sono alla ricerca di chiarezza e positività perché la vita non diventi una trappola e le circostanze insopportabili. L'uomo moderno ha bisogno di qualcuno che lo introduca in modo ragionevole e positivo alla realtà. La vita si può a mala pena sopportare, oppure si può trovare qualcosa o qualcuno di più grande che ci aiuti a non esserne travolti. Questa domanda, questo desiderio oggi, nonostante tutte le risposte che abbiamo a disposizione, normalmente non trova soddisfazione». - Al Sinodo lei ha anche sottolineato come nella vostra esperienza l'Eucarestia abbia realmente dato frutti di umanità nuova, per esempio nei luoghi di missione come le favelas del Brasile, i giovani del Kazachistan o i malati di Aids in Uganda. Che rapporto c'è tra queste opere di carità e un testo come Il rischio educativo che ha fatto il giro del mondo e che l’anno prossimo sarà tradotto anche in russo ? «Siamo stupiti di fronte al fatto che il metodo educativo di don Giussani possa essere utile in situazione concrete così diverse tra loro. Forse è perché questo metodo si rivolge al cuore e risponde al vero bisogno dell’uomo. Stupisce vedere come gli studenti del Kazakistan, pur essendo musulmani, hanno sentito il bisogno di approfondire questa impostazione. Ma la cosa veramente affascinante è che don Giussani - come lui stesso ha sempre affermato - non ha mai voluto creare un movimento ma semplicemente presentare la propria esperienza personale del dramma umano, così come si può trovare anche in un poeta da lui amatissimo come Giacomo Leopardi, in cui vibrano le stesse esigenze. Io sono appena tornato da un viaggio a Salvador de Bahia dove ho visto come questo metodo in azione abbia coinvolto le persone (persino la Banca mondiale!) in modo tale da compiere il desiderio di tutti, coinvolgendo il soggetto nella propria liberazione! » - Don Giussani ha sempre sottolineato che la fede è un'esperienza, un incontro con un avvenimento. Nel Rischio educativo scrive parole forti: “un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento non c'entra in nessun modo, non c'è, è un Dio che non c'è”. Come si può educare a una fede così? «E' la cosa più facile del mondo, così come è facile l’esperienza dell’amore: uno resta stupito di fronte al bene che l'altro è per lui! Se di fronte alla bellezza e alla positività dell'incontro con una persona non ci si sottrae - ma si cede a questa attrattiva vincente - si sperimenta la fede come avvenimento, come qualcosa che accade. Io dico che questa è la cosa che convince di più, un po' come la storicità dei vangeli: quello che gli evangelisti raccontano non potevano immaginarselo prima perché era impensabile. Io resto stupito tutti i giorni per il modo con cui i nostri amici affrontano in modo diverso il lavoro, la famiglia, la malattia, una vacanza insieme e come desiderano condividere con tutti la bellezza di una vita così». - Nel rapporto tra il maestro e il discepolo, il genitore e il figlio, l'insegnante e l'allievo come si salva la libertà? «Siamo tutti dei poveracci, possiamo solo condividere con gli altri quello che a noi serve per vivere: se qualcuno trova nell'altro qualcosa che gli serve per vivere meglio lo prenda! Questa è l'educazione. L'unica cosa che possiamo fare è offrire all'altro quello che a noi serve al mattino per alzarci di buon umore, per andare a lavorare con letizia, per affrontare questa o quella situazione: ti offro questo se ti può essere utile. L'indottrinamento è la parola più estranea a questo atteggiamento, a questa posizione. Quando uno riconosce che il rapporto con una persona così fa diventare la vita più umana allora uno riconosce in lui naturalmente un maestro, un padre, senza che per questo che l'altro abbia alcuna velleità di convincerlo. San Paolo al proposito ha un'espressione bellissima: “non vogliamo essere padroni della vostra fede ma collaboratori della vostra gioia”; e questa è la definizione più bella del rapporto maestro-discepolo. Diceva don Giussani: "guarda, provo a dirtelo oggi così ma se non riesco a rispondere alla tua domanda, amico, ritorna domani, fammela ancora in modo che io possa cercare di ridirtelo per aiutare il tuo cammino". Questo è il tentativo, tutto il resto è inutile: cercare di imporsi alla libertà dell’altro è inutile come quando compri delle scarpe e sbagli il numero: prima o poi devi cambiarle perché il piede non è a posto. Così l'altro alla tua imposizione educativa prima o poi si ribella». - Qual è la difficoltà dell'uomo moderno di fronte al fatto religioso, in cosa siamo maggiormente condizionati rispetto al passato? «La nostra maggiore difficoltà è l'estraneità che abbiamo al Mistero. Siamo stati educati nel razionalismo, usiamo la ragione in modo riduttivo. In un incontro con dei ragazzi ho letto un testo dal Fedone di Platone che conclude dicendo come, davanti al problema della vita, se non si trova una risposta soddisfacente si deve cercare di attraversare “il pelago” con una nave più solida e sicura: la rivelazione di un Dio. Per il grande filosofo dunque la ragione è apertura al Mistero, all'imprevisto. Chi non desidera attraversare la vita in modo sicuro? Oggi nel modo con cui parliamo dei nostri problemi questa apertura all'infinito, al desiderio che il mio cuore ha dell'infinito non c'è, addirittura è negata. Parliamo per un anno ai fidanzati del senso religioso ma, alla fine, essi non hanno capito la natura del loro amore, pensano di rendersi felici da soli, o che la riuscita della loro vita dipenda dal lavoro: mai dal desiderio del loro cuore, che è fatto per l’infinito e a cui può rispondere solo ciò che è più adeguato al cuore infinito dell'uomo. Noi moderni utilizziamo la ragione come misura di tutto il reale impedendo che la ragione ci introduca al Mistero, che riduciamo a un sentimento. Ma la vita senza Mistero è invivibile, ci soffoca e noi non respiriamo più. - Perché l'educazione è un rischio? Perché dipende dalla libertà dell’altro. Don Giussani per cinquant'anni ha scommesso tutto sulla libertà, ha corso sempre il rischio della libertà, che è il contrario di ogni tentativo di possesso o indottrinamento. Senza correre questo rischio e senza verifica personale non ci si appropria di ciò che si impara, l'esperienza non diventa nostra. Senza il rischio della verifica personale non c'è educazione. Gesù non ha perso neanche un minuto a fare della propaganda. Diceva: “Venite e vedete”! Corre questo rischio chi è cosciente di proporre una cosa vera: allora si sfida l'altro al paragone perché verità e bellezza non temono la sfida, il confronto e la verifica.
«SE CI FOSSE UNA EDUCAZIONE DEL POPOLO TUTTI STAREBBERO MEGLIO»
Questa
frase con cui don Giussani commentò al TG2 i tragici fatti di Nassiriya
del 2003 fa da il titolo all’appello internazionale proposto da CL e
che raccoglie le firme di molti intellettuali e imprenditori.
L’Italia
è attraversata da una grande emergenza. Non è innanzitutto quella
politica e neppure quella economica - a cui tutti, dalla destra alla
sinistra, legano la possibilità di "ripresa" del Paese -, ma qualcosa da
cui dipendono anche la politica e l'economia. Si chiama "educazione".
Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l'educazione si
costruisce la persona, e quindi la società.
Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell'uomo fosse destinato a rimanere senza risposta. È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell'educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose. Perché l'educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. È la strada sintetizzata in un libro cruciale, nato dall'intelligenza e dall'esperienza educativa di don Luigi Giussani: Il rischio educativo.. Tutti parlano di capitale umano e di educazione, ci sembra fondamentale farlo a partire da una risposta concreta, praticata, possibile, viva. Non è solo una questione di scuola o di addetti ai lavori: lanciamo un appello a tutti, a chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo. Ne va del nostro futuro. |
Postato da: giacabi a 18:41 |
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educazione, giussani, carron
Libertà di educazione
«Le esperienze inglese, olandese, svizzera, belga e americana dal 1924 al 1946 sono servite a con fermarmi nell'idea che solo la libertà può salvare la scuola in Italia.
La storia del "confessionalismo scolastico" che si avvantaggerebbe
della "libertà", fa pendant con quella del "comunismo" che si
avvantaggia della libertà, e del "Iaicismo" che si avvantaggia della
libertà. Bisogna scegliere o la libertà con tutti i suoi "inconvenienti" ovvero lo statalismo con tutte le sue "oppressività". lo ho scelto la libertà fin dai miei giovani anni, e tento di potere scendere nella tomba senza averla mai tradita. Perciò ho
combattuto in tutti i campi, e non solo in quello scolastico, lo
"statalismo", sia quello pre- fascista, sia quello fascista, e combatto
oggi lo statalismo post-fascista, del quale parecchi dei miei amici,
bongré, malgré, sì sono fatti garanti.
L'intolleranza scolastica dei laicisti è sostanziata dalla presunzione
che essi difendono la libertà; mentre la libertà non è monopolio di
nessuno. Il
monopolio scolastico dello stato è sostanziato da una presunzione, che
solo lo stato sia capace di creare una scuola degna del nome; mentre non
è riuscito che a burocratizzarla e fossilizzarla.
In sostanza, non c'è libertà dove c'è intolleranza e dove c'è monopolio. Questa è la triste situazione italiana». Lo era nel 1950. E lo è, disgraziatamente, anche oggi.
Luigi Sturzo
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Postato da: giacabi a 15:24 |
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educazione, sturzo
L’educazione statale
***
"Caro
Gonella, ho letto articolo per articolo il progetto di riforma
scolastica e, mentre apprezzo l'enorme lavoro compiuto e lo sforzo di
dare ordine all'attuale sistema scolastico, ho parecchi dubbi, non poche
perplessità e perfino delle serie obiezioni.
Mi
rendo conto che tu non sei libero di attuare un tuo ordinamento e sei
vincolato da tutto il sistema burocratico che opprime la scuola statale,
e che tende a rendere soggetta allo stato la scuola non statale e tutte
le iniziative culturali e assistenziali della scuola.
lo
combatto lo statalismo, malattia che va sempre più sviluppandosi nei
paesi cosiddetti democratici, che toglie respiro e movimento alla scuola.
Siamo arrivati a questo, che quella piccola e contrastata
partecipazione civica nell'ordinamento della scuola (comune e provincia)
che era nell'Italia pre-fascista, non ha più posto neppure nel tuo
progetto, e
che le poche attribuzioni date dalla costituzione alla regione sono,
nel tuo progetto, regolamentate e soverchiate con l'ingerenza
burocratica del ministero e degli ispettorati regionali (violando,
perfino, i diritti delle regioni a statuto speciale).
Non ti dico quale disappunto per me leggere le disposizioni che riguardano l'insegnamento privato. Un
italiano andato in America, mi scriveva scandalizzato che là non c'è un
ministero della pubblica istruzione. Gli risposi, a giro di posta, che,
perciò, l'americano è un popolo libero e l'italiano no.
Comprendo
bene che l'Italia, senza lo stato (e il suo ministero della pubblica
istruzione) sarebbe senza scuole sufficienti per una popolazione così
densa e così povera; perciò
bisogna rassegnarsi alla scuola di stato, come il minor male, evitando,
però, che resti così accentrata, burocratizzata e monopolizzata come
l'abbiamo ereditata dai fascisti e come, purtroppo, sembra che venga
tramandata ai nostri posteri".
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Postato da: giacabi a 14:55 |
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educazione, sturzo
L’inizio vero,
una provocazione alla vita
***
Da Tracce di settembre07: editoriale
«Solo
quando si ricomincia prendendo sul serio le proprie domande e le
urgenze che stanno sotto il desiderio di significato, di vero e di bello
che ci costituisce, la realtà quotidiana apre il suo tesoro di
occasioni, di incontri, di scoperte.
Se così non è, la scuola - come ogni altro luogo dove si vive - diviene
un anonimo deserto dove si incontrano apparenze di persone, che
esibiscono solo la parte esteriore, spesso più superficiale e perciò
violenta, di se stesse. E invece che aule, ore, dialoghi dove si impara a essere liberi, diventa un caravanserraglio di mezzi schiavi. Invece che speranza per il futuro del Paese, emergenza sociale. «Le crisi di insegnamento - scriveva Charles Péguy, nel 1904, in un articolo per la riapertura delle scuole - non sono crisi di insegnamento; sono crisi di vita. Una
società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima;
e questo è precisamente il caso della società moderna»
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Postato da: giacabi a 05:47 |
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educazione, cristianesimo, peguy
L’educazione
***
Gianni
non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi
sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese.
Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del
Consiglio Comunale. Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare
tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza
respirare. A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta.
Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto
del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il
giornale. Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva
il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e
la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il "cretino";
si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. Gianni fu più difficile. Dalla
vostra scuola era uscito analfabeta e con l'odio per i libri. Noi per
lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma
almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi a fargli amare anche il resto. Ma agli
esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata? Lo
vedi che non ti sai esprimere? Lo so anch'io che il Gianni non si sa
esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l'avete
buttato fuori di scuola l'anno prima. Bella cura la vostra. Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le
lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I
ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O
per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive
bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua
che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era
piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio:- Non si dice lalla,
si dice aradio. Ora,
se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra
lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla
scuola. "Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua";
.L'ha detto la Costituzione pensando a lui.
don L. Milani "Lettera ad una professoressa"
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Postato da: giacabi a 20:17 |
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educazione, don milani
Postato da: giacabi a 21:17 |
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educazione, santi
Scuola libera
e non statale
***
"Ogni
scuola, quale che sia l'ente che la mantenga, deve poter dare i suoi
diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità:
sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l'Università di
Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se la tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell'ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato; se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti."
"Perchè
dovremmo vietare che la logica della concorrenza porti i suoi benéfici
frutti nell'ambito della scuola? Un cittadino è libero di scegliersi il
tipo di dentifricio o la marca della macchina; e perchè invece, non
dev'essere libero di scegliere gli insegnanti per i propri figli?
Perchè non dovrebbe essere libero di scegliere una scuola con un certo
programma invece che con un altro? Lo "Stato maestro" non è forse il
tratto più decisivo dello "Stato etico"?". Quello che la scuola di Stato dà è un titolo. Ma la società chiede competenze.
Luigi Sturzo
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Postato da: giacabi a 20:23 |
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educazione, sturzo
Il nulla ci aiuta ad apprezzare il Tutto
***
Fino a che non ci rendiamo conto che le cose potrebbero anche non essere, non possiamo renderci conto che le cose sono. Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra, non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata. Non appena vediamo quella tenebra, tutta la luce è fulminea, improvvisa, accecante e divina.
Fino a che non ci dipingiamo l'assenza, noi svalutiamo la vittoria di Dio e non possiamo apprezzare nessuno dei trionfi della Sua antica guerra. È uno dei milioni di folli scherzi giocati dalla verità, il fatto che noi non conosciamo nulla, fino a che non conosciamo il Nulla.
G.K.Chesterton
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Postato da: giacabi a 18:50 |
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educazione, chesterton
L’educazione
***
Nella classe del Signor Bernard, appagava una sete ancor più essenziale, la sete della scoperta. Certo, anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po' come si ingozzavano le oche, si presentava un cibo già preconfezionato e s'invitavano i ragazzi a inghiottirlo. Nella classe del Signor Germain, per la prima volta in vita loro, sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo. E anche il maestro non si occupava soltanto di insegnare ciò per cui era pagato, ma li accoglieva con semplicità nella sua vita personale, la viveva con loro. A. Camus, Il primo uomo |
Postato da: giacabi a 14:36 |
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educazione, camus
GESU’ E’ IL SIGNORE
EDUCARE ALLA FEDE,
ALLA SEQUELA, ALLA TESTIMONIANZA
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Diocesi di Roma
Convegno Ecclesiale Diocesano Basilica di San Giovanni in Laterano, 11-12 e 14 giugno 2007
Contributo di Franco Nembrini (uno dei pochi che riesce ad entrare nel mio cuore)
(in corsivo le frasi trascritte, aggiunte al testo consegnato)
A. L’EDUCAZIONE COME INTRODUZIONE ALLA REALTA’
Dovendo
parlare di educazione posso solo raccontarvi alcuni episodi, alcuni
fatti attraverso i quali mi è parso di vedere che cosa fosse
l’educazione, ma con una premessa, e cioè che per poter parlare della
mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia
esperienza di figlio, perché non posso non riconoscere che io ho visto
per la prima volta cosa fosse l’educazione con mio papà e mia mamma.
Sono
il quarto di dieci figli e l’immagine che ho del mio povero papà è
quando, nella stanzetta dove dormivamo noi sette figli maschi (siamo
sette maschi e tre femmine), si inginocchiava in mezzo alla stanza e
incominciava a dire il Padre Nostro. Questo era mio padre: uno che
guardava una cosa più grande di lui e ci invitava ad andargli dietro
senza bisogno di dircelo.
Era
uno che, quando sono diventato più grande e tornavo a casa a tarda ora
per i mille impegni che c’erano, lo trovavo sempre in piedi, perché non è
mai in vita sua andato a letto se non dopo aver chiuso la porta alle
spalle dell’ultimo figlio rientrato, e quando alle due o alle tre di
notte arrivavo a casa, e per non farlo arrabbiare troppo gli dicevo:
“Dai, papà, diciamo Compieta insieme” lui mi rispondeva: “Vai a letto,
cretino, che domani mattina devi lavorare: dico io Compieta per te”, e
si fermava e diceva la quarta o la quinta volta Compieta, la diceva per
me, perché io potessi andare a riposare.
Il
giorno prima di morire, paralizzato a letto, completamente afono, gli
ho chiesto come stava, e ha risposto allo stesso modo con cui aveva
risposto per tutta la vita: “farès pecat a lamentam” che in italiano
significa “Tutto è Grazia”. Mio padre era così.
E
così era mia mamma, che è morta ormai tanti anni fa (nell’85), una
donna molto semplice, figlia di contadini, che aveva tirato su dieci
figli e che morì confidandomi: “Mi dispiace di morire, perché adesso che
siete un po’ più grandi, avrei potuto fare un po’ di bene”.
So
bene che mi potreste obiettare: “roba da albero degli zoccoli, fatti e
atteggiamenti di un mondo che non c’è più” e l’osservazione sarebbe
assolutamente ragionevole.
Ma
io vi ho parlato dei miei genitori perché credo di aver imparato da
loro un criterio fondamentale, che il tempo ha mostrato come
assolutamente decisivo nell’itinerario educativo. E questo criterio lo
potrei definire così: che l’educazione è un problema di testimonianza.
Non è un problema dei bambini o dei ragazzi o dei giovani. Se sono così
allo sbando oggi non è per colpa loro (o meglio, è anche per colpa
loro) ma la prima responsabilità è la nostra.
In
educazione il problema non è la generazione dei figli ma la generazione
dei padri, non la generazione dei discepoli ma quella dei maestri.
In
altre parole: i figli vengono al mondo, esattamente come 100 o 1000
anni fa, con lo stesso cuore, con lo stesso desiderio, con la stessa
ragione di sempre, caratterizzati cioè da un insopprimibile desiderio di
Verità, di Bene, di Bellezza. Cioè con il desiderio di essere felici.
Ma quali padri, quali maestri, quali testimoni hanno di fronte?
Questa
cosa mi è sembrato di capirla in modo assolutamente radicale quando un
pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio
Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni, correggendo i temi come ogni
insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non
avevo notato che Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio
mi stava guardando. Non chiedeva nulla di particolare, non aveva bisogno
di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno,
nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione:
che lo sguardo di mio figlio contenesse una domanda assolutamente
radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se
guardandomi chiedesse: papà assicurami che valeva la pena venire al
mondo.
Questa,
mi sono detto, è la domanda dell’educazione e da quel momento non ho
più potuto neanche entrare in classe e incrociare lo sguardo dei miei
alunni e non sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti
sostiene? Perché di questo io ho bisogno per dare credito ai tuoi
suggerimenti, al tuo insegnamento, persino alle cose che mi dici di
studiare. Ti posso dare credito solo per una grande speranza presente.
L’educazione incomincia quando un adulto intercetta questa domanda e sente il dovere e la responsabilità di rispondere.
Ma è chiaro che non potrà rispondere con regole o raccomandazioni o teorie: può rispondere solo con la vita.
Lettura e commento di Deuteronomio 6, 20-25
Quando
in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni,
queste leggi e queste norme che il Signore Dio vi ha date? Tu
risponderai a tuo figlio così: eravamo schiavi del faraone in Egitto e
il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò
sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro
l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire
di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci.
Allora il Signore ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi,
temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere
conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per
noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio
nostro, come ci ha ordinato.
Dante nel Paradiso, interrogato da S. Pietro sulla fede, si sente chiedere:
“Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?”
Perché
io potevo desiderare, bambino, di essere come mio papà? Perché
presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via è
importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della
menzogna, della gioia e del dolore, della vita e della morte.
Cioè
senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente
positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la
testimonianza vivente di una Verità conosciuta.
Se
l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è
“introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione
del suo significato”, bene mio papà faceva esattamente questo.
E
questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono
cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa
della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto
perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché,
lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza
diventare cattivi.
Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.
Ecco,
mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché
non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo
desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse:
“io sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di
meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità, non la
nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo
per nostra libera scelta.
B. L’EDUCAZIONE COME MISERICORDIA
Ma
questo non è bastato, non è bastato perché si è infilato nel rapporto
tra me e loro qualcosa che lo ha incrinato. Avevo 17 anni, e nonostante
l’educazione ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo
scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui
soffrivo molto.
La
cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a
cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i
miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava
tutto addosso.
Guardavo
mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la
stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di
consistenza tutte le cose che mi erano care.
Vissi
un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente
la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, anzi, sfidando con
cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e
Liberazione, dicendole: “Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il
Salvatore, da che cosa ti avrebbe redento il Redentore?
Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come
gli altri: dove sta la salvezza? Da che cosa ti avrebbe salvato? Quando
esci la domenica dalla Messa che cosa puoi dire di te stessa più di
quello che posso dire io?”
Non
poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva
rispondermi quello che oggi, risponderemmo insieme: che il di più che
Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che
prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e
che era quello che io stavo cercando.
Che
cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto? Era successo ai
miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna
qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.
Una
volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un
po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato per la figlia che lo
faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo
insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore
scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere
le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito
che tra me e sua figlia, invece, un po’ di feeling era nato, ci si
intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio:
“Professore, io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a
nessuno. Può farlo lei? Lei può farlo: lo faccia, per carità, perché io
ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia”.
Ecco,
lì m’è venuta l’idea che il problema della Chiesa fosse il metodo, la
strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva
alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando ad
essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.
Poi
ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo: pensava che
tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza, e invece
s’erano infilati tra lui e sua figlia quattrocento anni, cinquecento
anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose
di cui lui viveva, e che televisione e scuola – dal secondo dopoguerra
in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.
Ecco
cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di
questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva
superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare
radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni
dell’esistenza in modo convincente. Non la soluzione dei problemi ma un
nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad
altre teorie, ma, per dirla con Guardini “l’esperienza di un grande
amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito”.
E’
il grande richiamo di Benedetto XVI nel memorabile discorso di Verona
alla Chiesa italiana. Allargate la ragione, sfidate la modernità per
raccogliere tutto il positivo ma anche per denunciare le insufficienze
di una cultura nichilista e relativista che si è costruita negli ultimi
secoli e che per tanti aspetti si è rivelata nemica dell’uomo.
Poi è avvenuto l’incontro con don Giussani ed è stata una folgorazione.
Venne
a casa mia. La mia povera mamma aveva un dolore grande, e cioè che il
primo dei dieci figli, che era stato in seminario, ne era uscito
sull’onda della contestazione e aveva non solo abbandonato la pratica
religiosa e la Chiesa, ma aveva fondato uno dei primi gruppi
extraparlamentari dei nostri paesi, insieme ad altri sette
ex-seminaristi. Don Giussani venne a conoscere i miei genitori: confessò
la mia mamma, che credo gli abbia parlato del suo dolore. Mio fratello
non era in casa quel giorno. La settimana dopo da Milano arrivò un pacco
di libri per questo mio fratello che lui non aveva conosciuto. E con
mio grandissimo stupore il pacco di libri, invece che contenere Bibbie o
Vangeli, conteneva Il Capitale di Carlo Marx e altri libri di quel
tipo. Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio
esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea
che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia
quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede
prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei
tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi, col tuo temperamento, con i
tuoi peccati.
Vedere
Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di se stesso,
regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco,
mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in
atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo. Insomma mi venne il
sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe
mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene così come
ero.
E’
la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. “In questo sta l’amore:
che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori”.
Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi sembrano decisive:
a.
che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche o
sociologiche. E’ l’offerta della propria vita alla vita dell’altro. E’
l’offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa e
convincente che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del
testimone. Se per educare fossero bastate le parole sarebbero piovuti
Vangeli, invece Lui è venuto, compagno della nostra povera esistenza.
b.
Se è così l’azione missionaria del cristiano e della Chiesa tutta non
può che consistere in una coraggiosa testimonianza della fede là dove
gli uomini vivono, dove i giovani consumano la loro giovinezza, in
primis la scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione
pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio e di lavoro, e
di divertimento, ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri
fratelli uomini là dove essi vivono i loro interessi, i loro affetti, la
loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse
pertinente alla vita reale, che non si mostrasse capace di esaltare
l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare curiosità
e interesse e desiderio di seguire.
c.
Il problema coi figli o con gli alunni non può essere farli diventare
cristiani, farli pregare, farli andare in Chiesa. Se ti poni così
sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere
le distanze.
Tutto
il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti
guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, qualsiasi cosa
facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti
vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di
educarli.
Lieto
e forte non perché sei perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è
patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il
proprio male) ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere ogni
giorno di essere perdonato.
Così
tra l’altro con loro sei libero, anche di sbagliare, libero
dall’angoscia di dover far vedere una coerenza impossibile, perché il
tuo compito di padre è semplicemente quello di guardare un ideale
grande, sempre, e loro ti tentano, loro tendono l’elastico, ti mettono
alla prova sempre: sono tutti figliol prodighi.
E’
quella che nel Rischio educativo si chiama “funzione di coerenza
ideale” è la grande funzione educativa: che tu stai, che tu resti, resti
lì, e magari loro si allontanano e di sottecchi guardano sempre se tu
sei al tuo posto, se tu hai una casa, se tu sei una casa, e torneranno,
anche quando fanno le cose peggiori.
Questa
solidità, questa certezza che hai tu e che vivi tu con i tuoi amici e
con tua moglie, è l’unica cosa di cui hanno bisogno i figli per essere
educati, è l’unica cosa che anche senza saperlo ci chiedono, e su questa
testimonianza poggia la loro speranza. Si tratta di scommettere tutto
sulla loro libertà.
Pensate
alla parabola del figliol prodigo (che ora che ho letto il libro del
Santo Padre chiamerò sempre “la parabola dei due fratelli”): noi siamo
sempre tentati di trattenerli in casa, e invece loro vogliono andare,
misurarsi con tutto il reale, e noi a volerli tenere sotto una campana
di vetro. Abbiamo paura della loro libertà, perché è uno strappo, una
ferita che sanguina. Oppure confondiamo la responsabilità con il nostro
diventare come loro: lascio anch’io la casa con te, così magari ti tengo
d’occhio da vicino. Ma che disperazione per i nostri figli se, volendo
tornare un giorno a casa, scoprissero che non hanno più dove tornare,
non hanno più chi li aspetti, chi li perdoni!
E’
il RISCHIO EDUCATIVO: Un amore sconfinato per la libertà dell’altro
perché è questa libertà che il Padre ha amato e stimato fino a
sopportare lo strappo del figlio che se ne va.
C. L’EDUCAZIONE COME SLANCIO MISSIONARIO
Una
volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo:
“Ma papà, noi siamo una famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui
dice il contrario: scuola, TV, amici.
Allora
ho capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la
vita, la vita nel mondo normale. Si trattava di fargli veder un altro
“mondo”, un altro mondo in questo mondo. 6
Ho
capito che mi chiedeva di fargli vedere che la cosa funzionava davvero,
che c’erano amici, famiglie, realtà, movimenti, chiese, oratori,
parrocchie missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse
stato chiamato a sfidare il mondo avrebbe avuto ragioni sufficienti da
portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che sarà un modo
minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero,
famiglie vere, amici veri, case vere, ecc.
Dopo
aver ospitato un ragazzo della Sierra Leone sono stato invitato ad
andare a visitare quel paese e lì ho capito che Dio ci stava aiutando,
non l’avessimo pensato noi, ci stava offrendo su un piatto d’argento
un’esperienza missionaria perché la domanda dei miei figli potesse
essere esaudita. Così godendo di questa amicizia è stato possibile
aiutare i miei figli a vincerla questa sfida, a dire che si può uscire
da una casa forti di un giudizio, di una cultura, di una carità, di una
speranza così tenaci da sfidare le categorie culturali di questo mondo
apparentemente così ostili.
Che
si sposa con quello che ho detto all’inizio: la testimonianza di un
ideale grande, verificato e verificabile ogni giorno nel paragone con
tutto l’orizzonte dell’esperienza umana, con tutto il mondo.
Così
che siano loro a poter dire “questa è la vittoria che vince il mondo:
la nostra fede”. Ma devono ricevere una proposta decisa, intera che
tenga conto di tutti gli aspetti della realtà e di tutte le dimensioni
della persona. Con la consapevolezza che l’esito non è in mano nostra:
non sappiamo cosa Dio riserva a noi, al Paese, al mondo. Dobbiamo
probabilmente accettare l’idea di essere a lungo una minoranza, un
piccolo gregge, forti solo di due cose: la certezza che ”portae inferi
non prevalebunt” e la certezza della sua misericordia, di ciò che la
tradizione chiama “merito”. Cioè la speranza certa che per la fede di
alcuni, molti saranno salvati, come insegna l’episodio biblico di Abramo
che contratta con Dio la salvezza della città per i meriti di dieci
giusti.
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Postato da: giacabi a 18:40 |
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educazione, nembrini
La vera educazione culturale
***
“Si
parla molto di democratizzare la cultura. I risultati fin qui ottenuti
sono esili e niente lascia prevedere che andrà meglio nei tempi a
venire. Il solo caso conosciuto di successo è quello dello sforzo
sostenuto dalla Chiesa nei secoli. All'inizio, un piccolo gruppo di
uomini in Giudea, per la maggior parte semplici pescatori. Dieci
secoli più tardi, un’Europa coperta di chiese e abbazie, e migliaia di
preti e monaci che insegnano a una folla di contadini illetterati, rozzi
e violenti, un certo dominio di sé, dei comportamenti, delle abitudini,
una morale, mettendo in luce alcune verità. Ogni
domenica, questa folla di villani irsuti si recava nei più begli
edifici che la nostra civiltà abbia creato, dalla piccola chiesa
romanica, umile e robusta, agli splendori di Cluny: «case del popolo» le
chiamavano in Italia. Là aveva sotto gli occhi i più begli ornamenti,
le più belle statue, i più bei quadri, i più begli oggetti di culto che
si conoscano. Quel giorno, e quello solamente, nel
villaggio più diseredato della provincia più povera, poteva vedere
bellezza, ordine, luce. Sentiva risuonare la parola di Dio ed elevarsi
verso la volta il canto gregoriano. Osservava i gesti misurati,
disciplinati del prete. Pur senza comprenderne l'intimo significato,
riusciva a percepire, a stento, il valore del dominio di sé, che è uno
dei segni certi della cultura. Gli uomini, i poveri uomini di oggi, cosa
ricavano dai pugni dei pugili? Quanto valgono le comunioni primitive
che uniscono gli appassionati di calcio? E che dire della belluinità che
si scatena all'uscita degli stadi, se non che èimparagonabile, nel
senso più stretto della parola, alla gioia quieta che seguiva l'ite missa est? Una
volta la settimana quella folla era sottratta alle sue preoccupazioni
giornaliere, ai suoi problemi familiari, alle piccolezze della vita
quotidiana e sentiva parlare del suo destino. Non era
che una minuscola e fugacissima scintilla nella notte dell'ignoranza, ma
della lettura del Vangelo, della predica talvolta balbettante, quei
contadini trattenevano qualche briciola che nutriva la cultura familiare.
Pur in mancanza di un'elevazione dello spirito verso Dio, queste
briciole davano almeno delle lezioni di coraggio e di dignità davanti
alla malattia, alla vecchiaia e alla morte.”
Leo Moulin
particolari dell'abbazia di Cluny
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Postato da: giacabi a 14:31 |
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educazione, cristianesimo, moulin
MEZZO PERICOLOSO
***
“E’ stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l’era della pietà, è iniziata l’era dell’edonè.
Era
in cui i giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della
stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro
dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente
ad essere aggressivi fino alla delinquenza o passivi sino all’infelicità”.
Pasolini nel Corriere della Sera
pochi giorni prima della sua morte
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Postato da: giacabi a 14:16 |
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pasolini, educazione
Non serve l’ideologia ma l’esperienza per imparare a vivere
Giorgio Vittadini è Presidente della Fondazione per
Secondo
l’Herald Tribune 300.000 giovani giapponesi su 1 milione vivono da soli
senza altra relazione con il mondo, se non un lungo, quasi
ininterrotto, collegamento ad internet. Per questo, in un recente evento
di presentazione del libro Il rischio educativo
di don Luigi Giussani, Ferruccio De Bortoli sosteneva che il problema
più importante relativo alla questione educativa è quello prettamente
esistenziale che consiste nel «ritrovare un senso al nostro essere parte
di questo mondo».
Per questo Giancarlo Cesana ha affermato che la prima risposta al problema educativo consiste nell’esemplificazione di un rapporto adeguato con la realtà che permetta di vedere il vero, il bello e il buono contenuto in essa. La valenza educativa della proposta di don Giussani corrisponde in effetti a questa «emergenza esistenziale», come si può constatare dalle miriadi di persone che in tutto il mondo sono divenute adulte seguendola. Tale proposta ha anche un grande valore teoretico, come è emerso in occasione di un convegno tenuto a Washington nel 2003 proprio su Il rischio educativo. In quell’occasione Stanley Hauerwas (nel 2001 «miglior teologo d’America» secondo il Time Magazine) ha affermato: «Non sono solo interessato all’educazione, ma anche, in particolare, al tipo di suggestioni innovative proposte da don Giussani nel recuperare l’educazione come attività cristiana. Avrei molto da dire sul libro Il rischio educativo, ma, ahimé, mi trovo in tale sintonia con Giussani che mi sembra solo di poter dire: «Vorrei averlo detto io». Hauerwas, sempre nell’occasione citata, ha sottolineato che il primo valore della proposta di don Giussani è di ordine metodologico in quanto supera quel pregiudizio, vigente anche in ambienti cattolici, secondo cui: «L’educazione può essere concepita come se non avesse a che fare con la “verità”, mentre non si può separare ciò che si conosce dal come si è arrivati a conoscerlo». Il teologo aggiunge inoltre che, intendendo l’educazione come «introduzione alla realtà totale» don Giussani va oltre la semplice ricomposizione della divisione presente nell’attuale contesto educativo, in cui gli studenti saltano da una materia all’altra senza essere aiutati a coglierne il significato. Per questo, nell’ambito delle manifestazioni connesse con l’appello per l’educazione proposto da numerosi intellettuali, uomini di cultura, imprenditori, accademici, Il noto pedagogista dell’Università di Torino, Giorgio Chiosso - che introdurrà il seminario insieme al professor Onorato Grassi, presidente dell’Indire (Istituto nazionale di documentazione per l’innovazione e la ricerca educativa) - mostra come il senso profondo di tale definizione sia legato alla riscoperta del significato del termine «realtà»: l’affermazione del primato della realtà si svolge nella categoria di «avvenimento» con cui il mistero dell’essere si dona nel reale. Ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire. La parola «realtà», scrive Giussani, sta alla parola «educazione» come la meta sta al cammino. Così la realtà determina integralmente il movimento educativo passo passo e ne è il compimento. In questo contesto culturale ed esistenziale si realizza il «rischio educativo» di maestro e discepolo alla conquista di un senso della loro esistenza, secondo il triplice movimento di affronto leale della tradizione, affronto critico dei valori di questa tradizione e loro verifica esistenziale nel presente attraverso un paragone con le esperienze ed esigenze elementari di bellezza, giustizia, verità, che costituiscono il cuore oggettivo dell’uomo di ogni tempo e luogo. Da qui, come affermava in un suo intervento il professor Onorato Grassi, nasce la profonda laicità della proposta di don Giussani, contro ogni pregiudizio e impostazione ideologica che si opponga a priori ad una verifica personale ed esperienziale. Nella crisi dell’Italia di oggi, prima che economica e politica, di tipo ideale, la verifica di questa proposta può essere una chiave portante per una ripresa personale e collettiva |
Postato da: giacabi a 18:01 |
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educazione, vittadini
Educazione,
responsabilità, bene comune
Franco Nembrini, genitore e docente *
20 febbraio 2004 – Parrocchia S. Ignazio di Loyola – Milano
Alcuni brani di questo incontro
***
La
tragedia che stiamo vivendo, è veramente una tragedia epocale. È la
prima volta, forse, nella storia dell’umanità in cui in modo così grave
si pone l’incapacità
di una generazione di adulti di trasmettere alle nuove generazioni la
cultura. È drammatica la debolezza di ragioni di questa generazioni di adulti che non sa più perché valga la pena dare la vita
– tant’è che non si fanno più figli – e, meno ancora, sa le ragioni per
cui vale la pena educare. Siamo la prima, forse la seconda generazione
di adulti che vive il problema della tradizione – tradizione vuol dire
consegna, vuol dire passaggio –, il
problema della consegna da una generazione all’altra di un patrimonio
di conoscenze, di valori, di certezze, di positività, di un’idea buona
della vita. Le generazioni degli adulti hanno
sempre consegnato tutto questo alle generazioni dei giovani. Ora non è
più automatico, non accade più per tutta una serie di ragioni.
Certamente non siamo aiutati neanche dal mondo in cui viviamo. Se
pensate anche solo alla questione della tecnologia. Ad esempio, io
faccio sempre la figura dell’incompetente con i miei figli perché se mi
regalano il telefono non lo so usare e devo dire a mio figlio: «Senti
dagli un’occhiata, poi mi spieghi cosa devo fare». O se compero una
televisione appena appena aggiornata è mio figlio che capisce subito
come funziona. Cioè, quello che è sempre stato assolutamente scontato e
cioè che padre e madre sono, in qualche modo, depositari delle
conoscenze e delle competenze necessarie per vivere si è rovesciato; il
padre e la madre sono quegli incompetenti che non sanno neanche usare il
cellulare. Anche questo non aiuta.
Non è più così scontato, non è più così facile che avvenga quel
miracolo che sempre è stata l’educazione e che ha garantito, nel bene e
nel male, anche in momenti terribili della storia, che il mondo andasse
avanti. Evidentemente ci sono delle ragioni: ad esempio è stata troppo sistematicamente, da una certa cultura, distrutta l’idea del padre. È attorno a questo nodo che si gioca la partita dell’educazione: l’educazione c’è in primo luogo se c’è l’adulto. Una
certa cultura prima ha distrutto l’idea stessa di Dio, di una Paternità
grande a cui l’uomo o appartiene o è desideroso di appartenere, e, a
cascata, ha distrutto il resto. Si è sostituto Dio con alcune grandi
ideologie, per cui si è potuto pensare di vivere della speranza o dello
slancio ideale del comunismo. Si è in qualche modo tarlata la certezza
stessa dell’uomo di avere qualche cosa di buono e di intelligente da
dire ai propri figli, in casa sua. Come dice il grande Woody Allen: «Dio è morto, Marx pure, ma io stesso mi sento poco bene».
Dice in tre passaggi come la cultura del nostro tempo ha distrutto in
modo sistematico l’idea di paternità. Siamo tutti diventati grandi, i
nostri figli in particolare, leggendo Topolino, cioè un fumetto pieno di
zii e di zie, generalmente scapoli, ma nel quale non trovi un padre. È
tutta una cultura che ha favorito che l’idea di paternità sparisse.
Bisogna ripartir da qui, dall’educazione. Ha detto don Giussani: «Se ci fosse un’educazione del popolo tutti sarebbero meglio».
Ecco, bisogna ripartire da qui. Allora, bisogna che qualche adulto si
tiri su le maniche e dica: «Io voglio reinventarla, io voglio provare a
educare». Bisogna
che ognuno ci provi, tenendo l’occhio fisso a quelle due o tre persone,
a quei due o tre episodi, a quei due o tre momenti in cui gli è parso
di vedere l’educazione in atto, di vederla presente.
Mio
padre ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre
implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: «Io e
voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l’unico problema che avete
è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Così si vive bene, venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi». …
con due genitori così per cui mi è sempre stato facile capire che cos’è l’educazione: non è una serie di prediche, non è una preoccupazione d’avere. È un uomo che vive. L’educazione non è mai un problema dei giovani, dei figli, degli alunni, dei ragazzi, degli scolari. È sempre un problema tuo. Cioè
l’educazione è la capacità che hai o non hai di rendere testimonianza
tu; chiunque tu sia, dovunque tu sia è la testimonianza di una certezza e
di una positività che i figli possono guardare……
Perché
mio figlio si è accostato a me, quel giorno, senza aver qualche
particolare bisogno; cioè non doveva chiedermi da bere, da mangiare, da
dormire, da vestire era lì e mi guardava. Io, incrociando il suo sguardo
mi sono sentito attraversare il cervello da una domanda, ho letto
quello sguardo, ho letto in quello sguardo una domanda assolutamente
radicale; era come se mio figlio mi dicesse: «Papà
assicurami che vale la pena venire al mondo. Dimmi che valeva la pena
venire al mondo. Dimmi qual è la speranza che tu hai, perché ti alzi al
mattino e vai a letto la sera. Perché la fatica del vivere, la morte, il
dolore, la fedeltà, il sacrificio? Qual è la ragione vera per cui mi
hai messo al mondo, per cui io possa portare il peso della vita con
dignità, con speranza, con forza? Accompagnami a questo è l’unica cosa
che ti chiedo». …..
perché
i figli non hanno bisogno di altro che di questa testimonianza: di
avere davanti un adulto che sa le ragioni per cui vale la pena portare
il peso della vita. Tutto il resto viene di conseguenza, su tutto il
resto si può essere assolutamente liberi. Invece il
clima in cui crescono i nostri figli, gli alunni, dice il contrario; è
come se fosse minato da una disperazione, da un cinismo, da un dubbio
che rode sulla bontà della vita, sulla bontà dei rapporti.
Che possa essere buona la scuola, che la giustizia possa essere buona,
che il rapporto tra padre e madre possa essere buono, questa è la cosa
che i nostri figli non sentono più e crescono con una disperazione di
cui l’esito poi di volta in volta è la droga, la coltellata o tutte
quelle cose brutte che succedono. Anni fa lessi una formula
assolutamente sintetica per descrivere la cultura in cui siamo. Indro Montanelli carteggiava sul Corriere della Sera con il Cardinal Martini e scriveva: «Lo
confesso, io non ho vissuto e non vivo la mancanza di fede con
disperazione, ma l’ho sempre sentita e la sento come una profonda
ingiustizia, che toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto
finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo da
dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non
aprirli».
A ottanta anni un uomo come Indro Montanelli arriva quindi a dire: se
essere venuti al mondo vuol dire starci senza sapere da dove si viene,
dove si va, cioè quali sono le ragioni vere per cui vale la pena vivere,
tanto valeva non venirci affatto in questo mondo. È la formula
sintetica del cinismo, terribile, che i nostri figli respirano a scuola,
spesso anche in casa, comunque certamente dalla televisione, dalle
battute degli amici, sono in un mondo così. Bisogna opporsi con ogni
forza a questo cinismo! …..
C’è il cinismo di una società intera che non ha più una ragione buona per la vita. …..
il
cinismo di una cultura che ha distrutto l’unica cosa di cui i nostri
figli hanno bisogno: sapere a chi appartengono, cioè avere un padre e
una madre.
Sapere di chi sono perché è l’unica cosa che li educa e li preserva,
anche psicologicamente da tutte le patologie da cui sono ormai
massacrati. Sapere di chi sono, sapere a chi appartengono. Ma perché un figlio sappia a chi appartiene, bisogna che anche il padre stesso sappia a chi appartiene. …
Quando
i vostri figli iniziano a fare certe domande.! Allora a tuo figlio tu
gli puoi dire: «Ma, vedi un po’ tu. Io ti chiedo di far queste cose,
vienimi dietro se vuoi. Ma io ti chiedo di fare queste cose perché tu
possa essere felice, come sono io». …..Hanno bisogno di adulti che amino
la loro libertà, che scommettano sulla loro libertà, perché così
insegnate il bene che ci vuole Dio ed è così forte il bene che affermate
che non vi molleranno più……
….., primo: non
abbiate mai paura di sbagliare, per i nostri figli siamo i migliori
genitori possibili. Se l’educazione è quel che ho detto, non c’è il
problema della coerenza, dell’incoerenza: i tuoi figli non sono stupidi,
sanno che sei incoerente e far finta di vendergli l’idea di un padre
particolarmente buono, bravo, coerente è una cosa che non li convincerà,
non ce la farete mai a fregarli; lo sanno troppo bene di che incoerenza
siamo capaci; cioè lo sanno che siamo straccioni come loro, non li
convincerete mai del contrario. I nostri figli non hanno bisogno della
nostra coerenza in senso moralistico, hanno bisogno della nostra
coerenza ideale, quella che Giussani ne Il rischio educativo chiama «funzione di coerenza» L’adulto, l’autorità dell’adulto la chiama «funzione di coerenza»: è questo stare che vi dicevo prima. Non
abbiate paura di sbagliare perché i figli sanno che sbaglierete e vi
perdoneranno molto più di quello che siete disposti a perdonargli voi; perché i nostri figli ci perdonano questo. Non ci perdonano il non coraggio, la non responsabilità di fronte al reale, la non certezza ultima rispetto al destino: questo non ci perdonano….
È questo che intendo dire quando dico: «Non preoccupatevi». Anche tutta questa
mania per cui dovremmo tutti avere lo psicologo fisso in casa! Nessuno è
più capace di fare il padre, nessuna è più capace di fare la madre, al
primo problema bisogna andare dall’esperto: l’ospedalizzazione del
rapporto educativo a scuola e in famiglia. Bisogna avere tre lauree per
tirar su un bambino! Basta con questa storia! Basta,
perché siete i migliori genitori possibili e non preoccupatevi se
sbagliate perché non è quello che traumatizza i bambini. Li traumatizza
la sensazione di camminare sulle sabbie mobili, li traumatizza lo
sguardo incerto di padri e madri quando si guardano, quando stanno a
tavola, li traumatizza l’impressione che la loro casa sia costruita sulla sabbia e che basti un filo di vento per portar via tutto.
Questo li spaventa la notte e non li fa dormire, anche se non urlano e
non hanno gli incubi. Ma se pensa ad una casa fondata sulla roccia, tuo
figlio dice che è una roccia anche se sbagli, anche se non le indovini
tutte. Diversamente ci facciamo dei problemi pazzeschi: «Gli do una
sberla o non gliela do? O Dio, ho letto che lo psicologo diceva che quel ragazzo si è buttato giù da un ponte perché ha preso quattro in matematica. Cosa devo fare?
.
Quando comincia a esserci un adulto, l’educazione si rimette in
movimento: allora ti rimetti in movimento, apri una scuola insieme a
loro, ecco tutte quelle cose che mi capitano di fare nella vita. I figli
poi te li porti dietro, perché il problema non è dirgli le cose, ma
fargliele vedere.
* Una delle poche persone che riesce a penetrare la sc0rza del mio cuore.
il testo integrale:
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Postato da: giacabi a 20:04 |
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educazione, nembrini
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Postato da: giacabi a 21:14 |
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educazione, imbecillità giovanile
L'attuale cristianesimo
pecca di buona educazione
***
L'attuale cristianesimo pecca di buona educazione. Si
preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato, teme
il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa
mediocrità a tutto il resto. A che punto siamo arrivati,
sbavando- l'olio santo si è trasformato in una melassa dolciastra (la
sola parola «unzione» procura la nausea). Si stringono piamente le
labbra e si attende che il Signore dia dieci in condotta. Come beghine,
si arrossisce a ogni accenno di piaceri proibiti: «Ah, che dite mai? lo
una di quelle? Avete perso il senno. lo sono illibata ». Hanno confuso
Andrej Sinjavskij da: Pensieri Improvvisi
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Postato da: giacabi a 09:24 |
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educazione, sinjavskij
Da: www.ilgiornale.it di oggi Emergenza educazione di Giorgio Vittadini |
Giorgio Vittadini*
|
Il
Meeting di Rimini 2006, intitolato «La ragione è esigenza di infinito e
culmina nel sospiro e nel presentimento che questo infinito si
manifesti», vedrà oggi, nell’incontro inaugurale, la presenza del
presidente del Senato Franco Marini. Qual è il nesso tra una concezione
di ragione come apertura all’Infinito e l’argomento di questo incontro?
Innanzitutto va detto che questo convegno non rappresenta una deriva
politica, ma, come tutto il Meeting, è parte di una storia e una cultura
oggi, più che mai, chiare e profonde.
Il punto di partenza è la medesima preoccupazione testimoniata dal libro di don Giussani «Dall’utopia alla presenza» che sarà presentato sabato 26 agosto: perché un percorso esistenziale sia totalmente umano, occorre verificare cosa si desidera nelle radici più intime di se stessi e, nello stesso tempo, scoprire personalmente nella vita della comunità cristiana, la razionalità dell’avvenimento cristiano, ovvero della sua completa corrispondenza a queste esigenze umane. Un percorso razionale, di apertura alla conoscenza del reale, fino al suo significato, per una vera libertà che non è una aspirazione pietistica dell’età giovanile. A cosa apre questa posizione umana e cristiana? Don Giussani disse ai Democratici Cristiani lombardi riuniti ad Assago nel 1987 che movimenti che rimangono nell’astrattezza sono preda dell’omologazione e del potere. In altre parole se la vita che riguarda tutti, cioè la famiglia, gli affetti, il lavoro, gli affari, la vita economica, sociale, politica, non fosse mossa dalla domanda del significato e dall’incontro con Cristo, la fede perderebbe il suo significato. Chi ogni giorno mette a tema il suo rapporto con l’Infinito non vive nell’astrattezza ma, a un certo punto, inevitabilmente, quando si accorge di un bisogno, si muove per cercare di rispondervi. Ciò significa innanzitutto la scoperta della carità come «dono di sé commosso» verso chi si ha intorno nella comunità cristiana e ovunque, che porta a farsi carico del suo destino, fin nei suoi bisogni più materiali. Da questa concezione della persona come unica e irripetibile in quanto nesso diretto con l’Infinito e da questo tentativo di carità quotidiana, sono nate opere intese come risposte organiche al bisogno di tutti, in diversi aspetti dell’agire umano: culturale (il Meeting), caritativo (il Banco Alimentare), di aiuto al lavoro (i Centri di Solidarietà), imprenditoriale. Opere dove il desiderio di vivere la fede crea forme di vita nuova per l’uomo, come disse Giovanni Paolo II al Meeting del 1982. La nascita delle opere è qualcosa di inevitabile in un’esperienza cristiana che si collega alla storia della Chiesa, anche moderna (vedi Opera dei congressi), alla Dottrina sociale della Chiesa e all’operosità italiana che ha dato frutto a una miriade di piccole e medie imprese, ancor oggi alla base del nostro sviluppo. Le opere sono il punto in cui si coltiva l’espressione del cuore, perché non ci si educa semplicemente con discorsi o editoriali sui giornali, ma implicandosi nella realtà e avendo a cuore il nesso tra la propria esperienza e l’ideale che si vive. Ma chi «si muove», non può fare senza giudicare. È inevitabile, quando si agisce, paragonare tutto con le proprie esigenze ultime, alla ricerca della verità nelle cose quotidiane. Da qui è nato un giudizio sulla società, sintetizzato da due aspetti fondamentali. Il primo è la centralità dell’educazione che ha generato l’Appello per l’educazione, lanciato nel novembre 2005 e sottoscritto da molti intellettuali, personalità del mondo accademico ed economico e da migliaia di cittadini. L’Appello sostiene che la grande emergenza da cui è attraversata l’Italia è l’educazione. Senza educazione a una responsabilità che nasca, nella vita quotidiana, dal paragone con i criteri ideali che sono alla radice del nostro Paese (cristiano, socialista, liberale, religioso), non c’è possibilità di vero sviluppo e di vera solidarietà. Senza un’educazione al desiderio di verità, di giustizia, di bellezza nell’agire umano, anche l’istruzione, la ripresa economica o la solidarietà sono vuoti perché ne manca il soggetto. Il secondo aspetto è sintetizzato dallo slogan «più società, meno Stato». Si tratta del principio di sussidiarietà, cardine della Dottrina sociale della Chiesa, che anche con il nostro impegno è entrato nella Costituzione. Esso esprime il desiderio che ogni tentativo di costruzione che nasce “dal basso” possa esistere, che la politica sia tesa a valorizzare l’apporto di ognuno, da cui nasce il benessere di tutti. Non è la politica che salva l’uomo: essa deve essere a servizio delle opere che nascono dal desiderio dell’uomo, dalla libera iniziativa di persone e corpi intermedi, di realtà sociali al servizio del bene comune. Sussidiarietà significa: investimenti in capitale umano che favoriscano la qualità ad ogni livello, vale a dire i «capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi»; una welfare society in cui la libertà di scelta dei singoli e dei gruppi sia accompagnata anche da una maggiore solidarietà; uno sviluppo basato su imprese veramente competitive, piccole o grandi che siano; liberalizzazioni fatte per favorire la libertà e non per generare oligopoli. Di educazione e sussidiarietà si vorrebbe parlare con il Presidente Marini che ha mostrato, nei suoi primi interventi pubblici, sensibilità e interesse verso questi due temi. È il modo per non lasciare nel privato l’uomo nelle sue esigenze ultime e umilmente tentare di vivere la liberazione cristiana in tutti gli aspetti della vita sociale. *Presidente Fondazione per la Sussidiarietà |
Postato da: giacabi a 09:24 |
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educazione, vittadini
LIBERTÀ DI EDUCAZIONE
S.E. REV.MA CARD. ANGELO SCOLA - 17/07/2006
"Educare nella società in transizione": discorso del Patriarca in occasione della Festa del SS. Redentore (Venezia, 16 luglio 2006)
"Educare nella società in transizione": discorso del Patriarca in occasione della Festa del SS. Redentore (Venezia, 16 luglio 2006)
Stralcio dell'omelia:
…….Educare: relazione consapevole della persona con la realtà
Sarebbe illusorio parlare di educazione senza chiamare espressamente in causa tre categorie fondamentali: persona, realtà, libertà. Poiché
è manifestazione sublime di cura, forma piena di “governo”,
l’educazione nasce e vive di rapporti interpersonali. Non vi è cura
senza farsi carico di tutta la persona. E la persona, a differenza del semplice individuo, mette in campo la relazione. Relazione con gli altri secondo una gerarchia di prossimità che, iniziando dai genitori, si dilata alla famiglia, ai vicini, alla scuola, all’università, al variegato mondo del lavoro. Relazione poi con le “cose” ed il cosmo, con le “circostanze” e la storia.
L’educazione è, in sintesi, la capacità di mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà. Tutta la persona e tutta la realtà sono in gioco nel rapporto costitutivo - interpersonale, ma sempre immerso in comunità - tra educatore ed educando. L’educazione è nello stesso tempo questione personalissima ed affare di popolo. Si può ben capire che non vi possa essere educazione senza libertà. Se educare
è “prendersi cura” dell’altro, allora questo significa pro-vocare la
sua libertà ad ospitare la realtà, in un confronto appassionato, a 360
gradi. In questo senso l’educazione esige da tutti gli attori in campo auto-esposizione e testimonianza.
Come afferma suggestivamente la sociologa Margaret Archer «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura» nasce da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore». Il processo educativo del “prendersi cura” evidenzia cioè, le «nostre premure fondamentali» (ultimate concerns) le quali sono «ciò che ci rende esseri morali»
6. Libertà di educazione, misura della democrazia
La solenne azione liturgica che stiamo celebrando è evento paradigmatico di educazione. L’Eucaristia, infatti, si attua nella traditio
che Cristo ha voluto fosse permanente frutto della Sua
auto-esposizione, cioè del sacrificio redentivo della croce che vince la
morte a nostro favore. In quella cena pasquale, presi il pane ed il
vino, li trasformò nel Corpo e Sangue del Suo anticipato sacrificio e
diede ai Suoi l’ordine di fare la stessa cosa in Sua perenne memoria.
Gli Apostoli ed i ministri loro successori ancora oggi continuano a
compiere questo gesto sublime di traditio. Paolo lo descrive in modo incomparabile: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11,
23): una definizione perfetta, e non solo per i cristiani, della
dinamica educativa. Prendersi reciprocamente cura dell’altro e del
legame con lui, dando vita ad un corpo generativo, in grado a sua volta
di prendersi cura dei figli propri e più in generale delle nuove
generazioni consente la realizzazione di una caring society.
Una traditio aperta all’ad-ventura (al futuro), poggiata sulla testimonianza, tesa a che la libertà dell’educando vada incontro al reale con umile curiositas, ne assapori la pienezza, non si blocchi di fronte alla contraddizione e al male suo e degli altri: a questo deve tendere con il contributo della intera comunità di appartenenza ogni comunicazione di sapere. Da quella più elementare e decisiva, che inizia in seno alla vita della famiglia, fino a quella scolastica ed universitaria, via via per tutto il corso della vita.
Se
l’aver cura richiesto ad ogni educazione domanda la capacità di
coniugare libertà - personale e comunitaria - e realtà, allora si
capisce come la libertà di educazione sia un irrinunciabile carattere distintivo di una società veramente libera. Il grado
di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e
dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che
sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo.
La libertà di educazione misura la natura autenticamente democratica e popolare di una società. Di conseguenza giudica
anche la capacità dello Stato di svolgere la sua funzione di promotore e
garante di una società civile in cui le persone e tutti i
corpi intermedi – anzitutto i genitori e le famiglie – in piena libertà
possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di
istruzione e di insegnamento. Ma quest’ultimo
resterebbe velleitario se non fosse accompagnato dal diritto di
costituire delle associazioni e di intraprendere delle attività sociali,
culturali ed economiche.
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