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sabato 11 febbraio 2012

Europa


Jean Leclercq, il benedettino libero nell'obbedienza
 L'Europa convertita dei monaci

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È in libreria il libro di Massimo Borghesi, Maestri e testimoni. Profili filosofico-teologici del '900 (Padova, Messaggero, 2009, pagine 124, euro 13,90), che raccoglie una serie di articoli su figure di filosofi e teologi del Novecento; il volume si chiude con interviste ad Hans-Georg Gadamer, Augusto Del Noce e Jean Leclercq (1911-1993), autore più volte ricordato da Benedetto XVI, che in particolare lo ha citato a Parigi durante l'incontro con il mondo della cultura al Collège de Bernardins. Dell'intervista a Leclercq - svoltasi a Roma il 27 febbraio 1986 e in quell'anno uscita sulla rivista "30giorni" - pubblichiamo un'ampia sintesi.
di Massimo Borghesi e Paolo Vian
Studioso universalmente noto del monachesimo medievale e benedettino egli stesso, Jean Leclercq è l'emblema dell'uomo che coniuga la passione per l'indagine scientifica con la passione per la vita. A lui si devono l'edizione degli Opera omnia di san Bernardo e testi sul monachesimo medievale divenuti fondamentali per chiunque si occupi della storia culturale o religiosa del medioevo, tra cui il suo capolavoro, L'amour des lettres et le désir de Dieu, pubblicato a Parigi nel 1957 e che ha conosciuto molteplici traduzioni. Egli ha voluto intraprendere un cammino del tutto diverso da quello della grande tradizione erudita benedettina incarnata nel Novecento da Germain Morin, Henri Quentin, André Wilmart. In fondo, tutta la vasta opera di Leclercq può essere letta come una testimonianza della sua gioia di essere monaco. E questa testimonianza egli ha voluto renderla spesso personalmente, viaggiando per l'Europa, l'America, l'Asia, e offrendo in tal modo una concezione dinamica della stabilitas benedettina.

Negli anni Trenta la cultura cattolica francese ha avuto una grande stagione con Gilson, Marcel, Maritain, e poi ancora, tra gli altri, Mounier, Claudel, Bernanos. Come ha vissuto questa rinascita culturale? Che peso hanno avuto nella sua formazione quei poeti, romanzieri, pensatori che creavano e riflettevano a partire dalla fede?

Nella situazione di disorientamento dell'Europa e della Francia tra le due guerre questi grandi spiriti - Claudel! Ho letto molto di lui, e non solo la sua opera poetica ma anche il Claudel filosofo-teologo - ci confermavano nella fede: questo forse è il loro più grande contributo. Esprimevano cose che noi tutti pensavamo, ma il loro genio, letterario, artistico, dava espressione a ciò che in noi era solo intuizione e presentimento. Questo ci confermava nella fede e ciò era motivo di gioia profonda, poiché sapere perché si crede è fonte di grande gioia. Così, oggi abbiamo bisogno di maestri i quali non si limitino a mettere in questione e a creare problemi ma ci confermino nella fede.

Come è maturata la sua vocazione religiosa e intellettuale?

Avevo quindici anni quando decisi di farmi monaco. Clandestinamente, all'insaputa dei miei genitori, feci il mio primo soggiorno presso l'abbazia di Clervaux, in Lussemburgo, ove poi entrai a diciassette anni. Dopo il noviziato e il servizio militare, mi recai a Roma dove studiai per quattro anni a Sant'Anselmo, passando a Parigi per la tesi di laurea in teologia.

Su quale argomento?

Il tema riguardava un trattato di teologia politica della fine del XIII secolo, intorno alla controversia tra Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo il Bello. La Chiesa, l'indagine ecclesiologica, mi aveva sempre attratto. Così, pubblicai poi il trattato di Giovanni di Parigi sulla teoria del Papa e del re, nonché vari articoli di ecclesiologia.

E dopo la tesi?

Ho passato quattro anni come addetto al reparto manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi e ho potuto studiare manoscritti di grande interesse, che via via pubblicavo. Si è così aperta una parentesi di cultura umanistica che non si è più richiusa. È stato viaggiando per le biblioteche di mezza Europa che ho avuto la possibilità, in Svizzera, di scoprire testi inediti di san Bernardo, di cui in seguito curai l'edizione delle opere. Il mio riferimento in questo peregrinare nello studio è sempre rimasta la comunità di Clervaux.

Ci sono nella sua biografia persone che lei considera come maestri?

Certo. Ho avuto buoni maestri. Vorrei ricordare innanzitutto il mio professore di dogmatica a Sant'Anselmo, il benedettino Anselm Stolz, un vero pioniere che nello studio sul trattato de Ecclesia spalancava orizzonti che troveranno conferma nel concilio. E poi all'École de Études Supérieures e all'Institut Catholique di Parigi: Charles Samaran, paleografo, Louis Halphen, medievalista, Jules Lebreton, storico della Chiesa; e ancora, il gesuita Yves de Montcheuil, ucciso dalla Gestapo durante la Resistenza. Tra tutti, un ricordo particolare è per Étienne Gilson, di cui seguii i corsi a Parigi e con il quale poi divenimmo amici.


Che corso teneva Gilson quando lei seguiva le sue lezioni?


L'argomento riguardava lo svolgimento dell'idea agostiniana di "città di Dio" nel corso dei secoli. Il tema, tornerà poi nel suo studio Les métamorphoses de la Cité de Dieu (1952).


Gilson ha avuto una qualche influenza sulla sua attività storiografica?

Sul piano personale fu Gilson che mi incitò, quando ero ancora incerto fra varie direzioni di ricerca, a dedicarmi alla cultura monastica. Sul piano storico devo a lui non tanto delle conoscenze particolari quanto il senso della persona umana che egli sapeva comunicare nel suo insegnamento e nei suoi studi. Tanti storici studiano i testi, identificano il chi, il quando e così via, ma una volta fatto questo non si chiedono chi sia l'uomo che sta dietro i fatti descritti, come viveva, cosa pensava. Gilson invece ogni volta che trattava di Abelardo, Bernardo, Dante, Tommaso, aveva di mira la persona. Da questo punto di vista egli ha contribuito a fare maturare il mio interesse per l'umano. Mi sono ripromesso, dalla mia giovinezza, di non essere mai un intellettuale, uno di questi eruditi che sanno tutto, ma non cogliere l'umanità dell'uomo. Devo a Gilson questo senso dell'umano, questo "umanesimo" nella ricerca.


Altre figure, oltre ai suoi diretti maestri, hanno rivestito importanza per lei?


Certo. Una è sicuramente stata Jacques Maritain, che ci aiutava a cogliere la direzione di marcia della Chiesa dentro i problemi del tempo. Così, fu per me essenziale il suo chiarimento a proposito della posizione di Roma al tempo della condanna dell'Action Française da parte di Pio XI. Ancora, importanti furono le sue prese di posizione al tempo della persecuzione nazista contro gli ebrei. Sul tema della persecuzione devo molto anche a un grande studioso espulso dalla Germania: Erik Peterson. Sul piano filosofico la corrente speculativa che ho avvertito più vicina è stata quella della philosophie de l'Esprit, con Marcel, Lavelle, e via dicendo. In particolare Gabriel Marcel: seguivo le sue conferenze e ho soggiornato con lui in Marocco. Ricordo, tra le sue opere, Être et avoir e Position et approches concrètes du mystère ontologique. Mi colpiva della sua riflessione il nesso tra persona e comunione: quello che fa la persona è la capacità di comunione. Ciò che è autentico non è quindi l'individualismo, che radicalizzato porta all'assurdo (Sartre), ma l'esigenza di essere in comunione, di essere comunione, di creare legami. Qui mi si è chiarita, sul piano teorico, l'importanza dell'amicizia. Io ho sempre avuto molti amici, ho sempre creduto molto nell'amicizia perché creare dei gruppi di amicizia, incontrarsi, cambia la vita. Tra i grandi amici, voglio qui nominare in particolare padre Congar e padre de Lubac.

E Thomas Merton?


È un'altra delle grandi amicizie che ho avuto. L'ho conosciuto già prima di andare in America, mediante corrispondenza. Era molto curioso, pur non essendo uno storico. Era una personalità molto equilibrata, allegra, niente del Merton drammatico come oggi è di moda pensare. Era un grande monaco.

Veniamo alla sua attività di storico. Nel 1957 uscivano contemporaneamente in Francia due libri: la sua opera fondamentale, L'amour des lettres et le désir de Dieu, e La théologie comme science au xiiie siècledi padre Marie-Dominique Chenu. Lei sottolineava il valore autonomo della teologia "monastica", contemplativa ed esperienziale, diversa da quella "scolastica", tendenzialmente formale e metodica, mentre il maestro domenicano insisteva sulla positività del metodo scolastico, nonché sulla fecondità della rivoluzione mendicante di fronte all'incapacità monastica di cogliere la nuova civiltà urbana, e non più feudale, che si veniva profilando. Le due versioni allora apparvero come alternative. Lo sono realmente?

Direi di no, direi piuttosto che sono complementari. Aggiungo che personalmente, come storico, diffido di un uso troppo spinto delle categorie sociologiche come criteri esplicativi. Quindi, il contrasto tra mondo rurale e mondo cittadino, feudale e comunale, è vero, ma non sufficiente a chiarire la differenza tra l'esperienza monastica e quella dei nuovi ordini mendicanti. Per averne una singolare controprova basti osservare come oggi siano più letti gli autori monastici, in primis san Bernardo, che quelli scolastici, le cui opere pure apparterrebbero a una civiltà urbana analoga alla nostra. Questo non toglie nulla all'ammirazione e alla stima che personalmente nutro per l'opera del più grande scolastico: Tommaso d'Aquino. Voglio dire - per questo parlo di complementarità - che nella vita della Chiesa non tutti possono fare tutto: a ognuno secondo il suo carisma. Così la vita monastica non ha per compito primario quello di evangelizzare le città; essa è una vita di preghiera e di dedizione totale a Cristo che, in quanto tale, ha la sua legittimità. Detto ciò, è chiaro come l'identità monastica non sia tutto nella Chiesa e come gli ordini mendicanti, specialmente i domenicani, abbiano svolto una nuova e preziosa forma di servizio.

La sua nozione di "complementarità" vale anche per il rapporto tra vita "attiva" e vita "contemplativa"?


L'Europa è stata convertita da monaci che facevano vita contemplativa. Uno di loro che più ha contribuito a questo fatto, Beda il Venerabile, non è mai uscito dal suo monastero. In effetti, il problema del rapporto tra contemplazione e azione non può mai avere una soluzione definitiva; il nodo può sciogliersi solo nella vita di ognuno. Occorre essere attivi nella contemplazione, nel senso che fine della preghiera non è l'autogodimento personale bensì, in termini cristiani, il suo situarsi dentro il mistero della comunione ecclesiale. Questo non è fuggire la storia, come oggi si ama dire.

La distinzione, in L'amour des lettres et le désir de Dieu, tra una teologia affettiva e una tendenzialmente razionalistica pare avere una realtà, sia pure in una forma nuova, anche nell'epoca moderna. Von Balthasar, nel saggio "Teologia e santità" contenuto in Verbum Caro, accenna a un dualismo moderno tra una teologia dogmatica separata dall'esperienza di fede, da una parte, e una nozione sentimentale della fede (la devotio moderna), dall'altra. Ora, questa distinzione corrisponde solo formalmente a quella medievale, poiché sia la teologia monastica che quella scolastica coniugano assieme, sia pure con accentuazioni diverse, esperienza e dogma. Non le sembra che il compito attuale della teologia stia proprio nel ricomporre assieme questi due momenti divisi nell'arco della modernità?

Innanzitutto mi rallegro della citazione di von Balthasar, che per me è anche un grande amico. Certo, credo pure io che la meta stia nell'incontro di questi due fattori. I più grandi teologi sono stati, insieme, acuti pensatori e uomini per i quali la fede era una reale esperienza di vita. Oggi l'opera di de Lubac, Congar, Balthasar porta la chiara impronta di questa sintesi. Io penso che la teologia debba condurre alla contemplazione, alla preghiera, all'ammirazione. Una teologia così concepita non è iniziata certo nel XII secolo, è ben presente in tutta la tradizione della Chiesa. Nel medioevo le grandi personalità sono al contempo metafisici e mistici, basti pensare a sant'Anselmo, san Bernardo, san Bonaventura, san Tommaso. È dopo Tommaso - secondo quanto pensava anche Gilson - che il rapporto si incrina e il pensiero perde il contatto con la verità dogmatica.

Lei attribuisce molta importanza al momento dell'"esperienza" nella fede. In L'amour des lettres et le désir de Dieu, a proposito di san Bernardo lei afferma che "la grande parola non è più quaeritur ma desideratur; non è più sciendum ma experiendum".

Sì, questo concetto fa parte in modo particolare della tradizione monastica. Non si può intendere la teologia di san Bernardo senza il riferimento a un'esperienza che la sottende. Nel primo dei Sermoni sul Cantico egli asserisce esplicitamente che un "Cantico di questo genere solo l'unzione lo insegna, e solo l'esperienza lo apprende. Quelli che non ne hanno l'esperienza, ardano dal desiderio, non tanto di conoscere, quanto di esperimentare". Il cristianesimo non è, in primo luogo, una teoria. Cristo è una realtà per cui tutto sta nella partecipazione alla sua vita.


Veniamo ora alla realtà del monachesimo oggi. Oltre al monachesimo cristiano, ve n'è anche uno non cristiano. Cosa pensa del dialogo tra le due forme e di certe espressioni di inculturazione da parte cattolica?

Soprattutto le grandi religioni dell'estremo Oriente - per la cui comprensione molto si deve agli studi di de Lubac - sono quasi tutte monastiche. Perciò l'incontro con esse, da parte cristiana, sarà in primo luogo l'incontro dei monachesimi. Ciò però non implica mettersi alla loro scuola, come se noi non avessimo una grande tradizione di fede e di preghiera. Per cui nel dialogo occorre evitare ogni rischio di sincretismo. Non possiamo mettere Cristo tra parentesi. No, Cristo bisogna proclamarlo. Questo, come vuole Giovanni Paolo II, è il punto fermo su cui non possiamo fare concessioni. Dunque dialoghiamo e confrontiamoci, ma conserviamo la nostra identità poiché loro hanno il diritto di sapere ciò in cui noi crediamo.

Avrà il monachesimo un futuro nella moderna società degli affari, dominata dall'ideale dell'homo faber?


Se il monachesimo è passato attraverso quindici secoli di crisi successive, perché dovrebbe finire? Ma soprattutto se esso esprime una forma reale di servizio dentro la Chiesa, un suo momento essenziale nella misura in cui mantiene presente nel mondo un aspetto di Cristo, la sua fine non coinciderebbe forse con un grave impoverimento della stessa Chiesa?


Un'ultima domanda: qual è, a suo giudizio, l'essenza della libertà benedettina?


La libertà benedettina è la libertà cristiana. Essa consiste primariamente in un consenso all'essere, a Dio, così come fa Cristo nel Getsemani. La vita monastica, improntata alla Regola di san Benedetto, è una scuola di vita in cui si è educati a essere liberi. Liberi dentro un'obbedienza. Questo è infatti il mistero della vita cristiana: più si obbedisce più si è liberi.

©L'Osservatore Romano - 30 dicembre 2009
da:  http://segnideitempi.blogspot.com



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europa, medioevo

martedì, 23 febbraio 2010

La nascita dell’Europa
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Era, secondo la tradizione, l'anno 529, data memorabile, se più di un dubbio non ne mettesse in forse l'esattezza. Il monte «a cui Cassino è nella costa» si levava allora selvoso, coronato da un antico tempio d'Apollo e, intorno, dai boschetti dedicati agli dei, dove salivano i contadini con le offerte agresti e con le vittime sacre. Con l'impeto e col gesto famoso dei martiri, Benedetto fece distruggere il simulacro del dio, rovesciare l'altare, abbattere i boschi, e «sul luogo del tempio edificò un oratorio dedicato a San Martino, e all'ara di Apollo sostituì un altare dedicato a San Giovanni. Quindi con assidua predicazione chiamò alla fede la moltitudine dei paesi vicini».
La selva risuona dell'opera dei monaci, a cui egli soprintende. S'atterrano gli alberi, si squadra la pietra, si spiana e si scava il terreno, si gettano le fondamenta. Un muro che crolla seppellendo un monachino, un macigno che non si riesce a smuovere nonostante tutti gli sforzi, danno in quel recesso di paganesimo la certezza, suscitano la visione del nemico, giurato ad impedire l'opera santa, sempre protervo e sempre sconfitto. Ed ecco sorgere il monastero: l'oratorio, la biblioteca, il dormitorio, il refettorio, la foresteria, il forno e il molino, la cucina e la lavanderia, le officine, e l'orto, e il cimitero, e la torre sul dinanzi; donde il Santo tra cure e letture, meditazioni e preghiere, veglierà sull'ingresso del chiostro; donde avrà la visione del mondo intero compendiato in un raggio di sole, dell'anima del vescovo Germano e della sorella Scolastica, che salgono in cielo.
Ed ecco la famiglia costituita: i fratelli, i decani, ai quali «per il merito della buona vita e per la cognizione della vera sapienza», «l'abate affida una parte dei suoi pesi»; il preposito che gli sta a fianco, per la fiducia sua e dei fratelli; il cellerario, un monaco sobrio, alacre, saggio, che custodisce e amministra ogni cosa; il vecchio portinaio, assennato; i novizi, entrati volontari nel monastero od offerti dai parenti, che prima della professione definitiva s'addestrano sotto la guida dei decani alla disciplina monastica. Nessuno può allontanarsi senza il consenso o l'ordine dell'abate.
Totila davanti al Santo
Bussano alla porta uomini d'ogni sorte: il povero debitore perseguitato in cerca di danaro; il goto Zalla, «ariano arrabbiato contro tutti i servi di Dio», che si spinge avanti al cavallo il misero agricoltore a cui vuoi strappare il suo avere; il suddiacono Agapito che viene a chiedere la carità di un po' d'olio in tempo di carestia; il nobile che accompagna il figlio malato in cerca di guarigione; il contadino che porta il figliolino morto sulle braccia e implora di farlo risuscitare; il fratello del monaco Valentiniano o l'abate Servando, che vengono in pellegrinaggio per devozione verso il Santo.
Non v'è più dispersione: la grande luce irraggia ferma dal monte e illumina tutto il paese dintorno. Quando Benedetto è pregato da un devoto di fondare un monastero in un suo podere vicino a Terracina, egli esaudisce il desiderio; ma non scende -come i figli avevano creduto- a dare il suo consiglio sul modo di costruire l'oratorio, il refettorio, la foresteria. Il rumore del mondo, l'ambizione dei re, la trepidazione della guerra che infuria intorno a Roma, sulla misera Italia, tutto è lontano, se non quanto ne porta la carestia, o la voce dei pellegrini, come il vescovo di Canosa, o lo stesso Totila che marcia contro la Città. Il re fa annunciare la sua visita e gli si risponde dal monastero che sia il benvenuto. Ma egli vuol metter prima alla prova la virtù miracolosa del Santo, e fa indossare le vesti regali al suo portaspada di nome Rigone, affinchè gli si faccia innanzi accompagnato da tre fra gli uomini più cospicui del suo seguito. Senonché, erano giunti appena a portata di voce, quando: «Deponi, figlio, deponi ciò che porti; non è tuo», odono gridare dall'alto della torre, e si prostrano a terra, sbigottiti che l'inganno sia stato scoperto. Tornano quindi subito al re, che ora muove di persona verso il monastero. Totila s'inginocchia davanti al Santo; questi si alza, gli si fa incontro e lo invita a levarsi; poi lo riprende dei danni che ha fatto e che va facendo, lo invita a ravvedersi, gli predice la presa di Roma, il passaggio del mare, la morte. E il re, sbigottito, se ne parte dopo essersi raccomandato alle sue preghiere.
…….La comunità monastica
 La comunità monastica è concepita sotto due aspetti, che si fondono in uno ed hanno come principio comune l'amore verso gli uomini e verso Dio: essa è scuola del servizio divino ed è famiglia. Il maestro vi si chiama signore, abate, padre e fa le veci di Cristo; gli anziani che sovrintendono sono detti familiarmente ed affettuosamente i nonni; i discepoli, fratelli. Il fratello che debba mettersi in viaggio si raccomanda alle preghiere di tutti ed è ricordato quotidianamente nell'ultima orazione dell'ufficio divino. Tutti possono entrare a far parte della comunità, il servo e il libero, il Goto e il Romano, purché se ne mostrino degni nell'anno di noviziato e vi si obblighino con voto solenne, consegnato in un documento sottoscritto, deposto sull'altare e conservato nell'archivio del monastero. Una famiglia siffatta non consente dispersioni o diserzioni, e chi ha pronunciato il voto, si è vincolato alla perpetua «stabilità», salvo, come s'è detto, in casi eccezionali, il consenso e l'ordine dell'abate. La legge che governa questa convivenza, è una sola, semplicissima e quasi irraggiungibile nella sua compiutezza: l'amore, tutto l'amore, escluso l'amore di se stessi, cioè la totale rinuncia ai propri voleri, l'abnegazione di sé in Dio e nel prossimo: nei fratelli, nei novizi, negli oblati, nell'ospite che batte alla porta, chiunque egli sia, poiché nell'ospite si accoglie Cristo. Nell'ordine gerarchico non vale l'età, ma l'anzianità di professione monastica e la discrezione dell'abate, che può promuovere e chiamare agli uffici l'uno o l'altro secondo i meriti della vita e la saggezza. Il monastero è, per così dire, una repubblica autoritaria che nell'abate venera Cristo, una repubblica dove tutti possono e talvolta debbono esser chiamati a consiglio, dove nessuno conta come persona, e dove uno solo può volere. Ma non v'è passo dove questa autorità dell'abate sia affermata, senza che immediatamente si richiami la sua responsabilità formidabile, per le anime che gli sono affidate, e di cui dovrà rendere conto dinanzi a Dio.

«Ecco, lavora e sta' allegro»


Dato che
il chiostro è essenzialmente famiglia e scuola del servizio divino, il centro della sua vita è costituito dall'ufficio liturgico, celebrato notte e giorno in comune, nelle ore stabilite. La preghiera individuale, scevra di clamorose manifestazioni esteriori, dev'essere breve, muto linguaggio del cuore, pianto cocente, più che suono di parole; le volontarie pratiche ascetiche vanno sottoposte all'approvazione dell'abate. E poiché l'ozio è nemico dell'anima, «debbano i fratelli occuparsi in certe ore del giorno nel lavoro manuale e in altre attendere alla lettura delle cose divine».

Ecco dunque l'esistenza del monaco: pregare, leggere, lavorare.
Immagine scialba, se non la facciamo vivere dello spirito che il Santo voleva infondere nella sua creazione. Ricordate le parole di Benedetto, dopo aver restituito la roncola caduta nel lago al buon Goto, che mondava il campicello dai rovi? «Ecco, lavora e sta allegro». Può essere un simbolo. Nessuno deve contristarsi per colpa altrui, nessuno deve contristare il fratello. Il cellerario provveda con sufficienza e con prontezza, sì che nessuno abbia motivo di lagnarsi, e se non può dare, risponda almeno con una buona parola, poiché «siccome sta scritto, una buona parola vale più di un ottimo dono». A coloro che ne abbisognano, si provvedano aiuti per il lavoro, affinchè non siano amareggiati. Tutte le scorie, tutte le cattive passioni vanno rimosse dal monastero, tutto ciò che può turbare l'armoniosa comunanza della scuola e della famiglia divina.

Con un accento più alto del consueto si condanna, sia il vagabondaggio dei monaci, l'immensa rovina di chi presuma di riferire ciò che ha udito o veduto fuori del monastero, sia la peste del possedere: «Principalmente questo vizio è da sradicare: che niuno ardisca di dare o ricevere alcunché, senza l'ordine dell'abate, né avere cosa alcuna di proprio, assolutamente nessuna cosa, né codice, né tavolette, né stilo, addirittura nulla; come coloro ai quali non è lecito valersi a proprio arbitrio, né del loro corpo, né della loro volontà. Tutte le cose siano comuni a tutti, come sta scritto, e nessuno osi dire o pensare che una cosa sia sua».

Ma con energia e insistenza affatto singolari
si condanna la «mormorazione», la ribellione sorda, l'animo in contrasto col viso. Non sarà lecito mormorare neppure a colui «al quale per avventura s'ingiungano cose gravose ed impossibili». Egli dovrà accogliere sempre con tutta tranquillità e obbedienza l'ordine di chi comanda. Al più, potrà «esporre al superiore con pazienza e a tempo debito le ragioni della sua impotenza, senza montare superbia o resistenza o contraddizione. E se, dopo le sue parole, l'ordine non verrà revocato, sappia che così gli convien di fare e obbedisca per amore, rimettendosi all'aiuto di Dio».
Da: Giorgio FALCO La Santa Romana Repubblica, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, cap. V.
La relazione del prof. Negri al convegno del 14 novembre 2002


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europa, san benedetto

mercoledì, 06 gennaio 2010

L’Europa
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«Nel Medioevo l’unità europea poggiava sulla religione comune. Nell’epoca dei Tempi moderni cedette il posto alla cultura (…) che diventò la realizzazione dei valori supremi attraverso i quali gli europei si riconoscevano, si definivano, s’identificavano. Oggi la cultura cede il passo a sua volta. Ma a che cosa e a chi? Qual è l’ambito nel quale si realizzeranno dei valori supremi in grado di unire l’Europa? Le conquiste tecniche? Il mercato? La politica con l’ideale della democrazia, con il principio della tolleranza? Ma questa tolleranza, se non protegge più nessuna creazione ricca e nessun pensiero forte, non diventa vuota e inutile?»
 Milan Kundera, L’arte del romanzo

Postato da: giacabi a 09:24 | link | commenti
europa

sabato, 16 agosto 2008

L’Europa senza il cristianesimo
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"Per me non c'è politica che non sia contemporaneamente religione. La politica serve la religione. La politica senza la religione è una trappola per gli esseri umani, perchè uccide l'anima. Sono fermamente convinto che oggi l’Europa non stia mettendo in pratica lo spirito di Dio e del cristianesimo, bensì lo spirito di Satana"
Mahatma Gandhi

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