Dobbiamo ringraziare di più chi ci fa essere
***
«Ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere. Sono consapevole che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso».***
Gian Piero Steccato
Gian Piero è da più di dieci anni un uomo completamente paralizzato (a parte il dito mignolo), muto, cieco, mezzo sordo e attaccato ventiquattro ore su ventiquattro a un respiratore artificiale
La gente si lamenta sempre delle cose brutte che gli capitano senza che se le sia meritate ma non parla mai delle cose belle. Di cosa ha fatto per meritarle. Io non ricordo di aver mai dato a nostro Signore motivi particolari per sorridermi. Però lui mi ha sorriso.
Cormac McCarthy (1933 – vivente), romanziere statunitense. da:Non è un paese per vecchi (p. 74)
Postato da: giacabi a 07:57 |
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eutanasia, cormac mccarthy
"Desidera morire soltanto chi non si sente amato"
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di Raffaella Frullone
24-02-2011
“Chi chiede di morire,
in fondo, non si sente amato, si sente un peso, non vede affetto
attorno a sé. Lo capisco stando accanto a mio marito, basta un giorno in
cui mi percepisce un po’ più stanca, leggermente distante e lui diventa
triste. L’amore si trasforma in vita per queste persone”.
Riusciamo a parlare con Mariagrazia Corno solo in tarda serata, dopo averla cercata un giorno intero al cellulare “Sono stata in fiera ad aiutare mio figlio – racconta – poi sono tornata a casa per accudire mio marito e solo ora sono riuscita a rispondere”. Dalla voce si percepisce la stanchezza di una vita spesa per gli altri, ma insieme l’entusiasmo di chi non potrebbe o non saprebbe fare altro. Madre di 3 figli, nonna di 5 nipoti, Mariagrazia è soprattutto la moglie di Piergiorgio Corno, 67 anni, da 17 malato di sclerosi laterale amiotrofica. Ex giocatore di calcio, Piergiorgio vive con la moglie nel comasco. La chiamiamo per farci raccontare la loro vita, la lotta che ogni giorno conducono insieme, per sapere cosa pensano delle parole di chi, come Roberto Saviano e una certa parte politica, vorrebbe introdurre in Italia una legislatura di tipo eutanasico per giungere, infine, alla legalizzazione dell’ eutanasia. Ma parlare di scelte di morte con Mariagrazia ci risulta quasi impossibile perché veniamo travolti dalla sua vitalità che ci fa percepire quando le sue giornate, insieme a quelle di suo marito, siano straordinariamente intense.
Eppure stiamo parlando
di sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa
progressiva che colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose
cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della
muscolatura volontaria. Una malattia invalidante, che nella sua forma
più avanzata costringe il paziente a stare allettato, con gravi
difficoltà di movimento, impossibilità all’uso della parola oltre che a
deglutire.
“I primi sintomi
– racconta Mariagrazia – sono stati legati alla parola. Mio marito
faceva il rappresentante per la nostra attività vinicola e cominciava a
non articolare bene i vocaboli, una cosa per lui decisamente inusuale.
Quando abbiamo accertato che non si trattava di un fastidio passeggero è
iniziata la trafila dei controlli, da un medico ad un altro da uno
specialista all’altro fino alla diagnosi: sclerosi laterale amiotrofica.
Un termine che a noi non diceva nulla, che al momento non ci ha
spaventato poiché nessuno ci aveva spiegato il decorso della malattia e
soprattutto, anche se lo avessero fatto non ci avremmo creduto”.
Mariagrazia e Piergiorgio
decidono di consultare un cugino medico ed è allora che cominciano a
intravedere il cammino lungo e difficile che avrebbero percorso: “Quando
ho visto l’espressione nei suoi occhi ho intuito che la nostra vita
sarebbe cambiata”. E in effetti è stato così. Mariagrazia e Piergiorgio
fanno avanti e indietro dai più importanti ospedali italiani, consultano
medici, scrivono a specialisti, si recano a convegni, divorano libri e
navigano sul web in cerca di una cura che, inevitabilmente, non arriva.
Ma non si arrendono e non escludono nemmeno la medicina alternativa, la
riflessologia, nessuna strada rimane intentata ma ogni speranza –
racconta oggi Mariagrazia – si trasformava inevitabilmente
nell’ennesima, terribile, delusione.
Quando Piergiorgio si ammala la
più giovane dei loro tre figli ha solo 15 anni, va alle scuole
superiori metre i due fratelli maschi sono universitari. Accanto alle
cure, si rendeva quindi necessario continuare a provvedere alle esigenze
della famiglia ed ecco che Mariagrazia decide di affiancare il marito
nell’attività lavorativa “Piergiorgio aveva difficoltà a camminare
quindi io, piano piano, a braccetto lo accompagnavo dai clienti che nel
frattempo cominciavo a conoscere”. Sarà stato un periodo molto duro,
osserviamo, e Mariagrazia ci sorprende “L’anno più bello della mia vita.
Stavamo sempre insieme, incontravamo clienti, andavamo a trovare gli
amici. Era una cosa inusuale perché la nostra vita era stata del tutto
diversa fino ad allora. Piergiorgio era fuori tutto il giorno per
lavoro, il week end era impegnato con il calcio ed io sempre presa con
la casa e tre figli da crescere. L’anno della malattia è stato difficile
ma al contempo meraviglioso perché ci siamo presi un anno tutto per noi
e lo abbiamo vissuto a pieno”.
Non sono mancati i momenti difficili.
La malattia comincia presto il suo decorso, arriva la sedia a rotelle,
poi la tracheotomia, il sondino naso-gastrico e con essi la necessità di
strutturare meglio la casa, di rivedere le priorità della vita
quotidiana, di familiarizzare con la malattia, di iniziare a comunicare
in maniera diversa. Come era prevedibile Piergiorgio si scoraggia.
Riesce a comunicare grazie ad un pannello trasparente sul quale sono
fissati simboli, lettere o numeri e grazie a questo scrive numerose
lettere. In una di queste si legge:
“Nella primavera ’99 avevo deciso che non valeva la pena di continuare a
lottare, anche se, nel mio intimo non ne ero convinto. Avevo i polmoni
vuoti che cercavano disperatamente aria che non arrivava, ma in casa
respiravo tanta aria speciale fatta di presenza di affetto e tanto amore
dei tre figli e di mia moglie Mariagrazia, anche dei tanti amici, che
mi hanno fatto rivedere i miei programmi. Le suppliche accorate dei miei
cari: “Rimani con noi”, mi hanno commosso. In un attimo ho rivisto la
vita passata assieme, con le tante gioie che Dio ci ha donato e ho
deciso di continuare a vivere sottoponendomi alla tracheotomia,
consapevole di aver rubato la libertà a mia moglie e ai miei figli. Non è
stato facile accettare di vedere spegnersi progressivamente la vita nei
miei muscoli. Ma come sono riuscito a distaccarmi dal mio corpo, ormai
inutile, ho avuto il conforto di una inaspettata e pacata serenità, che
pian piano si è impadronita, senza che me ne rendessi conto, di tutto
il mio essere. Da quel momento è iniziata per me una vita nuova”.
Anche per Mariagrazia
è iniziata una vita nuova, ma in un altro momento. “Ho cominciato a
stare bene quando ho smesso di sperare nella guarigione. Quando ho
smesso di cercare disperatamente di riportare mio marito in piedi. Ecco,
allora ho cominciato a vedere quello che ancora avevo, e a gustarmelo.
In questi anni è vero abbiamo lottato molto insieme, ma abbiamo anche
continuato a vivere la vita di tutti i giorni insieme. Abbiamo visto i
nostro 3 figli laurearsi, sposarsi, abbiamo visto i nostri cinque nipoti
nascere e crescere, abbiamo lavorato insieme perché, nonostante tutto,
in casa è mio marito che comanda”. Si commuove a tratti Mariagrazia, ma
non perde la voglia di scherzare “Non ho mai visto una persona che non
parla, chiacchierare quanto mio marito. Commenta la politica, il calcio,
esterna le sue opinioni, ci chiama, si arrabbia, reclama attenzione,
racconta, descrive, a volte sono io quella esausta”.
Siete credenti? Chiediamo
a Mariagrazia. Lei tentenna. “Mio marito più di me… io sì, ma meno, non
come lui. Io sono un po’ come Marta, che nel Vangelo si occupa di
rassettare la casa e sistemare”. “Che non è certo un ruolo di poco
conto” obiettiamo. Ma percepiamo che la generosità di questa moglie è
così grande da essersi trasformata in umiltà. “Io credo sia insita nel
cuore di ogni donna. Quando avevo 20 anni mi sentivo molto vicina al
femminismo, rivendicavo la mia libertà, la mia indipendenza come donna,
lavoratrice e madre, non volevo un ruolo secondario rispetto a quello di
mio marito, la Sla mi ha condotto pian piano alla riscoperta del mio
essere donna, essere madre. Credo che il prendersi cura non sia solo un
atteggiamento naturale della donna, ma anche una predisposizione
dell’animo. Non che l’uomo non ne sia capace, tutt’altro, però in questi
anni ho visto e sperimentato come si riscopre e si trasforma l’istinto
materno”.
Prima di congedarci da
Mariagrazia torniamo sul tema eutanasia. “Per me non esiste e non è mai
esistita un’altra scelta. Non le posso raccontare lo strazio di chi è
combattuto tra voler vivere o voler morire, perché se mio marito l’ha
provata, io, per lui, mai. Sono sposata con lui da una vita, tutto
quello che ho affrontato e che affronto, per difficile che sia, è frutto
dall’amore che provo, nient’altro. La malattia da sola non conduce al
desiderio di morte, ma la mancanza d’amore sì”.
Postato da: giacabi a 16:28 |
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eutanasia
Il suicida
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"Il
suicidio non è solo un peccato, è il peccato. È il male supremo e
assoluto, il rifiuto di qualsiasi interesse per l’esistenza, il rifiuto
di prestare fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide
un uomo. L’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: annienta
il mondo. Il suo gesto è peggiore (dal punto di vista simbolico) di
qualsiasi stupro o attentato dinamitardo. Perché distrugge tutti gli
edifici ed offende tutte le donne. Il ladro è appagato dai diamanti, il
suicida non lo è: questo è il suo crimine. Non si lascia corrompere
nemmeno dalle pietre sfolgoranti della Città Celeste. Il ladro esalta
gli oggetti che ruba, se non il loro proprietario. Ma il suicida insulta
tutto ciò che esiste al mondo non rubandolo. Rifiutando di vivere per
amore di un fiore, guasta tutti i fiori. In tutto l’universo non c’è una
sola creatura minuscola per la quale la sua morte non sia una beffa. Quando
un uomo s’impicca a un albero, le foglie potrebbero cadere incollerite e
gli uccelli volare via furiosi, poiché ognuno di essi ha ricevuto un
affronto personale"."Il suicida, ovviamente, è l’opposto del
martire. Un martire è qualcuno che ama così tanto qualcosa che sta fuori
di lui da dimenticare la propria vita. Il suicida è un uomo che ama
così poco qualsiasi cosa stia fuori di lui da desiderare di vedere la
fine di tutto. Il primo vuole che qualcosa cominci, il secondo vuole che
tutto finisca. In altre parole, il martire è nobile, proprio perché
(per quanto rinunci al mondo o detesti tutta l’umanità) confessa questo
estremo legame con la vita e pone il suo cuore fuori da se stesso: muore
affinché qualcosa possa vivere. Il
suicida è ignobile perché non possiede tale legame con l’esistenza: è
un semplice distruttore, personalmente distrugge l’universo".
Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia
Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia
Postato da: giacabi a 05:50 |
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eutanasia, chesterton
L'ANGELO GOVINDO
***
Siete
venuti in tanti a onorare mio figlio e allora, sfidando le lacrime in
agguato e la voce malferma, voglio dirvi qualche parola al cospetto di
Govindo. Quella di Govindo è stata una storia avventurosa, drammatica,
bellissima e misteriosa. E interrogando questo mistero
in questi giorni mi si è fissata in cuore l’immagine, indelebile, di
venerdì scorso, il giorno della morte: tutta la mia famiglia in
ginocchio, in lacrime e in preghiera, attorno al letto di Govindo che ci
lasciava. Ecco dunque una prima risposta, un primo pezzo di quel
mistero: Govindo, come una lanterna viva, ha tenuto insieme la mia
famiglia. Poi in quella stessa immagine ho visto anche un piccolo
patriarca che, dal suo letto di morte, con i suoi occhi da bambino
posati su di noi benchè mezzi nascosti da una maschera ad ossigeno non
adatta per il suo piccolo viso, diceva: vi ho rifornito di amore fino ad
oggi, continuerò a farlo anche dopo. E’ per questo che non di strazio
vi voglio parlare ma di gratitudine. E ho tanti grazie da dire.Innanzitutto grazie Te Signore della vita, che hai chiamato all’esistenza Govindo, senza di Te Govindo non poteva esserci. Tu gli hai disegnato un destino pieno di sorprese, scritto con tante matite colorate, con tante persone. E ci hai anche ridetto attraverso di lui il Tuo sistema preferito, il Tuo trucco per farTi trovare: Tu nascondi le gemme più preziose della Tua creazione in involucri da poco (anche se Govindo era bellissimo), poveri, fragili, malati. In involucri spesso rifiutati. Come disse la sister all’orfanotrofio a Calcutta a mia moglie Marina: non prendete un bambino sano, prendete uno di quelli che nessuno vuole. E che affare abbiamo fatto! Grazie Signore.
Grazie alla Madonna, che in tutti questi anni, densi di problemi e di tribolazioni, che non sono mancate, ed anche di gioie e di allegria, non ci ha mai fatto mancare nulla, ha tenuto tutta la mia famiglia sotto il Suo manto protettivo. Ci tengo a ringraziarla qui, in questa chiesa dedicata alla Vergine del Carmelo, alla Madonna della Traspontina, di cui sono devoto perché è la mia parrocchia. E, dovete sapere, che Govindo ha avuto una apparizione di questa venerata Madonna. Qui devo aggiungere un grazie a Mario, membro della Confraternita dello scapolare, che ogni anno porta in processione nel quartiere di Borgo la bella statua della Madonna che vedete nella Cappella lì a sinistra. Bene, non posso dimenticare quella volta che Mario fece fermare la Madonna sotto casa mia, abitiamo al primo piano, perchè vide da sotto Govindo affacciato in braccio a me. E così la Madonna ci ha salutato appena fuori della finestra, ci ha quasi guardati in faccia e ci fu uno spontaneo applauso dei fedeli in processione. Non posso dimenticare questo gesto di benevolenza. Dunque grazie a Mario, che conosco appena di vista e grazie a Maria Vergine.
Govindo ha avuto tanti amici. Lo vediamo anche oggi in questa chiesa così piena. Ma oggi si prega per lui in varie parti del mondo, a Buenos Aires, a Gerusalemme, a Calcutta, a Milano (il giorno dopo ho saputo anche in Africa e in Cina, ndr). Ne voglio ringraziare alcuni: il Coro che ha addolcito questa liturgia. Grazie. Gli amici della prima ora - come la nostra padrona di casa Paola che nei primi tempi, quando io e Marina dovevamo lavorare, ha portato con la sua macchina Gogo a riabilitazione, grazie Paola - e quelli dell’ultima ora, come don Mario, il sacerdote che abbiamo chiamato venerdì per l’Estrema Unzione e lui invece ha proposto di cresimarlo, regalando così a Govindo una madrina in extremis come Sister Elena, che si trovava lì al capezzale ed è stata nominata lì, sul campo. Grazie don Mario. E poi tanti amici non solo miei e di Marina, ma anche dei miei figli, i quali hanno esibito sempre Gogo come una medaglia e l’hanno fatto conoscere a tutti i loro amici, che ora vedo qui. Grazie. E poi grazie a voi colleghi di lavoro miei e di Marina, che in questi anni mi avete spesso chiesto come stava Gogo, che in questi giorni mi avete inondato di sms (ho cercato di rispondere a tutti). In ogni messaggio c’era una stilla di affetto sincero. Vi ringrazio.
Govindo è arrivato in una famiglia numerosa, ma era anche circondato da famiglie numerose. Perciò ha avuto tanti parenti. Troppi per menzionarli tutti. Ma qualcuno lo voglio ricordare, innanzitutto le due nonne: la nonna Liliana che lo ha preceduto qualche mese fa andando a fare un picchetto d’onore di famiglia in Paradiso, e la nonna Klara, che è qui, ed ha ha condiviso fino all’ultimo le ansie e le gioie di Govindo. Gli zii li salto perché sono troppi, così anche i cugini. Voglio invece spendere due parole sui nipotini di Govindo, i figli dei cugini nati in questi dodici anni e che guardavano questo strano bambino che non cresceva, che restava sempre uguale mentre loro ogni anno diventavano più grandi, che non mangiava per bocca come loro bensì tramite un tubo, che negli ultimi anni aveva anche un po’ di barba ma una corporatura più piccola della loro; facevano all’inizio, timorosi, qualche domanda perplessa, poi alla fine Gogo è diventato per tutti una presenza familiare su cui riversavano il loro affetto di bambini. Grazie ai nipotini di Bruxelles e di Milano. Da ultimo grazie a mia sorella Margherita e a suo marito Maurizio, a Nicola e Gigina di Gallipoli per essersi assunti davanti alla legge l’impegno di occuparsi di Govindo nel caso della scomparsa dei suoi genitori adottivi. Grazie anche a voi, senza le vostre firme Govindo non sarebbe arrivato.
Govindo - lo abbiamo sentito nell’omelia di padre Bernardo - ha avuto tante mamme. Quella Celeste l’ho già ringraziata. Voglio qui ringraziare la mamma carnale, che io non conosco. Tu hai abbandonato tuo figlio, sicuramente in preda all’angoscia, non so perché, forse la malattia incurabile, d’altra parte in India con un sistema sociale così diverso dal nostro… forse altro. Non so, forse ci pensi ancora. Sicuramente ti è costato molto. Grazie perché non lo hai soppresso, lo hai dato a chi poteva farlo vivere. Stai sicura che Gogo ora pensa anche al tuo bene e anche noi preghiamo per te.E qui siamo arrivati ad una mamma potente, madre di tantissimi figli, come Madre Teresa. Cara Madre, ti devo delle scuse perché in questi giorni di intenso dolore in cui ho pregato tanto ed ho chiesto di pregare perché Govindo ci fosse risparmiato mi sono sentito un po’ in conflitto di preghiera con te. Ho infatti avuto il sospetto che tu invece pregassi perché avevi voglia di tornare a giocare con lui come accadeva nell’ultimo anno della tua vita, quando Govindo all’orfanotrofio era diventato un po’ la tua mascotte. E ho immaginato che in Cielo si fosse aperto un arbitrato, quale preghiera deve vincere? Naturalmente non c’è stato nessun arbitrato e le tue preghiere hanno vinto perché tu, Beata, conosci il vero bene delle persone e di Govindo. Un bene che ha come misura l’infinito Bene e che spacca, supera, i criteri umani, anche quelli buoni e sinceri dei nostri affetti più profondi. Grazie Madre a te ed alle tue figlie che hanno voluto tanto bene a Govindo, da sister Shanta che lo imboccava col riso all’orfanotrofio di Shishu Bavan a Sister Elena madrina di cresima. Ultima mamma è arrivata Marina, mia moglie. Grazie Marina. Questa parte della storia di Govindo è iniziata con te, nel novembre di 14 anni fa quando hai incontrato Govindo a Calcutta, dove ti aveva mandato il tuo direttore per un servizio su Madre Teresa – grazie anche a te direttore, sei stato strumento inconsapevole, se non avessi inviato Marina Govindo non sarebbe arrivato -. Da uno di quegli slanci del tuo cuore generoso, che ho imparato ormai a conoscere in questi quasi trenta anni di matrimonio, è fuoriuscito quello sguardo di intesa tra te e Govindo che è all’origine del suo arrivo nella nostra famiglia. Ho conosciuto poi da vicino le tue angosce, le tue premure, le tue tenerezze le tue fatiche di mamma. Grazie Marina per tutto questo.In appendice a Marina non posso non ringraziare i miei splendidi figlioli, la vice mamma Maria, la primogenita, che ha accudito il fratellino quando papà e mamma erano al lavoro e le donne erano di riposo – a proposito grazie anche a loro, a Nella, Marya, Dorina, Halina -; grazie alla assennata Angela che, a differenza di tutti noi, si è assunta l’onere di fare le punture di antibiotico nel corpicino gracile del fratellino in questi ultimi giorni, noi non osavamo, lei ha preso il coraggio a due mani e le ha fatte; grazie a Cristina, che è stata la cantante, la fotografa, lo vestiva per le foto, e quindi è stata modista per Gogo; grazie a Luigi, il compagno prediletto di giochi.
Da ultimo un doppio grazie a te, figlio mio. Mi hai fatto sentire una papà scelto da suo figlio, prescelto, mi hai fatto sentire un papà migliore di quello che ero, non mi hai mai lesinato un sorriso, mi hai sempre cercato con le tue braccia, ti sei sempre avvinghiato al mio collo, anche quando non ero d’umore giusto. Mi hai reso, insieme coi tuoi fratelli, un papà felice. Grazie figlio mio.Il secondo grazie te lo preannuncio soltanto. La mia anima così appesantita da peccati, incoerenze, aridità, non può competere con la tua, così pura, limpida, innocente e perciò vicinissima a Dio. Però ho ancora una carta da giocare, sono tuo padre, mi devi l’obbedienza, ti chiedo perciò di aiutarmi a trasformare, d’ora innanzi, questo vuoto che mi annichilisce, che ci annichilisce, vero Marina?, in qualcosa di buono, in una nuova forma di quel bene che tanto ci hai regalato. Tu sei un figlio buono e so che lo farai. E io allora verrò a dirti il mio secondo grazie, quello definitivo, di persona, quando Iddio vorrà. Ciao figliolo amato.
(Tommaso R.)
Postato da: giacabi a 08:28 |
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eutanasia, testimonianza, madre teresa
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Postato da: giacabi a 08:38 |
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aborto, eutanasia
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-
"Il nostro essere è solo il punto di incidenza tra il non essere e il sempre essere, e la nostra esistenza temporale è solo il mezzo attraverso cui l'eternità si manifesta".
(Mann, Giuseppe il Nutritore, 1943)
-
"Perchè la Bellezza, odimi bene, Fedro, la Bellezza soltanto è divina e visibile a un tempo, ed è per questo che essa è la via al sensibile, è, piccolo Fedro, la via che mena l'artista allo spirito".
(Mann, La morte a Venezia, 1912) -
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"I medici non sono al mondo per facilitare la morte ma per conservare a qualunque prezzo la vita".
(Mann, Buddenbrooks, 1901)
- grazie a : Ragione e Fede
Postato da: giacabi a 18:18 |
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bellezza, eutanasia, mann
articolo di lunedì 24 maggio 2010
Quel bambino di 80 anni
che non cammina ma sa correre
di Marcello Veneziani
La storia di Felice Mangiarano. Il padre lo portò nel ricovero per infermi. Era un bimbo paralizzato. Che però ha imparato lo stesso ad amare la vita
Avevo nove anni quando mio padre mi ha portato qui, ora ne ho ottantadue. Così
comincia il suo racconto Felice Mangiarano storpio dalla nascita,
immobilizzato da una vita nella carrozzella. E intorno a lui si fa
silenzio. Parla con difficoltà e con affanno, e agita nell’aria le sue
mani contorte quasi a pescare nello spazio le parole che non trova nella
sua bocca deformata. Siamo dentro le mura di un ricovero per infermi
gravi in cui Felice entrò settantatré anni fa e da cui non è più uscito.
Fu un mattino d'inverno, racconta, per la precisione era il 5 febbraio del 1938, che suo padre lo portò in bicicletta dal suo paese natale, Monopoli, all'ospedale ortofrenico di Bisceglie, più di settanta chilometri percorsi al freddo su una statale che costeggia il mare. E tu lo immagini quel bambino paralizzato, appollaiato sulla bicicletta di suo padre, avvinghiato a lui con le sue manine deformi e le gambe penzolanti, che non capisce dove stiano andando. Dove mi porti, chiede il bambino handicappato al padre. Ti porto da un dottore che ti farà camminare, gli rispose il padre. Una bugia pietosa ma necessaria. Una famiglia modesta, una scuola che non accoglie handicappati gravi come Felice; fuori un mondo aspro, povero e inclemente.
Allora suo padre decide di portarlo nella Casa della Divina Provvidenza, dove vengono accolti da un parroco misericordioso, come in un Cottolengo del sud, tutti gli infermi più disperati che hanno perduto l'uso del corpo o della mente o non l'hanno mai avuto. Il bambino non lo sa, spera davvero nel medico miracoloso che lo farà correre e giocare come gli altri bambini. Ma da quel giorno fu lasciato lì, tra le suore, gli infermi e gli infermieri, e non è più tornato a casa sua. Ci è entrato da bambino tra queste mura e non ha conosciuto altro mondo che quello di un ospedale per dementi e deformi. Qui è cresciuto nella sua immobilità, qui ha vissuto tutta la sua vita, se può dirsi vita, diremmo noi scontenti.
Ma oggi che fa il bilancio della sua vita, Felice difende la memoria di suo padre e dice che suo padre fu di parola, perché lui in effetti qui ha imparato a camminare. E tu lo guardi sprofondato nella sua carrozzella e pensi che stia pietosamente vaneggiando. Ma lui, dopo una pausa che ha riempito di indicibile intensità le sue parole, dopo un sospiro carico di pianti stagionati e trattenuti, dice che davvero qui, in mezzo agli altri infermi, ha imparato a camminare anche senza le gambe; perché, dice, si può camminare con il cuore, si può camminare con l'anima, e così io ho camminato in tutti questi anni.
Noi che siamo intorno restiamo muti, immobili, commossi, con un brivido che ci attraversa la schiena.
Le nostre parole diventano superflue davanti alle sue, a quel corpo e allo spettacolo della sua vita offerta a noi passanti in questa sintesi folgorante. Con inerme ospitalità. Pensiamo allora alle nostre vite ricche e movimentate, pensiamo ai nostri mille viaggi, ai nostri corpi sani, alle nostre famiglie e alle nostre vaste conoscenze, eppure ci sembra che non abbiamo camminato come lui. Noi abbiamo avuto sette vite o settanta, lui una sola, dolorosa e autentica.
Felice benedice la sua vita inferma, benedice suo padre che lo lasciò per sempre in quell'ospizio per deformi, benedice il prete, don Uva, che lo accolse con le suore, benedice Dio che non è stato generoso con lui, benedice la provvidenza che gli ha dato una vita in una carrozzella recluso dentro un ospedale. Benedice chi gli ha dato la possibilità di vivere una vita ulteriore e un cammino spirituale tramite il suo corpo deformato. Davanti a lui, Felice non solo di nome, minuscolo nella sua carrozzina come una vigna dai rami contorti, ci vergogniamo delle nostre vite piene di ogni bene e di ogni cammino; vite libere, leggere, mobili, vissute in compagnie d'amore, che pure si protestano infelici o carenti di qualcosa.
Noi ci lamentiamo anche se ci manca il superfluo, lui non si lamenta anche se gli è mancato per una vita il necessario: le gambe, il corpo, la vita vissuta, una donna, una famiglia. Io non ho paura, annota Felice, soffro ma amo la vita dal profondo del cuore, e scrivo perché la scrittura salva dalla morte. Felice si è scritto pure la sua lapide: «Qui giace un cuore che ha tanto amato in vita e in solitudine guardando con gli occhi dell'anima tutte le bellezze del creato, glorificando il creatore». Ma dove le ha viste lui le bellezze, lui che ha vissuto recluso tra i malati in un ospedale? Eppure le ha viste, Felice, le ha viste meglio di noi, con gli occhi dell'anima. Le sofferenze avvicinano a Cristo, ci dice, e poi avverte che le sofferenze non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle. Lo dice con una smorfia di sorriso soprannaturale venuto dall'infanzia.
Del resto, il suo stentato parlare gli impedisce ogni finzione e ogni enfasi; dice l'essenziale, le parole escono scarne dalla sua bocca deformata. Con quel filo di voce non può offrire nient'altro che la verità. La nuda, cruda, essenziale verità. Anche vivere così è valsa la pena. Mi scuso se vi ho raccontato una storia senza notizia, giornalisticamente irrilevante; a volte sono un po' cretino, mi lascio prendere dalle inezie del cuore. Ma ascoltando Felice pensavo alla vita artificiale annunciata sui giornali con la scienza che prende il posto di Dio. Pensavo ai tentativi di eugenetica per avere solo vite sane e perfette, eliminando l'imperfezione e i suoi dolori dalla faccia della terra.
Poi pensavo a quanti invocano l'eutanasia per evitare sofferenze. Ed ho rivisto lui, Felice, in carrozzella da ottant'anni, aggrappato con amore a quel fil di vita, alla natura che pure gli fu matrigna, alla vita che gli fu così avara, amante delle sue sofferenze. E l'ho rivisto poi stanotte, in sogno, sulla bicicletta ereditata da suo padre, che pedalava col cuore, correva con l'anima e fendeva a tutta velocità le vie del cielo.
Fu un mattino d'inverno, racconta, per la precisione era il 5 febbraio del 1938, che suo padre lo portò in bicicletta dal suo paese natale, Monopoli, all'ospedale ortofrenico di Bisceglie, più di settanta chilometri percorsi al freddo su una statale che costeggia il mare. E tu lo immagini quel bambino paralizzato, appollaiato sulla bicicletta di suo padre, avvinghiato a lui con le sue manine deformi e le gambe penzolanti, che non capisce dove stiano andando. Dove mi porti, chiede il bambino handicappato al padre. Ti porto da un dottore che ti farà camminare, gli rispose il padre. Una bugia pietosa ma necessaria. Una famiglia modesta, una scuola che non accoglie handicappati gravi come Felice; fuori un mondo aspro, povero e inclemente.
Allora suo padre decide di portarlo nella Casa della Divina Provvidenza, dove vengono accolti da un parroco misericordioso, come in un Cottolengo del sud, tutti gli infermi più disperati che hanno perduto l'uso del corpo o della mente o non l'hanno mai avuto. Il bambino non lo sa, spera davvero nel medico miracoloso che lo farà correre e giocare come gli altri bambini. Ma da quel giorno fu lasciato lì, tra le suore, gli infermi e gli infermieri, e non è più tornato a casa sua. Ci è entrato da bambino tra queste mura e non ha conosciuto altro mondo che quello di un ospedale per dementi e deformi. Qui è cresciuto nella sua immobilità, qui ha vissuto tutta la sua vita, se può dirsi vita, diremmo noi scontenti.
Ma oggi che fa il bilancio della sua vita, Felice difende la memoria di suo padre e dice che suo padre fu di parola, perché lui in effetti qui ha imparato a camminare. E tu lo guardi sprofondato nella sua carrozzella e pensi che stia pietosamente vaneggiando. Ma lui, dopo una pausa che ha riempito di indicibile intensità le sue parole, dopo un sospiro carico di pianti stagionati e trattenuti, dice che davvero qui, in mezzo agli altri infermi, ha imparato a camminare anche senza le gambe; perché, dice, si può camminare con il cuore, si può camminare con l'anima, e così io ho camminato in tutti questi anni.
Noi che siamo intorno restiamo muti, immobili, commossi, con un brivido che ci attraversa la schiena.
Le nostre parole diventano superflue davanti alle sue, a quel corpo e allo spettacolo della sua vita offerta a noi passanti in questa sintesi folgorante. Con inerme ospitalità. Pensiamo allora alle nostre vite ricche e movimentate, pensiamo ai nostri mille viaggi, ai nostri corpi sani, alle nostre famiglie e alle nostre vaste conoscenze, eppure ci sembra che non abbiamo camminato come lui. Noi abbiamo avuto sette vite o settanta, lui una sola, dolorosa e autentica.
Felice benedice la sua vita inferma, benedice suo padre che lo lasciò per sempre in quell'ospizio per deformi, benedice il prete, don Uva, che lo accolse con le suore, benedice Dio che non è stato generoso con lui, benedice la provvidenza che gli ha dato una vita in una carrozzella recluso dentro un ospedale. Benedice chi gli ha dato la possibilità di vivere una vita ulteriore e un cammino spirituale tramite il suo corpo deformato. Davanti a lui, Felice non solo di nome, minuscolo nella sua carrozzina come una vigna dai rami contorti, ci vergogniamo delle nostre vite piene di ogni bene e di ogni cammino; vite libere, leggere, mobili, vissute in compagnie d'amore, che pure si protestano infelici o carenti di qualcosa.
Noi ci lamentiamo anche se ci manca il superfluo, lui non si lamenta anche se gli è mancato per una vita il necessario: le gambe, il corpo, la vita vissuta, una donna, una famiglia. Io non ho paura, annota Felice, soffro ma amo la vita dal profondo del cuore, e scrivo perché la scrittura salva dalla morte. Felice si è scritto pure la sua lapide: «Qui giace un cuore che ha tanto amato in vita e in solitudine guardando con gli occhi dell'anima tutte le bellezze del creato, glorificando il creatore». Ma dove le ha viste lui le bellezze, lui che ha vissuto recluso tra i malati in un ospedale? Eppure le ha viste, Felice, le ha viste meglio di noi, con gli occhi dell'anima. Le sofferenze avvicinano a Cristo, ci dice, e poi avverte che le sofferenze non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle. Lo dice con una smorfia di sorriso soprannaturale venuto dall'infanzia.
Del resto, il suo stentato parlare gli impedisce ogni finzione e ogni enfasi; dice l'essenziale, le parole escono scarne dalla sua bocca deformata. Con quel filo di voce non può offrire nient'altro che la verità. La nuda, cruda, essenziale verità. Anche vivere così è valsa la pena. Mi scuso se vi ho raccontato una storia senza notizia, giornalisticamente irrilevante; a volte sono un po' cretino, mi lascio prendere dalle inezie del cuore. Ma ascoltando Felice pensavo alla vita artificiale annunciata sui giornali con la scienza che prende il posto di Dio. Pensavo ai tentativi di eugenetica per avere solo vite sane e perfette, eliminando l'imperfezione e i suoi dolori dalla faccia della terra.
Poi pensavo a quanti invocano l'eutanasia per evitare sofferenze. Ed ho rivisto lui, Felice, in carrozzella da ottant'anni, aggrappato con amore a quel fil di vita, alla natura che pure gli fu matrigna, alla vita che gli fu così avara, amante delle sue sofferenze. E l'ho rivisto poi stanotte, in sogno, sulla bicicletta ereditata da suo padre, che pedalava col cuore, correva con l'anima e fendeva a tutta velocità le vie del cielo.
Postato da: giacabi a 10:50 |
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aborto, eutanasia, testimonianza
Dieci anni in coma, poi il risveglio. Oggi Pavia lo fa cittadino
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Tempi - 27 maggio 2010
E’
riemerso dal coma dopo dieci anni di lungo silenzio. Lo avevano
definito un "tronco morto", un vegetale. Sconfessando la letteratura
medica di riferimento dopo altri nove anni, Massimiliano Tresoldi di
Carugate, sta riacquistato la parola, compiendo i primi passi.
Accanto a lui amici e volontari che non lo hanno mai abbandonato, stimolando la sua volontà e voglia di vivere.
Tempi ne ha raccontato la storia nel maggio dello scorso anno.
Oggi, con la madre Lucrezia e il padre Ernesto, Massimiliano ha
iniziato a girare l’Italia per portare testimonianza della sua
esperienza. Tante città, molto affetto e un incontro straordinario con
la comunità di Pavia che tramite una petizione supportata dal Comitato
"Pavia Città della Vita", firmata da più di duemila pavesi, ha proposto
all’Amministrazione Comunale il conferimento della cittadinanza onoraria
all’intera famiglia Tresoldi.
Così
mentre Firenze si è distinta per l’analoga onorificenza assegnata a
Beppino Englaro, martedì 18 Maggio il Consiglio Comunale di Pavia ha
approvato la suggestiva proposta dei cittadini pavesi. Il Sindaco
Alessandro Cattaneo ha voluto per l’occasione sottolineare l’importanza
della decisione presa: "Non si fa mai abbastanza per le famiglie in
difficoltà, occorre rinnovare il nostro impegno a favore della persona e
della vita umana. Con questo gesto, sono certo che d’ora in poi le
famiglie pavesi sentiranno le istituzioni un po’ più vicine".
Un gesto virtuoso, una comunità attenta, una famiglia audace. Il popolo della vita.
Postato da: giacabi a 14:20 |
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eutanasia
Massimiliano, rinascere con un segno di croce
***
***
di Lucia Bellaspiga,
da Avvenire (09/02/2010)
Due vite parallele, quelle di Eluana e Massimiliano, almeno per un lungo tratto: hanno entrambi 21 anni quando un incidente d’auto, a pochi mesi l’uno dall’altro, interrompe il corso normale della vita e spazza via pensieri, azioni, speranze. Per entrambi è l’inizio del lungo sonno, chiusi in un corpo che sembra non comunicare più nulla a nessuno. Poi nella vita di Max succede qualcosa e tra i due giovani è il bivio: «Dopo quasi 10 anni di stato vegetativo, la sera di Natale del 2000 Max ha sollevato la mano e ha fatto da solo il gesto che gli avevo sempre fatto fare io, il segno della Croce. Credevo di essere impazzita» . Così Lucrezia Tresoldi, la mamma che, con il marito Ernesto, aveva passato giorni e notti attorno a quel figlio, parlandogli, muovendogli braccia e gambe, stimolandolo senza sosta.
Qual era stata la diagnosi?
Il cervello era così lesionato che i medici escludevano nel modo più assoluto qualsiasi ripresa anche parziale. Un neurologo fece un paragone: Max era come una centralina elettrica, se tagli i fili non ci sarà mai più alcun contatto. Sulla cartella clinica scrivevano ogni giorno non collabora. Non vedevano segni di risposta, loro.
Perché, voi li vedevate?
Io un giorno colsi il movimento di un mignolo. Ma i neurologi dissero che era un riflesso condizionato, che mi illudevo. Negli anni quante volte ci hanno dato degli illusi o dei visionari...
Oggi i fatti vi danno ragione, ma in effetti non era facile credervi, allora.
Il fatto incredibile è che quelle lesioni cerebrali Max le ha ancora, come rileva la risonanza magnetica, il che prova quanto poco si sappia del cervello umano. Per tanti anni nessun segno di coscienza. Poi? Dopo nove anni di stato vegetativo abbiamo visto un sorriso. I neurologi sostenevano che era uno spasmo involontario, ma la cosa si ripeté e mai per caso, sempre quando gli amici di Max lo venivano a trovare. Un anno dopo, quando nostro figlio si è risvegliato, ci ha spiegato quei sorrisi... Durante quei lunghi dieci anni Massimiliano era sempre stato qui, con noi, solo che non poteva comunicarlo. Al risveglio ricordava perfettamente chi in passato era venuto a trovarlo, raccontava episodi avvenuti in camera sua...
Quanto conta che lo abbiate portato a casa e la famiglia gli sia sempre stata accanto?
Gli studi dimostrano che lo stimolo maggiore per questi casi è proprio il contatto con i genitori. Anche l’infermiere più bravo non potrà mai trasmettere le sensazioni, i rumori, gli odori della famiglia, soprattutto l’amore, che sul cervello ha effetti molto forti. Quando lo abbiamo portato a casa, dopo 8 mesi di ospedali e di sondino, aveva già ricevuto l’estrema unzione, non poteva più deglutire, pesava 39 chili, era tutto piagato, aveva 40 di febbre. Noi a casa gli abbiamo tolto il sondino e, cucchiaino per cucchiaino, lo abbiamo imboccato con i frullati, a ogni sorso gli muovevamo il collo perché imparasse il movimento giusto. Ci sono voluti mesi.
Il giorno prima della morte, l’équipe di Udine ha provato a far bere acqua a Eluana per dimostrarne l’incapacità.
Una follia: a una persona in agonia? E con i liquidi Max si strozza anche oggi che mangia spaghetti e cotolette. Comunque ci vogliono mesi e mesi di esercizio costante, dopo anni di sondino.
Max accetta la sua disabilità?
È un ragazzo felice e ringrazia Dio se tre medici su cinque si opposero al distacco dalle macchine. Da un mese a questa parte sta pronunciando sempre nuove parole e ora ha il sogno di camminare, grazie a uno speciale ausilio che però aspettiamo dall’Asl... Lo vedremo mai?
Che aiuti ricevete dalla Asl?
Tre ore a settimana di fisioterapia, cioè zero. Ci siamo comprati il letto antidecubito, l’aspiratore per il catarro, la palestra. Solo da un anno ci possiamo permettere il logopedista, ma quanti anni fa Max avrebbe parlato, se le sedute fossero iniziate prima? Perché nessun genitore in questo anno ha seguito la via aperta da Englaro? Tutti combattono per ottenere gli aiuti e garantire a questi figli le cure cui hanno diritto, non per farli morire. Magari avessimo tutti le suore Misericordine.
Postato da: giacabi a 21:24 |
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eutanasia
Salvatore Crisafulli *** |
Postato da: giacabi a 15:11 |
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eutanasia
L’eutanasia
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Postato da: giacabi a 10:12 |
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eutanasia
Cosa insegna alla scienza il caso del risvegliato dal coma
L’umiltà di tornare al
capezzale di malati etichettati come persi
***
Ventitré anni fa, dopo un incidente, i medici gli avevano diagnosticato uno stato vegetativo persistente. Tre
anni fa Rom Houben, belga, è stato esaminato da un neurologo di fama
internazionale. Con le tecniche di risonanza magnetica funzionale il
professor Laureys dell’Università di Liegi ha accertato che l’uomo aveva
attività cerebrale: un caso particolare di "sindrome locked-in", è la diagnosi, lo stato di chi dopo un trauma è paralizzato e "chiuso dentro" di sé. Oggi
Houben riesce a comunicare indicando le lettere su una tastiera, e può
leggere. Racconta come un incubo i ventitré anni di silenzio. Quando per
i medici la sua attività cerebrale era "estinta".
La storia non è un miracolo, né il caso di un uomo straordinariamente risvegliato dal limbo della incoscienza. È la storia di una diagnosi sbagliata. Ventitré anni fa non c’erano gli strumenti di oggi. Simili errori non erano impossibili. Secondo quanto afferma Laureys nel suo più recente lavoro scientifico, tuttora «il tasso di diagnosi errate di stato vegetativo rimane alto: i segnali che distinguono gli stati vegetativi dagli stati di minima coscienza non sono così netti». Non così netti, come dal bianco al nero. Non così semplici, che non ci sia ancora da studiare. La vicenda del ragazzo invecchiato in un silenzio da monade, e il suo esserne tornato, insegna qualcosa. Intanto, che ciò che vent’anni fa sembrava certezza scientifica oggi potrebbe essere superato da nuove tecniche, che leggono ciò che non si vedeva. Forse, tra cinquant’anni, si saprà ancora di più sul cervello umano. Che è macchina straordinariamente complessa; troppo, per definirla irreversibilmente con diagnosi che rapidamente invecchiano. Il sommo della ragionevolezza di fronte a tanta complessità sarebbe forse l’ammettere di conoscere ancora poco. Non pretendere di sapere "tutto", né dare per scontato che ogni uomo immobile da anni in un letto sia perduto. Sapere almeno che occorre cercare ancora. In fondo, questa storia prima che di scienza sofisticata è una storia di umiltà: l’umiltà di un medico di tornare al capezzale di un paziente assente da vent’anni, dato per spacciato. E di tentare ancora. Per venti giorni Laureys e i suoi assistenti hanno verificato semplicemente i riflessi oculari di Houben, ne hanno preso nota su un diario. Prima ancora delle macchine più sofisticate, la pazienza dei medici. Ed è la storia questa, anche, della tenacia di una donna. La madre, che per ventitré anni è rimasta accanto a quel letto. Un tempo lunghissimo. Quanti avrebbero ceduto, quanti si sarebbero umanamente rassegnati. Magari invocando una fine. Quella donna no. Capace, davvero, di sperare contro ogni speranza. E quel figlio intanto, carcerato nel suo personale abisso. Lavato, imboccato, immobile. Eppure cosciente. Di una coscienza invisibile ai medici. Che crollavano il capo, certi del loro sapere: «È un vegetale». Un errore di diagnosi, una sentenza incollata come un’etichetta, e mai più verificata. Possibile, quando dei medici sono troppo sicuri di aver capito tutto. Fosse un insegnamento per quanti hanno a che fare con i limbi di pazienti assenti. Se, di fronte al mistero della coscienza e dell’indecifrato "hardware" che ne è sede, si alzasse un dubbio: occorre essere umili, di fronte alla vita di un uomo. Di fronte a ciò che è molto grande, somma ragionevolezza l’ammettere di non sapere abbastanza. (Intanto, quell’ex ragazzo quarantenne ora legge, e discorre con gli amici. Parrà incredibile ai cultori di una "dignità della vita" predefinita secondo rigorosi canoni, ma si dice "contento". Sfuggito a un incubo, ancora paralizzato, e – scandaloso – "contento". Semplicemente contento di essere vivo, e amato).
Marina Corradi
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Postato da: giacabi a 21:45 |
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eutanasia
Un ragionevole dubbio
***
Sono
tante le figlie che vivono vite che i loro padri ritengono indegne.
Capita anche che alcune di queste figlie ritenessero, in precedenza,
indegna quel tipo di vita. Alcune di queste figlie le ho conosciute e
anche qualche padre. A volte i padri hanno ragione, a volte la ragione è
delle figlie, a volte è difficile scorgere anche solo un barlume di
ragionevolezza. E’ la vita. Evidente e non quantificabile il dolore in
atto. E’ altresì evidente che non si può sopprimere il dolore del padre
eliminando la figlia o viceversa. Non si potrebbe ma due storie
identiche nella sostanza quanto opposte nella forma sono davanti i miei
occhi. Tutte e due sono determinate da un grande dolore: personale,
familiare, storico e sociale. Cosmico. In tutte e due c’è una figlia che
vive una vita ritenuta indegna ma si intravede una soluzione.
Nel
primo caso il padre sgozza la figlia e la seppellisce in giardino: è la
barbarie. Nel secondo caso entra in ballo la civiltà: non basterà una
lama, sarà sedato il rantolo e la purificazione rituale è già avvenuta
sui giornali e in tv, nel dibattito. E tanto tanto dolore, tanto tanto
rispetto, sgorga da chi la vuole morta. Chi è incredulo per la
mostruosità scientifico-legale è troppo incazzato e non fa bella figura.
E’ la civiltà:
ci vuole una sentenza, un team medico, una struttura idonea, tanto
volontariato per far morire di fame e sete, ma monitorata, una giovane
donna indifesa e bisognosa che, guarda caso, ha anche trovato chi si
prende cura di lei. Sorriderle, accarezzarla, lavarla e asciugarla.
Farle compagnia. Darle da mangiare e da bere. Per quel che si può,
finché si può. Chi ama la vita, per quello che è, fatica a trovare le
parole che ne esprimano la complessità, la gratuità, la ricchezza e il
mistero; sa che non tutto è riducibile a diritto o pretesto per
rivendicazioni.
Caro direttore, qui
nevica poi piove e rinevica e ripiove, ogni tanto uno squarcio di sole e
bisogna socchiudere gli occhi per reggere tanta bellezza. Ho passato la
mattina a pulire un bagno, cambiare un letto e lavare: ha presente
l’incontinenza di un vecchio malato sommata a imperizia e pudore
filiale? Uno schifo. Mi giravo da ogni parte per non incrociare gli
occhi di mia madre ma il suo dolore dominava su tutto. Il dolore per
essermi di peso, per obbligarmi a mansioni così umili, per non essere
più bastante a sé, lei che sosteneva tutto e tutti. Quante facce ha il
dolore? Ma che sia l’amore, ogni atto di umile amore, a reggere il mondo mi pare un ragionevole dubbio.
Che un giudice, una legge, una democrazia condannino un innocente
assoluto e indifeso a morire di fame e di sete strappandolo a chi se ne
prende cura, amorevole e quotidiana, mi pone un ragionevole dubbio sullo
stato di salute di un tale ordine sociale. Non è un bel pensare.
Con infinita tristezza,
suo Ferretti Lindo Giovanni
(da Il Foglio, 06/02/2009)
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Postato da: giacabi a 21:38 |
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eutanasia, ferretti
La vita umana è sacra
***
Niente
e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente,
feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato o
agonizzante.
Nessuno, inoltre, può richiedere per se stesso o per un altro affidato
alle sue responsabilità questo gesto omicida, né può acconsentirvi
esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo, né permetterlo
Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae 57
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Postato da: giacabi a 13:56 |
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eutanasia, guardini
La speranza di noi rottami
***
L'articolo è tratto dal settimanale "Tempi"nella rubrica "taz&bao".
"Una
sera ho partecipato ad una trasmissione televisiva,c'era anche il
giornalista Indro Montanelli.All' improvviso il grande giornalista ha
detto che un rottame senza speranza dovrebbe poter evitare per se stesso
un'inutile agonia.Lo diceva rivolgendsi a se stesso,immaginando una
caduta in quello stato che chiamiamo vegetativo,rivendicando il diritto
a morire da uomo e,in alternativa all'eutanasia.Gli ho risposto ,senza
convincerlo,che non siamo padroni del nostro destino.E che si può essere un rottame, ma avere ancora una speranza.Ci aiuta la fede,la fede è una certezza.Sono
convinto che tutto quello che ci succede ha un significato,spesso
difficile da interpretare e da accettare,ma sicuramente fa parte di un
grande disegno che un giorno capiremo.Arrivederci a tutte le piccole
Terri,vittime dell'egoismo umano.
Ambrogio Fogar Contro vento .La mia avventura più grande.Bur,2006
grazie a: germa1967
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Postato da: giacabi a 22:20 |
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eutanasia
***
Le avevano detto: “Un’iniezione
e sarà tutto finito; il tuo cancro è incurabile, hai solo poche
settimane di vita: perché passarle soffrendo sempre di più? L’unica
persona che potrebbe aiutarti, il tuo compagno, è anche in carcere e non
può fare nulla per te. Nessuno potrebbe biasimarti se chiederai di
porre fine alla tua sofferenza”. Ma Jade Goody ha detto no. Anzi, ha detto sì alla vita.
E invece dell’eutanasia, ha scelto esattamente l’opposto, ha fatto
quanto era più impensabile fare per una donna nelle sue condizioni: ha
organizzato le nozze con l’uomo che amava, Jack Tweed,
21 anni, chiuso in una cella, le cui porte si sono però aperte per un
giorno, grazie a un permesso speciale concesso dal Ministero della
Giustizia inglese.
Jade ha messo in piedi uno
splendido matrimonio, la cerimonia nuziale di cui i mass media hanno
più parlato in questi ultimi tempi. C’era anche la TV, ed è cominciata
la gara per i diritti sulle immagini. Questo ha fatto piovere su Jade
molte critiche, ma lei era già da anni un personaggio televisivo, ed ha
voluto concludere la sua vita così come l’aveva condotta. Ha detto: “Ho
vissuto davanti alle telecamere, e forse ora davanti alle telecamere
morirò. Ho pensato che se guadagnerò qualcosa con i diritti, potrò
mettere da parte abbastanza per far continuare ai miei figli la scuola”. Jade ha infatti un bimbo di 4 anni ed uno di 5, Bobby e Freddie.
Il
cancro le impediva di lavorare, e la carcerazione di Jack non
permetteva certo il mantenimento dei bambini. Così Jade, che molto
probabilmente avrebbe voluto trascorrere quell’unico giorno di
“felicità” nell’intimità e nel nascondimento, è sfilata sotto i
riflettori col suo abito bianco, taschino per gli antidolorifici
incluso. I flash hanno ripreso il suo bacio con Jack, ma anche i momenti
di inevitabili lacrime. “E’ stata una cerimonia di lacrime e risate” ha detto uno degli organizzatori “e Jade l’ha vissuta tutta restando in piedi fino agli ultimi 5 minuti, quando, stanca, si è dovuta sedere”.
E’ stato in quel momento che ad alzarsi in piedi sono stati i 200
invitati, battendole le mani in una standing ovation che non finiva più.
Forse non era il matrimonio che sognava da bambina, ma certamente è stata, per tutto il mondo, una lezione di vita. “Ora farò battezzare i miei figli” ha annunciato Jade “così potranno comunicare con me tramite Gesù”. Ancora
poche settimane di vita, e la luce dei riflettori si spegnerà... per
lasciar posto ad una luce più potente: quella della stella di Jade in
cielo.
Scritto da: Wallace73
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Postato da: giacabi a 14:43 |
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eutanasia
TESTAMENTO BIOLOGICO
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CL: sul “fine vita” siamo col cardinale Bagnasco
Redazione giovedì 26 febbraio 2009
In
relazione al dibattito intorno a una legge sul fine vita, Comunione e
Liberazione condivide le ragioni più volte espresse dal cardinale Angelo
Bagnasco, presidente della Cei, e rese ancora più attuali dopo la morte
di Eluana Englaro: «Il vero diritto di ogni persona umana, che è necessario riaffermare e garantire, è il diritto alla vita che infatti è indisponibile.
Quando la Chiesa segnala che ogni essere umano ha un valore in se
stesso, anche se appare fragile agli occhi dell’altro, o che sono sempre
sbagliate le decisioni contro la vita, comunque questa si presenti,
vengono in realtà enunciati principi che sono di massima garanzia per
qualunque individuo» (Prolusione al Consiglio permanente della Cei, 26 gennaio 2009).
Lo stesso Benedetto XVI, nell’Angelus del 1° febbraio 2009, ha ricordato che «la
vera risposta non può essere dare la morte, per quanto “dolce”, ma
testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in
modo umano».
Per
questo, di fronte alle polemiche suscitate da ambienti laici e anche da
cattolici, restano per noi valide le preoccupazioni del cardinale
Bagnasco e della Cei sulla necessità
di «una legge sul fine vita, resasi necessaria a seguito di alcune
decisioni della giurisprudenza. Con questa tecnica si sta cercando di
far passare nella mentalità comune una pretesa nuova necessità, il
diritto di morire, e si vorrebbe dare ad esso addirittura la copertura
dell’art. 32 della Costituzione».
Chi
si impegna in politica secondo ragione può trarre da queste
preoccupazioni della Chiesa uno sguardo più vero alla vita degli uomini,
nel difficile compito di servire il bene comune.
l’ufficio stampa di CL
Milano, 26 febbraio 2009.
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Postato da: giacabi a 14:36 |
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eutanasia
LA SPERANZA DI FERENC FRICSAY
***
Pigi Colognesi [IlSussidiario]
Cosa
aiuta a sostenere la nostra speranza? Ce lo siamo chiesti dopo la
triste conclusione della vicenda di Eluana. Ce lo chiediamo ogni mattina
e, soprattutto, ogni volta che ci scontriamo con qualcosa che sembra
contraddire le nostre attese. Cosa ci aiuta? Sicuramente la
testimonianza di un uomo che spera.
È
proprio sulla base di tale certezza che questo giornale ha cercato di
seguire, con tutte le difficoltà del caso, l'animato dibattito intorno
alla tragica storia di Eluana Enlgaro. Lungi dal criminalizzare
qualcuno, o dal ridurre a questione politica qualcosa che andava a
toccare gli interrogativi più profondi dell'animo umano, abbiamo cercato
di dare voce, appunto, a uomini che sperano. Così, è stato toccante
sentire la testimonianza di persone che lottano tutti i giorni per
affermare il valore della vita anche laddove questo valore sembra
nascosto. E ci piace ricordarne i nomi: Pietro Crisafulli, Cesare Lia,
Claudio Taliento, Fulvio De Nigris, Mario Dupuis, i carcerati di Padova.
E poi ancora le parole bellissime di Bob Schindler, il padre di Terri
Schiavo, della vedova Coletta, di Oscar Giannino.
Sono state voci non di polemica, ma di speranza. Una speranza che non si spegne nemmeno di fonte alla morte
Ancor
di più: nemmeno in prossimità della morte. Ed è proprio per dar conto
di quest'ultimo aspetto che abbiamo deciso di sottoporre a voi lettori i
video che trovate qui sotto. Sono
la registrazione delle prove della Moldava di Smetana, effettuate da
Ferenc Fricsay il 14 giugno 1960. Si tratta certamente di un documento
di alta scuola musicale, di straordinario e raffinato aiuto all'ascolto.
Ma sono soprattutto una testimonianza di speranza. Come spiega lo
speaker della tv che le ha mandate in onda per la prima volta, Fricsay
(direttore d'orchestra ungherese, nato nel 1914) era allora già molto
malato; aveva subito due operazioni e aveva passato una brutta notte;
tanto che avrebbe voluto sospendere le prove. Eppure, potrete
vedere con che passione, finezza, precisione Fricsay conduce gli
orchestrali a comprendere l'intimo della musica di Smetana. Una musica
che racconta la nascita e lo scorrere di un fiume; che poco a poco
capiamo essere la figura del fluire della nostra stessa vita.
Fricsay sarebbe morto, non ancora cinquantenne, nel 1963. Al tempo di queste prove la malattia lo segnava già duramente. Per questo è ancora più commovente quando, all'inizio del quinto spezzone, il direttore si ferma e, per spiegare un passaggio orchestrale ai musicisti, dice: «Perché è veramente bello vivere!».
La nostra speranza, tanto spesso fragile, ha bisogno di testimoni così
grazie a:sguardoleale.it/
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Postato da: giacabi a 11:05 |
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eutanasia
Usa, risveglio dopo 19 anni Un mistero per la scienza
***
Il caso Terry Wallis , dal 1984 paralizzato e in stato vegetativo, poi in coma minimo: le storie
Giovani
in stato vegetativo che tornano a parlare, diagnosi che sembrano
chiudere ogni spiraglio improvvisamente smentite: ecco perché si può
sperare
L’americano
Terry Wallis ebbe un terribile incidente stradale nel luglio 1984,
aveva 20 anni. Nel 2003 si è risvegliato e ha chiamato la madre. ha
parlato nel 2003 Il neurologo Giacino: «Diagnosi affrettate, prevale il nichilismo»
DA MILANO PAOLO LAMBRUSCHI
È stato Joe Giacino, ad aprile, a un convegno internazionale a Lisbona, a riflettere sulla lezione impartita alla scienza dal caso Wallis. Il luminare, la cui equipe sta sperimentando nuove terapie per questi pazienti, ha dichiarato al celebre programma televisivo «Good morning America» sulla rete Abc che gli stati vegetativi vengono diagnosticati troppo in fretta, magari su pressione delle compagnie assicurative. I malati raramente vengono visitati da neurologi dopo la diagnosi e, al sito del dipartimento federale della Sanità, l’anno scorso, ha aggiunto: «Una visione nichilista nella medicina afferma che, quando il cervello è gravemente danneggiato, non c’è nulla da fare. Le ricerche dimostrano il contrario, bisogna approfondire». Sul New York Times del 28 marzo 2003, la sua equipe aveva raccontato la vicenda di un’altra paziente, anonima per volontà dei parenti e in stato vegetativo da 25 anni, la quale periodicamente parlava senza riprendere coscienza. I macchinari le avevano rilevato l’energia cerebrale di una persona in anestesia. Viene infine dal Colorado il terzo, inspiegabile, caso raccontato dal neurologo Randall Bjork alla «Gazette» di Colorado Springs l’8 marzo 2007. Una donna di 50 anni, Christa Lily Smith, la cui diagnosi è «stato vegetativo » periodicamente si risveglia. Piombata in coma nel 2000 per un attacco cardiaco, è migliorata fino a venire alimentata artificialmente. Si è svegliata finora cinque volte, altrettante è tornata in stato vegetativo. Segnali che confermano come la scintilla della vita riesca a resistere anche in frontiere ignote. E che, se non si ha una visione nichilista, tengono accesa la speranza.
Quest'articolo è tratto da http://www.avvenire.it/ del 23/07/2008
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Postato da: giacabi a 17:16 |
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eutanasia
Esce dal coma, non trova più il comunismo
***
Come nel film «Goodbye Lenin», un uomo si risveglia dopo 19 anni e si ritrova in una democrazia (e con 11 nipoti in più)
Un ferroviere polacco di 65 anni aveva subito un grave incidente nel 1988
VARSAVIA – Una storia da film. Proprio come nella celebre pellicola Goodbye Lenin, un ferroviere di 65 anni, entrato in coma 19 anni fa dopo un incidente nella Polonia comunista del generale Wojciech Jaruzelski , si è risvegliato ritrovandosi in una democrazia e, per di più, in un'economia di mercato.
Lo choc deve essere stato davvero forte, anche perché il ferroviere non
ha trovato, come nel film del 2003 di Wolfgang Becker, un ragazzo
premuroso che, per evitare contraccolpi fatali al risveglio della madre,
ha provveduto a togliere e camuffare qualsiasi segnale di cambiamento,
qualsiasi simbolo della caduta del muro e della fine del comunismo.
Secondo quanto hanno riportato i giornali polacchi, Jan Grzebski è praticamente un miracolato: costretto all’immobilità dopo l’incidente del 1988, i
medici gli avevano dato solo due o tre anni di vita. Solo la moglie
Gertruda aveva creduto nel suo risveglio. E ha avuto regione. «Mia moglie Gertruda mi ha salvato, e non lo dimenticherò mai»,
ha detto Grzebski intervistato dalla tv polacca. «Per 19 anni la
signora Grzebska ha svolto il lavoro di un team esperto di terapia
intensiva – hanno dichiarato i medici che hanno assistito il fortunato
paziente – cambiando ogni ora la posizione del marito in coma per
prevenire piaghe da decubito».
A pochi giorni dal risveglio, comunque,
il ferroviere era già riuscito a percepire gli epocali cambiamenti che
in poco meno di due decenni hanno travolto la vecchia Polonia: «Quando
sono entrato in coma c'erano solo tè e aceto nei negozi, la carne era
razionata e c'erano ovunque code per la benzina», ha detto Grzebski.
«Ora vedo la gente nelle strade con i cellulari e c'è così tanta merce
nei negozi che mi gira la testa». Non è stata questa l’unica grande
novità che Grzebski ha trovato al suo risveglio: i quattro figli, in 19
anni, si sono tutti sposati e gli hanno presentato ben undici nipoti.
da: http://www.corriere.it/ 03 giugno 2007
guarda questo filmato: qui lo puoi vedere dialogando con un giornalista ed ammirare la moglie
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Postato da: giacabi a 15:01 |
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eutanasia
Riposi in Pace!
Noi altri, no!
***
Eluana non è più con noi. Riposi in pace. Noi altri, no: non possiamo riposare in pace, come se niente fosse successo.
Suo
padre, Beppino, chiede di essere lasciato solo, in silenzio. E non ha
l'obbligo di leggere quello che scriviamo. Ma noi non possiamo tacere,
come se fosse calato il sipario alla fine di un lungo spettacolo
drammatico: chi piange, chi applaude, chi commenta... E tutti a casa,
per tornare alla vita reale. No, quello che abbiamo vissuto tutti, è vita reale. Anzi, morte reale. Più precisamente: omicidio reale.
I
significati e le conseguenze di questi fatti e dei fiumi di parole,
argomentazioni, slogan e imprecazioni che hanno invaso tutto il paese
intorno a questa vicenda, sono enormi. E vanno ancora al di là della
vita preziosa di Eluana Englaro. Toccano più o meno direttamente altre 2500 persone che si trovano in stato simile al suo.
Si ripercuotono poi inevitabilmente su tante altre persone che soffrono
o possono soffrire situazioni mediche in base alle quali qualcuno
tenderà di nuovo a dire: "È già morto... E' solo un vegetale... È una
vita indegna di essere vissuta... ". Ed eventualmente spingere per una
fine simile a quella di Eluana.
Non
possiamo riposare in pace. Abbiamo l'obbligo morale di "tormentarci",
di riflettere, di imparare e di trarre le dovute conclusioni, etiche e
legali.
In
questo sforzo di riflessione, possiamo per esempio chiederci: chi era
Eluana? Non: chi era quella bella ragazza bruna, sempre sorridente, che
abbiamo visto mille volte e che abbiamo imparato ad amare.
Chi
era la Eluana sul cui destino abbiamo tutti discusso appassionatamente:
a casa, nel bar, nei tribunali, nelle radio e le tv, e alla fine,
troppo tardi, anche al Senato. Chi era, come si trovava veramente, qual
era la sua immagine reale?
Possiamo
forse ricordarla? No, non ci hanno fatto vedere nemmeno un solo scatto.
Sembrerebbe la cosa più logica: il padre voleva custodire giustamente
la sua intimità. Possiamo, però, ricordare l'immagine di Terry Schiavo,
la donna americana fatta morire nel 2005 perché si trovava, anche lei,
in stato vegetativo persistente? Certo che ci ricordiamo!
Quelle
immagini, non potremo mai dimenticarle. Qual è la differenza? Molto
semplice: in quel caso doloroso, qualcuno voleva che vedessimo. Nel caso
doloroso di Eluana si voleva che non vedessimo.
I
genitori di Terry (non il marito, Michael, che la portò fino alla
morte) volevano che noi la vedessimo, affinché potessimo capire.
Volevano che la gente, i giudici e tutti, potessero comprendere che
Terry non era un vegetale; che era una persona viva che apriva e
chiudeva gli occhi, che respirava perfettamente senza alcuna macchina,
che reagiva sorridendo - solo meccanicamente? - alle carezze della
mamma.
Il
signor Englaro faceva bene a proteggere la privacy della figlia. Ma
intanto, per 10 anni è andato in tutte le televisioni e radio di questo
paese a parlare di Eluana, mostrando le sue foto - solo quelle anteriori
all'incidente - e facendo diventare sua figlia un "caso pubblico". Un
caso doloroso che ha toccato, anzi ferito, tutti noi. Ma noi non
l'abbiamo vista. Evidentemente si voleva che non vedessimo, affinché non
potessimo capire.
E
allora, nel nostro doveroso sforzo di riflessione, dobbiamo tentare di
vedere per capire. Conosciamo sempre più casi di persone che escono
dallo stato vegetativo, anche dopo parecchi anni. Sappiamo
di Salvatore Crisafulli, uscito dopo due anni. Ma chi ha seguito il
tema da tempo, conosce anche tanti altri: Patti White Bull, dopo 16
anni; il polacco Jan Grzebski, dopo 19 anni; Terry Wallis, dopo 19;
Massimiliano N., dopo 10...
In
tutti questi casi, come in molti altri, gli interessati raccontano di
aver sentito, capito, patito e addirittura di aver tentato di
comunicare. Motivati da queste esperienze innegabili, l'equipe medica
inglese guidata da A. M. Owen, ha voluto verificare l'eventuale attività
cerebrale in una giovane in stato vegetativo persistente.
L'articolo
scientifico pubblicato sulla rivista Science nel 2006 ha lasciato
attoniti i più increduli: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato
l'attivazione delle varie zone cerebrali, in corrispondenza con gli
inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale
piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente
uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo"
sani.
Infatti,
gli esperti si convincono sempre più - come riferisce un testo
pubblicato due mesi fa dal President's Council of Bioethics degli Stati
Uniti - del fatto che in queste situazioni "la valutazione clinica si
limita a misurare la capacità di rispondere all'ambiente" e che "ci sono
buone ragioni per essere molto cauti prima di assumere che la vita
cosciente si sia estinta".
Certo,
alcuni continueranno a dire, nonostante queste conferme sempre più
numerose e schiaccianti, che comunque si tratta di vite "non degne di
essere vissute", al punto che provocare la loro morte sarebbe una
"liberazione".
In
fondo si tratta di una profonda corruzione ideologica in relazione al
valore della persona, di ogni persona umana. Corruzione che si esprime
in quella che Giovanni Paolo II chiamò "Cultura della morte".
Con
questa espressione non denunciava la nostra società come se fosse tutta
assetata di sangue e di morte. La "cultura della morte" consiste
in una mentalità - plasmata in una serie di realtà sociali - che,
avendo perso di vista il valore intangibile di ogni vita umana, la
considera come un bene relativo e disponibile per la libertà
dell'individuo, così che considera la morte come la soluzione migliore
davanti a certi problemi e l'opzione per essa un diritto che la legge
deve riconoscere all'individuo.
Nel
caso di una gravidanza non desiderata, pericolosa o problematica, la
soluzione è la morte del nascituro; se si tratta di un malato in stato
grave che non trova senso per la sua vita, la soluzione è anticipare
"dolcemente" la sua morte; se si desidera portare avanti la ricerca per
eventuali cure future con le cellule staminali pluripotenti, la
soluzione passa attraverso la distruzione di embrioni umani. La morte,
non come un bene desiderabile, ma sì come soluzione per la quale si può,
e addirittura conviene, optare.
In
verità dovremmo parlare, non di "cultura", ma di "anti-cultura".
Cultura dice coltivazione dello spirito umano nella società. Qui stiamo
tornando invece allo stato selvaggio, non coltivato. Stiamo tornando
indietro. Le conseguenze, se andiamo in quella direzione, saranno
abissali.
Non possiamo, dunque, tacere e chiudere gli occhi della mente e del cuore. Eluana riposi in pace. Noi no.
padre Gonzalo Miranda, L. C.
*Docente presso la Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma
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Postato da: giacabi a 14:23 |
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eutanasia
Nessun uomo è un`isola
***
C`è una differenza tra essere liberi ed essere soli?
“Nessun uomo è un`isola;
Nessuno uomo sta solo.
Ogni uomo è una gioia per me;
Il dolore di ogni uomo è il mio dolore.
Abbiamo bisogno l`uno dell`altro,
perciò io difenderò ogni uomo come mio fratello;
ogni uomo come mio amico.”
(John Donne, «Nessun uomo è un`isola»).
C`è una différenza tra vivere nel mondo in felice dipendenza dagli altri, e nella speranza, e vivere oscenamente di se stessi, della propria autodeterminazione, sempre sotto l`inflessibile e vano sguardo del proprio Io indulgente ma non misericordioso? Camillo Ruini, cardinale, ha posto la vera questione quando ha detto che non si può essere cattolici e al tempo stesso credere nell`autodeterminazione della propria vita (e della propria morte).
Carlo Caffarra, cardinale, in una bella lettera diocesana di sabato scorso, ha chiamato le cose con il loro nome e ha aggiunto che non
siamo solo cittadini di uno stato, apparteniamo a un genere comune,
quello umano, che ha le sue regole innate, prima della costituzione
dello stato, e siamo infine un animale, l`unico, capace di carità perché riconosce la dimensione metafisica della persona, la sua dignità intrinseca e il suo ethos anche nella sofferenza, non solo l`utilità o l`inutilità del suo bios.
da: www.ilfoglio.it del 16.02.09
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Postato da: giacabi a 15:55 |
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amicizia, ferrara, eutanasia
Il filosofo del diritto alla vita: "Eluana, un caso di imperialismo giudiziario"
***
di Stefano Lorenzetto
Paolo Becchi è docente all’Università di Genova. Traduce Hans Jonas e contesta i trapianti di organi "basati su false informazioni". Citandolo, L’Osservatore Romano ha provocato il finimondo
La sentenza del professor Paolo Becchi sul caso Eluana Englaro è lapidaria, appena due parole: «Imperialismo giudiziario ». Il docente universitario parla con cognizione di causa: è filosofo e giurista. «La
Cassazione e la Corte d’appello di Milano si sono sostituite al
legislatore. Ma il compito del giudice è applicare le leggi, non la
Costituzione. Le toghe sono entrate in un conflitto fra due valori
contrapposti - l’autodeterminazione della persona e la sacralità della
vita - che era di stretta competenza del Parlamento. Siamo alla tirannia
dei valori. Il potere giudiziario ha l’obbligo di attenersi ai codici,
punto e basta. E se le leggi non ci sono, o appaiono in contrasto con la
Costituzione, i magistrati devono sollevare la questione di legittimità
costituzionale. Come mai in 17 anni non vi è stato un solo giudice che
sia ricorso alla Corte costituzionale per Eluana? Hanno preferito farle
loro, le leggi. Ora chi ci salverà dal governo dei giudici?».
Becchi
non ama mimetizzarsi fra i cavilli. Da un quarto di secolo è docente di
filosofia del diritto nella facoltà di giurisprudenza dell’Università
di Genova, la città dov’è nato. Lo trovo chino sui libri nel più autorevole dipartimento di cultura giuridica che esista in Italia, quello intitolato a Giovanni Tarello (1934-1987), ricco di scienza e povero di mezzi: sugli scaffali in corridoio le raccolte delle riviste scientifiche - Legal Studies, The Monist, Leviathan, Metaphilosophy
- fermano al 2004, dal 2005 solo fascicoli sciolti, segno che sono
venuti a mancare i soldi per rilegarli. Insegna anche in Svizzera,
all’Università di Lucerna. Ha scritto una quindicina di volumi. In
questi giorni è uscito La vulnerabilità della vita, l’ennesimo contributo su Hans Jonas, il filosofo tedesco contrario all’eutanasia del quale ha tradotto molte opere.
Alle
polemiche sul fine vita il professor Becchi sta facendo il callo. Lo
scorso 3 settembre è bastato che la storica Lucetta Scaraffia citasse il
suo libro Morte cerebrale e trapianto di organi ( Morcelliana) sulla prima pagina dell’Osservatore Romano
per provocare un maremoto. «Per i cattolici sono un pensatore non
ortodosso. Per i laici sono un cattolico reazionario di merda». La
riprova che ha violato il tabù dei tabù:
ha messo in discussione il concetto di morte cerebrale introdotto nel
1968 dall’Ad Hoc Committee della Harvard Medical School. Il cosiddetto
rapporto di Harvard utilizzato in tutto il mondo per giustificare il
prelievo di organi da cadaveri col cuore che pulsa.
Lo studioso si consola in famiglia: «Mia moglie, atea, anticrista e
rifondarola, è d’accordo con me. Il mio secondogenito, 12 anni, ha
detto: “Il cervello da solo non basta. Mi sembra che papà abbia
ragione”». Di figli ne ha tre. Nessuno battezzato, come del resto la
consorte. «Sceglieranno da soli quando saranno maggiorenni». Nel 1955
lui fu invece portato in fasce al sacro fonte dal padre, operaio
dell’Italsider, e dalla madre, casalinga. «Sono un cattolico non
praticante che va in chiesa a Natale e Pasqua o per matrimoni e
funerali». Come dire: le risposte che sto per darle non c’entrano nulla
con la fede.
Chi esce peggio dalla vicenda Englaro?
«I medici. Erano certamente autorizzati a fare ciò che hanno fatto. Ma il senso della loro professione è salvaguardare la vita. Il dottor Amato De Monte ha dichiarato: “Eluana è morta 17 anni fa”. Se per un medico una persona in stato vegetativo è morta, vuol dire che siamo messi veramente male». Il capo dello Stato ha agito bene? «Nel nostro ordinamento ha il compito formale di custode della Costituzione, quindi le sue osservazioni apparivano corrette. Ma è stato assolutamente irrituale anticiparle prima d’avere in mano il decreto del governo, che poteva controfirmare o respingere. E discutibile è anche l’aver definito “non ulteriormente impugnabile” un procedimento di volontaria giurisdizione. Non trattandosi di una sentenza passata in giudicato,come erroneamente si continua a ripetere, in realtà l’autorizzazionea sospendere l’idratazione e l’alimentazione a Eluana era revocabile». Si possono togliere cibo e acqua a un paziente? «Se vengono immessi nel corpo artificialmente, col sondino nasogastrico o con la gastrostomia endoscopica percutanea che richiede un piccolo intervento chirurgico, a mio avviso possono essere tolti, ma solo in presenza di una richiesta scritta da parte del paziente. Si tratta di trattamenti medici che un individuo ha il diritto di rifiutare. In questi casi una commissione etica indipendente dovrebbe valutare al letto del malato se la prosecuzione del trattamento di sostegno vitale non possa ormai essere considerata una forma di accanimento terapeutico». Anche una trasfusione di sangue è rifiutabile? «Certamente». Ogni volta che un giudice ordina trasfusioni di sangue, per esempio a un testimone di Geova che le rifiuta, commette dunque un arbitrio? «Sì. Diverso il caso del figlio minorenne di un testimone di Geova. Lì non è il diretto interessato a rifiutare il trattamento, bensì il genitore, e lo Stato ha il dovere di salvaguardare la vita altrui. Quella che non può essere mai sospesa è l’offerta di cibo e acqua per via orale, anche qualora il malato la rifiuti. Non sempre bisogna dar ragione al paziente». La vita è un bene disponibile o indisponibile? «Se un testimone di Geova può rifiutare una trasfusione, un malato di cancro la chemioterapia e un diabetico con la gamba in necrosi l’amputazione, significa che la vita in taluni casi è un bene disponibile. Indisponibile è la dignità umana. Ma su questo punto la discussione nel nostro Paese non è neppure cominciata, io stesso ci sto lavorando da poco. Se ne occupa solo la Chiesa cattolica». Che cos’è la dignità umana? «Ha un doppio volto: da un lato è qualcosa che inerisce all’essere umano, quindi che riceviamo in dote; dall’altro è qualcosa che ci conquistiamo col nostro vissuto. Ha un aspetto oggettivo e uno soggettivo: combinarli insieme è il problema fondamentale del nostro tempo». Accettando che la vita sia un bene disponibile, si deve per coerenza consentire anche il suicidio. Allora perché, se io sto per buttarmi da un ponte, accorrete tutti per impedirmi di farlo? «Il suicidio può essere discusso moralmente, criticato, ma sotto il profilo giuridico non costituisce più una fattispecie di reato, in nessuna parte del mondo». Se non altro perché il reato si estingue con la morte del reo... «Ma guardi che la depenalizzazione del suicidio è collocabile tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Prima erano previste vere e proprie sanzioni per il suicida, come la confisca generale o parziale del patrimonio e una sepoltura infamante. In Inghilterra le pene contro il cadavere furono abolite solo nel 1851. In precedenza il corpo del suicida veniva infilzato in un bastone, trascinato per le strade e sotterrato senza funerale in un luogo a caso. La confisca del patrimonio fu abrogata nel 1873». Dare disposizioni circa la propria morte è un diritto individuale inalienabile? «Fino a un certo punto. Una persona non può chiedere con disposizione scritta che un medico metta fine alla sua vita in determinate condizioni. E non perché la vita sia indisponibile, ma perché un medico non può proprio farlo, andrebbe contro la sua etica professionale». Si fida dei medici? «Nel complesso ho fiducia. La cosa più inaudita è che nelle facoltà di medicina non esista come materia la bioetica. Sa quante ore le vengono dedicate nell’intero corso di studi universitari? Due, o poco più». Perché è contrario ai trapianti di organi? «Non sono contrario. Ma credo che non si possano più giustificare in base alla definizione di morte cerebrale fissata quarant’anni fa dal rapporto di Harvard. Va detto chiaramente che il donatore è entrato in un processo di morte, ma non è ancora morto. Contesto una donazione che si basa su una falsità di comunicazione. In Italia io non donerei i miei organi. In Giappone sì: là viene spiegato al donatore che un paziente in morte cerebrale non è un cadavere». Qui da noi invece vige da dieci anni la legge sul silenzio-assenso che ci trasforma d’ufficio in donatori, salvo opposizione. «Ma la regola del silenzio-assenso non vale, perché nessun ministro della Salute ha mai emanato il decreto che era previsto entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge. Questo significa che quella norma non è stata accettata, né dai cattolici né dai liberali, in quanto estromette la famiglia da ogni decisione, impedisce ai congiunti del morto cerebrale di dire l’ultima parola, di opporsi all’espianto anche in presenza di un atto di volontà del loro caro». Una mia amica ha aderito all’Aido in giovane età e dopo 18 anni ha cambiato idea, ma s’è accorta che sul retro del documento associativo c’è scritto: «Questa tessera è sempre valida», in rosso e tutto maiuscolo. Quindi figurerà nel database del Sistema informativo trapianti fra 1.119.760 potenziali donatori fino a quando non le restituiranno l’atto olografo. «Nel frattempo farebbe bene a conservare tra i documenti personali una dichiarazione scritta di proprio pugno e datata, in cui esprime il cambio di volontà». Se lei finisse in dialisi rifiuterebbe un rene? «Certo, lo rifiuterei in base al criterio di reciprocità. Dico di più: nelle liste d’attesa per i trapianti andrebbe data la precedenza a chi s’è dichiarato donatore». E se una cardiopatia affliggesse uno dei suoi figli, si opporrebbe al trapianto di cuore? «Non vedo perché un mio principio ideologico dovrebbe condizionare la loro vita». Che cos’è accaduto dopo l’articolo sull’«Osservatore Romano»? «Premesso che non conoscevo Lucetta Scaraffia, mai vista né sentita, ho notato che non s’è voluto parlare del mio libro. La Repubblica è stata divertentissima. Il primo giorno ha fatto intervenire Ignazio Marino, chirurgo trapiantista e senatore del Pd: “Atto irresponsabile”. Siccome il dibattito non si spegneva, il secondo giorno ha schierato un altro pezzo da 90, Umberto Veronesi: “I padroni della vita”. Il terzo giorno è sceso in campo il direttore Ezio Mauro: “La Chiesa e i precetti dei teocon”. Traduzione: adesso basta, mi sono rotto i coglioni. Fine del dibattito. Ha vinto lo stalinismo culturale del giornale che s’è incaricato di fare la politica dell’opposizione in Italia, il vero contropotere da quando la sinistra non è più al potere. Non a caso sono stato contattato da tutti i giornali, tranne che da Repubblica». Chi sono gli scienziati che hanno messo in discussione il rapporto di Harvard? «Basti citare i medici Robert Troug e James Fackler, che fin dal 1992 hanno dimostrato come i mezzi clinici impiegati per accertare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo in realtà non siano in grado di farlo. Il neurologo Alan Shewmon ha documentato il caso di T.K., in stato di morte cerebrale dall’età di 4 anni per una meningite e tuttavia indubbiamente ancora vivo a 18 e mezzo: non aveva più alcuna funzione encefalica, eppure la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna aumentavano quando Shewmon gli pizzicava varie parti del corpo. Vuole un nome italiano? Il professor Carlo Alberto Defanti». Il neurologo che si occupava di Eluana? «Proprio lui. L’involontario responsabile della conversione credo d’essere stato io. Gli ho mandato in visione alcuni materiali tradotti in italiano per il mio libro Questioni mortali. Mi aspettavo una replica critica. Invece m’è arrivata un’autocritica. Ha ammesso“l’impossibilità di esplorare le funzioni di ampi settori del cervello nell’individuo in stato di coma” e ha riconosciuto che la morte cerebrale“ non dimostra compiutamente l’assenza irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Ricordo, per inciso, che Eluana non era in morte cerebrale». Ma lei ci crede sì o no, alla morte cerebrale? «All’irreversibilità sì, alla morte dell’organismo no. Una donna in morte cerebrale può partorire. La controprova è offerta dagli stessi trapiantisti: usano gli organi dei pazienti in morte cerebrale proprio perché sono perfetti. Nel 1975, quando fu approvata in Italia la prima legge in materia, tenevano il malato attaccato al respiratore anche se non era candidato all’espianto. Adesso, se non sei donatore di organi, dopo sei ore te lo spengono. E te lo spengono anche se sei un bambino». Come sarebbe a dire? Di che sta parlando? «La legge del 1993, tuttora in vigore, stabilisce che il periodo di osservazione per l’accertamento della morte cerebrale debba essere di 24 ore per i bimbi fino a un anno di età e di 12 ore per quelli fino a 5 anni. Ma il ministro Livia Turco, due giorni prima delle elezioni politiche del 2008 che hanno mandato a casa il governo Prodi, ha emanato un nuovo regolamento che riduce a sole 6 ore questo periodo, come per gli adulti. Un atto scandaloso, perché nella gerarchia delle fonti un decreto ministeriale è sempre inferiore a una legge, non può stabilire qualcosa che sia in contrasto con la legge. Eppure è avvenuto, alla chetichella e nel disinteresse generale». Perché la Chiesa ha accettato il criterio della morte cerebrale? «Molto semplice: per non aprire il tema dell’eutanasia. Non solo la Chiesa, ma tutti noi, abbiamo risolto il problema con un colpo d’accetta. Se i morti cerebrali sono cadaveri, possiamo fare di loro quello che vogliamo. Fossero in una zona grigia, bisognerebbe discutere se e come lasciarli morire». Ma nel catechismo non c’è traccia della morte cerebrale. L’allora cardinale Joseph Ratzinger cancellò di suo pugno l’aggettivo «cerebrale », sostituendolo con «reale». «Questo significa che il Papa ha le mani legate. È sulle mie posizioni, ma non può dirlo». E chi glielo impedirebbe? «Consideri che il cardinale Dionigi Tettamanzi, molto influente nella Conferenza episcopale italiana, è un convinto trapiantista. Anzi, lui va persino oltre: è per la nazionalizzazione dei corpi, altro che volontà individuale! Donare, per l’arcivescovo di Milano, è un dovere sociale, non c’è bisogno di consenso, perciò lo Stato si pigli i cadaveri e non se ne parli più. E infatti l’unico giornale che non ha presentato il mio libro sui trapianti è stato Avvenire, l’organo della Cei». Che cosa pensano di lei in ambiente universitario? «Che sono irrecuperabile». Stefano Lorenzetto (440. Continua) stefano.lorenzetto@ilgiornale.it |
Postato da: giacabi a 10:20 |
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eutanasia
ELUANA/
***
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Postato da: giacabi a 21:40 |
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eutanasia
ELUANA/
E' UNA VITA CHE C'E'
***
Durante
un incontro pubblico, un avvocato amico di Eluana ha raccontato come,
davanti a una domanda, è cambiato il modo in cui guarda a lei e alla sua
vicenda. Ecco il suo intervento.
Premetto che non sono del movimento. Sono un amico di Eluana, uno di quei quattro famosi amici che dovevano testimoniare al processo,
anche se poi la mia testimonianza non è stata sentita. In tutti questi
anni ho parlato spesso con il padre di Eluana: essendo stato indicato da
sua figlia, a suo tempo, come un caro amico, mi ha sempre coinvolto in
questa vicenda.
Di
fronte a una cosa così, la prima reazione è quella che ho avuto
anch’io: avevo ventun’anni, perché io ho un anno in meno di Eluana, e la
prima reazione è stata quella della fuga. Poi la realtà ritorna, perché
Beppino Englaro mi ha cercato più volte con insistenza e mi ha posto
davanti a questa realtà. Ho visto che la Chiesa e il movimento hanno sempre sottolineato la buona fede di Beppino… Ed è assolutamente così.
Quando
mi confronto con lui, c’è un problema giuridico che - è chiaro -
provoca un corto circuito anche per un avvocato come me, perché l’obiezione
che ti fa lui è: «La famosa signora Maria, che aveva la cancrena alla
gamba, ha potuto rifiutare le cure, come la Costituzione prevede. Eluana
è in una condizione molto peggiore, perché non può esprimere il suo
pensiero. Eppure a lei non viene permesso», o almeno, non era permesso
finché la Cassazione non è intervenuta. In pratica, dice: «Questa
ragazza è in una posizione di maggior debolezza», e questa è una cosa
che ti prende molto.
Ma
c’è un’altra cosa davanti alla quale io mi sono trovato, e mi trovo, in
difficoltà. Io sono andato spesso a trovare Eluana, soprattutto
all’inizio. La sensazione è quella di parlare con una persona che non ti
ascolta, che non ti sente. Ultimamente sono stato a trovarla e le
parlavo, ma nel momento stesso in cui le parlavo, una parte di me si
sentiva stupida, nel senso che non ero convinto di parlare con una
persona che mi potesse sentire...
Io non voglio esprimermi. Vi
porto solo la testimonianza di una persona che la conosce per come era
prima, che ha vissuto la battaglia del padre, che si è confrontato anche
su posizioni diverse - perché io gliele ho sempre fatte conoscere - e
che di fronte a questa cosa si è sempre chiesto: ma questa è vita?
Perché il problema è questo qui, il
problema che mi ponevo io da cattolico, di fronte a una cosa che fa
parte della mia vita, che mi ha colpito in modo così evidente, è: questa
è vita?
Dopodiché, però, questa domanda l’ho risolta. Perché
nel momento in cui è uscita la sentenza della Cassazione io ho smesso i
panni dell’avvocato, ho smesso i panni della persona che può stare a
destra o a sinistra, può essere cattolico o no, e dentro di me ho detto:
ma tu lo faresti veramente? E
la risposta è stata: no. Io non riuscirei mai a fare questa cosa. E
allora, forse, se una persona dentro di sé, guardando nel suo cuore,
sente che non riuscirebbe mai a fare questa cosa, forse è perché questa
forma di vita così, a livello così minimo di coscienza - anche se la scienza non è ancora in grado di stabilire quale sia questo livello di coscienza -
è comunque un mistero, è comunque una vita che c’è, è comunque una cosa
misteriosa. E io, come uomo, non mi sentirei mai di sopprimerla.
Nicola Brenna
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Postato da: giacabi a 21:17 |
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eutanasia
ELUANA/
Deturpata?
«Era bella, sette giorni fa»
***
di Lucia Bellaspiga
«È un uomo tutto da capire». Ora che importanza può avere che Eluana avesse un aspetto salubre o malato, che fosse magra o in carne? Oggi davvero tutto questo sarebbe abissalmente lontano, persino grottesco. Se non fosse che quel corpo, anche ora che tace, continua a parlare, eccome se parla. E racconta anni di assistenza perfetta a tutti i livelli. O invece altrettanti anni di «violenze subìte», a sentire chi vorrebbe una Eluana scarnificata, «dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo», che «pesava meno di 40 chili», le cui «braccia e gambe erano rattrappite», con il viso tutto piagato da «quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena ma a lei anche in faccia»... Questo si leggeva infatti sul 'Corriere della Sera' di ieri a firma Marco Imarisio, questo il papà di Eluana gli riferiva «ancora ieri mattina» ( cioè lunedì 9, giorno della morte), offrendo un quadro raccapricciante dello stato di sua figlia (che lui ha visto per l’ultima volta martedì 3, il giorno dopo l’arrivo a Udine). Bisognerebbe solo tacere, adesso, ma simili dichiarazioni disorientano un’opinione pubblica che non sa più dove sta la verità e ha diritto di sapere: perché l’uccisione di Eluana non è (e non è mai stata) un fatto privato, e oggi sostenere che fosse in stato terminale, un lumicino che attendeva solo un soffio per spegnersi, suona come una gravissima e fuorviante deriva. L’ennesima. Difficile, peraltro, da sostenere: non solo lo stesso neurologo Carlo Alberto Defanti ancora l’altroieri (lunedì 9), non prevedendo il crollo della paziente, insisteva sulle sue 'ottime' condizioni fisiche («al di là della lesione cerebrale è una donna sana, mai una malattia, mai un antibiotico, probabilmente resisterà più a lungo della media»), ma curiosamente lo stesso Corriere per due giorni consecutivi ha affidato a un’altra dei suoi inviati a Udine la descrizione dello stato di Eluana, di segno opposto a quella del collega: per altri tre o quattro giorni, scriveva infatti Grazia Maria Mottola sabato 7 febbraio, «il suo volto resterà ancora intatto, le guance piene, gli occhi allungati, le labbra rosa...», certo, aggiungeva poi, non ha più l’ombretto azzurro sulle palpebre né le pose da modella delle foto di vent’anni fa, ma è «pur sempre bella anche oggi, soprattutto per la pelle, ancora bianca e distesa». Solo tra qualche giorno, diceva dopo aver sentito Defanti e De Monte, «il viso comincerà ad affilarsi, e zigomi e naso spunteranno sempre più pronunciati. Ma nessuno permetterà che la sua pelle si raggrinzisca e perda il candore». Ancora lo stesso quotidiano e la stessa cronista, domenica 8 febbraio, dedica un intero articolo a descrivere un’Eluana che è ovviamente «l’immagine sbiadita della bruna stupenda» di un tempo, ma ha gli stessi lineamenti solo più delicati ed è ancora bella. La giornalista rivela di averla vista dal vivo nella stanza di Lecco più volte, anche a ottobre nel giorno in cui un’emorragia se la stava portando via. Anche in quelle condizioni «la pelle è chiara e distesa, gli occhi profondi che non si fermano mai», ma la bocca «si apre e si chiude boccheggiando» per la morte che pare imminente. Invece la crisi passa e pochi giorni dopo «il viso è sempre lo stesso», la vita riprende i suoi ritmi con « le passeggiate in carrozzella, la ginnastica tra le mani delle suore». E, aggiungiamo noi, di quattro fisioterapisti che tutti i giorni si alternavano per tenere tonici i muscoli e sano il fisico. Girata continuamente nel letto antidecubito, Eluana non aveva una piaga e i suoi arti erano sodi grazie alla ginnastica passiva, quella che migliaia di altri pazienti in stato vegetativo purtroppo non ottengono, dati i costi di simili trattamenti. Allo stesso Defanti la sera dell’emorragia avevamo chiesto personalmente come Eluana potesse essere così florida e sana, senza una piaga, e il medico aveva attribuito senza esitazioni il merito «a queste suore che volontariamente la assistono con una competenza e abnegazione che io non ho mai visto altrove». E così stridono ancora di più le ultime dichiarazioni rilasciate ieri sera da Beppino al tg del Friuli: «Non perdòno la mancanza di rispetto nei riguardi di Eluana e della mia famiglia tutti questi anni. Eluana ha subìto non un accanimento terapeutico, ma una violenza terapeutica: non voleva che nessuno le mettesse le mani addosso e loro lo hanno fatto continuamente per 17 anni». Anche dinanzi a insinuazioni ingiuriose le suore chiedono solo silenzio e preghiera, e ancora ieri si preoccupavano per Beppino, l’uomo che hanno sempre rispettato al punto da essere state inflessibili guardiane di quella figlia diventata anche loro, al cui capezzale non accedeva nessuno - senza eccezioni se non era accompagnato dallo stesso Englaro. Ieri per ultima alla ridda di voci si è aggiunta quella di Marinella Chirico, giornalista Rai, che domenica pomeriggio, quando Eluana era già priva di cibo e acqua da tre giorni, proprio da papà Beppino è stata fatta entrare nella stanza della figlia assieme al fratello Armando Englaro: «Mi ha chiesto di vederla perché critiche 'ferocissime e crudeli' mettevano in dubbio il suo stato reale», spiega la collega, che là dentro 'scopre' che Eluana, dopo 17 anni di stato vegetativo, «è irriconoscibile rispetto alle foto » ( di venti anni prima e di ragazza sana), che è «una donna completamente immobile», che «gli infermieri sono costretti a girarla ogni due ore», per evitare il decubito (come a Lecco si è fatto per 15 anni), che solo le orecchie «presentano lesioni» in quanto «unica parte del corpo non tutelabile nemmeno girandola»… C’è da chiedersi come immaginava che fosse uno stato vegetativo (incontrare questi pazienti è sempre una delle esperienze più toccanti) e se avesse nella sua vita avvicinato già altri pazienti del genere (ma certo non curati come Eluana). A questo punto, però, di «ferocissimo e crudele» c’è solo un terribile sospetto: se davvero una settimana nella casa di riposo di Udine è bastata, come dice la Chirico, a fare di Eluana un corpo la cui vista era 'devastante', che cosa le hanno fatto? Come si distrugge in sette giorni un equilibrio stabile da quindici anni? Per Eluana ormai non c’è più nulla da fare, ma a chi di dovere ora almeno l’obbligo di far emergere tutta la verità. Lucia Bellaspiga (tratto da Avvenire dell’11 febbraio 2009) |
Postato da: giacabi a 21:03 |
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eutanasia
ELUANA/
Il padre di Terri Schiavo:
c’è una speranza più forte del dolore
***
mercoledì 11 febbraio 2009
Riceviamo e pubblichiamo in esclusiva la lettera che Bob Schindler senior, padre di Terri Schindler Schiavo, saputo della morte di Eluana, ha inviato a ilsussidiario.net, dopo la sua prima lettera di domenica scorsa indirizzata a Beppino Englaro.
Siamo
molto addolorati nel sentire di Eluana e pieni di tristezza per lei.
Aveva solo 38 anni. Eluana è morta solo quattro giorni dopo che i medici
hanno cominciato ad interrompere la sua alimentazione e idratazione,
con l’intento di causarne la morte.
Tristemente,
la morte di Eluana ci ricorda ancora le parole di Papa Giovanni Paolo
II. L’averle tolto cibo e acqua, cioè l’assistenza di base, così da
farla morire, è una cosa che riguarda tutti noi e il modo in cui ci
prenderemo cura di quelli che hanno bisogno del nostro amore e della
nostra compassione per continuare a vivere.
Per
la nostra famiglia non passa giorno che noi non pensiamo alla nostra
amata Terri e stiamo ancora soffrendo molto per una perdita così grande. Da
quando Terri è morta, abbiamo deciso di portare avanti il suo lascito
di vita e di amore, così che il suo sacrificio non sia avvenuto invano
e, cosa più importante, che altri possano evitare lo stesso terribile
destino.
Una
cosa che sappiamo è che la questione non muore con Terri o Eluana,
perché ci sono decine di migliaia di persone che vivono con lo stesso
tipo di infermità. E le loro vite sono estremamente vulnerabili al
crescente pregiudizio contro chi soffre di una infermità cognitiva.
Dopo
la morte di Terri, la nostra famiglia ha dato vita alla Terri’s
Foundation, per poter sostenere le persone con gravi danni cerebrali che
sono in pericolo di essere uccise, in base a questa crescente tendenza a
considerare la loro vita come “non degna di essere vissuta”.
Noi
siamo profondamente addolorati per l’inutile morte di Eluana, ma siamo
pieni di speranza che sempre più persone diventino coscienti di come
viene trattato chi soffre di infermità come quelle di Terri ed Eluana, e
che il nostro mondo cominci a dare valore alle loro vite, piuttosto che
eliminarle.
Noi
preghiamo perché il padre di Eluana e tutti quelli che hanno preso
parte nella sua morte possano un giorno ridare valore alla vita e capire
che tutte le persone sono state create con pari dignità e rispetto, non
importa quale infermità possano avere.
Ciò
che dà qualità e valore alla vita è l’amore. Amare ed essere amati è
ciò che dà valore alla vita. L’amore è l’arbitro ultimo della vita.
L’eutanasia è l’abbandono dell’amore. Dove c’è amore, c’è speranza.
Robert Schindler Sr e la famiglia di Terri
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Postato da: giacabi a 20:42 |
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eutanasia
La testimonianza
***
Di: padre Aldo TRENTO
Data: Tue, 10 Feb 2009 16:26:17 -0300
Cari amici,a Eluana l'abbiamo amazzata ed ora, in questo momento è morto il mio piccolo Andrès.
Lo
guardo ma oggi i miei occhi, il mio cuore sono duramente provati, come
lo sono tutti i giorni vedendo morire tutti i miei figli che arrivano
qui. Più di 600 in quattro anni e mezzo. Solo chi ha perso un figlio può
capirmi. O meglio chi ha perso un figlio avendo il cuore innamorato di Cristo.
E' un dolore come quello della Madonna ai piedi della croce, ma pieno
di pace. Sento il cuore piegato anche fisicamente e nello stesso tempo
vedo le porte del paradiso aperte. Andrès è morto circondato da noi, in
ginocchio al suo fianco, celebrando la Messa. La sua agonia lunga e
dolorosa. I suoi gemiti mi soffocavano le parole della Messa nella gola.
Vedere per la seicentesima volta morire un altro figlio. E' sempre un
dolore nuovo e profondo. E' sempre rivivere il Mistero della morte e
risurrezione di Cristo.
Molti mi chiedono: ma come fai a resistere?
Cosa ti risponderebbe un padre, innamorato di Cristo? Ecco lì è il cuore di tutto.
E' vivendo la realtà di cui il dolore vissuto dentro un abbraccio come
quello che Giussani ha avuto per me, che si trasforma in una porta che
ti introduce nel cuore di lei, dove scopri la bellezza del Mistero che
mediante la morte ti porta con sè per poterlo vedere “in faccia”. Il corpicino freddo di Andrès è qui al mio fianco.
Ci starebbe in un sacchettino. Ma lui, Andrès è il mio Gesù in braccio alla Madonna ai piedi
della croce. Che bello questo suo corpo che per tanto ho adorato in
compagnia dei miei amici medici e tutto il personale. Come vorrei che
Eluana in questo momento avesse la stessa compagnia che ha il mio
Andrès. Amici cosi Eluana è come ci dicesse; “abbiate
il coraggio di guardare in faccia la realtà...riprendete il capitolo X
del Senso Religioso....è l' unico cammino perchè non abbiamo da seguire
uccidendo la realtà di cui ogni uno è il cuore”. I
miei figli che muoiono, i miei bimbi completamente muti per la
malattia, tutti con il sondino per poterli alimentare.....sono tutti
piccole Eluana....e mi rimandano al Mistero fatto carne in loro. Loro
sono Gesù nella croce. Ma capite cosa vuol dire per me e perchè vi
scrivo in un certo modo....che può infastidire chi non è padre, chi non
ha mai perso un figlio...chi è borghese. Si può stare davanti alla morte
di Eluana come stiamo normalmente davanti alla realtà: distratti.
La
verginità è una pienezza di paternità e maternità con una ferita che si
rimarginerà solo nel mio incontro definitivo con Cristo. La
Verginità esige le stimate del cuore e solo così diventa la forma più
alta di dolore, di amore e di gioia, di paternità. Che Eluana ci perdoni
il poco amore alla realtà, il poco senso del Mistero che viviamo e che
Andrès ci doni la grazia di morire come lui: in compagnia di Gesù,
Giuseppe e Maria.
La compagnia di chi ci vuole bene.
Lo
affido alle vostre preghiere. Domani lo porterò con me al cimitero. Mi
viene in mente quella donna dei Promessi sposi che usciva di casa con il
suo piccolo morto per peste in braccia... Anche
il mio Andrès e così piccolo e riposerà fra i tanti miei figli morti in
compagnia di questo povero peccatore e dei miei amici. Vorrei tanto che
fosse sempre lo stupore a muoverci, perchè solo cosi scopriremo che la
realtà è Provvidenziale per cui Eluana ed Andrès diventano cammino al
riconoscimento del Mistero.
Termino questa mattina la lettera. Ho dormito poco e neanche il sonnifero non ha servito a niente. O
meglio ha servito perchè la prima cosa fatta stamani è stata quella di
confessarmi, perchè, essendo il corpo mistico di Cristo tutti siamo
responsabili dell' accaduto a Eluana. “Datemi 4 persone innamorate di
Cristo e metterò a ferro e fuoco l' Italia” diceva Santa Caterina. Dio
voglia che siamo fra questi
Con affetto
P. Aldo
Messaggio inoltrato
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Da: padre Aldo TRENTO
Data: Mon, 9 Feb 2009 12:08:45 -0300
Oggetto: LETTERA 09/02/09
Cari amici,
QUESTA MATTINA
guardando gli amici che stanno imbottigliando la nuova acqua minerale “S.Rafael” mi
sono ricordato di Giussani che di fronte ad ogni iniziativa esclamava:
che bello! Il contrario di noi che diciamo: ma, riuscirò, vale la pena…
Lui reagiva sempre con lo stupore, la commozione. E solo in un secondo
momento guardandoti in azione correggeva. Per questo affascinava, da
subito.
ORE 18:00
Sono
qui in adorazione a fianco del piccolo Victor, il quale oggi, non
bastasse quello che ha, è tormentato da una polmonite. Non può tossire,
mi dicono i medici, ed è un problema per il catarro, ma i medici con il
cuore di carne e la ragione umilmente piegata al Mistero lo stanno
aiutando bene. Lui geme. Lo guardo: è quasi peggio di Gesù sulla croce,
perché per lo meno Gesù era tutto intero, ma Victor… E resiste,
stringendo da sempre i piccoli pugni. L’altro giorno, celebravo la Messa
nella sua camera. La prima lettura diceva: “Dio castiga i suoi figli
prediletti”, “corregge quelli che ama” (lettera agli Ebrei). Guardavo il
mio Victor. Facevo fatica a capire quel versetto, ma poi ho visto il
crocifisso e il mio cuore, il mio viso, si sono illuminati. Victor,
Eluana, Celeste, Cristina, Aldo, sono i prediletti di Dio e per questo
li ha associati, resi partecipi della condizione di Suo figlio sulla
croce. Che privilegio, amici miei! Ho celebrato la Messa con una
commozione unica: Eucaristia e Victor, Cristina, Aldo erano la stessa
cosa ed io il padre che offriva nell’altare quest’unica ostia bianca, in
remissione dei nostri peccati.
Per questo qui nella clinica si vive, si cammina, si lavora con il cuore e la mente in ginocchio.
Per
questo chi passa per di qui esce cambiato, se ha il cuore semplice dei
miei medici, infermieri e delle donne delle pulizie. La ragione è umile
quando vive in ginocchio davanti al Mistero.
Il
Mistero ci sorprende sempre attraverso la realtà. L’imprevisto è,
credo, una delle più belle e affascinanti caratteristiche del Mistero.
N.N.
è stata trovata nuda nella strada a 400 km da qui. Un veloce test
medico: AIDS. Portata come in coma ad Asuncion viene depositata durante
la notte davanti alla porta dell’ospedale di medicina tropicale. Però le
hanno messo un pannolone. Quando
i medici se ne accorgono la ricoverano. Avrà 19 anni, la chiamano
Patrizia. È anche morta di fame. Mangia il cartone che trova. È
abbandonata. La portano qui. Mi pongo in ginocchio davanti a lei, la
bacio con tenerezza. Le lacrime mi irrigano il volto. Cristina, la santa
dottoressa infettologa del mio ospedale, laureata a Cuba, ma con una
fede grande e bella come il sole, mi racconta nei dettagli la situazione
di Patrizia. Ho il cuore rotto. L’unica cosa che riesco a fare è
adorare la sua persona, quel corpo sfigurato, abusato, violentato…eppure
tempio dello Spirito Santo.
La guardo avvolta nelle lenzuola bianche. È molto bella, profumata, la
bacio. È proprio Gesù, è la Maddalena che è venuta a trovarmi. Così,
dopo la cresima appena celebrata di Gessica, adesso Ruben, che ha
ritrovato la sua identità maschile, abbiamo fatto festa anche a
Patrizia. Che belli questi miei figliocci, tutti un tempo transessuali o
travestiti ed oggi qui con me, loro padrino, a fare festa.
Ma che grande scenario questa clinica dove ogni minuto si vive la
parabola del figlio prodigo, dove ogni domenica mangiamo la torta perché
un figlio torna al padre. Adesso anche Patrizia, di cui non sappiamo
niente delle sue origini, niente di niente del suo passato, fa parte di
questa storia di salvezza.
Amici, l’uomo è un mistero, così com’è quando lo incontri ed io vivo solo per adorarlo.
Pregate
per Patrizia e per Andrei, il ragazzo di soli 22 anni, tutto deformato e
che pesa 18 kg che è molto grave. Lo stiamo accompagnando a casa, lassù
dove c’è Gesù che ci aspetta tutti. È proprio bello vivere con questa
certezza.
Oggi abbiamo pregato, noi terminali, per Eluana perché lei possa vivere.
P.Aldo e amici
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Postato da: giacabi a 21:59 |
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eutanasia, padre trento
ELUANA
«CI VORREBBE UNA CAREZZA
DEL NAZARENO»
***
«L’esistenza
è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso,
sempre e comunque » (Enzo Jannacci, Corriere della Sera, 6 febbraio
2009).
Ma una vita come quella di Eluana si può riempire di senso? Ha ancora significato?
La
morte di Eluana non ha chiuso la porta a queste domande. Anzi. Non è
tutto finito, come un fallimento della speranza per chi la voleva ancora
in vita, o come una liberazione per chi non riteneva più sopportabile
quella situazione. Proprio ora la sfida si fa più radicale per tutti.
La
morte di Eluana urge come un pungolo: come ciascuno di noi ha
collaborato a riempire di senso la sua vita, che contributo ha dato a
coloro che erano più direttamente colpiti dalla sua malattia,
cominciando da suo padre?
Quando
la realtà ci mette alle strette, la nostra misura non è in grado di
offrire il senso di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Soprattutto,
di fronte a circostanze dolorose e ingiuste, che non sembrano destinate a
cambiare o a risolversi, viene da domandarsi: che senso ha? La vita non
è forse un inganno?
Il
senso di vuoto avanza, se rimaniamo prigionieri della nostra ragione
ridotta a misura, incapace di reggere l’urto della contraddizione. Ci
troviamo smarriti e da soli con la nostra impotenza, col sospetto che in
fondo tutto è niente.
Possiamo «riempire di senso» una vita quando ci troviamo davanti a una persona come Eluana?
Possiamo
sopportare la sofferenza quando supera la nostra misura?Da soli non ce
la facciamo. Occorre imbattersi nella presenza di qualcuno che
sperimenti come piena di senso quella vita che noi stessi invece viviamo
come un vuoto devastante.
Neanche
a Cristo è stato risparmiato lo sgomento del dolore e del male, fino
alla morte. Ma che cosa in Lui ha fatto la differenza? Che fosse più
bravo? Che avesse più energia morale di noi? No,
tanto è vero che nel momento più terribile della prova ha domandato che gli fosse risparmiata la croce.
In Cristo è stato sconfitto il sospetto che la vita fosse ultimamente un fallimento: ha vinto il Suo legame col Padre.
Benedetto XVI ha ricordato che per sperare «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato.
Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita…potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù” (Rm 8,38-39). Se
esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta,allora –
soltanto allora – l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada nel caso
particolare»
(Spe salvi 26).
La
presenza di Cristo è l’unico fatto che può dare senso al dolore e
all’ingiustizia. Riconoscere la positività che vince ogni solitudine e
violenza è possibile solo grazie all’incontro con persone che
testimoniano che la vita vale più della malattia e della morte. Questo
sono state per Eluana le suore che l’hanno accudita per tanti anni,
perché, come ha detto Jannacci, anche oggi «ci vorrebbe una carezza del
Nazareno, avremmo così tanto bisogno di una sua carezza», di quell’uomo
che duemila anni fa ha detto, rivolgendosi alla vedova di Nain: «Donna,
non piangere!».
10 febbraio 2009 Comunione e Liberazione
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Postato da: giacabi a 14:59 |
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eutanasia, cl
Con quale autorità
«C’è
chi dice che la vita è una malattia trasmessa per via sessuale, mortale
al cento per cento. È questo che si è voluto affermare uccidendo Eluana
Englaro?». Per il leader laico di Cl Giancarlo Cesana «negare la carità
è negare la libertà di amare»
di Luigi Amicone
***
È
proprio vero che Dio scrive dritto sulle righe storte. Shit happens. È
la vita. Le cose brutte accadono. Per esempio, è accaduta per Eluana
Englaro l’esecuzione di una sentenza di condanna a morte per fame e per
sete. Nella sue ultime ore abbiamo seguito gli aggiornamenti della
notizia scorrendo i siti internet. O buttando occhiate di sgomento su
giornali e televisioni. Ma cosa accade quando accade qualcosa di vero
anche dentro un’immensa menzogna? Secondo chi l’ha fatta morire, Eluana
era morta da diciassette anni. Eppure Eluana aveva la tosse. È stato
come il sorgere improvviso di una bella giornata di sole. Come la
petizione popolare che Roberto Formigoni e gli altri hanno lanciato al
presidente Giorgio Napolitano sabato scorso. E già domenica la redazione
di Tempi è stata investita da migliaia e migliaia di firme via fax
raccolte da gente comune, gente che ha visto per caso questa cosa nel
nostro sito, e che l’ha segnalata al vicino di casa o l’ha messa su un
bancone di bar o l’ha portata alla Messa domenicale. Non c’è niente da
fare, e ciò è la consolazione e la speranza del vivere, anche del vivere
in galera o inchiodati a un letto: un’esperienza di verità spegne come
il fuoco nell’acqua qualsiasi cosa nello spettro che va dalla pura
ricerca alla pura menzogna. È come il ribellarsi autentico dell’animo
umano davanti a una disumanità così conclamata e imposta da una folle e
ideologica interpretazione della Costituzione italiana, avvalorata dai
massimi vertici dello Stato. È l’imprevedibile, imprevisto, grande moto
di umanità che si è opposto con la preghiera, la parola, la
testimonianza, la lettera, la pietà e la carità popolare al vuoto di
pietà, carità, misericordia del potere scettrato. È come la politica
autentica. Poiché, come andiamo dicendo da quando siamo nati, la prima
politica è vivere. La
politica con la P maiuscola: da quell’eroe che è stato il ministro del
Welfare Maurizio Sacconi, a quel gigante che si è dimostrato Silvio
Berlusconi e, a seguire, tutto il governo (e caro zio Giulio Andreotti che ti sei unito ai corifei della buona morte, questa volta hai proprio peccato), che contro ogni aspettativa hanno sostenuto fino in fondo la buona battaglia della verità della vita. O, finalmente, accade Enzo
Jannacci, l’ateo malinconico, giocoso, poeta, che se ne esce bel bello
da sotto i kilt del Corriere della Sera ed è subito aurora: «In questi
ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il
pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo
l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci
prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo
così tanto bisogno di una sua carezza». (Leggi l'intervista a Jannacci)
Giancarlo
Cesana, ti do del tu, siamo amici da trentacinque anni. Ti aspettavi
una storia del genere? Dopo tutto non sono passati neanche quattro anni
dalla tragedia di Terri Schiavo. Una volta certe cose ci volevano
vent’anni perché arrivassero in Italia. Adesso eccoci qua, con
un’eutanasia un po’ bestiale, senza neanche una legge sul testamento
biologico, un passo avanti a Zapatero. Cosa ne pensi?
Quello
che avevo da dire l’ho detto. Sono cristiano, per me la vita è sacra, è
un dono di Dio, è un bene di cui non posso disporre come voglio. Dopo
di che ci sono due aspetti che secondo me sono troppo poco sottolineati.
Primo: il padre che ha voluto porre fine alla vita di questa donna non
si accorge che non è solo. Perché le suore l’hanno sempre assistita e
dicevano che erano disposte a continuare ad assisterla. Quindi
l’atteggiamento di papà Englaro, consapevolmente o meno, ha negato la
vita della figlia e la carità di chi l’assisteva. Ma negare la carità è negare la libertà. È l’impronta tremenda di questa società, negare la libertà di amare. Perché,
vedi, io potrei capire uno a cui tocca accudire sua figlia nel modo in
cui doveva essere accudita Eluana. Posso capirlo, anche se non
giustificarlo. Però, che uno neghi il bene che un altro può fare mi
sembra proprio disumano. Secondo aspetto. I sostenitori dell’eutanasia
sono generalmente anche i sostenitori del dubbio, i cosiddetti “laici”,
mentre noi cattolici, sempre secondo questa versione di laicità, saremmo
quelli che vorrebbero imporre la loro fede e le loro certezze agli
altri. Questa vicenda rivela esattamente il contrario. Di fatto, da una
parte viene negata ogni possibilità di dubitare e si afferma la fede
certa di che cosa fosse il bene per Eluana. Dall’altra il dubbio e
quindi il senso del limite davanti al mistero. Di fatto i sostenitori
dell’eutanasia negano ogni possibilità di dubitare su quello che questa
donna comprendeva, sentiva, soffriva. E che avrebbe potuto comprendere,
sentire e soffrire mentre la uccidevano staccandole il sondino
dell’acqua e delle altre sostanze nutritive. Insomma, si sa così poco
che per ucciderla hanno dovuto sedarla. Un trattamento che evidentemente
dice che i dubbi c’erano. E invece sono andati avanti. Questo
atteggiamento mi ricorda la lettera che una signora scrisse al Corriere
della Sera per contestare la posizione del professor Giorgio Pardi,
medico abortista che poi ho saputo cambiò opinione pochi mesi prima
della sua morte (vedi intervista a Tempi del 5 ottobre 2006, ndr). Pardi
sosteneva di non sapere se l’embrione avesse o no dignità umana. Ma
questa, gli replicò la donna, è la stessa posizione del cacciatore che
sente qualcosa che si muove in un cespuglio e, pur non sapendo se si
tratti di una lepre o di un bambino, spara lo stesso.
E di Jannacci che dici?
Buon
sangue non mente. Dalle sue canzoni traspare una grande umanità.
L’assistenza agli ammalati non è cominciata perché li si sapesse curare.
Ma è stata fondamentale per arrivare a curarli. Se
sotto l’impulso della “carità” e della pietà cristiana non fossero nati
luoghi di accoglienza per i malati (anche per quei malati, come i
lebbrosi e gli appestati che una volta venivano semplicemente espulsi
dalla comunità e lasciati morire ai margini della società), se non
fossero nati gli ospitali e poi gli ordini ospedalieri, la medicina non
si sarebbe sviluppata nel modo che conosciamo. È un fatto che lo
sviluppo della medicina è cominciato dalla carità e dalla pietà, dalla
solidarietà umana, non da un moto scientifico. E da una solidarietà che
ha iniziato a vedere la sofferenza umana come partecipazione alla
sofferenza di Cristo. Cristo che poi redime tutta la sofferenza umana
con la sua resurrezione (poiché come scrive san Paolo, se Cristo non
fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede, cioè umanamente non potremmo
avere speranza davanti alla sofferenza – come ha detto Benedetto XVI,
il cristianesimo sarebbe “assurdo”) togliendo così alla morte l’ultima
parola. È questa consapevolezza che ha fatto muovere positivamente nei
confronti degli ammalati. Se manca, non so come si faccia a sostenere la
speranza degli uomini. Shakespeare diceva che la vita è una lunga agonia. Proprio
recentemente ho risentito la citazione che definisce la vita come una
malattia trasmessa per via sessuale, mortale al cento per cento. È
questa la nostra attuale concezione della vita? È questo che si è voluto
affermare uccidendo Eluana Englaro? E poi: era in quelle condizioni da
diciassette anni, possibile che non si poteva aspettare che il
Parlamento approvasse una legge? Possibile che Eluana debba passare alla
storia come l’unica italiana uccisa così, per fame e per sete, come
nessuna legge, nemmeno la più estremista di quelle sul testamento
biologico o addirittura eutanasiche che verranno discusse in Parlamento
prevede? Possibile
che a nessuno di questi illustri costituzionalisti che hanno
consigliato il presidente della Repubblica a respingere il decreto
salva-vita di Berlusconi sia venuto il dubbio che forse di
incostituzionale c’era non il decreto, ma la sentenza di morte? La
prevalenza della legge sull’amore, questo sì è grave.
Massima giustizia, massima ingiustizia. Ormai qui in Italia ci siamo abituati a certe cose. Non credi?
Distinguiamo,
intanto, il rapporto legge-medicina e il cosiddetto “giustizialismo”
che in effetti imperversa in linea generale ormai da più di un decennio.
Quanto al primo corno della questione, è vero, i rapporti tra medicina e
legge sono sempre più intensi. Per due ragioni. La prima è che dal
punto di vista dell’evoluzione dei costumi di vita la biomedicina è il
fattore più rilevante. Pensiamo a cosa hanno prodotto sulle legislazioni
le tecniche di fecondazione assistita. Per esempio, fino a ieri era
chiaro che “mater certa semper”. Adesso il detto latino e la realtà
soggiacente, naturale, normale, scontata fino a qualche anno fa, non è
più così chiara. Perché, grazie
alla biomedicina, oggi un bambino può avere non una ma diverse madri.
Può avere la madre genetica, la madre gravida e la madre nutrice.
Insomma siamo entrati in un altro mondo.
Ecco quindi la seconda ragione che rende sempre più stringenti i
rapporti tra medicina e diritto: tutto questo sviluppo scientifico fa
emergere la necessità che in qualche modo si traccino dei confini.
Poiché non tutto si può fare, esiste la necessità di regolamentare la
medicina, in quanto agli estremi di ciò che è permesso sta ciò che è
obbligatorio e ciò che è proibito. Per rispondere al secondo corno della
questione, il “giustizialismo”, il problema della legge è che sia ben
amministrata e che l’esercizio del potere giudiziario non prevarichi
sulle persone e sugli altri poteri. Altrimenti la democrazia si va a far
benedire. Ecco, in Italia stenta molto ad esserci questo equilibrio. E
come dicevo prima, non da oggi. Mi colpì molto, quasi vent’anni fa,
l’aggettivo che don Giussani, in una intervista al Corriere della Sera,
usò per descrivere l’Italia: paese “intossicato”. Da questa
intossicazione non siamo ancora usciti.
Perché?
Perché
con il ’68 è stata pesantemente attaccata la tradizione del paese,
cattolica, poiché l’Italia è un paese cattolico, senza che sia emersa
un’alternativa. Anzi. L’alternativa rivoluzionaria che anche in Italia
si è cercato di costruire a partire dal Dopoguerra e che nel ’68 sembrò a
portata di mano, è crollata con il crollo del Muro di Berlino. Ha
lasciato in eredità un giustizialismo tanto pervasivo quanto impotente,
con la stessa crudele inefficienza della pubblica amministrazione.
Mi ha impressionato che l’ex ambasciatore americano Ronald Spogli,
lasciando l’Italia, ha parlato di noi come di una «potenza in declino». E
pare che nessuno dei presenti abbia reagito… Intendimi, io non penso
che sia finita, anzi.
Non è finita perché ti auguri che prima o poi arrivi una religione civile anche da noi?
No.
Non è finita perché io faccio un’esperienza umana significativa. E poi
perché ci sono tanti amici che la fanno con me. Perciò, la mia speranza è
fondata su quel che c’è, non sul fatto che domani capiti qualche cosa
che adesso non c’è.
Niente religione civile, quindi?
Il problema è serio. Uno
Stato, la sua costruzione come compromesso o accordo tra le sue varie
componenti, ha bisogno di un riconoscimento di qualcosa di comune. I
padri degli Stati Uniti d’America, nella Dichiarazione d’Indipendenza
scrissero «riteniamo che alcune verità siano di per sé evidenti: che
tutti gli uomini sono stati creati uguali; che dal loro Creatore sono
stati dotati di alcuni diritti inalienabili; che fra questi ci siano la
vita, la libertà, il perseguimento della felicità». Noi di comune, a
fondamento della nostra Costituzione, abbiamo che «l’Italia è una
repubblica fondata sul lavoro». È un po’ poco.
Allora
ha ragione il teologo Vito Mancuso, secondo il quale i cattolici devono
portare in dote alla società il seme della loro identità che marcisce
nella terra e fa fruttificare, insieme agli altri semi marciti, una
nuova religione civile. È così?
No,
il seme che marcisce è per dare una certa pianta, quella pianta, non
una qualsiasi, dal cui frutto si riconoscerà se è buona o no. Gesù dice
che siamo un lievito, non un soluto. Il cattolicesimo è una religione
universale, non civile. Però, tenere presente il cattolicesimo, come
dimostra la stessa vita della Chiesa cattolica in ogni parte del mondo,
aiuta le civiltà a mettersi insieme invece che farsi la guerra. La
persecuzione dei cristiani e della Chiesa cattolica è un po’ una cartina
tornasole. Facci caso, dove perseguitano cristiani e Chiesa cattolica,
poco o tanto, c’è persecuzione del popolo.
Sarai razzista, denuncerai anche tu i clandestini, visto che per decreto adesso i medici possono (non “devono”) farlo?
Il
medico, prestando soccorso, compie un atto di compassione e umanità,
che non ha come scopo la denuncia ai carabinieri. Se però vede una
meningite, uno stupro, un infortunio sul lavoro, deve denunciare fino al
livello penale, per proteggere l’ammalato e la società. E questo lo
deve fare sia che si tratti di connazionali sia che si tratti di
clandestini. Questi ultimi, poi, ovviamente non sono assicurati.
Pertanto per prestazioni assistenziali, almeno quelle di una certa
entità, si deve fare denuncia o richiesta alla pubblica amministrazione.
Mi pare che sulla nuova legge si sia fatto molto clamore per nulla
Giuliano Ferrara. Continui a seguirlo, nonostante le vostre passate divergenze strategiche sulla “lista pazza”?
Sempre.
È una delle persone che stimo di più. Ma non tanto per le sue battaglie
per la vita, contro la Ru486 eccetera, che ovviamente condivido. Ma
perché fa un giornale che insegna a ragionare, che pone le questioni,
che sostiene la curiosità e la conoscenza di come stanno sul serio le
cose. Infatti ai ragazzi dico sempre che se vogliono leggere un giornale
devono leggere Il Foglio. E Tempi, si capisce. Ma il quotidiano da
leggere è Il Foglio. Chiaro che sono con lui nelle battaglie per la vita
contro il nichilismo dell’epoca. Ma è quando le butta in politica e poi
perde che mi dispiace. Noi queste esperienze le abbiamo fatte oltre
trent’anni fa, col divorzio e poi con l’aborto. E non è che si era messi
peggio di oggi. Al contrario. Allora, penso al referendum sul divorzio,
non c’era una lista pazza. C’era la Democrazia cristiana, Amintore
Fanfani, la Chiesa, le parrocchie e tutti si aspettavano un trionfo con
milioni e milioni di voti. Poi ci fu l’aborto, una cosa gravissima,
tutti convinti che sulla vita la gente avrebbe votato bene, secondo
coscienza. E invece niente, le abbiamo perse tutte le cosiddette
battaglie etiche. Il referendum sulla legge 40 l’abbiamo vinto per
l’astensione, non perché c’è stato un moto popolare di convinzione. La
verità non si mette ai voti, si afferma e basta.
E allora che cosa fai? Ti ritiri dallo spazio pubblico?
Niente affatto. Però cerco di non andare a schiantarmi contro un muro quando vedo il muro davanti a me.
Giancarlo, il 22 febbraio corre il quarto anniversario dalla morte di don Luigi Giussani? Ti manca il don Giuss?
Sì,
Giussani mi manca. Era uno su cui mi appoggiavo. Però c’è anche da dire
una cosa: ci ha lasciato molto. Ci ha lasciato la possibilità di andare
avanti. In questo senso è stato un vero maestro. Perché ci ha fatto
fare un’esperienza. Un’esperienza che dura, che va avanti, che continua.
Insomma, ci ha lasciato una speranza.
Una
recente nota divulgata dalla segreteria di Stato vaticana sulla
drammatica sequenza di polemiche iniziata con le dichiarazioni
negazioniste del vescovo lefebvriano Richard Williamson arriva a dire
esplicitamente che il prelato «per una ammissione a funzioni episcopali
nella Chiesa dovrà anche prendere in modo assolutamente inequivocabile e
pubblico le distanze dalle sue posizioni riguardanti la Shoah, non
conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della
scomunica». La nota, insomma, lascia intendere di un papa molto provato
dagli attacchi alla sua persona e alla Chiesa. «Il Santo Padre chiede
l’accompagnamento della preghiera di tutti i fedeli». Ma non ti sembra
che, al di là del caso Williamson, il papa di Ratisbona e delle lezioni
di razionalità, cultura, affetto, sia come sottoposto all’offensiva di un’ostilità
preconcetta e militante, quasi come se poteri fuori e dentro la Chiesa
si sentissero minacciati e quindi puntassero a depotenziare, indebolire,
intimidire, la potenza affettiva e veritativa di questo pontificato?
Sì,
sembra che gli rispondano con minor simpatia di quello che ci si
aspettava. Però non è solo il caso di questo papa. Succede a tutti i
papi. Chi più, chi meno. È successo anche al suo predecessore, Giovanni
Paolo II. Noi abbiamo in mente le folle oceaniche ai funerali di
Wojtyla. Ma non dimentichiamo gli attacchi che subì per molti anni,
fuori e dentro la Chiesa, le critiche feroci. Una volta perché era un
conservatore, un’altra perché era amico di Solidarnosc, un’altra ancora
perché la pensava un po’ come Reagan e via discorrendo. Tutto ciò non
succede perché siamo nel 2009 piuttosto che nel 1985. Succede perché,
come diceva Eliot, la Chiesa – e il suo sommo rappresentante – è tenera
dove gli uomini vorrebbero essere severi e severa dove gli uomini
sarebbero teneri. E questo è un atteggiamento che gli uomini fanno
fatica ad accettare.
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