Con Eluana muore la nostra civiltà
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Da "La voce di Romagna" del 5 febbraio, un articolo di Claudio Monti:
“Se la procedura iniziata per portare Eluana Englaro alla morte riuscirà a compiersi, sarà la fine di una civiltà”. Sarà “la prima condanna a morte eseguita dopo la caduta del fascismo”. E’ la sferzata che arriva dal vescovo di San Marino Montefeltro, mons. Luigi Negri. Parole contro le quali non si può non andare a cozzare. Dal punto di vista storico è risaputo che dopo la fine della dittatura ci sono state altre condanne a morte, ma è chiaro il paradosso di Mons. Negri: nella civiltà di diritto, nel regno della democrazia, “in un paese che ha rinnegato la pena di morte e che si è assunto in gran parte il merito sulla moratoria sulla pena di morte in quasi tutto il mondo civile”, l’epilogo della vicenda di Eluana suona come una contraddizione stridente. Oltre che come una rottura epocale. “Questo delitto che si compie lancia una ulteriore, grave ombra di disumanità sulla nostra vita sociale e prepara tempi non lieti per le generazioni future”. Per questo il vescovo ha chiesto a tutte le chiese della sua diocesi che da ieri fino a domani, al calare del vespero, le campane suonino a morto per un congruo periodo di tempo”. E che le comunità reli L’ora è difficile. Non serve essere filosofi per sentire che ciò che è in Mons. Negri non ha dubbi: “Se la vita diventa disponibile a un’istanza umana, nel caso di Eluana a quella del padre, e con la mediazione del tribunale, si distrugge il fondamento i infatti la nostra società non ne ha più uno. Non so con quale fondamento lo sostituiranno, per adesso la pietra angolare che ha retto per millenni la civiltà occidentale la stanno sostituendo con la soggezione totale degli individui alla tecnoscienza”. Il vescovo di San Marino Montefeltro legge nella storia di Eluana il punto ultimo a cui è arrivato il degrado anticristiano e perciò l’annichilimento dell’umano. Cosa ci ha portati a questo punto? “Come diceva Pio XII nei suoi discorsi di Natale negli anni della guerra, quando già la disgregazione dell’uomo assumeva il volto di milioni di persone ammazzate in combattimento o nei campi di concentramento, è stata l’apostasia da Cristo, l’avere tolto il regno di Dio e l’averlo sostituito con un regno dell’uomo. Ma nell’uomo, anziché dimostrarsi tutto il suo valore e la sua forza positiva, è venuta a galla tutta la sua terribile meschinità. L’ha detto anche Benedetto XVI di recente: l’apostasia da Cristo conduce all’apostasia dell’uomo da se stesso”. E anche verso nuove forme di totalitarismo: “Se l’uomo non è più di Dio, se ha perso la capacità di stare di fronte al Mistero, magari anche senza riconoscerlo, allora diventa manipolabile. Se le radici dell’uomo non sono in Dio, allora sono sulla terra e quindi finiscono per dissolversi o politicamente o scientificamente. Per due secoli ha prevalso il totalitarismo politico, mentre adesso in maniera devastante sta prendendo il sopravvento la tecnoscienza”. E’ questa la posta in La sofferenza è diventata un’obiezione alla vita. Dice Mons. Negri: ”Attraverso il suono delle campane ricordiamo alla società che si sta compiendo un gesto efferato contro l’uomo. Non abbiamo potuto impedirlo nonostante i tenti tentativi fatti, ma consegniamo la vita di Eluana alla Madonna che l’aspetta per inserirla in un bene che non finirà più”.
Perché il rosario, una preghiera che non è più molto familiare nemmeno fra i cattolici, almeno per le
grazie ad : anna vercors
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Postato da: giacabi a 09:24 |
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eutanasia, negri
Caro Pres.
Napilatano
tu sei responsabile
della vita innocente di Eluana Englaro
che il Signore ci perdoni!!!
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Postato da: giacabi a 08:50 |
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eutanasia
Per Di Pietro
bisogna salvare la vita di Eluana
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Dipietristi a sorpresa
"Voteremo col premier"
L'ex pm: Il Parlamento deve decidere al più presto
AMEDEO LA MATTINA
ROMA
Il ddl Englaro verrà approvato anche con i voti dell’Italia dei Valori. Domani si riunirà il gruppo parlamentare del Senato e il presidente Felice Belisario darà l’indicazione di approvare il provvedimento voluto fortissimamente da Silvio Berlusconi, dopo il braccio di ferro con il capo dello Stato. Lo stesso farà martedì il presidente dei deputati dipietristi Massimo Donadi. Un’indicazione che non sarà vincolante per nessun dei 41 parlamentari dell’Idv: la linea del partito è lasciare libertà di coscienza visto che anche dentro questa forza politica c’è una discussione tra laici e cattolici. E’ chiara la valenza politica di una posizione ufficiale di questo tipo da parte di Antonio Di Pietro, il più intransigente e inviso oppositore del governo. Sarà la prima volta che l’ex pm voterà e dirà di votare per un provvedimento del centrodestra. Ma secondo lui la vicenda Englaro «prescinde dalla lotta politica, che continuerà più dura di prima, se mai fosse possibile...». E prescinde pure «dalle pressioni indebite e dalle ciniche strumentalizzazioni che Berlusconi fa del caso Englaro». Così come non c’entra nulla lo scontro tra Palazzo Chigi e il Quirinale. «La scelta del capo dello stato - sostiene infatti Donadi - è giusta e equilibrata, un atto doveroso di fronte alla palese incostituzionalità del decreto del governo. Berlusconi usa in maniera cinica la tragedia umana di una persona e di una famiglia, amplifica lo scontro per distogliere gli italiani dall’incapacità del governo, vuole fare a pezzi la Costituzione per diventare il padrone assoluto del Paese». Ma per Di Pietro bisogna salvare la vita di Eluana. Per questo sostiene che il Parlamento deve decidere «al più presto» e assumersi le sue responsabilità: «L’Italia dei Valori farà valere le sue ragioni nelle aule parlamentari e non si rifugerà, pilatescamente parlando, dietro l’ostruzionismo fine a se stesso». Sul ddl Englaro, quindi, l’Idv non farà un’opposizione preconcetta: «Faremo in modo che il Parlamento risponda davanti al Paese delle proprie azioni». Con i voti dell’Idv il provvedimento avrà una larghissima maggioranza che va dal Pdl alla Lega, l’Udc e i teodem del Pd, oltre ai voti di coscienza che esprimeranno una parte dei cattolici Democratici. Al Senato l’Idv è addirittura disponibile a votare il ddl anche in commissione, in sede deliberante, cioè senza passare dall’aula per accelerare i tempi al massimo. Ma per la «deliberante» ci vuole l’unanimità e il gruppo Pd è contrario. Ma in aula, sui tabelloni elettronici di Camera e Senato, si accenderanno tantissime lucette verdi (voto favorevole) e una piccola macchia rossa, i voti del Pd. Per un giorno Di Pietro metterà nel cassetto le sue dure polemiche contro il premier e guarderà solamente verso la clinica «La Quiete» di Udine. «Eluana - spiega Belisario - respira regolarmente e non ha bisogno delle macchine per vivere, non è prigioniera del suo corpo. Se ci fossimo trovati davanti il decreto che Berlusconi con una specie di golpe voleva imporre a Napolitano, il nostro atteggiamento sarebbe stato diverso. Ma ora - aggiunge il capogruppo dell’Idv - si tratta di votare un ddl che anticipa la legge sul testamento biologico. E dobbiamo salvare una vita: non c’è tempo da perdere. Il caso Eluana deve essere decontestualizzato dalla situazione politica e dalla scontro. Lascerò ai miei senatori la libertà di votare secondo coscienza, ma io sono un cattolico praticante e come me credo la pensino la maggior parte degli elettori dell’Idv che non vogliono staccare la spina a Eluana». |
Postato da: giacabi a 08:05 |
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eutanasia
Appello al Presidente della Repubblica per salvare la vita a Eluana Englaro
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(AGI) - Milano, 7 feb. -
Un appello al Presidente della Repubblica per salvare la vita a Eluana
Englaro, e' stato lanciato oggi da un gruppo di personalita' cattoliche e
laiche che chiedono a chi lo condivide di sottoscriverlo per presentare
le firme al Capo dello Stato.
"Signor Presidente - si legge nel documento - la tragica fine che si prospetta per Eluana Englaro non lascia indifferente la coscienza civile dell'Italia. Eluana e' portata a morte senza che sia stata accertata in maniera incontrovertibile la sua volonta', ne' l'irreversibilita' del suo stato vegetativo. Eluana rischia dunque di morire sulla base di una volonta' solo presunta, e sarebbe l'unica persona a subire una tale sorte, poiche' nessuna delle leggi sul fine-vita in discussione in Parlamento permettera' piu' questo obbrobrio. Signor Presidente, Le chiediamo fermamente di non permettere questa tragedia, che sarebbe un insulto sanguinoso alla storia, alla cultura, all'identita' stessa del nostro Paese, convinti come siamo che nessuno deve essere costretto a morire per un formalismo giuridico. Le chiediamo un intervento perche' - di concerto con il Governo - sia data una moratoria alla sospensione dell'alimentazione e idratazione cui e' sottoposta Eluana, in attesa che il Parlamento - nelle cui fila si e' gia' appalesata un'ampia maggioranza in sintonia con la maggioranza che vi e' nel Paese - possa pronunciarsi su un'adeguata legge. Siamo certi che Ella non rimarra' insensibile al nostro appello". I primi firmatari sono Roberto Formigoni, Giancarlo Cesana, Francesco Cossiga, Vittorio Feltri, Mario Giordano, Dino Boffo, Luigi Amicone, Giuliano Ferrara e i parlamentari Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello, Rocco Buttiglione (Udc), Paola Binetti (Pd), Guglielmo Vaccaro (Pd), Renato Pozzetto, Mario Melazzini, Carlo Casini, Giampiero Cantoni. |
Postato da: giacabi a 20:27 |
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eutanasia
Contro
l’omicidio di stato
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"Con
tutta la stima che nutro per Giorgio Napolitano e la consapevolezza del
dramma che stanno vivendo i genitori di Eluana - dice Celentano - credo che Berlusconi sia stato costretto ad agire in modo così fermo e coraggioso e io al suo posto avrei fatto la stessa cosa. La sua coscienza di credente lo costringe, finché gli sarà possibile, a usare i suoi poteri per non essere coinvolto in quello che pare ormai essere diventato un 'omicidio di Stato'. Il gesto
di Berlusconi mette in evidenza il valore assoluto della vita che va
difesa sin dalla sua prima scintilla fino a quella del suo spegnimento
naturale"
Celentano
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Postato da: giacabi a 19:22 |
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eutanasia
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CAGLIARI
- "I regni di Natura si rispettano e si amano senza ricorrere a
insanie: vita e morte si alternano in una lotta spontanea per la
sopravvivenza. Solo l'uomo è alla ricerca di testamenti senza testa e
senza testamentari. Che vada a lavarsi la testa finché ci sarà l'acqua
sua madre !". Si conclude cosi l'inno-appello a Madre Natura che Gavino
Ledda ha inviato all'ANSA perché "esterrefatto" (come si è detto al
telefono) per le "troppe parole dopo 17 anni di lungo e tremendo
silenzio" sulla vicenda di Eluana Englaro. "Io sono ancora nell'animo un
'pastore' e questa storia, con questo autentico diluvio di esternazioni
- spiega - mi ha colpito profondamente".
Da questo stato d'animo l'autore di "Padre Padrone" ha tratto una serie di riflessioni che ha tradotto in un breve scritto intitolato "Il tragheda" (libera trasposizione dal greco del termine che definisce l'autore di tragedie). Questi i brani più significativi. "Il dialogo e la discussione sono figlie della natura: quando sono artificiali, guelfi o ghibellini, dialogo e discussione diventano veramente un'infezione nell'animo della natura. Io, da uomo e da tragheda, ho bisogno del verbo essere, nascere, vivere e morire spontanei, liberi, rispettati e compiuti: altrimenti come potrei scrivere la mia tragedia, l'Enigma della Libertà? E come potrei mai scriverla con l'aborto, lo stermino e l'uccisione dei verbi? Col verbo essere in cattività? Col verbo nascere malato e storto e già morto prima di pascere? Col verbo vivere violentato, pestato e mai amato? Col verbo morire privo e privato del soggetto senza essere passato per la propria morte? No che non sarebbe mai possibile scrivere e solvere l'Enigma della Libertà con i mostri-chiostri del vostro egoismo, e della vostra fame e sete di pecunia. Testamento biologico? Quel testamento lo ha già fatto la natura nell'atto del concepimento e della concezione: lasciatemi vivere in pace, lasciatemi morire in pace. Le cose, signori cittadini e onorevoli senatori, sono molto più complesse e molto più semplici di quanto vi sembri. Noi abbiamo bisogno di cittadini che vivano bene e di morti che siano veramente morti dignitosamente nella propria morte: anche i morti sono risorsa inesauribile per la vita, solo che voi, ancora, non lo avete capito, perché, apparentemente, vi fa comodo". "E' veramente una situazione disumana la tragedia di Eluana e dato che, alla Quiete di Udine, si sta eseguendo una condanna a morte, emessa della Corte di Appello, mi viene spontaneo impiantare l'equazione di primo grado: La Corte d'appello: alla Quiete = Sparta stava alla Rocca da cui si scaraventavano i minori storpi minorati. Nessuno, eccetto la natura, ha il diritto di decidere della morte di nessuno: e nemmeno nessun tutore nominale. Insomma, quella Corte d'Appello, vorrebbe cambiare il mondo, senza sapere come ci si dovrà comportare una volta che il mondo sarà cambiato: non sarebbe meglio lasciarlo così come è, almeno, fino a quando l'uomo è ancora troppo minorato nei confronti della natura?". |
Postato da: giacabi a 14:13 |
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eutanasia
Sig. Presidente sono sdegnato,
Lei permette la morte di Eluana
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Stimato Sig. Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano:
Dopo che Lei ha negato la firma “perchè incostituzionale” al decreto urgente adottato dal governo per ostacolare la sospensione dell'alimentazione ed idratazione di Eluana Englaro, in coma da 17 anni,
RIFIUTO il titolo che Lei mi ha concesso di “Cavaliere dell'Ordine della stella della Solidarietá Italiana”, il 2 giugno 2008.
Come posso io, cittadino italiano, ricevere simile onore di Cavaliere dell’ordine della stella della solidarietá della Repubblica Italiana, quando Lei, con il suo intervento, permette la morte di Eluana, a nome della Repubblica Italiana?
Sono sdegnato e ripeto il mio rifiuto al Titolo che Lei mi concesse.
Padre Aldo Trento
Misionero en Paraguay
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Postato da: giacabi a 10:57 |
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eutanasia, padre trento
CL:
preghiamo per Eluana
06/02/2009
- Pubblichiamo il comunicato stampa di Comunione e Liberazione in
merito agli ultimi sviluppi della vicenda di Eluana Englaro
Accogliendo le parole del Segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata - «Quando ci avviciniamo al mistero del dolore e della morte bisogna, per chi crede, pregare» -, Comunione e Liberazione, oltre che alle iniziative di dialogo e di giudizio di queste settimane, invita
a partecipare ai momenti di preghiera per Eluana organizzati dalle
diocesi e a promuoverne nei luoghi di vita, di studio e di lavoro.
Da don Giussani abbiamo imparato che «solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino solo da Colui che ne è il senso ultimo possono essere “conservate”, vale a dire riconosciute, conclamate, difese». Tanto è vero che quando viene meno il riconoscimento del Mistero presente nella storia, risulta difficile riconoscere tutta la grandezza dell’uomo. Per questo invitiamo a pregare per una vita che è affidata al Mistero buono che fa tutte le cose, e perché Dio possa illuminare coloro che hanno responsabilità a tutti i livelli. l’ufficio stampa di CL Milano, 6 febbraio 2009. |
Postato da: giacabi a 20:54 |
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eutanasia, cristianesimo, cl
Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure
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«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»
MILANO - Ci vorrebbe una carezza del Nazareno»
dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella
sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende
inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue
condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo
Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui,
come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai
una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere
una vita è allucinante e bestiale».
È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo?
«Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?
«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».
Sono considerazioni di un genitore o di un medico?
«Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».
Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro?
«Bisogna stare molto vicini a questo padre».
Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte?
«Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza?
«Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».
Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo?
«Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».
Che cosa?
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Fabio Cutri
06 febbraio 2009 |
Postato da: giacabi a 14:23 |
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eutanasia
Eluana è viva!!!
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per sentirlo bene metti in pausa il filmato precedente
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Postato da: giacabi a 21:41 |
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eutanasia
Suor Albina Corti e Margherita Coletta raccontano chi è Eluana
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grazie ad: annavercors
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Postato da: giacabi a 21:09 |
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eutanasia, cristianesimo
Vi racconto Beppino ed Eluana
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INTERVISTA
il fatto La moglie del carabiniere assassinato in Iraq nel 2003
racconta il suo rapporto con la Englaro e con il padre «Rispetto Beppino
e provo sempre affetto per lui, ma non è giusto quello che sta facendo»
Parla la vedova Coletta: ragazza libera e senza alcuna cannula
DA ROMA PINO CIOCIOLA
Avvenire – 04 / 02 / 2009
Ha
chiamato ancora papà Beppino ieri mattina poco prima delle nove: « Ma
nemmeno l’hai accompagnata Eluana? », gli ha detto subito. Margherita
Coletta è la vedova di Giuseppe, carabiniere assassinato a Nasiriyah il
12 novembre 2003, nell’attentato
che spazzò la base italiana 'Maestrale', carabiniere che non aveva mai
ucciso e che sceglieva le missioni all’estero per aiutare i bimbi più
indifesi, quelli colpiti dalla guerra. Lo faceva per ritrovare il
sorriso di suo figlio Paolo, morto a sei anni stroncato dalla leucemia: «
Quando capimmo che era finita e i medici ce lo spiegarono chiaramente –
racconta lei – facemmo interrompere la chemioterapia ». Margherita
in questi mesi è volata dalla Sicilia a Lecco per andare a trovare
Eluana, accompagnata da Beppino. Spesso e a lungo l’ha accarezzata, l’ha
baciata, le ha parlato. E spesso ha parlato col papà, scontrandosi
anche duramente, ma senza che mai lui le negasse il dialogo: in qualche
modo forse sono diventati amici. Ecco perché ancora ieri mattina lei gli
ha telefonato dicendogli: «Speravo che coi giorni fossi rinsavito».
Cos’ha provato, Margherita, entrando nella stanza di Eluana?
La
prima volta mi sono fermata sulla soglia della sua porta. Pensavo di
essere più forte. Ho respirato a fondo, poi sono entrata. Quando l’ho
vista, abituata com’ero alle foto di lei ragazza, mi ha scosso, oggi è
una donna. Ma poco dopo è diventato tutto così normale, come fossi a
trovare una persona in ospedale. Anzi, ho sentito tanta dolcezza e
nessun ribrezzo o pena. Né ho visto alcun 'sacco di patate', come
qualcuno descrisse Eluana, ma una persona che è tutt’altro. Una persona.
La sensazione più bella?
Quando
l’ho accarezzata. Con la sensazione netta, nettissima, che lei
avvertisse le carezze. Certo è che pensavo d’andare a dare io a lei,
invece ho ricevuto assai più di quanto le abbia dato.
Cosa?
La maggiore certezza nelle cose in cui credo. La consapevolezza che non si può ridurre una persona alla sua forma fisica.
Papà Beppino la accompagnava in quella stanza?
Sì.
La prima volta che l’ho incontrato mi aveva fatto molta tenerezza:
pensavo a mio marito Giuseppe, a quando è morto nostro figlio. E poi mi sembrava quasi di parlare con mio padre: mi diceva «sei una birba ».
Adesso è cambiato qualcosa?
Rispetto comunque Beppino e provo sempre grande affetto per lui. Ma non è giusto quello che sta facendo. I
figli non sono di nostra proprietà: ci sono soltanto affidati. Ci
prendiamo cura di loro, li aiutiamo, li assistiamo e semmai li
accompagniamo alla morte, preparandoli se deve accadere, anche da
piccoli.
Ma lui non si rende conto di tutto questo, si sente incapace di tornare
indietro: credo sia soprattutto lui in uno stato simile a quello
vegetativo. Quando si risve- glierà da questo torpore si renderà conto e
starà male, tanto.
Lei che rapporto ha, Margherita, col papà di Eluana?
Ci
siamo confrontati tante volte, ma è sempre stato cortese con me. È
convinto di quanto fa, forse perché non vede più Eluana come lui la
vorrebbe. Ma a me pare evidente che in qualche modo sia stato plagiato
da tanta gente alla quale non interessa nulla di Eluana. E lui ora è
strumentalizzato, è finito in un vortice: ha anche momenti nei quali io
credo vorrebbe tornare indietro, perché non pare convinto fino in fondo
di quanto sta facendo, ma non ne ha la forza.
Com’era trattata Eluana nella casa di cura lecchese?
Come
una regina. Le suore che le stanno accanto ogni giorno la curano, la
lavano, la profumano, la portano a spasso sulla carrozzella. Addirittura
la depilano, perché Eluana come ogni ragazza non sopportava d’avere
peli sulle gambe.
E come sta?
Lei
è una donna. Una donna di trentotto anni: ha la mia stessa età. Ha il
ciclo mestruale come ogni donna. Apre gli occhi di giorno e li chiude la
notte. Respira benissimo e da sola, serenamente. Il suo cuore batte da
solo, tenace e forte. Ci sono momenti nei quali forse sorride e altri
nei quali forse socchiude gli occhi. Ma quanti sanno davvero che Eluana
non è attaccata a nessuna macchina? Quanti
sanno che nella sua stanza non c’è un macchinario, ma due orsacchiotti
di peluche sul suo letto? Che non ha una piaga da decubito? Che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?
La notte scorsa hanno portato Eluana a morire: lei, Margherita, cosa sta provando?
Ho
un pugnale dentro. Prego, spero fino all’ultimo che lui si renda conto
di quel che sta facendo. Quanto sia sbagliato. Quanto non sia paterno.
Quanto non sia umano. Io so che lui soffre dentro di sé, e tanto.
Ci ha parlato appena ieri mattina: secondo lei cosa prova Beppino?
Non
so come possa vivere con un peso addosso come questo: Eluana da
diciassette anni è in quelle condizioni, ma lui fino a ieri mattina non
si era mai svegliato sapendo che sua figlia sta per morire.
Come mai, Margherita, lei e suo marito Giuseppe decideste d’interrompere la chemioterapia a vostro figlio?
Paolo
ne aveva fatti quattro cicli, ne mancavano due, ma ormai il male aveva
invaso tutto il suo corpo e i medici ci spiegarono bene la situazione. I
dolori e il vomito e tutte le devastazioni provocate dalla chemio a
quel punto sì che sarebbero stati accanimento terapeutico: così ci
fermammo, affidandoci e affidando Paoletto a Dio.
Perché invece con Eluana non ci sarebbe accanimento terapeutico?
Ma Eluana
non ha una malattia, non è terminale, non ha un dolore, non ha un
macchinario nella stanza, non c’è nulla che possa far pensare ad un
accanimento per tenerla in vita! È accudita, curata, amata. La si deve
solamente aiutare a mangiare!
Beppino però sostiene che la morte di Eluana servirà a liberarla...
Liberarla
da cosa? Come fa lui a sapere che lei è in catene? Una persona che
soffre lo si vede. Non lo capisco proprio cosa voglia dire Beppino,
cerco di sforzarmi, ma non ci arrivo.
Quella giovane donna da ieri è ricoverata nella sezione maschile del 'Reparto Alhzeimer' della clinica udinese 'La Quiete'...
Ma
si rende conto?! È lì, da sola, con nessuno che la conosce, che l’ha
curata, che la ama, perché le suore di Lecco la amano: se sapesse ieri
sera ( lunedì, ndr) quando ho chiamato suor Rosangela come piangeva.
Anzi, mi permetta di ringraziare proprio le suore della casa di cura
'Beato Talamone' e tutte le persone che per quindici anni hanno avuto
quella tale cura per Eluana.
Margherita, ma perché lei decise d’andare a trovarla?
Non
lo so. Una sera ero a casa, ho visto la notizia al telegiornale e ne ho
avuto il desiderio. So di non valere nulla, ma ho cercato il numero di
Beppino, perché volevo fargli sentire la mia vicinanza. L’ho chiamato,
gli ho spiegato chi ero e che sarei stata felice se avessi potuto
incontrare Eluana. Lui fu molto gentile, mi disse: «Signora, davanti al
suo dolore m’inchino e mi fa piacere se viene». Appena poi arrivai a
Lecco, mi chiese subito: «Margherita, tu da che parte stai?».
Lei cosa gli rispose?
«Beppino,
io non sto dalla parte di nessuno: sono venuta a trovare Eluana come se
tu fossi venuto a trovare un mio parente caro»: andai da lei non per
far cambiare idea a Beppino né per altro, solo perché mi era sembrato
giusto farlo.
Come mai lei ha accettato di raccontare tutto questo solamente adesso?
Beppino sa che io non avrei mai detto nulla e l’ha visto finora. Però è giunto il momento di dare voce a Eluana.
Un’ultima domanda, Margherita: ha speranze per Eluana?
La
prima volta andai a trovarla nel novembre scorso: le promisi che sarei
tornata per Natale e Beppino, certo e tranquillo, mi disse: «A Natale
non ci sarà più». Io le sussurrai nell’orecchio sotto voce « non ti
preoccupare, ci rivediamo » e così poi è stato.
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Postato da: giacabi a 19:49 |
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eutanasia, cristianesimo
L’eutanasia
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"l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto "dolce", ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio".
Papa Benedetto XVI
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Postato da: giacabi a 14:45 |
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eutanasia, benedettoxvi
Carlo Alessi
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La
pallanuoto, il tifo per il Catania, la piscina «come quando si andava
tutti al mare». E quella lettera a Beppino Englaro. Un padre racconta un
figlio “vegetale” e la sua famiglia rinata grazie a un sondino
di Chiara Rizzo
Da
padre a padre. Mentre la casa di cura Città di Udine decideva se aprire
le porte alla morte di Eluana Englaro a 1.400 chilometri di distanza un
padre scriveva a Beppino Englaro, l’uomo che da anni implora la morte
per quella figlia inchiodata a un letto da 17 anni. In una lunga lettera
aperta pubblicata sul quotidiano La Sicilia Carlo Alessi ha raccontato
la vita accanto al suo “vegetale”. Giorgio, 21 anni, ex pallanuotista e
grande tifoso del Catania con Eluana condivide la diagnosi medica. Coma
irreversibile. Giorgio, racconta il padre, «non cede nemmeno di un
centimetro», lotta, nel suo sonno interminabile, per afferrare la vita.
Per questo Carlo Alessi ha voluto scrivere a Beppino Englaro e ha deciso
di raccontare a Tempi la sua storia: «La morte non è una soluzione. È
una sconfitta per tutti». Parole pronunciate prima che, venerdì
scorso, la clinica di Udine rifiutasse di offrire le proprie strutture
per uccidere Eluana.
Signor Alessi, perché ha deciso di scrivere quella lettera a Beppino Englaro?
Perché
vorrei che si comprendesse pienamente la vicenda di Eluana. Leggendo i
giornali ho avuto l’impressione che molti parlino senza capire cosa
significhi staccare il sondino. Mio figlio Giorgio da quasi sette anni è
in coma apallico irreversibile. Si nutre e si idrata attraverso il
sondino, la peg. Nel caso di mio figlio, e per quello che so anche in
quello di Eluana, non ci sono terapie mediche che li tengono in vita,
non c’è un coma farmacologico, quindi non si può parlare di accanimento
terapeutico.
Che cosa è successo a suo figlio?
Il
7 febbraio 2002 un banale virus influenzale l’ha colpito al miocardio.
Giorgio è andato in arresto cardiaco per 55 minuti. Abbiamo chiamato il
118, gli praticarono subito la respirazione artificiale e un massaggio
cardiaco. Poi lo portarono all’Ospedale Garibaldi di Catania, per la
rianimazione d’urgenza. Gli è stata somministrata un’iniezione di
adrenalina al cuore e così si è ripreso. Ma la diagnosi è stata
immediata e spietata. Coma apallico irreversibile.
Cosa successe dopo?
È
seguito un mese di alti e bassi, tra lievi miglioramenti e
peggioramenti improvvisi, finché non siamo riusciti a portarlo da uno
specialista di Innsbruck. Lì stato lentamente “svezzato” dai farmaci e
messo su una carrozzina. Ma il coma apallico, lo stato più grave, resta
sempre tale. La vita di Giorgio è limitata, anche una semplice influenza
per lui è rischiosa.
Che tipo era Giorgio prima della malattia?
Uno
sportivo al cento per cento. Giocava a pallanuoto, in una squadra
cittadina, “Muri antichi”. Era appassionato, generoso, affettuoso,
estroverso. Frequentava il ginnasio ed era bravissimo. Amava i genitori, il fratello. Era religiosissimo, devoto alla Madonna.
Avete deciso di prendervi cura di Giorgio a casa. Perché?
Il
fatto che vive con noi gli consente di sentire tutto il calore della
famiglia, e di provare emozioni – l’unica porta che gli è rimasta con il
mondo esterno – che abbiamo imparato a riconoscere. Giorgio riempie e
rende viva la nostra vita con la sua forza, la sua tenacia. Ci ha
riuniti, come non sarebbe successo altrimenti. Certo non è facile, ma
sono felice della mia scelta.
Come vive oggi?
Quando
io e mia moglie Alessandra siamo al lavoro e mio figlio Paolo
all’università, una tata, Agata, viene a prendersi cura di lui, insieme
ad un infermiere che ci manda la Asl. Lo lavano, gli misurano la
pressione e la frequenza cardiaca, gli controllano la peg. Poi gli
vengono somministrati medicinali miorilassanti, perché nella sua
condizione, soffre di elevata spasticità. Lo sbarbano, lo mettono
finalmente sulla sedia a rotelle. A questo punto Giorgio fa colazione,
latte e biscotti finemente tritati, e mangia dal cucchiaio, imboccato. È
quindi il momento della prima seduta di fisioterapia, che dura 45
minuti, seguita da quella di logopedia, che gli serve per esercitare il
riflesso della deglutizione. A pranzo, Giorgio mangia ancora per bocca,
pastina e omogeneizzati. Al pomeriggio, assume l’acqua con la peg, poi
ha una nuova seduta di fisioterapia. Dopo segue la tata Agata,
Alessandra e Paolo quando rincasano, nelle loro attività. Se Agata lava i
piatti in cucina, per esempio, lui sta sulla sedia a rotelle accanto a
lei. Cena tramite il sondino, ma insieme a noi. Di notte è mia moglie a
occuparsi di lui, anche se cerchiamo di fare i turni. Ha bisogno di essere girato nel letto per tre o quattro volte, alcune notti fatica a dormire e Alessandra gli resta accanto.
Sua moglie però continua a lavorare e a occuparsi della casa. Cosa la sostiene? Non ha mai avuto voglia di gettare la spugna?
No, mai. E nemmeno mio figlio Paolo, anche se ha solo 20 anni, ed è dovuto crescere più in fretta dei coetanei. È
l’amore che ci unisce, a darci la forza, l’energia. Ci sosteniamo a
vicenda: non tanto con le parole, ma con i gesti quotidiani. È solo un
modo di affrontare la nostra vita, che è cambiata. Non ci manca
l’ottimismo, l’allegria, perché pensiamo che può fare bene a Giorgio, e
che così possiamo trasmettergli la voglia di vivere.
Che rapporto c’è tra Paolo e Giorgio?
Sono
molto uniti, fin dai tempi in cui giocavano insieme a pallanuoto.
Quando Paolo rincasa, alla sera, prende Giorgio con la carrozzina e lo
porta vicino a sé, mentre guarda le partite del Catania, di cui entrambi
sono tifosi, o mentre gioca alla PlayStation. È vero, Giorgio non
“vede”, il suo cervello non può elaborare le immagini. Ma questo non
significa che non esprima la sua gioia di stare insieme a Paolo.
Come capite che è felice?
Spesso
Giorgio accenna dei sorrisi, ed emette dei suoni, dolci. E quando gli
fa male la schiena, piange, con le lacrime, e i suoni diventano lamenti.
Non è affatto un vegetale, malgrado quello che si legge sempre sulle
persone in coma. Sa, a casa nostra è la speranza che ci sostiene.
Da dove nasce questa speranza?
Io
credo che si possa proprio sperare, che le cose possano cambiare. Cento
anni fa non c’era la corrente elettrica e 60 anni dopo eravamo già
sulla luna. Ogni
giorno vengono fatte nuove scoperte scientifiche e mediche: quindi per
me è ragionevole sperare per mio figlio. Senza dubbio, ci aiuta anche la
nostra indole, siamo ottimisti per natura. Ma è anche una scelta: io
voglio trasmettere l’ottimismo e l’amore per la vita a Giorgio, a tutti e
due i miei figli. A me in particolare, questo atteggiamento è dato
dalla fede, che mi dà la forza di interpretare la vita con speranza.
Perché la fede per me è questo: la speranza nella vita. Non credo certo
ad una bacchetta magica, che guarisca Giorgio. Abbiamo imparato a vivere
con i piedi per terra. Ma realisticamente si può sperare. E questo può
essere condivisibile da qualsiasi uomo.
Accudire Giorgio ogni giorno non è semplice. Quali sono le principali difficoltà?
Anzitutto
difficoltà di natura economica. Per Giorgio abbiamo cambiato casa:
quella di prima, era al secondo piano, la carrozzina non entrava
nell’ascensore e non passava dalle porte. Così ne ho fatta costruire una
più a sua dimensione. La fisioterapia costa come i macchinari e la tata
con competenze infermieristiche. Per fortuna all’assistenza notturna
pensiamo noi.
Le istituzioni vi aiutano in qualche modo?
Gli
aiuti sono ridicoli. Giorgio, come chiunque nelle sue condizioni,
riceve circa 250 euro al mese per la pensione d’invalidità totale e
circa 400 euro per l’accompagnamento. Alcune aziende ospedaliere
forniscono l’assistenza domiciliare per la fisioterapia, ma solo per una
seduta al giorno, mentre Giorgio ne necessita tre. Le altre due, per
fortuna, posso pagarle io, ricorrendo ai privati. E finché il Signore mi
darà la forza di mantenere questo menage, continuerò. Ma capisco che in
altre famiglie, dove c’è anche il problema della propria sopravvivenza,
la disperazione ha il sopravvento.
Cosa dovrebbe fare lo Stato?
Intervenire con aiuti economici più adeguati, concedere
sgravi fiscali a chi assiste i propri cari a casa, fornire assistenza
domiciliare sempre. Io credo che basterebbe questo per recuperare un po’
dell’ottimismo di cui parlo.
Lei è anche un avvocato. Qual è il suo parere sulla vicenda giudiziaria di Eluana?
Non
contesto l’accertamento dei giudici della volontà di Eluana. Ma mi
sconcerta la decisione di sospendere l’alimentazione. Da quello che ho
letto credo che Eluana si trovi in condizioni simili a quelle di mio
figlio. La peg serve solo ad alimentarli. I magistrati hanno emesso una
vera e propria sentenza alla pena capitale.
La
corte di Appello di Milano e la Cassazione hanno stabilito che le
condizioni di vita di Eluana sono inconciliabili con la concezione di
dignità della vita che Eluana stessa aveva…
La
sentenza si è basata anche sulla relazione di consulenti medici. Che
hanno parlato di accanimento terapeutico. Così hanno espresso una loro
opinione, discrezionale, cioè nemmeno condivisa dalla comunità medica.
Non hanno accertato quanto avviene di fatto, come avrebbero dovuto,
cioè, ribadisco, che Eluana è solo alimentata tramite un sondino.
Lei ha chiesto di incontrare Beppino Englaro. Cosa vorrebbe dirgli?
Vorrei
raccontargli quello che mi è accaduto e come ho affrontato i miei
problemi. È un uomo che affronta le pene dell’inferno, lo comprendo
bene. Da padre a padre, non lo giudico. Vorrei
solo dirgli che è possibile una vita diversa. Si può reagire al coma.
Si può sperare. Mi piacerebbe che lui prendesse parte a quello che
viviamo noi.
Qual è il momento più caro vissuto con Giorgio?
Giorgio
è fonte di gioia per me ogni minuto e ringrazio Dio ogni giorno.
Ricordo sempre quando giocava a pallanuoto, come si arrabbiava quando
non parava un tiro decisivo. Aveva un senso fortissimo della squadra e
dell’amicizia. Per la sua passione per la pallanuoto, ho fatto costruire
una piccola piscina, nel nostro giardino: c’è uno scivolo, per farlo
scendere in acqua con la carrozzina, e d’estate fa lì la fisioterapia.
Spesso facciamo con lui il bagno, abbracciandoci insieme per sostenerlo.
Quello è per me il momento più emozionante, perché è come se tornasse
il Giorgio di prima. Come quando facevamo tutti e quattro il bagno al
mare.
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Postato da: giacabi a 14:31 |
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eutanasia, barsotti
CESARE LIA:
MIA FIGLIA COME LA ENGLARO, MA VUOLE VIVERE
***
12/11/2008 - 18.00
Intervista al padre di Emanuela, in coma da 15 anni
1 Gennaio 1993.
Una
piovosa notte di Capodanno. Emanuela Lia, 20 anni, era il terzo
passeggero di un'auto e viaggiava dietro, senza cintura. Il conducente
si addormentó andando a sbattere contro un palo. Poi la vettura finí in
un campo e di nuovo lo schianto contro un palo dell'energia elettrica.
Sballottata all'interno dell'abitacolo, dopo il violento incidente
Emanuela fu subito trasportata al vicino ospedale di Tricase, in
provincia di Lecce, dove un medico, già esperto di intubazione, le salvó
la vita. Ma Emanuela è rimasta in uno stato di coma vigile fino ad
oggi. Ora ha 35 anni ed è assistita in casa dai suoi familiari.
Una storia che ha lo stesso eco di quello di Eluana Englaro. Ma con un finale diverso. Anche
in questo caso interviene un padre, determinato e fermo nelle sue
convinzioni. Convinzioni divergenti a quelle di Beppino Englaro.
Iris press ha voluto ascoltare Cesare Lia e sentire le ragioni di questa 'voce silenziosa' fuori dal coro.
"Dopo
4 mesi in rianimazione nell'ospedale di Lecce, l'abbiamo trasferita ad
Innsbruck, nel centro europeo di Riabilitazione Neurologica. Dopo un
mese, l'abbiamo riportata a casa. In Italia non si è mai provveduto ad
un centro di semi terapia intensiva. Dove si porta una persona che è
ancora in coma? In Italia un posto cosí non esiste. I
medici di Innsbruck ci dissero che avrebbe avuto solo altri 7 mesi di
vita. Invece mi sono fatto coraggio, l'ho portata a casa e ora, dopo 15
anni, è ancora viva".
Cosí
l'avvocato Cesare Lia inizia il suo racconto. Da quella notte in cui
tutto cambió e la sua coraggiosa scelta di curare sua figlia Emanuela a
casa.
"Quando
l'abbiamo portata via da Innsbruck, era un pezzo di legno. Pian piano
ho cercato di farla bere, una delle cose piú difficili. Poi siamo
riusciti anche a farla mangiare. Ora, anche se non parla, comunica con
lo sguardo e le espressioni del volto".
"Se
non posso essere quello che sono adesso, preferisco morire". Eluana
Englaro pronunció queste parole di fronte alla tragedia di un suo caro
amico in coma. Beppino Englaro e la moglie ora si battono perché sia
rispettata la volontà della figlia, cosa ne pensa della loro posizione?
"Reagisco
quando sento il Sig. Englaro chiedere l'eutanasia per Eluana perché lei
stessa disse in passato che avrebbe voluto morire piuttosto che vivere
in quelle condizioni. Anche
mia figlia Emanuela, dopo aver conosciuto a scuola persone in questo
stato, la pensava cosí. Ma ora non è piú d'accordo. Quando le parlo di
Eluana Englaro e le faccio vedere le trasmissioni televisive su questi
temi, Emanuela mi fa capire che non è d'accordo e che vuole continuare a
vivere."
Come giudica i familiari di persone in coma che chiedono l'eutanasia per i loro cari?
"Il
peso che grava su di loro li fa ragionare in modo diverso. Alcuni
agiscono cosí perchè vogliono liberarsi da un peso, altri dicono di
voler attuare una volontà pregressa di cui oggi, peró, non si puó piú
tenere conto. Nelle persone che vivono in queste condizioni vi è
un'interruzione tra la capacità di intendere e di volere e quella di
esprimersi, ma il loro cervello funziona. Loro preferiscono vivere. Lo
testimonia la storia di Salvatore Crisafulli di Catania risvegliatosi
dopo 2 anni dal coma. Per questo solo lui puó dire come ci si sente:
durante il coma si capisce tutto. Le persone in questo stato non
vogliono morire, amano la vita. Lui è diventato la nostra bandiera".
Molti non considerano questo stato una vera vita. Sua figlia come vive? Mostra segni di sofferenza?
"Mia
figlia, prima di essere coinvolta nell'incidente, era una ragazza
ribelle. Ora continua a reagire, a comunicare, vive una vita che non puó
definirsi normale, ma con rapporti quotidiani, non è isolata".
Perché
secondo lei solo i casi come quello della Englaro o di Welby infiammano
le polemiche, balzando all'attenzione della cronaca e non il suo o
quello di Crisafulli in cui si ha un punto di vista altrettanto forte,
ma opposto?
"Il
problema principale è che in Italia si vuole portare avanti solo il
discorso dell'eutanasia, senza ascoltare chi non è d'accordo. Io da
cattolico non l'accetto. Non posso accettare che si decida per la vita
degli altri".
Lei
e la sua famiglia vi sentite garantiti dallo Stato e dall'articolo 32
della Costituzione che dovrebbe tutelare la salute a tutti come diritto
fondamentale dell'individuo?
"Lo stato di fronte a questi soggetti non fa nulla. Dovrebbe fornire i mezzi, invece siamo abbandonati a noi stessi. Percepiamo
solo la pensione sociale con accompagnamento, che è di soli 1000 euro.
Tutto il resto grava sulla mia famiglia, perché non ci sono strutture
adatte e non esiste assistenza domiciliare. Dobbiamo anche pagare per
intero alcuni farmaci salvavita per Emanuela. Non abbiamo neanche
sostegno psicologico per affrontare questa lunga strada in salita.
Conosco tanti casi di figli di persone meno abbienti che vivono in una
situazione di indigenza unica. Abbiamo interpellato tanti politici,
tutti promettono, ma nessuno agisce".
Come padre di una ragazza in coma si vuole fare portavoce di un messaggio?
"Tutti
quelli che credono che l'eutanasia sia la soluzione giusta, devono
recedere da questo convincimento. Perché salvare queste persone con la
rianimazione e poi ucciderle? Perché condannarle a morte certa, se c'è
ancora la speranza di un risveglio o di una vita piú dignitosa grazie
alla scienza e alle cellule staminali? Conosco molti casi di persone in
queste condizioni e sono tutti d'accordo che la morte dolce non sia la
cosa giusta e che la natura debba fare il suo corso".
Le
considerazioni dell'avvocato Lia dovrebbero far riflettere su questa
sua coraggiosa presa di posizione. Ci vorrebbe una nuova coscienza
civile per questa dura realtà messa da parte, ma che "potrebbe cadere
addosso a chiunque e che non puó lasciare indifferente nessuno".
Valeria Fornarelli
Fonte: Iris http://www.irispress.it/Iris/
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Postato da: giacabi a 20:52 |
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eutanasia
CESARE LIA:
MIA FIGLIA COME LA ENGLARO, MA VUOLE VIVERE
***
Caro Direttore, devo chiarire, a seguito di quanto riportato sull'articolo "Le Eluana d'Italia", che non
è vero che io non voglia interrompere i trattamenti praticati a mia
figlia Emanuela perchè a lei non viene praticato alcun trattamento. Devo
chiarire che Emanuela è stata per oltre due anni con il sondino
gastrico (ovvero peg) che la alimentava ed è stata a lungo ventilata
attraverso una tracheostomia. Quando mi fu consegnata dal reparto di terapia semintensiva di Innsbruck (occhi chiusi, senza parola, con la peg,, con un bel buco alla gola) mi si disse che avrebbe vissuto qualche altro mese. L'affermazione
mi meravigliò e chiesi come era possibile che una giovane 21enne, senza
malattie particolari, entusiasta della vita come era mia
figlia potesse morire e mi fu risposto che le infezioni dovute ai
sondini di alimentazione e di respirazione, uniti allo stato di
immobilità ed all'immunodepressione, avrebbero determinato il decesso.
Con mia moglie, allora, "morta per morta", decisi di cercare di
togliere di mezzo tutte le forma di infezione e di preservare mia figlia
da ulteriori malanni. Io stesso, che fumavo all'epoca dalle 60 alle 80
sigarette al giorno, decisi di smettere (e lo feci) perchè ritenevo che
in casa ci fosse bisogno di persone valide e non prossime alla
debilitazione. Cominciammo
a somministrare ad Emanuela prima l'acqua, che era l'alimento più
difficile da ingoiare, usando un cucchiaino per volta da somministrare a
piccole dosi e, poi il cibo, sempre somministrandolo con un cucchiaino
ed aiutandola a deglutire con un massaggio sulla trachea.
Ricordo che, per evitare di somministrare molti bocconi, mia moglie
preparava piccoli quantitativi di cibo concentrando in essi le 1.800
calorie quotidiane necessarie (x grammi di pinoli, y grammi di
mascarpone, z grammi di parmigiano, ecc.) fino ad arrivare, dopo due anni ad ottenere la chiusura della tracheostomia e la rimozione della peg. Da
allora mia figlia ha cominciato a migliorare, riaprendo gli occhi,
facendo delle smorfie, battendo le palpebre. Dopo sette anni
dall'incidente riprese ad avere gradualmente le mestruazioni ed
il prof. Gismondi, primario della rianimazione di Lecce a cui devo gran
parte delle conoscenze mediche, mi disse che si era risveglita la
ipofisi, cioè una parte del cervello che consentiva la ripresa
intellettiva (non so nemmeno ora cosa sia con precisione). Certo
è, che, a distanza di sedici anni circa, mia figlia ancora non parla,
non si muove se non strillando quando si incazza perchè vogliamo farle
mangiare il pesce che a lei non piace, ma sorride al momento giusto o
per annuire, dice "A" per sire "SI", protesta gesticolando quando
disapprova, ecc. Mia figlia è viva, da morta che era. Ecco perchè, fermo restando che Beppino Englaro è libero di decidere delle sorti di sua figlia, ritengo
che il suo atto porterebbe a morte un essere che, se assistito come ho
fatto io, potrebbe avere una vita altrettanto dignitosa come quella di
Emanuela. Il
suo scritto, poi, mi convince ancora di più di aver praticato sedici
anni fa un percorso valido. Grazie per l'ospitalità e cordiali saluti.
Cesare Lia
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Postato da: giacabi a 20:31 |
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eutanasia
Appello per difendere il diritto alla vita di Eluana Englaro. No alla deriva etica che vorrebbe "cosificare" la vita umana
**°
Mobilitiamoci
testimoniando con la parola la nostra strenua condanna dei boia del
relativismo etico che violano incontestabilmente il valore
insopprimibile della sacralità della vita, che si sono arbitrariamente
auto-attribuiti il diritto di sentenziare che Eluana non debba più
continuare a vivere e debba essere uccisa cessando di nutrirla. Hanno
aderito anche Andrea Pamparana e Mons. Vecerrica
autore:
Magdi Cristiano Allam
Cari Amici,
Lancio un appello urgente e forte a mobilitarci per difendere il diritto alla vita di Eluana Englaro, affinché trionfi il valore insopprimibile della sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale quale fondamento della nostra umanità e della nostra civiltà. Mobilitiamoci testimoniando con la parola la nostra strenua condanna dei boia del relativismo etico che violano incontestabilmente il valore insopprimibile della sacralità della vita, che si sono arbitrariamente auto-attribuiti il diritto di sentenziare che Eluana non debba più continuare a vivere, che Eluana debba essere uccisa cessando di nutrirla. Mobilitiamoci contro questa deriva etica, giuridica e politica che vorrebbe “cosificare” la vita umana, con il tragico risultato che oggi i nostri figli immaginano, come è avvenuto per dei quattordicenni siciliani che non si sono fatti scrupoli ad assassinare una loro coetanea dopo averla stuprata e messa incinta, che la vita umana possa essere impunemente usata, violata e buttata. Mobilitiamoci affinché Eluana possa restare in vita presso le suore Misericordine che da 14 anni l’accudiscono amorevolmente nella casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” a Lecco, che hanno detto: “Per noi Eluana è una persona e viene trattata come tale. E’ una ragazza bellissima. Vorremmo dire al signor Englaro (il padre) che se davvero la considera morta di lasciarla qui da noi. E’ parte della nostra famiglia”. Mobilitiamoci sostenendo a viva voce che anche per noi Eluana è una persona che ha diritto alla vita e anche per noi Eluana è parte della nostra famiglia. Promuoviamo un’adozione a distanza di Eluana che sia tale innanzitutto nei nostri cuori e che possa, se necessario, trasformarsi in un impegno concreto al fianco delle suore Misericordine che attestano con la loro testimonianza d’amore e di vita l’autentico messaggio di Gesù, che trova piena corrispondenza nei valori assoluti e universali che sostanziano l’essenza della nostra umanità. Vi esorto a far pervenire a questo sito la vostra adesione a questo appello, indicando il vostro nome e cognome, la vostra e-mail e la motivazione per la quale aderite all’appello. Cari Amici, secondo la testimonianza, pubblicata oggi su Il Foglio, di Marco Barbieri che ha incontrato Eluana cinque anni fa, la ragazza ogni mattina apre gli occhi e alla sera li richiude. Non è attaccata a nessun tipo di macchinario che ne favorisca la respirazione, non assume alcun farmaco, l'unico elemento esterno che le consente di vivere è il sondino che scende in fondo al suo stomaco e la nutre. I medici lo definiscono uno stato vegetativo permanente, ma Barbieri ricorda che "la letteratura clinica è ricca di casi di uomini e donne che dopo periodi di coma come Eluana si sono risvegliati" anche se non è dato sapere come e quando. Di fatto il coma permanente è ben diverso dal coma irreversibile. Tanto che, come si legge a pagina 6 de Il Giornale, le suore che la accudiscono non sospenderanno mai l'alimentazione, come conferma la responsabile della clinica suor Albina Corti: "Per ora non ci hanno ancora comunicato nulla. Non sospenderemo mai l'alimentazione. Nel caso, venga il padre a prenderla: fino ad allora la ragazza starà qui. Anche se vorremmo dire al signor Englaro che se davvero la considera morta di lasciarla qui da noi. E' parte anche della nostra famiglia. Per noi è una persona e viene trattata come tale. E' una ragazza bellissima. Qualche volta se le parla suor Rosangela muove gli occhi". Cari Amici, è per queste ragioni che vi chiedo ancora di sottoscrivere l'appello. Cari Amici, andiamo avanti insieme da Protagonisti per l’Italia dei diritti e dei doveri, del bene comune e dell’interesse nazionale, promuovendo un Movimento della Verità, della Vita e della Libertà, per una riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica, con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene. Magdi Cristiano Allam |
Postato da: giacabi a 20:39 |
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eutanasia, magdi allam
Eluana, che sgomento la vita decisa nei tribunali
***
I progressi della scienza ci portano ad affrontare problemi etici fino a pochi anni fa impensabili. Se
avessi detto a mio nonno, nato nell’Ottocento e sopravvissuto a due
guerre mondiali, che avrebbe potuto decidere, con l’aiuto di un atto
notarile, in che modo morire penso onestamente che sarebbe inorridito. Come
si fa a decidere prima una cosa di una gravità e di una complessità del
genere? Certo, nessun essere umano sano di mente augura a se stesso e
ai suoi cari di vivere in stato di incoscienza per anni o di dipendere
dal funzionamento di una macchina. Ma una cosa è avere un timore,
un’altra affrontare la realtà, quando si presenta.
Se
capitasse a me, ad esempio, magari in quel momento vedrò lo sguardo
della persona che amo e capirò che voglio continuare a vederlo o forse
proverò curiosità per questa nuova fase della mia vita che si sta
aprendo, un po’ come se visitassi una terra inesplorata. Oppure sarò
sola, disperata, nessuno risponderà alla mia tristezza allora, certo,
vorrò porre fine ai miei giorni. Ma come faccio a saperlo adesso, a
decidere in un momento così lontano e così diverso? E se poi questa mia
scelta autorizzasse qualcun altro a decidere per me? Contrariamente
a quanto ci viene continuamente ripetuto, io penso che sappiamo ancora
pochissimo sulla vita, su quello che c’è nella nostra mente, nel nostro
corpo e che questo senso di ignoranza debba condurre al massimo timore,
al massimo rispetto.
Nessuno
di noi sa cosa provi veramente Eluana, nella sua attuale condizione,
come non sappiamo perché le sia successo questo incidente, che senso
abbia nella sua vita e in quella dei suoi genitori né perché il suo
corpo continui ad essere così straordinariamente vitale. Questa
vicenda provoca in me un senso di dolorosa compassione. Compassione per
la sofferenza dei genitori, per quanto abbia dovuto soffrire - e per
quanto ancora avrà da soffrire - la loro figlia; compassione
per le suore che, per tanti anni e con tanto amore, si sono prese cura
di lei. Ma oltre alla compassione, provo anche un senso di gelo e di
sgomento perché l’idea che un tribunale non penale possa decidere della
vita di un essere umano è qualcosa che esula dalla mia visione del
mondo.
Sono
profondamente contraria all’accanimento terapeutico, quando ci sono
delle malattie devastanti e progressive, ma un tumore o una malattia
metabolica sono ben diverse da uno stato vegetativo. Una delle cose che
più mi sorprende, di questi nostri tempi, è la grande quantità di
certezze che ci vengono proposte come verità assolute. L’uomo,
ci viene ripetuto da più parti, ha una sola dimensione - quella
razionale - e tramite questa razionalità è in grado di determinare ogni
istante della sua vita in modo che l’imprevisto, quest’ospite scomodo e
inquietante, scompaia definitivamente dall’orizzonte.
La
vita che ci preparano i devoti della razionalità è una vita di estrema
tristezza, dominata dall’ansia e dalla paura, una vita segnata dal
continuo ricorso ai tribunali per avere una qualche certezza di essere
nel giusto. Una vita, insomma, in cui l’uomo non è che una cosa tra le
cose.
Se vado in un negozio, infatti, non compro certo un oggetto guasto o
scaduto e, se per caso mi capita di farlo, lo porto indietro, chiedendo
un rimborso. L’essere
cosa tra le cose ci porta a chiedere la perfezione, a bandire dal
nostro orizzonte l’imprevisto della malattia, del dolore, lo spettro
della morte. Sgombrato infatti il campo dalla necessità di
interrogarsi sul mistero che avvolge le cose - perché il mistero non
esiste, in quanto non provabile scientificamente - non rimane che
appellarsi alla legge degli uomini, invocare una sentenza che confermi la correttezza del nostro sentire. Il
tribunale è diventato il cuore attorno a cui ruota la nostra civiltà.
La vita è, alla fine, un’avventura amara e, siccome non abbiamo chiesto
di venire al mondo e non ne capiamo il senso, abbiamo il diritto di
essere risarciti fino alle più piccole contrarietà che ci capitano.
Ricordo il caso di una ragazza che, avendo trovato un insetto in un
pacchetto di patatine fritte, ha fatto causa alla ditta produttrice
chiedendo i danni biologici per lo spavento provocato, danni che le sono
stati peraltro riconosciuti. O casi di genitori che hanno denunciato un
medico per un figlio nato con difetto di deambulazione. Ma
è davvero questo il senso della nostra vita? Vivere accerchiati da
pensieri ostili, da potenziali nemici, rivendicando continui danni
subiti? Lo
spirito del nostro tempo è quello del risentimento. Ma il risentimento è
come una potente erba infestante, ha radici profonde, invasive e con il
suo espandersi riduce fino ad eliminare la possibilità di provare un
sentimento.
Si
vuol far credere che il mistero - e dunque la domanda sulla
trascendenza - sia un obsoleto retaggio del mondo clericale, mentre
forse bisognerebbe dire che riguarda sempre e comunque ogni uomo, per la
complessità della sua natura, per la presenza delle tenebre, per
l’assoluta certezza della morte. Se contemplassimo con timore - altra grande parola scomparsa dal nostro orizzonte - questo mistero, forse
saremmo costretti a interrogarci, a metterci in cammino, a entrare
nell’idea che ogni cosa che accade nelle nostre vite ha un senso
profondo e che crescere come esseri umani vuol dire proprio riuscire a
capire questo senso, facendolo lievitare in qualcosa di più grande, di
più alto, di più luminoso. La vita non è uno status quo da difendere con
le unghie e con i denti, ma una condizione di continuo cambiamento, di
cui, solo in parte, siamo responsabili. Ogni mattina, quando apro gli
occhi, non so se arriverò alla sera o se ci arriveranno le persone a cui
voglio bene. Siamo continuamente esposti all’impatto devastante del
dolore, alla lacerazione del distacco, alla sofferenza delle persone
amate. Proprio per questo, bisogna essere grati per ogni istante che ci
viene donato, per tutte le cose, belle e meno belle, che avvengono nel
corso dei giorni perché nel loro insieme costituiscono l’unicità del
nostro cammino.
Sono
anche profondamente convinta che ogni vita abbia la sua morte e che
questi due eventi si illuminino di senso a vicenda. E che l’unicità della vita umana stia proprio nella capacità di creare rapporti d’amore. Qualche
tempo fa, sono andata a trovare un’amica molto anziana ormai esasperata
dall’essere ancora viva. «Dio si è dimenticato di me. Perché non
muoio?», mi chiedeva. «Forse non muori perché devi ancora capire
qualcosa», le ho risposto scherzosamente. «Forse
perché quella pianta che hai sul davanzale domani fiorirà e tu rimarrai
stupita dal suo colore, dalla bellezza che esploderà tra il grigiore
dei palazzi». «Ma dov’è la misericordia di Dio?», ha incalzato lei.
«Quella di Dio non lo so, ma so dove noi dobbiamo coltivarla. Nei nostri
cuori». www.susannatamaro. |
Postato da: giacabi a 14:42 |
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eutanasia, tamaro
che grande! Che uomo!
CARDINALE VON GALEN
Così il Leone di Münster difese gli «indegni di vivere»
(secondo il parere di una qualunque commissione)
***
« ... quando
sono venuto a conoscenza che dei malati della casa di Marienthal
dovevano essere portati via, per essere uccisi, io il 28 luglio ho
sporto denuncia al pubblico ministero della pretura di Münster... Già il 26 luglio avevo protestato... Senza esito. Così noi dobbiamo tener conto del fatto che i poveri e indifesi malati prima o poi saranno uccisi. Perché? Non perché siano colpevoli di un crimine che meriti la morte,
non perché forse abbiano aggredito il loro infermiere o guardiano, di
modo che costui, per salvaguardare la propria vita, non abbia avuto
altra scelta che affrontare con la forza, per legittima difesa,
l’aggressore. Questi sono casi in cui, oltre all’uccisione del nemico
armato del Paese in guerra giusta, è lecito l’uso della forza fino
all’uccisione e, spesso volte, è anche necessario. No, non per tali motivi devono morire quegli infelici malati, ma perché, secondo il giudizio di un ufficio, secondo il parere di una qualunque commissione, son divenuti ' indegni di vivere',
per il fatto che, secondo tale perizia, fanno parte dei ' connazionali
improduttivi'. Si giudica: non possono più produrre, sono come una
vecchia macchina, che non funziona più, come un vecchio cavallo
diventato inguaribilmente zoppo.
Sono
come una mucca che non dà più latte. Cosa si fa con una tale macchina?
Viene demolita. Cosa si fa con un cavallo zoppo, con una talaltra bestia
improduttiva? No, non voglio portare a fine questo paragone, per quanto
tremendi siano la sua giustificazione e il suo potere illuminante. No,
qui si tratta di esseri umani, nostri consimili, nostri fratelli e
sorelle! Ma per questo non meritano di essere uccisi. Hai tu, ho io il
diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo
ritenuti produttivi da altri? Se si ammette il principio, ora applicato,
che l’uomo ' improduttivo' possa essere ucciso, allora guai a tutti
noi, quando saremo vecchi e decrepiti!... Allora nessuno è più sicuro
della propria vita... e nessuna polizia li proteggerà, e nessun
tribunale punirà il loro assassinio e condannerà l’assassino alla pena
che merita»
beato Von Galen, il Leone di Münster ( 1878¬1946) (dall’omelia
del 3 agosto 1941). Ahimè, meglio che torni dal mio malato: lui attende
che la porta si apra. Lui sa che il Signore gli aprirà.
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Postato da: giacabi a 08:26 |
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eutanasia
CASO ELUANA
Carità o violenza?
***
«Capire
le ragioni della fatica è la suprema cosa nella vita,perché l’obiezione
più grande alla vita è la morte e l’obiezione più grande al vivere è la
fatica del vivere; l’obiezione più grande alla gioia sono i sacrifici…
Il sacrificio più grande è la morte» (don Giussani).
Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?
Dov’è
il punto di origine di una ragione impazzita, capace di ribaltare bene e
male e, quindi, incapace di dare alle cose il loro vero nome?
L’annunciata sospensione dell’alimentazione di Eluana è un omicidio.
La cosa è tanto più grave in quanto impedisce l’esercizio della carità,
perché c’è chi si è preso cura di lei e continuerebbe a farlo.
Nella
lunga storia della medicina il suo sviluppo è diventato più fecondo
quando,in epoca cristiana, è cominciata l’assistenza proprio agli
“inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini
“sani”, lasciati morire fuori dalle mura
della città o eliminati. Chi se ne fosse occupato avrebbe messo a rischio la propria vita. Per questo chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro
uomo, per il suo valore infinito perché immagine di Dio creatore.
Così il caso Eluana ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. Siamo strappati al nulla da
Qualcuno che ci ama e che ha detto: «Persino i capelli del vostro capo sono contati».
Rifiutare
questa evidenza vuol dire, prima o poi, rifiutare la realtà. Persino
quando questa realtà ha il volto delle persone che amiamo.
Ecco
perché arrivare fino a riconoscere Chi ci sta donando la presenza di
Eluana non è un’aggiunta “spirituale” per chi ha fede. È una necessità
per tutti coloro che, avendo la ragione, cercano un significato. Senza
questo riconoscimento diventa impossibile abbracciare Eluana e vivere
il sacrificio di accompagnarla; anzi, diventa possibile ucciderla e
scambiare questo gesto, in buona fede, per amore.
Il
cristianesimo è nato precisamente come passione per l’uomo: Dio si è
fatto uomo per rispondere all’esigenza drammatica - che ognuno avverte,
credente o no
- di un significato per vivere e per morire;
Cristo ha avuto pietà del nostro niente fino a dare la vita per
affermare il valore infinito di ciascuno di noi, qualunque sia la nostra
condizione.
Abbiamo bisogno di Lui, per essere noi stessi. E abbiamo bisogno di essere educati a riconoscerLo, per vivere.
Comunione e Liberazione
Novembre 2008.
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Postato da: giacabi a 21:10 |
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eutanasia, cl
Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva
***
All'indomani della sentenza della Corte di Cassazione, le suore della Clinica Talamoni di Lecco, che accudiscono Eluana Englaro, così si sono espresse:
«L’amore e la dedizione per Eluana e per tutti coloro che si affidano alle nostre cure ci portano ad invocare il Signore Gesù affinché la speranza prevalga anche in questa ora difficile, in cui sperare sembra impossibile. La nostra speranza - e di tanti con noi - è che non si procuri la morte per fame e sete a Eluana e a chi è nelle sue condizioni.
Per questo, ancora una volta, affermiamo
la nostra disponibilità a continuare a servire, oggi e in futuro,
Eluana. Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi
che la sentiamo viva.
Non chiediamo nulla in cambio, se non il silenzio e la libertà di amare e donarci a chi è debole, piccolo e povero».
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Postato da: giacabi a 21:43 |
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eutanasia
La morte di Terry Schiavo
***
Terry Schiavo
E’ così che hanno ucciso Terri
Molti
ricorderanno il caso di Terri Schiavo, una donna cerebrolesa morta di
fame e di sete per decisione dei giudici della Florida, che hanno
lasciato il diritto di vita o di morte nelle mani di suo marito. Un
caso diverso da quello di Eluana ma da un punto di vista medico una
situazione simile: come Eluana, Terri non era malata ma disabile. Respirava da sola, il cuore batteva da solo, reagiva agli stimoli, sorrideva, baciava. Questa
è una sintesi, tradotta da Alessandra Nucci, della testimonianza del
sacerdote che l'ha assistita nelle ultime ore di vita.
Ero
al capezzale di Terri Schiavo durante le ultime 14 ore della sua vita
terrena, fino a cinque minuti prima della sua morte. Le ho detto tante
volte che aveva tanti amici nel mondo e molti pregavano per lei ed erano
dalla sua parte. Le
avevo detto le stesse cose durante le mie visite nei mesi prima che le
fosse tolto il sondino dell'alimentazione, e sono convinto che abbia
capito.
Conoscevo la famiglia di Terri da circa sei anni e mi hanno messo sull'elenco dei visitatori. Terri era in un ospizio ma fuori dalla porta c'erano dei poliziotti. Se
non fossi stato sulla lista non avrei potuto oltrepassare quelle
guardie armate perché l'elenco veniva tenuto molto breve e molto molto
controllato. Perché?
Perché i fautori dell'eutanasia dovevano riuscire a dire che Terri era
una persona che non rispondeva ed era in una specie di stato vegetativo,
coma o altra terminologia che vogliono usare per suggerire che non
aveva alcuna reazione affatto. L'unico modo di provare che invece
rispondeva era di vederla con i propri occhi.
Sono andato da lei nel settembre 2004 e poi ancora nel febbraio 2005. Quando
la mamma mi presentò, lei mi fissò intensamente. Concentrò lo sguardo.
Puntava gli occhi su chiunque le stesse parlando. Se qualcuno le parlava
dall'altra parte della stanza girava la testa e gli occhi verso la
persona che le stava parlando.
"Il grido silenzioso" , quando il bambino apre la bocca e cerca di allontanarsi dallo strumento che sta per distruggerlo.
Ora,
la sera prima di morire ero nella stanza probabilmente per un totale di
3-4 ore, e poi per un'altra ora la mattina dopo - la sua ultima ora.
Descrivere il suo aspetto come "sereno" significa distorcere completamente quello che ho visto io.
Qui c'era una persona che da tredici giorni non aveva né cibo né acqua.
Era, come potete immaginare, di aspetto molto tirato rispetto a quando
l'avevo vista prima. Aveva gli occhi aperti ma andavano da una
parte all'altra, oscillavano costantemente avanti e indietro, avanti e
indietro. Lo sguardo (l'ho fissata per tre ore e mezzo) lo posso
descrivere solo come un misto di paura e tristezza... una combinazione
di tremenda paura e tristezza.
Aveva
la bocca sempre aperta. Sembrava congelata. Ansimava a boccate rapide.
Non era "serena" in alcun senso. Ansimava come se avesse appena corso
cento miglia.
Ma era un respiro superficiale. Suo fratello Bobby era seduto
dirimpetto a me, dall'altra parte del letto. La testa di Terri era in
mezzo a noi e sua sorella Suzanne era alla mia sinistra.
Siamo stati lì per un po’ di tempo in preghiera intensa. E abbiamo
parlato con Terri, esortandola ad affidarsi completamente al Salvatore.
Le ho assicurato continuamente che aveva l'amore e le preghiere di tanta
gente.
Ma
insieme a Bobby e a sua sorella e Terri stessa, sapete chi altro c'era
nella stanza con noi? Un poliziotto. Sempre. Almeno uno. A volte due. A
volte tre poliziotti armati erano nella stanza. Sapete perché erano lì? Per assicurarsi che non facessimo nulla di proibito, come darle la comunione o magari un bicchier d'acqua.
Quando a volte Bobby, seduto dall'altra parte del letto, si alzava di
tanto in tanto per chinarsi su sua sorella, il poliziotto si spostava.
Andava verso il fondo del letto per vedere quello che stava facendo. La
mattina della sua morte siamo entrati piuttosto presto e dovevo uscire
per un'intervista.
Per
essere puntuale tenevo in mano un piccolo orologio e all'inizio della
visita me lo sono messo nella mano sinistra, poi mi sono chinato sopra
Terri e ho allungato la mano destra per benedirla. Cominciando
a pregare ho chiuso gli occhi e mi sono sentito picchiettare sulla mano
sinistra. Era il poliziotto che voleva sapere "Padre, cos'ha nella
mano?" Io ho risposto, "E' solo un orologio." E lui: "Dovrò tenerlo io
mentre lei è qui." Non potevamo tenere in mano niente. Non sapeva
neanche cosa fosse. Magari stavo cercando di darle la comunione. Magari
avrei cercato di inumidirle le labbra. Chissà quale terribile cosa stavo
per fare? Sapete
qual era il colmo? Nella stanza c'era un comodino. Potevo mettere una
mano sul comodino e sulla testa di Terri senza spostarmi. Sapete cosa
c'era sul comodino? Un vaso di fiori pieno d'acqua. Guardavo i fiori.
Erano bellissimi. E ce n'era un altro dall'altra parte della stanza ai
piedi del letto. Due bellissimi mazzi di fiori pieni d'acqua. Nutriti,
vivi, bellissimi. Quei fiori venivano trattati meglio di Terri.
Coloro
che hanno ucciso Terri si sono molto arrabbiati che la notte prima che
morisse io abbia dichiarato che suo marito Michael, il suo avvocato,
Felos, e il giudice Greer erano assassini. Ho anche sottolineato, quella
sera e la mattina dopo, che contrariamente alla descrizione di Felos,
la morte di Terri non è stata affatto dolce e bella. E' stata orribile.
In tutti i miei sedici anni di sacerdozio non avevo mai visto nulla di
simile.
PADRE FRANK PAVONE
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Postato da: giacabi a 21:58 |
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eutanasia
Eutanasia
***
Perché l'intervista al Foglio
"Anzitutto,
perché sono assolutamente d'accordo con voi, con Giuliano Ferrara ...
Io non sono capace di guardare certe cose con distacco, indifferenza,
freddezza… - dice Oriana - Ma poche volte ho sofferto quanto per questa
donna innocente, uccisa dall'ottusità della Legge e dalla crudeltà di un
Barbablù. Nonostante
la mancanza di sangue, di manifesta brutalità, v'è qualcosa di
particolarmente mostruoso nella morte di Terri Schindler".
"Io non dico mai Terri Schiavo. Mi sembra una beffa, una crudeltà supplementare, chiamarla col cognome di suo marito. Era nata come Theresa Marie Schindler, povera Terri. E se la sapessero tutta, penso che anche gli italiani direbbero Terri Schindler e non Terri Schiavo... Ho l'impressione che in Italia anzi in Europa la gente non sia stata ben informata. Che sia i giornali, sia le televisioni abbiano sottolineato la senzazionalità della faccenda, non i suoi retroscena. Io invece l'ho seguita giorno per giorno ed ora per ora, qui in America, e l'effetto è stato così disastroso che non credo più alla Legge. Cristo per tutta la vita ho invocato la Legge. Anche per combattere l'incompreso flagello che stiamo subendo con l'invasione islamica dell'Occidente, ho sempre invocato la Legge... Ma la morte di Terri è riuscita laddove essi non erano riusciti, ed oggi penso che ottenere giustizia attraverso la Legge sia un terno al lotto. Se mi sbaglio, se la Legge significa davvero Giustizia, Equità, Imparzialità, me lo si dimostri incriminando i magistrati che per ben dodici volte si sono accaniti su quella creatura colpevole soltanto d'essere una malata inguaribile...In testa a loro, quel George Greer che per primo accolse l'istanza di barbablù e ordinò di staccare la spina cioè di togliere a terri il feeding-support: il tubo nutritivo..." "...Oggi in America il rischio della dittatura non viene dal potere esecutivo: viene dal potere giudiziario.. E nel resto dell'Occidente, lo stesso. Pensi all'Italia dove, come ha ben capito la sinistra che se ne serve senza pudore, lo strapotere dei magistrati ha raggiunto vette inaccettabili. Inpuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano. Manipolando al Legge con interpretazioni di parte cioè dettate dalla loro militanza politica e dalle loro antipatie personali, approfittandosi della loro immeritata autorità e quindi comportandosi da padroni come i Padreterni della Corte Suprema statunitense... Chi osa biasimare o censurare o denunciare un magistrato, in Italia? Chi osa dire che per diventar magistrato bisognerebbe essere un santo o almeno un campione di onestà e di intelligenza, non un uomo di parte e di conseguenza indegno d'indossare la toga? Nessuno. Hanno tutti paura di loro". "...A pari merito ci metto i medici anzi i becchini travestiti da medici che ai magistrati hanno fornito gli elementi necessari ad emettere quella sentenza di morte. Che hanno definito Terri un cervello spento, un corpo senz'anima, un essere in stato vegetativo irreversibile... Oggigiorno Ippocrate non va più di moda e nella maggior parte dei casi la medicina è un business, un cinico strumento per arraffare soldi o tentare di ottenere lo screditato premio Nobel. Però so che lo stato vegetativo non è la morte cerebrale e che il termine stato-vegetativo-irreversibile è molto controverso... Lo stato-vegetativo si distingue dal coma in modo molto preciso . Il coma è un sonno continuo. Lo stato-vegetativo è un alternarsi di sonno e di veglia durante il quale il malato vede, capisce, reagisce agli stimoli. La prova è fornita da un video trasmesso da tutte le televisioni del mondo. Quello nel quale sua madre si china a baciarla e Terri si illumina veramente come un albero di Natale... A portare testimonianza in questo senso sono state anche le infermiere che la curavano. Due di loro raccontano addirittura che, a veder Barbablù, Terri si comportava in modo completamente diverso da quello in cui si comportava coi genitori. Chiudeva gli occhi oppure distoglieva lo sguardo, assumeva un'espressione ostile, taceva ostinatamente, e altro che stato-irreversibile! Quella era una donna che capiva. Che pensava, che ragionava. Io sono certa che la sua lunga agonia, la sua interminabile esecuzione effettuata attraverso la fame e la sete, Terri l'abbia vissuta consapevolmente". Ne deduco che nella nostra società parlare di Diritti-Umani è davvero un'impostura, una farisaica commedia... Ne deduco che nella nostra società, per non essere gettati dalla rupe Tarpea, bisogna essere sani, belli e in grado di partecipare alle Olimpiadi o almeno giocare la fottuta partita di calcio. Beh, allora eliminiamoli tutti quei cittadini inutili... Anche se sono sordi come Beethoven che da sordo scrisse l'Eroica. Anche se sono ciechi come Omero che da cieco scrisse ll'Iliade e l'Odissea. O come Milton che da cieco scrisse il Paradiso perduto poi il Paradiso ritrovato. Anche se sono rachitici e gobbi come Leopardi che da rachitico e gobbo scrisse A Silvia e L'Infinito. O anche se sono tetraplegici come Stephen Hawking, da circa cinquant'anni immobilizzato da una sclerosi amiotrofica e da almeno dieci incapace di parlare..."
E per incominciare eliminiamo subito anche me, senza attendere
che mi ammazzino i musulmani dai quali sono stata condannata a morte
non con l'avallo della società ma con quello di Allah. Anch'io sono un
malato inguaribile. Lungi dal curarmi con lo sciroppo per la tosse o dal
definire il mio Alieno (la Fallaci soffre di un tumore ndr) 'un tipico
reumatismo'. Anch'io sono colpevole. Anch'io merito d'essere
scaraventata dalla Rupe della Fame e della Sete".
"...La parola eutanasia è per me una parolaccia. Una bestemmia nonché una bestialità, un masochismo. Io non ci credo alla buona-Morte, alla dolce-Morte, alla Morte-che-Libera-dalle-Sofferenze. La morte è morte e basta. Ma predicarlo non serve a nulla. Forse grazie ai kamikaze, alle loro stragi alle loro decapitazioni, l'islamico Culto della Morte sta avanzando in Occidente a un ritmo inesorabile. Sta conquistando l'America dove in Florida, in California, nel Vermonti, in Alabama, nell'Oregon, nel Michigan passano leggi sul suicidio assistito. E sperare che ciò non avvenga anche in Europa, in Eurabia, quindi in Italia, è ormai vano. 'L'onda si rovescerà sull'Europa, sull'Italia dove si copiano sempre sempre gli altri', ha ben scritto Gianluigi Gigli sull'Osservatore Romano. "...E' una buffonata. Perché nessuno può predire come si comporterà dinanzi alla morte. Inutile fare gli eroi antelitteram, annunciare che dinanzi al plotone di esecuzione sputerai addosso ai tuoi carnefici come Fabrizio Quattrocchi. Inutile dichiarare che in un caso simile a quello di Terri vorrai staccare-la-spina, morire stoicamente come Socrate che beve la cicuta. L'istinto di sopravvivenza è incontenibile, incontrollabile...E se nel testamento biologico scrivi che in caso di grave infermità vuoi morire ma al momento di guardare la Morte in faccia cambi idea? Se a quel punto t'accorgi che la vita è bella anche quando è brutta, e piuttosto che rinunciarvi preferisci vivere col tubo infilato nell'ombelico ma non sei più in grado di dirlo?"
[…]
E poi?
Poi il calvario, la lenta caduta dalla Rupe della Fame e della Sete finì. Alle otto di mattina, il 31 marzo, Bob e Mary e Bobby e Susanna furono ammessi col sacerdote nella camera di Terri che stava finalmente morendo ma era ancora cosciente. E alle otto e quarantacinque, quando stava per esalare l'ultimo respiro, il poliziotto che con tanto zelo aveva impedito di inumidirle le labbra ringhiò che non potevan restare perché-le-infermiere-dovevan-pulire-la-camera-aggiustare-i-lenzuoli. Bobby si ribellò. Rispose che il pretesto era offensivo e ridicolo e si rifiutò di uscire. Allora il poliziotto lo cacciò brutalmente. Altrettanto brutalmente spinse don Pavone e Bob e Mary e Susanna fuori della stanza. Al loro posto si installò Barbablù con l'avvocato e, beffa delle beffe, crudeltà delle crudeltà, Terri morì con lui accanto. Sotto i suoi occhi.
2004 “Il Foglio” un’intervista di Oriana Fallaci
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Postato da: giacabi a 14:02 |
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fallaci, eutanasia
Ringrazio Dio
di avere incontrato questa mia malattia
***
“….io,
oltre a fare il medico, sono anche malato di sclerosi laterale
amiotrofica, una malattia neurologica progressiva, degenerativa, che
porta alla distruzione di un gruppo di cellule che si chiamano
motoneuroni, il cui compito è quello di portare gli impulsi a tutta la
nostra muscolatura volontaria. Morendo queste cellule, i nostri muscoli
non si muovono più, dal banalissimo muscoletto del dito del piede o
della mano ai muscoli che ci permettono di parlare correttamente, di
alimentarci, di respirare. E andiamo incontro a una paralisi totale, con
morte per insufficienza respiratoria in pochissimo tempo. Ecco, il
malato di sclerosi laterale amiotrofica vive una situazione di totale
abbandono, proprio perché la scienza dice che non c’è nulla da fare, tu
sei affetto da una malattia inguaribile. Ma
non per questo, non è curabile. Non per questo, non è una malattia con
cui vivere una qualità della vita accettabile, e con una dignità enorme.
I
malati, tutti i malati, affetti da patologie che comportano una certo
grado di disabilità, più o meno importante, i malati affetti da
patologie rare, congenite, acquisite, sono dei tesori, sono valori
aggiunti alla vita di ognuno di noi, alla vita dei familiari, alla vita
di chi li cura, alla vita di chi può aver la fortuna di condividere il
loro percorso di vita. Perché veramente la persona con disabilità, la persona che soffre, capisce e apprezza i veri valori della vita. Io ho fatto questa esperienza da malato, un po’ come Pierre, lui da genitore. Mi
sono buttato nel sociale per cercare di aiutare chi è meno fortunato di
me. Io sì - a volte mi prendono un po’ per folle - mi considero rinato,
da quattro anni a questa parte. Mi considero un uomo molto fortunato.
Si può dire che forse ero malato prima, adesso sono una persona sana
dentro, sono una persona felice dentro. O forse ho incontrato qualcuno,
il vero miracolo è successo quando qualcuno mi ha messo la mano sulla
testa. Guarire, o il miracolo, non significa scendere dalla carrozzella,
significa accettarsi, accettare i propri limiti, essere felici di
vivere, di essere vivi costantemente. Vivere la quotidianità con la
propria sofferenza e fare della sofferenza un’esperienza, un’esperienza
di vita che è utile per te e soprattutto per chi ti è vicino. Quattro anni
fa, come vi dicevo, mi sono lanciato e sono diventato presidente
dell’associazione nazionale dei malati di sclerosi laterale amiotrofica,
che ho l’onore e l’onere di rappresentare. Siamo circa 5.000 malati,
5.000 malati che chiedono di continuare a vivere. E chi meglio di loro può rappresentare un esempio paradigmatico per rispondere, o cercare di rispondere, alla nostra domanda: chi è l’uomo?
Ecco, io vorrei condividere con voi alcune riflessioni che ho fatto,
prima di tutto come uomo, come medico, e poi anche come malato. Se posso
avere la prima diapositiva, la potenza della tecnica!
Slide
Parto da questa frase di Seneca. Seneca diceva: “La vita vale se è degna di essere vissuta”, cioè se è una vita piena. Una vita senza qualità non è più vita. Ma ancor di più se insieme leggiamo questo scritto di Nietzsche tratto dal Crepuscolo degli idoli,
che vive la malattia e vede il malato come “un parassita delle società.
In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a
vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche,
dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita,
dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo”. Sono frasi,
affermazioni estremamente pesanti, che mi fanno riflettere. Mi hanno
fatto riflettere, soprattutto leggendo poi un passo tratto da Smith:
quando oggi sento nuovamente i medici discutere di eutanasia parlando di
uccisioni compassionevoli, l’orrore si impadronisce di me. Un titolo
accademico non è una garanzia contro comportamenti sadici e psicopatici,
come è dimostrato dallo stato dei medici di Arnheim.
Prima i malati incurabili, poi i ritardati, i vecchi, presto tutti
coloro che avranno un qualche genere di disabilità, divennero indegni di
vivere. Ma quando una vita è degna di essere vissuta? Qui mi sono fatto aiutare dalla riflessione di un carissimo amico, in cui la
dignità della vita è un carattere ontologico dell’essere umano e non
può dipendere assolutamente dalla qualità della sua vita, definita in
base a un banalissimo e mero principio utilitaristico.
Questo non dovremmo dimenticarcelo: lo dico ai miei colleghi medici ma
lo dico a tutti, all’uomo di strada. Pensiamo all’altro. Pensiamo a noi
stessi e vediamo noi stessi nell’altro. Anche Pierre prima parlava di
qualità della vita. Qui c’è una frase tratta sempre da questo mio caro
amico, da alcune sue riflessioni, in cui lui afferma che oggi un nuovo
scientismo va affermandosi e vuole definire chi sia o non sia persona
umana. Chi sia o non sia degno di vivere.
Quindi, persona umana può diventare una sorta di titolo, una specie di
patente da dare o da togliere agli esseri umani ad un certo punto della
loro esistenza, in relazione alla comparsa o alla cessazione di una
capacità o di una funzione. A volte, anzi, oserei dire
spesso, questa è la quotidianità, la realtà di come un malato, una
persona fragile, viene visto. Non c’è la cultura dell’altro.
Non c’è la cultura dell’amare, soprattutto da parte di chi dovrebbe
farsi carico, dovrebbe prendersi in cura, non dovrebbe aver paura di
vivere la propria professione, viverla con amore.
E qui vengo alla persona,
una specie di persona, un umano: come lo possiamo definire? Questa è la
definizione banalissima che potete trovare su qualsiasi enciclopedia:
un insieme di tutte le caratteristiche del singolo individuo, fisiche,
tangibili, etiche, comportamentali, morali e spirituali, nonché della
proiezione del singolo nella vita sociale. Ossia della percezione che
ogni persona da di se stessa all’esterno. E’ una definizione talmente
asettica, secondo il mio modestissimo parere, priva di contenuti. Tanto è
vero che mi
sono permesso di fare mia la definizione di persona da parte di
Bendetto XVI: “La persona umana non è d’altra parte soltanto ragione,
intelligenza. Porta dentro di sé, nel più profondo del suo essere, il
bisogno di amare, di essere amata e di amare a sua volta”. Ecco, cominciamo quindi a tracciare un po’ la figura di chi è l’uomo. Chi è l’uomo? Con
un punto di domanda voglio portarvi questo spunto per riflettere e poi
vedere se, alla fine della nostra, anzi della mia chiacchierata con voi,
la potremmo condividere. L’uomo
non è nient’altro, alla luce di quanto vi ho detto poc’anzi, che il più
debole, l’indifeso, colui che non ha né potere né voce per difendersi.
Colui al quale passiamo, e possiamo passare accanto nella vita, nella
quotidianità, facendo finta di non vederlo. Ecco, io mi sono guardato
dentro e ho pensato agli anni precedenti la mia nuova vita. Mi è rimasta
un po’ di presunzione da medico, nel dire questa mia nuova vita, questa
stupenda vita che sto vivendo. In effetti, forse molte volte non mi
sono fermato, non sono mai sceso, non ho mai avuto il coraggio di vedere
nell’altro chi realmente era debole, chi realmente aveva bisogno di me.
Dopo che mi sono ammalato, mi sono chiesto: salute è uguale a qualità
della vita? Per salute vogliamo intendere non soltanto la cura delle
malattie ma la ricerca del pieno benessere fisico, psicologico e
sociale? O tutto questo è pura ambiguità? Certo, se
noi vediamo la qualità della vita, e pensiamo che sia sufficiente per
valutarla considerare esclusivamente l’efficienza economica, la
godibilità consumistica, la bellezza, il livello di prestazione fisica,
ignorando del tutto le dimensioni relazionali, spirituali, religiose
dell’esistenza, ecco, su questo dovremmo fermarci un attimo. Io
quotidianamente ricevo delle lezioni di vita incredibili, da parte dei
miei malati ma soprattutto dei miei compagni di malattia. Miei compagni
di malattia che, pur essendo totalmente prigionieri di un corpo, in
grado di muovere a volte solo i bulbi oculari, a volte neanche quello,
esprimono anche con il loro sguardo una grandissima voglia di vivere, ma
soprattutto esprimono una qualità di vita incredibile. Questa è la
frase di una mia carissima compagnia di malattia, che volutamente ho
invitato al convegno che c’è stato un paio di mesi fa alla federazione
nazionale dell’ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, in cui si
parlava di testamento biologico, direttive anticipate. La federazione
doveva uscire con un documento. Allora, grazie a un collega friulano,
avevo chiesto di far partecipare questa signora che vedete sulla
barella, Maria Pia Pavani. Vi leggo la sua frase: “Ringrazio
Dio per il rinnovato dono della vita, una vita puramente intellettiva
in un corpo totalmente paralizzato e supportato dalle macchine. Molti
non capiscono e non condividono la mia scelta: vita problematica,
sofferta e inutile, sostengono. Stupenda nel suo rinnovarsi e maturare,
che mi permette, attraverso moderne, sofisticate tecnologie, di donarmi e
lottare ancora per gli altri”. Ecco, questa è una frase che mi ha fatto sentire proprio una formichina. Maria
Pia è una malata di SLA dal 1991, pensate, muove solo il mento, un
pochettino, e scrive delle poesie e disegna col computer. Stupendi i
suoi occhi vivi, la sua grandissima fede, ti donano una forza, ti fanno
capire quanto la vita sia estremamente importante viverla in qualsiasi
modo, perché la vita (non dimentichiamoci) è un bene indisponibile, e
non possiamo assolutamente pretendere che qualcun altro possa decidere
per noi.
La
vita è bella, viverla in qualsiasi momento della giornata, con
qualsiasi difficoltà, guardare sempre il lato positivo della vita,
ascoltare la pioggia che cade, essere qua insieme a voi. Questo è un
dono, un dono stupendo, meraviglioso, che ci fa (me e voi), ci deve far
sentire vivi. Ma non possiamo permettere che il singolo, la singola
persona che soffre, il malato, il disabile, dotato di una forte fede, di
un grande spirito, di una grande anima propositiva, possa vivere in
questo modo.
Dobbiamo aiutarlo anche noi, noi medici, noi laici, noi tutti. E qui
rientra il concetto dell’umanizzazione della cura, della presa in
carico. Se ne parla tanto, anche nel nostro servizio sanitario,
l’umanizzazione delle cure soprattutto nel percorso di assistenza del
dolore e della sofferenza. Ma che cosa significa? Significa entrare di
più nell’ottica della cura della persona, che non si riduca solamente a
terapia ma che si apra ad un più
esteso ed ampio prendersi cura della persona. E qui mi rifaccio ad una
frase di Kierkegaard, un filosofo maledetto che però ha scritto una cosa
giusta: “Se davvero si vuole aiutare qualcuno bisogna prima scoprire
dove si trova”. Questo è il
segreto dell’assistenza. Se non si può scoprirlo, è solo un’illusione
credere di poter aiutare un altro essere umano. Ecco, ma come aiutare?
Qui io mi rivolgo a noi operatori sanitari, a noi medici, infermieri.
Quale deve essere il senso e lo scopo di un rapporto, di un rapporto
medico-paziente, operatore sanitario–paziente, in questo nostro tempo?
Questo rapporto fra una persona che ha bisogno di cure e un’altra a cui è
richiesto di rispondere a questo bisogno? Lo sappiamo benissimo, ne
abbiamo sentito parlare tanto, soprattutto oggi la nostra medicina è
chiamata ad arretrare sulla soglia di un principio sovrano di
autodeterminazione dell’individuo. Questo, sì, è facile, perché assolve
tutti dalle responsabilità oggettive di creare nel sistema sanitario e
nella società spazi umani, non solo come luoghi ma anche come
possibilità di relazione, nei quali sia possibile vivere l’esperienza
della malattia. D’altronde, però, non possiamo parlare di tutto ciò se
manca alla base di questo un vero rapporto con una o più persone di cui
potersi fidare, soprattutto quando si è nella fase del vissuto della
malattia: potersi affidare.
E
su questo, come possiamo aiutarci? Sicuramente con una presa in carico,
una presa in cura della persona. E questo lo dico ai miei colleghi. Se
noi curiamo le malattie, possiamo vincere o perdere, ma se curiamo la
persona vinciamo sempre. La persona prima di tutto, perché si insegna
tanto ma noi come professionisti vinciamo. E soprattutto senza ricorrere
molto alla ipertecnologia. Basta a volte un semplice sguardo. Questo
è un lavoro riportato su una nostra rivista scientifica per addetti ai
lavori. Un neuropsichiatria ha pubblicato su un giornale internazionale
di oncologia un articolo sulla dignità e lo sguardo del curante: è
riprodotto benissimo in questa fotografia presa in prestito da un caro
amico. A questo punto mi sento di dire che la definizione di persona può
essere solo, esclusivamente questa: la
persona umana porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo
essere, il bisogno di amore, di amare e di essere amata. Soprattutto, lo
sguardo che liberamente porto sull’altro decide della mia stessa
dignità. Dovremmo tenerlo presente, dovremmo imparare ad ascoltare e far
tesoro anche della bellissima frase di Madre Teresa di Calcutta
sull’imparare ad ascoltare: “Non potremo mai parlare prima di avere
ascoltato. Quando avremo ascoltato il nostro cuore sarà colmo, la nostra
mente penserà e allora potremo parlare”. Ecco, questo è importante,
dovremmo tenerlo tutti presente.
E questo lo dico perché, non solo nel nostro Paese, non solo noi qui ci troviamo, per fortuna, con determinati valori, ma anche a livello internazionale qualcuno si sta muovendo. Perché
si sta perdendo di vista quello che è stato e che è il cuore della
professione medica: l’umanità, soprattutto, la gentilezza, l’umanità e
il rispetto. Questo neuropsichiatria ha pubblicato recentemente questo lavoro, dicendo che
la dignità è l’essenza della medicina. Propone anche di imparare con
una specie di sillabario: a, b, c e d, dignità per le cure. a) le
attitudini, b) i comportamenti, c) la compassione, d) il dialogo.
Dobbiamo a dedicarci all’altro e dedicare il tempo ad ascoltarlo. Ma
dobbiamo stare attenti alla compassione, nel vero senso della parola.
Perché la compassione - è una
frase bellissima del nostro carissimo Santo Padre Giovanni Paolo II –
“quando è priva della volontà di affrontare la sofferenza e di
accompagnare chi soffre, porta alla cancellazione della vita per
annientare il dolore, stravolgendo così lo statuto etico della scienza
medica”. Quello che diceva anche prima Pierre, dobbiamo avere il coraggio di vivere con la sofferenza. La
sofferenza è un dono. Può essere veramente il valore aggiunto nella
nostra quotidianità. Non occorre essere ammalati per essere sofferenti,
non occorre avere una malattia congenita: ognuno di noi può avere nel
cuore la sua sofferenza. Basta saperla usare nel modo giusto: accettarla, viverla, non vederla come un evento negativo ma come qualcosa che ti può migliorare. Ti
può migliorare, tenendo conto di quello che è emerso dalle parole di
Pierre, la speranza. Ecco, noi a volte, ricercatori e scienziati, ci
chiudiamo dentro questa parola, speranza, perché abbiamo paura. La speranza può essere qualcosa di concreto. Ad
esempio, la speranza io la definisco come quel sentimento confortante
che proviamo quando possiamo scorgere con l’occhio della mente quel
cammino che ci può condurre ad una condizione migliore. E questo è vero,
è realtà. Bisogna essere felici, felici di vivere: questa è una frase
mia, vabbè, potevo evitare di dirlo, e questa è una foto mia con un
compagno di malattia. Adesso forse si vede male, ma lui sorride, è
felice di stare al mondo, anzi è uno degli attori di un libro che ha scritto un mio caro amico: “Un’inguaribile voglia di vivere”. Vi
inviterò a vederci ad acquistarlo. Perché è un libro che parla di
avventure - io le chiamo così - di queste persone affette da patologie
incredibili ma che hanno una grandissima voglia di vivere. Quando mi
chiesero: “Ma
lei è affetto da una malattia inguaribile?”, li ho fermati subito. Ho
detto a questo giornalista: “Io di inguaribile ho solo la voglia di
vivere, tutto il resto non mi interessa”.
Facendo
una riflessione con un mio carissimo amico, che è presente stasera in
sala, parlavamo dell’accanimento terapeutico. In effetti, oggi non è
l’accanimento terapeutico che ci deve spaventare, ma l’accanimento con
cui si cerca di censurare, in questa ultima frontiera, la domanda di
senso dell’esperienza dell’uomo che, ormai soffocata in tutti gli ambiti
della vita, emerge irriducibile nella malattia. La malattia è veramente
un valore aggiunto, signori miei, è veramente un valore aggiunto. E a
questo punto mi avvio un po’ alla conclusione. La domanda: “Chi è l’uomo
perché io lo curi?”. Alla prima frase, che avevamo letto insieme prima,
sul più debole, l’indifeso, colui che non ha voce per difendersi, colui
al quale possiamo passare accanto nella vita facendo finta di non
vederlo, io aggiungerei questo: che occorre fermarsi, avvicinarsi a
colui che ha bisogno, prendersi cura di lui. Bisogna avere il coraggio
di fermarsi veramente e chiederci “Chi è il prossimo?”. Non
dimentichiamoci quella famosa, bellissima frase: “Ama il prossimo tuo
come te stesso”. Chi è il prossimo? Cominciamo a scendere anche noi e
metterci dalla parte del prossimo. Questo è estremamente importante, ma
vi dico soprattutto che non occorre avere delle esperienze bellissime
come ha vissuto Pierre, o un’esperienza meravigliosa come quella che sto
vivendo io, con la mia quotidianità. Dobbiamo
solo avere il coraggio di fermarci e chiedere: “Chi è il mio
prossimo?”. Dobbiamo avere il coraggio di fermarci e accettare di farci
prossimi. Avvicinarci a colui che ha bisogno e prenderci cura di lui. E
soprattutto dobbiamo avere il coraggio di chiederci come può essere
possibile all’uomo questo sguardo, capace nello stesso tempo di cogliere
e rispettare la dignità dell’altra persona e di garantirgli la propria.
Io
penso che il dramma del nostro tempo - e dobbiamo correggerlo, dobbiamo
farcela - consista proprio nell’incapacità di guardarci così. Per cui, a
volte, lo sguardo dell’altro può diventare una minaccia da cui
difenderci: non deve essere così. Lo sguardo dell’altro, carico di
tenerezza, può farci riacquistare dignità, può farci ritornare quella
voglia, può essere la benzina che ci permette di continuare a vivere la nostra difficoltà.
Ecco, io ho voluto rubare, fra virgolette, al mio carissimo Felice
Achilli, questa sua diapositiva in cui rappresenta il mantello. Se noi
tutti riuscissimo a vedere la nostra vita in questo modo! Tutti
abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo bisogno di essere accettati,
indipendentemente che possiamo avere una disabilità o meno. Abbiamo
sempre bisogno di un mantello sotto il quale sentirci sicuri, presi in
cura, in carico da qualcun altro. Dobbiamo avere il coraggio e il
coraggio l’abbiamo avuto, in questo tempo, noi, un gruppo di amici.
Abbiamo cercato di lanciare un manifesto proprio per il coraggio di
vivere e di far vivere. Perché,
sapete, ci vuole il coraggio per vivere, ce ne vuole molto di più che
per morire. Bisogna avere il coraggio però di continuare a far vivere,
contro tutto quello che può essere l’abbandono terapeutico, contro
quello che è l’accanimento terapeutico ma soprattutto tutto ciò che può
essere un’istigazione al suicidio assistito o all’eutanasia. No!
Bisogna vivere! Non possiamo disporre della nostra vita. Ecco, è per
questo che io cito sempre l’inguaribile voglia di vita. L’inguaribile
voglia di vivere, che io voglio condividere con voi. E’ bellissimo
vedere una sala così colma per ascoltare delle esperienze, delle
riflessioni, di persone che si pensa sempre abbiano vissuto, abbiano
incontrato il dolore e la sofferenza. No, io
vi posso garantire che ringrazio Dio di avere incontrato questa mia
malattia, di averlo incontrato tardi, ma non è mai troppo tardi. Di aver
imparato quali sono i veri valori della vita. E la verità forse sta
proprio qui: avere il coraggio di amare e di farsi
amare, di accettare i propri limiti e di condividerli con gli altri.
Vivere, veramente, e qui poi mi fermo se no Felice mi sgrida. Vivere è la
cosa indispensabile. L’amore per la vita è la benzina che mi permette
di affrontare con serenità queste mie difficoltà, che vi posso garantire
sono parecchie. Perché a volte mi dimentico anche di avere qualche
problemino, ma lo faccio involontariamente perché è talmente bello
vivere che io, come vi dicevo, non sono malato. Sì, ho la sclerosi
laterale amiotrofica, però fino a quando ci sono io ci sarà anche lei.
Quindi andiamo avanti, cammino insieme a lei, e grazie.
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Postato da: giacabi a 00:10 |
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eutanasia, cristianesimo
Per la regia Filippo Soldi
***
Leggi anche:
Alcune struggenti testimonianze da SamizdatOnLine :Sla, una rete per non lasciare sole le famiglie Storia di Mario Melazzini affetto da SLA (guarda il video) E' un video da non perdere, perché testimonia la tenerezza di un limite fisico umano, abbracciato da un amore e una fede che ridanno gusto alla vita, al vivere.
Testimonianza di Mario Melazzini (guarda il video)
La speranza è ciò che qualifica l'uomo di fronte anche ad eventi inattesi. No alla EUTANASIA. No alla PENA di ABORTO. NO alla MANIPOLAZIONE della VITA
Mario Melazzini e Ron da un ammalato di SLA (guarda il video)
Mario Melazzini al Tg2 (guarda il video)"Un medico, un ammalato, un uomo"
Un
medico di successo, una bella famiglia, una forma fisica da far
invidia. Nel febbraio del 2002 Mario Melazzini pensa di essere un uomo
realizzato. Ma quando sale in bicicletta per il suo allenamento
quotidiano capisce che qualcosa non va. Il piede sinistro non risponde,
il corpo gli disubbidisce. Comincia così il calvario della malattia. Ci
vuole un anno per avere la diagnosi: è SLA, sclerosi laterale
amiotrofica, una patologia degenerativa con la quale, mediamente, non si
vive più di tre anni.
Il medico diventa malato e incontra sul suo cammino la sofferenza, la depressione, la paura, il desiderio di farla finita prima di finire come un vegetale. Ma poi reagisce. Capisce che la vita può essere ricca e interessante, nonostante la malattia. Anzi, anche «grazie» a essa. La sua stessa professione acquista una nuova profondità. Ora, infatti, Mario vede le cose «dall’altra parte». Entra in contatto con decine di persone fragili e in compagnia di un cantautore famoso e di una badante rumena incomincia la sua più grande battaglia: quella contro la solitudine e l’abbandono che spesso accompagnano le patologie più gravi, contro quel sentimento di esclusione e di insignificanza che prima o dopo coglie tutti coloro che soffrono di handicap invalidanti. Adesso non vuole più morire, ma «godere ogni minuto del miracolo di essere vivo» |
Postato da: giacabi a 10:48 |
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eutanasia
L’esercizio della libertà individuale è il problema, non la soluzione
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da :ilfoglio 21 luglio 2008
Perché esistono il bene, il male e la scelta tra i due. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma da qui non si scappa
Mi
permetto, “per amore”, qualche glossa alle osservazioni del teologo e
nostro collaboratore Vito Mancuso (1). La questione posta dalla sentenza
che autorizza la disidratazione del corpo di Eluana, e la sua messa a
morte, ci appassiona tutti. Sentiamo e pensiamo, con profonda
convinzione ma senza arroganza o disprezzo per chi non è d’accordo, che
non si tratta di una questione privata, dei termini di esecuzione di un
lascito testamentario, un affare che si possa sbrigare in famiglia e dal
notaio. Per ragioni troppo evidenti per essere richiamate in esteso. Ne
faccio solo un breve accenno.
C’è
una società in cui il capo dello stato rende visita al paziente
Andreatta, in stato vegetativo da molti anni, e la sua famiglia attende
la fine nella speranza cristiana, come attende la fine il sistema di
cura e di relazioni, di assistenza e carità. Su tutte queste faccende
tra la vita e la morte si stende il velo pietoso della discrezione, del
discernimento umano e razionale, per sua natura flessibile. Ma qui campeggia
l’idea caritatevole del primato assoluto della persona e della vita
sulla legge, sul criterio scientifico probabilistico, su ogni altro
possibile criterio compresa la disposizione testamentaria (intesa come
omicidio pietoso del consenziente). E c’è una società, un’altra società,
in cui la persona vivente ma non vigile viene spenta sull’onda
dell’amore disperato di un padre, della sua famiglia o di parte della
sua famiglia (come nel caso di Terry Schiavo), viene spenta per
convinzione, per amore e anche per convenzione culturale, giudiziaria,
domani legale (il testamento biologico o la sua sinistra cugina,
l’eutanasia). Qui leggi e sentenze fissano con rigidità una “conclusione
per il nulla” che diventa il simbolo della nostra libertà.
Sono
due società diverse, la società della speranza e quella della
disperazione. Possono convivere e convivono nei cuori, nelle teste,
nelle aspettative di tanta buona gente convinta che la sofferenza e la
morte vadano esorcizzate con l’appello alla dignità del morire “come vi
piace”, e di tanti che al contrario a sofferenza e morte attribuiscono
un significato. Ma sono e restano società diverse, in naturale e
filosofico e storico conflitto. Per
il professor Mancuso il conflitto etico discende da quello teologico:
da una parte la libertà umana di scegliere per sé e disporre della
propria vita, perché Dio è amore, perché l’Incarnazione rende concreto
il problema dell’uomo, perché l’onnipotenza divina si realizza
attraverso la libertà della creatura, e dall’altra l’obbedienza senza
riserve al codice della natura o ai comandamenti di un Dio personale,
onnisciente onnipotente e provvidente. E il conflitto lo risolve il
diritto laico concedendo a ciascuno di fare quel che crede.
E invece a
me sembra che il conflitto sia quello tra carità e legge, il tipico e
primigenio conflitto che sta all’origine stessa del messianismo
cristiano: come per l’aborto, il diritto potrà stabilire mille volte
che, se lo vuoi, tu puoi staccare un sondino nasogastrico e procedere,
ma tu non devi farlo. Puoi farlo, non devi. Per la semplice ragione che
non sei creatore ma creatura, e il solo disporre della vita come di un
prodotto della tua volonta è una manomissione dell’esistenza razionale,
della dignità spirituale e razionale della persona umana, sia quella che
“stacca” sia quella che è staccata.
E’
significativo che le note del professor Mancuso sul caso di Eluana,
piene di cura amorevole, di rispetto umano, di attenzione filosofica e
teologica ai passaggi più impervi del caso, si aprano con un paio di
fulminanti dichiarazioni relativiste. Non esistono per lui queste due
società in conflitto, non esiste una discussione di etica pubblica in
funzione della quale ci si attesta su usi, costumi ricevuti, norme
riconosciute o date (le tavole, per esempio). Esiste soltanto la libertà
individuale, che si certifica attraverso una concezione della vita
irriducibile a un criterio comune, a una verifica tra i soggetti umani. A
ciascuno la propria libera idea della dignità (2).
Osserva dunque Mancuso, dopo aver dichiarato la personale intenzione di lasciare libero corso alla sua vita naturale: “Ciò che è un valore per me non è detto che lo sia per lei [per Eluana, ndr]”. Aggiunge: “Una diversa concezione della vita produce una diversa etica” e “lo stato laico deve produrre, a partire dalle diverse etiche dei suoi cittadini, un diritto unico, tale da essere per quanto possibile la casa di tutti”, perché “la distinzione tra etica e diritto è decisiva”.
Ammiro
la semplicità diretta e franca con cui il teologo cristiano abbraccia
la forma radicale moderna e positivista della liberaldemocrazia o la sua
variante procedurale del socialismo ciudadano in cui contano le
maggioranze e le procedure, e basta (un liberale religioso come John
Locke, per non parlare di Edmund Burke, non sottoscriverebbe mai quelle
affermazioni). Venuto
come sono da una giovinezza totalitaria, la mia decisione per la
libertà è definitiva. Ma più invecchio più la sento fragile, ancora
tutta da spiegare. E di fronte alla laïcité rigorosa, proceduralistica,
di un Mancuso, mi viene sofisticamente da obiettare che: primo, se i
tuoi valori sono sempre inferiori al valore della loro convivenza con
valori opposti, allora non sono valori né relativi né assoluti, sono
opinioni fuggevoli; secondo, come si faccia a concepire la vita e poi a
produrre un’etica, io non lo so, per me si arriva a concepire la vita
mentre si scopre, si rinviene, si riconosce un fondamento etico della
vita stessa, poiché l’etica è una religione o una filosofia o perfino
una incerta narrazione, ma non un’ideologia; terzo, il diritto è una
serie di caselle particolari, che riconoscono la distinzione ma non la
dissociazione tra etica e legge, caselle normative fondate su una norma
fondamentale derivata dall’osservazione razionale della natura, della
sua struttura creaturale e metafisica, e da principi dati, tramandati o
rivelati, altrimenti il diritto si trasforma in un mostro onnipotente
autoreferenziale come il Leviatano contrattualista, il contratto sociale
giacobino, lo stato etico, lo stato autosufficiente del positivismo
giuridico eccetera, fino al partito unico e alla classe, se vogliamo.
La
parte più direttamente teologica dello scritto di Vito Mancuso è molto
bella, conduce a conclusioni sentite con intensità e ragionate con
grande intelligenza della cosa. Mi stupisce però. Mi stupisce come non
credente, tanto per cominciare, il cristianesimo come implausibilità
assoluta. Mancuso dice che nessun Cristo e nessun Pietro riscatterà dal
suo dolore o dalla sua condizione vegetativa Eluana, come avvenne per la
figlia di Giairo nel vangelo secondo Marco (l’episodio è rammentato dal
cardinal Tettamanzi). Hai voglia a pregare, “non accade nulla di quanto
richiesto”.
I miracoli sono cose successe tanti anni fa, e oltre tutto più che cose sono segni, questo è vero; ma che cosa resta della fede, sia pure di una fede da rifondare come quella che professa il teologo laico Mancuso, quando la sostanza di cose sperate si dissolve nell’implausibile, si scioglie nella corrosione acida dell’inverosimile? In che cosa si è salvi, di grazia, nella speranza o nel testamento biologico? E quanto alla ragione, che è quel che mi interessa come non credente, devo dunque rassegnarmi a restringerla ai dati sperimentali, alle diagnosi e alle prognosi piuttosto fallibili del possibile tecnico-scientifico, alla dimensione utilitaria che si disinteressa della verità? E l’impulso di allargarne lo spazio fino a comprendere la nozione di fede come elemento cruciale della condizione umana e della storia sociale del mio tempo, che debbo fare, debbo bruciarlo sull’altare del realismo, del relativismo e della solita vecchia morte di Dio? Certe volte il professore non ti lascia scampo.
Le
teologie danno sempre il meglio di sé quando trattano la figura del
padre, e lo scritto di Mancuso anche in questa ultima parte, dedicata al
padre terreno e a quello celeste di Eluana, non fa eccezione (3). Mi
fermo sulla soglia di questa definizione del divino, di questa teodicea
complessa e sottile, semplice e beata, che Mancuso porta per mano a
conclusioni da spirito assoluto hegeliano, conclusioni trionfanti e
felici che parlano di “esercizio della libertà consapevole” come
soluzione finale del problema, come happy ending. Mi limito a questa
osservazione. L’esercizio
della libertà consapevole non è la scelta etica che noi facciamo per
risolvere il problema della distinzione del bene e del male, non del
bene e del male per noi ma del bene morale in sé e per sé: l’esercizio
consapevole della libertà è il problema, è il dilemma, è il metodo che
si autotrascende accettando il tabù della vita indisponibile o
realizzando la possente signoria dell’uomo sull’uomo. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma qui non si scappa.
(1) Come ha detto con altre parole il cardinal Ruini nella sua straordinaria conversazione con Marco Burini (Il Foglio, 17 luglio), la teologia laica di Vito Mancuso rompe la forma cattolica ma si propone come modello di pensiero e di scrittura alternativo a una teologia accademica, irrilevante o inerte. Questo intervento del professor Mancuso sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna priva da molti anni di coscienza vigile, del cui diritto di continuare a “vivere così” o di lasciare il mondo si sta discutendo oggi in Italia, dimostra che Ruini ha ragione. (2) In tema di relativismo etico è anche significativa la citazione gloriosa e finale dal cardinal Martini, influente uomo di chiesa convinto che debba essere difeso lo spazio di un relativismo cristiano, anche nella tempesta veritativa scatenata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a coronamento del dramma novecentesco del Concilio. Dice il Martini citato da Mancuso che la dignità del vivere è più importante del vivere. Ora il bios, il vivere biologico, ha un ancoraggio materiale e oggettivo all’essere e al divenire, perché si coglie la differenza tra un corpo caldo e uno freddo, tra un occhio che si apre al mattino e un occhio che non si aprirà mai più; mentre la dignità del vivere è letteralmente disancorata, galleggia nel mare dello spirito, nella decisione di coscienza del soggetto umano libero. La dignità del vivere in opposizione alla vita biologica ha per sé forse la più vera e bella delle realtà cristiane, l’affermazione dello spirito contro la carne, ma è anche equivocabile, è esposta ai sofismi dell’Anticristo e alle lusinghe della disperazione, che cristiana non è, e alle seduzioni del nulla. (3) E’ un errore, secondo me, attribuire lo spirito maligno dell’insinuazione personale, frutto per di più di odio teologico deviato e dunque di fanatismo arcaico, da rogo inquisitoriale, a coloro che criticano duramente come “condanna a morte” la sentenza voluta dal padre di Eluana. E’ un punto a cui tengo molto, riemerso sempre maldestramente in tutte le polemiche sull’aborto di questi mesi (sei contro l’aborto e allora dici che le donne sono assassine). Io non sono d’accordo con la critica all’amore di padre di Beppino Englaro, che è al di sopra di ogni considerazione, in quanto tale, in quanto amore. Ma le cose vanno nominate con il loro nome. Una sentenza che toglie la vita è una condanna a morte, come la distruzione di un feto nel grembo materno è un omicidio. Il che non implica affatto la responsabilità personale dei giudici o del padre ricorrente o della gestante. Mi viene da dire: magari fosse tutto risolvibile in termini di responsabilità personali. Qui è in atto una dialettica di grazia e peccato, da una parte, come nella vita di ciascuno di noi, e una guerra culturale del tutto impersonale all’inservibile concetto di persona umana, un avanzo del cristianesimo che il secolarismo ideologico tende a gettare nella discarica dei suoi incubi.
Leggi La scelta sulla propria vita è conforme al volere di Dio. Il dramma è che in questo caso manca di Vito Mancuso.
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Postato da: giacabi a 07:12 |
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ferrara, eutanasia
Celentano:
«Tante bottiglie d'acqua
per far crescere in noi un dubbio»
***
la lettera
E se, contrariamente all'apparenza, Eluana fosse in uno stato di serenità?»
Caro Direttore,
certo non è difficile immaginare il grande disagio del padre di Eluana e il dolore che, giorno dopo giorno, ha potuto devastare il suo cuore nel vedere una figlia in quello stato. Dopo sette anni di dure battaglie per liberarla dalla morte, rassegnato all'impotenza, soprattutto da parte della scienza, la disperazione lo porta a iniziare una nuova battaglia, ma stavolta non contro la morte. Contro la vita. Quella vita che senza alcuna pietà tiene imprigionata la sua amata Eluana da 16 anni. Quella vita che non vuole cessare, ma che poco per volta fa morire di dolore chi gli sta intorno. Ed è proprio questo dolore così grande, troppo grande, che spinge il padre di Eluana a combattere perché qualcuno lo aiuti a liberare la figlia. Quella figlia che in un lontano giorno gli strappò una promessa: quella di interrompere ogni trattamento di sostegno, nel caso si fosse trovata nella situazione in cui, purtroppo ancora oggi, giace dopo 16 anni. Una battaglia quella di Beppino Englaro che racchiude una contraddizione spaventosa, ma al tempo stesso, forse, il più grande gesto d'amore che un padre possa fare per una figlia. È chiaro che, per quanto mi riguarda, essendo un credente, nel senso che do per scontato che il nostro, qui sulla terra, nel bene e nel male, non sia che un misero microscopico passaggio in confronto a quella che sarà la vera Vita! Quella vita che Dio ci ha preservato nell'eterna Bellezza. E se poi penso alle parole di Gesù quando disse che «l'uomo non è padrone neanche di uno solo dei capelli che porta in testa», non posso che essere d'accordo con chi la difende, la vita.
Ammiro
quindi Giuliano Ferrara per le sue battaglie a favore della vita e
spero, pur comprendendo il suo stato d'animo, signor Englaro, che le bottiglie d'acqua in piazza del Duomo aumentino. (Il video)
Aumentino per far aumentare il dubbio. Il dubbio in coloro che credono
di non avere dubbi e quindi di scartare a priori la possibilità di
un'altra vita oltre quella terrena. Una vita diversa dove non ci sono
bugie e incidenti ma solo gioco e Amore. Quell'amore che la sua amata
figlia non ha fatto in tempo a conoscere. E qui, solo per un attimo,
vorrei mettermi nei panni di chi non crede ed è amareggiato per la
triste sorte di una figlia. Così mi chiedo se qualche volta, specie in
casi come questi, a uno che non crede possa venire il dubbio, che magari
potrebbe esserci davvero un qualcosa che va oltre l'aridità di questo
attimo fuggente trascorso sulla terra.
E allora, come padre, mi domando: forse Eluana vuol dirmi di non
prendere in considerazione ciò che mi chiese in un momento di
spensierata giovinezza?... Forse nei luoghi dove si trova ora non soffre
e magari già intravede le meraviglie del cielo?... E
se, contrariamente all'apparenza, si trovasse invece in uno stato di
grande serenità, in attesa del trionfale ingresso nella vita celeste? O
forse, chissà, di un ritorno a questa, di vita?... E poi ancora, la cosa
che più di tutti mi domanderei: e se fossi proprio io a rattristare il
suo animo, per il gesto che suo padre sta per compiere?... Certo mi rendo conto che è facile parlare per chi è al di fuori della tragedia, e io mi scuso per questo, signor Englaro. Ma la
mia vuole essere in qualche modo una parola di aiuto, per chi si
trovasse nella sua situazione. A volte i miracoli succedono proprio
quando meno te l'aspetti. Forse Eluana ha bisogno della conversione di
suo padre per far sì che la sua dipartita da questo mondo avvenga in
modo spontaneo e senza alcuna interruzione. O addirittura che si svegli.
Si dice che la fede è un dono. Perché solo attraverso la fede succedono
le cose più grandiose, e io dirò una preghiera per lei.
Adriano Celentano
16 luglio 2008 www.corriere.it/ |
Postato da: giacabi a 14:44 |
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eutanasia
«È parte anche della nostra famiglia»
***
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Postato da: giacabi a 15:01 |
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eutanasia
***
«Quando l'uomo sogna per l'uomo un mondo senza dolore, senza imperfezioni, in realtà già sgretola reticolati, divide
il mondo in adatti e meno adatti, dove questi ultimi non sono poi molto
diversi da una zavorra, qualcosa da eliminare lungo la strada.»
Susanna Tamaro da: Ascolta la mia voce
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Postato da: giacabi a 16:23 |
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aborto, eutanasia
Gli spartani e l’eugenetica
Gli spartani e l’eugenetica *** Da: http://www.meetingrimini.org/ 1990
“Gli spartani
non avevano ancora certo inventato la diagnosi prenatale, però avevano
deciso di esporre sul monte Taigete i neonati che apparivano loro
incapaci di diventare nel futuro dei bravi soldati o di generare altri
futuri soldati per il bene di Sparta. E questo è l'unico popolo della Grecia antica che sistematicamente abbia praticato questo spietato eugenismo. Di tutte le città della Grecia, Sparta è anche l'unica a non aver lasciato all’umanità né uno scienziato, né un artista e nemmeno una rovina. Perché quest’eccezione tra i greci, così dotati all’epoca?
Forse gli spartani, senza saperlo, esponendo i loro neonati mal nati o
troppo fragili, hanno ucciso i loro musici, i loro poeti, i loro
filosofi? Forse con una specie di selezione alla rovescia sono progressivamente diventati stupidi? Un tale meccanismo è pensabile, anche se non con certezza. o forse, all’opposto, la
loro saggezza e la loro intelligenza erano già talmente insufficienti,
inferiori, che commisero l’imprudenza di uccidere i propri figli? La
genetica non è in grado di scegliere tra queste due ipotesi, tanto più
che forse queste potrebbero essere vere simultaneamente.”
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