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sabato 11 febbraio 2012

eutanasia3


È morto  Piergiorgio Welby
Comunicato stampa di Scienza & Vita
Siamo fortemente addolorati per la morte di Piergiorgio Welby, non solo per le gravi sofferenze che ha dovuto sopportare a causa della malattia, ma anche perché pensiamo che sia terribile morire convinti che la propria vita è indegna di essere vissuta.

Allo stesso tempo, però, deploriamo che Welby sia divenuto il simbolo di una battaglia per la morte invece che di una battaglia per la migliore assistenza dei malati in gravi condizioni. Il suo impegno, infatti, ha dimostrato proprio il contrario di quello che i radicali volevano sostenere: la sua vita aveva un senso, profondo e importante.
Anche persone malate come lui, infatti, possono intervenire nella società, contribuire alla riflessione collettiva e soprattutto ricordarci che anche la sofferenza ha diritto di parola in un mondo sempre più orientato ad escludere quelli che non sono giovani, sani e benestanti. Welby, con la sua testimonianza, ci ha insegnato molto: non la necessità dell’eutanasia, ma la necessità di una buona assistenza e di un ruolo sociale per i malati, che possono e devono essere riconosciuti come protagonisti della nostra società e della nostra cultura. Grazie a Welby, speriamo che il nostro sistema sanitario migliori, che non ci sia più nessun malato che si senta escluso e inutile, che chieda la morte. Che non ci sia più nessuno a pronunciare le parole di tristissima memoria “vita indegna di essere vissuta”.
21 dicembre 2006


Postato da: giacabi a 18:15 | link | commenti
eutanasia, welby

sabato, 09 dicembre 2006

La palpebra di Carlo e la leucemia di mia figlia Lucilla
Eutanasia - sab 9 dic
di Luigi Amicone

Tratto da Il Foglio del 8 dicembre 2006

Io non parlerò di Carlo Marongiu, il pompiere sardo malato di sla che non riesce nemmeno a batter ciglio, il cerotto gli tiene la palpebra aperta, non può spiegare alla moglie che ha un prurito dietro la schiena.

Un bel verso di Goethe però ci sprona. “Non dite nulla a metà/ completare, che fatica!”. Nonostante il respiro gli manchi ogni otto secondi, Carlo resta il capo di famiglia e ogni decisione di casa passa al suo vaglio. Al vaglio di quel mucchietto di carne scadente? Non ne ha anche lei abbastanza di stare attaccata con funi, con tutta quell’anima addosso che gli scalcia dentro come un bimbo nell’utero di una madre morta, inchiodata al palcoscenico del mondo? Sì, anche Carlo ne ha abbastanza. Ma non per questo consente alle nostre mareggiate di pietà e compassione di scambiare la tempesta dei sentimenti per la pietra, il vero, la cosa. Non parlerò dell’uomo di Narbolìa, Oristano, che al nostro Emanuele Boffi, due settimane orsono, ci mise tre ore a occhieggiare una frase, una frase scema, secondo voi (“Dio mi ha detto che ha grandi progetti su di me”). E non starò qui a spiegare neanche il perché e il percome quest’uomo gigantesco ha suscitato intorno a sé un gigantesco movimento di popolo da quando, anno 1998, giacendo allettato notte e giorno, chiede alla moglie di tenere ben chiusa la porta di casa; non per paura dei ladri, ma perché notte e giorno è bello sentir bussare.

Non parlerò neanche della moglie di Carlo, Mirella, che da otto anni la sua vita è questa: ore 9-14 ufficio. Ore 14-15 pasto e rassetto della casa. Ore 15-6 del mattino del giorno seguente, inchiodata a una seggiola, davanti al capezzale del marito, a leggere pizzini, lettere, giornali, libri, riviste, con un occhio alle lettere, l’orecchio all’allarme della spina del respiratore artificiale, sbrigando criticità che, di riffa o di raffa, di punto in bianco, capitano quando meno te l’aspetti. E il volto di Carlo prende il tipico colorito bluastro dell’asfissia. Non parlerò di questo santuario del dolore e della gioia, di questa università sintesi di tutti i saperi, dove vanno e vengono studenti di ogni estrazione, poveri in canna e illustri notabili, madri disperate e vecchi carcerati, ricchi e bisognosi (mentre la signora dorme tre ore a notte, con la sveglia che squilla ogni trenta minuti, sperando che la macchina non si inceppi proprio in quel dormiveglia).

Io non mi avventurerò sui sentieri della letteratura della cognizione del dolore, né nelle raccomandazioni biblico-agostiniane. Vi racconterò semplicemente quel poco che so dall’esperienza.

E’ la tarda mattinata del 19 dicembre 2005, sono in redazione, squilla il telefono, è mia moglie Annalena. Mia figlia Lucilla era andata a sciare e la mattina del lunedì si era svegliata dolorante in tutte le ossa. “Sarà influenza”. Però è pallida come un cencio. Era seguito il viaggio al pronto soccorso, poi il responso dei medici dell’ospedale pubblico San Gerardo di Monza. “Leucemia grave, signora, molto grave”. E più tardi in corsia. “Signora non sappiamo, se sopravvive alla prima chemio, forse…”. Sono circa le sei del pomeriggio quando mi presento all’ospedale. Lucilla è seduta sul suo lettino, cameretta singola, pallida, avvolta nella sua camicia da notte come in un sudario di morte. “Come va, Lalla?”. “Uno schifo, pa’”. Lei che ti biascica altre cose e tu che non pensi ad altro altro che tua figlia è nelle mani dichissacosa (scusate, permettetemi di averlo chiamato Dio, lì per lì). “Vedi papà…” e piange. “Vedi, non me ne frega niente della morte, è che proprio adesso doveva capitare! Proprio adesso che c’è Natale e noi dovevamo stare tutti insieme nella nostra bella famiglia (sì, disse così, Lucilla: “bella”, e io faccio ancora così fatica a crederci! ndr), adesso che dovevo andare in vacanza con i miei amici di Gs! Ma perché Gesù mi fa questo! Non poteva aspettare almeno la fine delle vacanze!?” E poi, stringendo i denti e i pugni, “E’ un pirla!”. Un pirla? Chi è un pirla Luci? “Gesùùùù!!!!!”. Beh, dico io, adesso calma. Poi la guardo e so soltanto che gli devo una risposta. “Neanche un po’” dico. “Neanche un po’ cosa?” “Dico che Gesù non è neanche un po’ pirla”. “E allora perché mi fa questo? Ti sembra giusto che Gesù faccia queste cose?”. Dentro di me dico: so forse qualcosa più di questa bambina, io? No, non so niente, non capisco un accidente, so soltanto che il nemico dice nel corpo di mia figlia: “Presente”! Stai davanti a questa realtà mi dico. Non scappare, non tirare in ballo Dio, né i santi, né la Madonna. Mi viene un primo pensiero mentre affondo lo sguardo dentro gli occhi umidi e il naso colante di mia figlia. Mi viene in mente la fitta che ha dentro mamma Annalena, il suo pianto al telefono, il suo dolore di madre. “Senti Lalla, tu sai che io e mamma vorremmo essere al posto tuo, lo sai, vero?” “Lo so” “Però non possiamo essere al posto tuo. Perciò quello che ti sto dicendo è vero. Ma non è del tutto vero” “Cioè?” “Cioè il fatto che io e tua madre vorremmo essere al posto tuo, non è una risposta. La realtà è diversa. Il posto è tuo, e nessuno te lo può togliere. Nessun bene del mondo, neanche quello di tuo padre e di tua madre” “Già, bella scoperta”. Avanti, mi dico, rispondi, ti sta spaccando la faccia. E chissà come mi ripassa davanti agli occhi la scena di 19 anni fa quando una sera Annalena torna a casa, il viso scuro, neanche mi saluta, corre in camera… un lamento soffocato. “Cosa c’è, Annalena?”.“C’è che questa figlia morirà, ho la toxoplasmosi”. E giù a piangere. Non so che fare se non abbracciarla, stringerla, sussurrarle “Annalena, questa figlia è un dono, la vita non è nostra, fidiamoci”. “Ecco – dico a Lucilla rivangando quella storia – quella figlia che non doveva nascere sei tu. Invece sei nata, ci sei. Ecco la verità intera: non a noi, ma a un Altro appartiene l’essere”. Lucilla rimane silenziosa, poi dice niente, annuisce con la testa, dice il suo “sì, è così”. E’ cambiato qualcosa della sua malattia? Niente. Ma come è cambiata lei, in quel nanosecondo che ha detto il suo “sì” all’evidente! Dalla disperazione più nera, alla determinazione ad andare in guerra. Dalla lamentazione sulle possibilità negate del Natale e della vacanza, al punto di fuga dell’adesione alla realtà così come è. Da allora non se ne è parlato più, né del Natale perduto, né delle vacanze sfumate. Presenza, solo presenza al presente, combattendo come un leone, disfacendosi nel corpo e sette volte rinascendo più bella di prima, più bella fuori e dentro, anche se in certi momenti avrebbe voluto morire. Come in effetti sarebbe potuta morire, come quel ragazzino della stanza accanto.

Ripensandoci, le situazioni più tragiche sono quelle più semplici. Perché si può, si deve, solo accettare. Perché dall’accettare viene l’imparare. Riflettendoci, non è che la nostra pietà e la nostra compassione e il nostro amore siano falsi. E’ che non completano mai niente, è che per quanto buoni e sensibili e amorevoli e compassionevoli e pietosi possiamo essere, non siamo capaci, direbbe Ibsen, di un solo atto completo di virtù in tutta la nostra vita. Ci vuol niente a insegnare a disperare. Ma insegnare a vivere, questa sì che è un’impresa degna anche dell’ultimo malato terminale.

Postato da: giacabi a 12:52 | link | commenti
eutanasia, testimonianza

mercoledì, 27 settembre 2006


da: www.avvenire.it del 26-09-06
«Muovo solo due dita. Ma amo vivere»
«Alla diagnosi il mio primo pensiero è stato di cercare la morte Poi ho letto il Libro di Giobbe e ho capito quanto sia importante chiedere e ricevere aiuto, e poter ancora usare la propria testa»
Da Pavia Daniela Scherrer
«Non so quanto andrò avanti ancora. Ma adesso mi reputo un uomo e un medico fortunato. Sono prigioniero di un corpo sempre meno autonomo, ma la mia testa funziona bene e mi consente di comunicare, anche se con fatica. E soprattutto di ascoltare i miei pazienti come uno che sta soffrendo come loro, di cogliere quella dignità dei malati che spesso noi medici tendiamo a porre in disparte».
Mario Melazzini, 48 anni, sposato da 23 e padre di tre figli, è primario del day hospital oncologico della Fondazione Maugeri di Pavia. Un incarico che continua a ricoprire, seppur con fatica crescente: da tre anni e mezzo è affetto da Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). La stessa di Piergiorgio Welby, l'autore della lettera al presidente della Repubblica che ha riaperto il dibattito sull'eutanasia: «Una malattia neurodegenerativa e progressivamente invalidante - spiega Melazzini - che con il tempo non permette più di muoversi, di parlare, di alimentarsi e di respirare in maniera autonoma mentre le capacità cognitive rimangono perfettamente intatte. Oggi mi trovo su una sedia a rotelle, tetraplegico, capace di muovere solo due dita della mano destra. Sono alimentato e ventilato artificialmente. Ma sono innamorato della vita, e sono riuscito a trovare un equilibrio che mi fa stare bene interiormente».
Tutte le mattine, aiutato dalla moglie e da una badante, raggiunge il suo ufficio di primario. Visita, detta diagnosi, ascolta quei pazienti che lo «aiutano tantissimo» - parole sue. Tutto questo fino alle 14. Poi, con un autista, parte alla volta di Novara dove impiega l'altra metà della giornata nella sede dell'Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica), di cui è presidente. E alla sera torna a casa. I viaggi in auto gli consentono di riacquistare nuove energie. «Sono un po' matto, lo so - sorride Melazzini - ma ci tengo troppo a portare avanti entrambi gli impegni: medico e rappresentante di un'associazione di cui sono fiero di far parte. Mi costa molta fatica, ma smetterò solo quando sentirò davvero di non farcela più».
Questo è il Mario Melazzini di oggi. Protagonista esemplare di una storia intrisa di caparbietà, coraggio e fede. Doni che gli hanno consentito di superare l'impatto emotivo devastante alla notizia della malattia. Impossibile nascondere la gravità della diagnosi a un paziente che è anche medico. «Quando mi è stato detto che avevo la Sla, il mio primo pensiero è stato quello di cercare la morte - riconosce oggi -. Per un anno e mezzo ho avuto un chiodo fisso: ricorrere al suicidio assistito. Pensavo solo a me stesso, a un corpo che stava trasformandosi in semplice involucro, avevo abbandonato ogni speranza. Eppure, rispetto a oggi, riuscivo ancora a fare quasi tutto: camminavo, mangiavo, guidavo... Ma non sapevo cogliere la bellezza di quei piccoli gesti cui giorno dopo giorno ho poi dovuto rinunciare».
La rivoluzione di Melazzini avviene al termine di tre mesi trascorsi in totale solitudine. Tra le montagne. Leggendo e rileggendo il Libro di Giobbe, come gli aveva consigliato l'amico più caro, un gesuita. E proprio mentre cercava di allontanarsi il più possibile dalla vita ha trovato la forza di percepire quanto in realtà vi volesse restare aggrappato. Torna a casa ad abbracciare la moglie e i figli: «Mi sono chiesto che cosa stessi facendo, se fossi impazzito. La cosa più bella, anche se difficile, è stata capire quanto sia importante chiedere un aiuto e riceverlo, anche se non riesci più a muoverti e fai fatica a respirare. Quella malattia che per un anno e mezzo avevo definito sfortuna mostruosa aveva saputo aprirmi gli occhi per comprendere la bellezza di poter ancora usare la propria testa, di riuscire a sentirsi utile agli altri. La preghiera e il confronto continuo con gli altri e con me stesso mi hanno aiutato a metabolizzare la sofferenza».
«Solo chi si trova nelle condizioni di Welby - spiega ancora il medico pavese - può capire intimamente certi suoi pensieri. Ho il massimo rispetto per quanto ha scritto». Melazzini però non ha dubbi: «Se le istituzioni vogliono affrontare in modo concreto i problemi toccati da Welby non possono non tenere in considerazione le condizioni in cui vivono le persone affette da patologie gravi che mantengono inalterate le funzioni cognitive. Malati prigionieri del proprio corpo, e dipendenti da macchine per poter vivere, vittime della mancanza di un'assistenza domiciliare qualificata. Gente che ha assoluto bisogno di essere assistita da personale preparato e di essere messa nelle condizioni di non gravare esclusivamente sulla famiglia. Solo così in futuro potranno diminuire i disperati appelli alla Welby: con il massimo rispetto per lui, penso alla quotidianità di tanti malati che non hanno la forza, la voglia, il supporto politico per far sentire la propria voce». E all'esponente radicale malato di Sla Melazzini cosa direbbe? «Mi piacerebbe fargli capire che, pur prigionieri del nostro corpo, abbiamo la grande fortuna di avere una testa che funziona. Da esperienze come la nostra si possono trarre ricchezze addirittura impossibili da descrivere a parole. Penso alla riscoperta delle piccole cose, o alla vicinanza di chi ti vuole bene, che ti dà una forza incredibile». 

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