Beato Faà di Bruno
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Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli
Nel
frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire
qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro
quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del
muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e
morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco,
tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio",
poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte,
"beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel
canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.
Personaggio
singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già
avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile.
Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo
Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze
naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per
l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra
all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.
La
chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in
preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era
chiamata in causa, qui, perché il Francesco
Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle
serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona
parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle
donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria
collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.
Quanto
allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla
città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende,
il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una
sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle
valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al
contempo un grande studioso, un famoso scienziato.
LA VITA
Nasce
nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di
Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo
figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno,
nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di
Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi.
Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più
generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e
autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei
tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della
Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale
della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di
nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto
nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a
Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando
in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con
funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto
alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui
si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo:
il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati
Uniti in milioni di esemplari.
Nel
1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e
nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846,
terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore
generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si
perfeziona nelle lingue straniere.
Nel
1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie
comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è
aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta
del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio,
che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande
battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui
tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema
nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e
umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e
recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di
invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte
valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due
cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba.
Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare
l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel
1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e
matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli
ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime
Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che
conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al
suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro
Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di
spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St.
Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a
domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di
strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e
una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e
che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata.
Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a
Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta
formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un
credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano
creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino
al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico
militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la
spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi"
(P.Palazzini).
Tra
i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le
sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto,
come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili
con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso
verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche
qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle
autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il
vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854
ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche
in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San
Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui
partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi
suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo
diretto da un giovane laico.
Fidando
in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di
quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per
la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto
all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona
di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel
1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal
celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del
pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di
dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel
1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria
Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da
molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande
aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si
laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone
Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli
esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:
"Per
me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di
meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e
non sono che giochi da ragazzi".
Nel
1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di
Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in
quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta,
dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce
direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.
Nel
1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita
quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per
impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per
lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove
preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non
gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro
degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre,
sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite,
per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile
potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è
necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in
vendita.
Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per
aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle
quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso
altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a
distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e
carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:
"Son
pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque
conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia
almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio
ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son
prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto
V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A
questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità,
sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e
ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa
che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla
carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni
decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle
proposte dal Beato.
Il
2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno
dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo
patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed
elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto
perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche
perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia
modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale
si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà
(polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le
condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare
l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza
inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle
giovani".
Nella
Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara
sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni)
lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese
disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il
cristiano radicale e gli indicò la sua strada.
L'Opera
di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il
collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate,
anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna
(e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio
rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le
operaie - del proletariato urbano.
Una
delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di
servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero
(sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle
famiglie in cui lavorano".
Al
rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere
predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli,
ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di
pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di
essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle
grandi città.
In
effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e
sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di
rimediarvi.
A
queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente
in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione,
internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era
la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali,
dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per
quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non
voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare
il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo:
formare al bene, allontanare dal male"
Alle
Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai
padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che
fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato,
scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per
quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani
apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da
un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro
che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e
del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per
l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai
liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che
la verità stava nel contrario.
Sempre
nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza),
sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle
feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono
costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.
Nel
1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle
Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e
affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a
una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora
esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla
vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.
Nello stesso anno fonda
l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto,
convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le
malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la
fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici,
rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà
vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che
devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il
suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro
il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che,
anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone
al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una
rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con
l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di
colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni
sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in
casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado
l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è,
anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche
questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il
progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con
40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni
e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al
Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una
società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che
"si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo,
il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa
filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.
Quanto
agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta
comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima
situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo
un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore
al fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in
ordine e muove come un orologio". All'Opera
di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in
miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni
ecclesiastici.
Nel
1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua
circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli
scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di
"moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua
straniera.
Nel
1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di
giovani povere con corsi triennali di economia domestica.
Nel
1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la
formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello
professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline
scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui
importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei
quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a
cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la
resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per
scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle
scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia -
lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e
persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al
telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo
Nel
1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del
Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei
morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto
qualunque bandiera.
Poiché,
come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e
religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una
congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una
successione di bene, non può far senza di religiose".
Nel
1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di
Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni
avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del
Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i
tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze
dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua
autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi
salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della
Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è
chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia,
non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a
conferma della forza di un carisma singolare.
Le
Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo
femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio
(ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione
originaria di Opera di Santa Zita).
Per
venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato
apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile
procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici,
pubblicazioni religiose.
Nel
1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e
di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo
diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo
pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le
umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore
dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze
chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la
casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu
irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel
1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di
Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la
sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un
gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno
in America Latina, dove tuttora lavorano.
Negli
istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita
(novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa.
Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte
tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni
di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel
1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la
congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della
chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel
1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una
volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte
di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i
talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.
Nel
1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per
farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione
professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del
Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la
diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili
in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene
anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II
27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni
prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto
dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle
faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito,
disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di
quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno
titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici
nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia,
raccolta in 38 anni di studio e di lavoro". …….
Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In
ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo,
l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al
ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e
culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non
così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai
l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza
tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale,
immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini
degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che
la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che
ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua
intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi,
riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono
parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma
se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia
religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e
viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere
delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e
che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più
stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.
C'è
una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella
dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli,
quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita
terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.
Fecondità
che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché
abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che
anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che
ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non
ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di
qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la
qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non
ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie;
assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe
mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco leggiamo:
"Mentre
usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e,
gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che
cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i
comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non
dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli
allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla
giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola
ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro
in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole,
se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco
Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa,
che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo
gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di
riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la
vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
"Santità"
ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da
domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi
non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza
sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare
che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì
motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio
umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi
in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".
Certo
è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di
quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un
Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo)
trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro
impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O -
marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in
terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in
un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove
l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la
salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal
punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde
sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una
rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro
personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due
campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di
intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica
internazionale.
Dietro
tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato,
carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al
processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure,
aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva
fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere
scusa").
I famigliari
e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo
fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un
aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo
preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce,
in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente
stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando
il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una
povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò
che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta
ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria
con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con
la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà
impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua
famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non
di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto
con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di
marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato
agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro
approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche
di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il
Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello
eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha
spesso l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma che tormento!".
E
così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche
quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione
universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar
consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro
per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".
Nella
famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel
che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni
dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle
convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale.
Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti
sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe
Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un
Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale
della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E,
invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i
cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in
quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera"
nello stato ecclesiastico.
Ma
nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo
avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che
sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza
possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle
beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni
fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti,
che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma
già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor
Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una
comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come
lui.
"Devo
fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in
certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di
Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure
le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si
era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole"
(P. Palazzini).
In
realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano
dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo
vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni
all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò
tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi
prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a
tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia,
di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili
e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né
ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava
immantinente al lavoro".
In
realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di
eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per
evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva
adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma
veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese,
conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era
davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché
occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.
Dopo
la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita
interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel
1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode
della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno
sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo
pieno della congregazione" (P. Palazzini)
Avendo
infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive
approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio
acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta
sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.
L'opera
iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da
menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la
mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse
soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica
dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera
della donna.
E
ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella
concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella
scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione
contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma
anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale,
perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e
meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla
fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato
tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle
"sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur
indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora
agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori
maschili delle loro scelte.
Torniamo
alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita.
Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo,
alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di
libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.
Stanze
dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto
riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato
di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di
discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi
era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato
allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita
militare della prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.
Divenuto
sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo
essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori,
le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in
guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore
nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di
"essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella
celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né
la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo
vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio,
tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.
Ma
che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo,
dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre
attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza
interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di
lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente
divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace,
limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a
quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia
tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito
accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono,
sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella
di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova
società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la
stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a
San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve
disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche
a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto
Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco:
"In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo
di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani
il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti
non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine
interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben
fatte".
In
effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali
scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano
con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto
dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano
non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e
dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che divergevano.
Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i
guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un
cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la
restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma
anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più
giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il
mondo con una religione vissuta profondamente".
Sapeva
che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani
seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato
bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il
colto - era il primo a dimostrarlo.
Né
si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel
1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano
passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le
domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi,
in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una
associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di
esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la
totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi
una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega
anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri
andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e
aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a
noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si
coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche,
sudamericane.
È
solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come
dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una
situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con
ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici.
Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse,
riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose
gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano,
minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la
sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e
terribile: l'inferno.
Altro
non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo,
nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi
ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora
siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).
Ed
è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia:
"C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni
banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla
sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva
dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il
ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di
refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi
beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è
consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).
In
quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro
giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia
socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di
quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi
avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non
mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i
giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)
Da
queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e
inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla
lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:
E
ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi
sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono
state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono
consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza
contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai
lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei
mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete
gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete
ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).
Espressioni,
come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base
delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano
vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori
della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le
parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione
cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del
liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si
limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli
innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i
ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al
contempo tenesse buoni i poveri.
Faà
di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento
demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni
che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro
persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono
il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E,
altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini
incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".
Nutrito
di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da
sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il
predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi
del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai
ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma,
allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi,
allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere
conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e
rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del
risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le
ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene
scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra
condizione mi fa paura!".
Sentiamo,
al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don
Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al
solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:
Uno
avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere;
orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che
è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma
sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta,
non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi
non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei
non possidebit.
"Ma
la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già
troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete,
entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate,
qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor
buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di
ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e
che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là
risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma
sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi
non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e
datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una
corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre
sostanze, né vi levate il necessario.
"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"
"Ecco:
è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire
una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare
quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma
questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro
che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete
conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel
denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se
volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e
soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le
mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per
aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si
andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della
predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del
tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma,
necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure
sono predette nella eternità, senza limite né fine.
Ma
l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da
un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della
giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto
la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia,
diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo
pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si
raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai
ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non
riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che
tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare
del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di
essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il
futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi
credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale
vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro
realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via
coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che,
superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri:
volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della
coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal
timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto
Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e
inappellabili.
Intuivano
che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe
risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come
tutto ciò che nasce dalla forza. 183
E
come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi
vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del
socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi
credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non
per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per
preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.
Seguaci
di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di
una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni
rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria;
anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata
rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e
impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna
(il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla
misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga,
significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di
Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello
di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano,
ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre
Nostro"
La
tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da
sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi
promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli
ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si
tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui
l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un
proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma,
non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla
di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio
assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme
precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in
queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare,
con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.
Invece,
le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo,
del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale:
volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento,
finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù
alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo
questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di
classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i
suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso
etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola,
dell'amore.
Ma,
questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo.
Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo
con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto
convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il
peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze
negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per
instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".
Sapevano,
come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la
letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare
di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così
perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla
necessità di essere buoni".
Erano
scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva
illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i
veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben
constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza)
come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione
innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre,
immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che,
dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito
soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai
sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e
giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro,
nell'intimo di ogni uomo".
Si
spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione
eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare
al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo.
Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo,
dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni
sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla
redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del
peccato.
Diffidavano
poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie -
dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei
pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente,
al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità,
difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.
E,
dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o
infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le
maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le
scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti
che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che
promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del
comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel
caso del nostro Beato.
Ricordiamo
tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste
conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù
per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo
esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse
capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".
Gesù
rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei
briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono
lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli
accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?
Stando
a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai
cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi,
sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"),
quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve
necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:
un'azione
dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per
rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni
diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e
direzione pubbliche, apposite comunità;
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta;
creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici;
stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità;
manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante;
istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti...
Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta;
creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici;
stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità;
manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante;
istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti...
Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento
scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante"
e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello
giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".
Proprio
per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in
quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata
raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di
Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che,
in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati,
dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati,
delle serve schiavizzate.
Alzarono
la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza;
minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti,
distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e
di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita
stessa.
Puntarono
sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se
medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona
essi stessi.
Gli
ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano
di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e
reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in
agonia.
Faà
di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni
caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi,
comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo
battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le
serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà)
che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe
trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una
giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior
giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma
sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni
pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro
l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non
aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma
costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo
sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere
costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano,
almeno di uomini.
I
politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre
rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta"
Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per
renderlo subito e il più possibile meno disumano.
Esemplare,
al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo
campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo
vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto
sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e
meteorologico alla sommità.
Dunque,
la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è
il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo
matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità
"spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del
progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni
Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la
cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando
nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni,
molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro
collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici":
categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in
Cielo.
Sulla
base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla
prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra
progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra
scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà
necessariamente legale tra di loro.
Nel
1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana
suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi
ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non
credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire
le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare
come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi
diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione
cattolica"".
Insegnava
che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra
delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo,
non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose
regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e
onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che
"l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a
sua volta alla teologia".
Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la
teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che
lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte
le contiene.
Ma,
al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa
in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.
Tra
i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti -
causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in
orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il
"pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere
agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un
orologio era allora un lusso per privilegiati.
In
attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di
acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il
consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette
avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di
altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti
cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone.
Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al
Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti
del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse
per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di
aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al
solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la
delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del
1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e
inquisizioni varie.
Ora,
forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al
campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di
torinesi senza altro orologio lo fecero.
Secondo
lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e
concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti
avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.
Ma
sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e,
soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di
pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come
testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale,
la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del
Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la
cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della
questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo,
come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando,
precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che
credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone
l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.
Durissimo
col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino
all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti
alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole
da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità
del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E
che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei
tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto
"condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per
essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per
non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla
fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È
la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che
vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per
questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è
di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono di Karl Popper,
il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un
agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però,
ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero
sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci
per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei
beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici.
Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non
cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare
un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di
questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono
qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati
adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene
di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era
composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di
intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento
operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale
(come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato
dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a
maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e
da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.
Da
quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi
risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre
ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio
di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti
anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente,
pagato con il denaro pubblico.
Stando
a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel
Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra
quelle vie dai
grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure
straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto
della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli
di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le
sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle
giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro.
Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa
zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava
nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio
di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge
di violenza.
A
quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della
zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che
pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche
loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose
varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei
decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale
che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire
dei cattolici, dei preti).
Quanto
a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice,
testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica
di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il
pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava:
"assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il
nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di
carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle
"serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe
borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di
confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera
scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non
occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a
leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo
schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le
orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei
primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior
quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia,
malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso",
diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto
nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei
"democratici", era S. Giovanni Bosco.
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