CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


sabato 11 febbraio 2012

famiglia,


UNA STUPENDA LETTERA DI UN PADRE
AL FIGLIO.

***
     
Se un giorno mi vedrai vecchio: se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi … abbi pazienza, ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnartelo.

Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose … non mi interrompere … ascoltami, quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finche’ non ti addormentavi.

Quando non voglio lavarmi non biasimarmi e non farmi vergognare … ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perche’ non volevi fare il bagno.

Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico ho avuto tutta la pazienza per insegnarti l’abc; quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso … dammi il tempo necessario per ricordare e se non ci riesco non ti innervosire ….. la cosa piu’ importante non e’ quello che dico ma il mio bisogno di essere con te ed averti li che mi ascolti.

Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso, vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l’ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.

Quando dico che vorrei essere morto … non arrabbiarti un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.

Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te che ho tentato di spianarti la strada. Dammi un po’ del tuo tempo, dammi un po’ della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa allo stesso modo in cui io l’ho fatto per te.

Aiutami a camminare, aiutami a finire i miei giorni con amore e pazienza in cambio io ti darò un sorriso e l’immenso amore che ho sempre avuto per te.

Ti amo figlio mio

Postato da: giacabi a 20:52 | link | commenti
famiglia, amore



***
Lo Spirito Santo ”vincolo del Padre e del Figlio” è una persona, perché niente in Dio può essere impersonale. [Così anche il vincolo tra un uomo e una donna è Dio stesso, e prende un volto nel loro bambino…]
(O. Clément,
Alle fonti con i Padri. I mistici cristiani delle origini. Testo e commento, Città Nuova, Roma 1992, 59).

Postato da: giacabi a 14:40 | link | commenti
famiglia, clement

domenica, 31 luglio 2011

***
La famiglia è la cellula della società: se essa è sana, tutto l’organismo prospera; se essa è malata, l’intera comunità deperisce e muore.
Leone XIII, papa

Postato da: giacabi a 21:21 | link | commenti
famiglia

venerdì, 29 luglio 2011

Il Cristianesimo non ha mai detto:
“Anzitutto amatevi” (Parte 2)
***

I gaypride: una nuova religione senza nome. La pesca amorosa. La supestizione dell’amore. L’amore come licenza ad uccidere. L’amore come superamento del peccato come colpa. La malaria del sentimentalismo che ha ucciso l’amore.

di Antonio Margheriti Mastino,
da
Papale Papale (14/06/2011)



I GAYPRIDE 1: UNA NUOVA RELIGIONE SENZA ANCORA UN NOME
I gaypride ne sono l’esempio plateale, quelli romani soprattutto. Dove è tutto un proliferare di cartelloni selvaggi e rituali contro il papa, il “Vaticano”, “i preti”, “il diritto all’amore contro l’inquisizione”. Poi osservi questa umanità nuda, variopinta, godereccia, promiscua, interessata solo a quel che appare, ebbra d’effimero; che non se ne frega niente più di niente e niente sa di ciò che va oltre il possedere-esibire-godere, che vive solo dell’adesso e subito che del doman non v’è certezza. E ti rendi conto che questi qui non sono cattolici. Non più. Non sono manco musulmani, né buddisti o protestanti, non sono più cristiani neppure a rivoltarli dal culo all’aria alla testa. Nulla che possa somigliare a una qualsiasi religione esistente sulla faccia della terra. Sono invece i pionieri di una nuova religione. Che al momento mancando un termine di nuovo conio, andando per similitudini, possiamo dire neo-pagana, la cui sostanza è profondamente edonistica, che non ha nulla a che fare con alcun Dio rivelato, essendo questi inincidenti sulle pratiche della loro vita, nella loro interiorità, nel loro, debolissimo fra l’altro, sistema di pensiero. Che altro non è a sua volta che un riflesso condizionato della più vasta e in fieri, sempre più potente e in fase di strutturazione, ideologia omosessualista o di genere. La cui peculiarità è la provocatoria, violenta esibizione della propria raggiunta potenza in Occidente. Capace di zittire chiunque. Salvo la chiesa istituzionale, che, volente o nolente, è obbligata a ripetere ciò che la dottrina divina, in eterno ha espresso: la grave illiceità della sodomia. Pur comprendendo, la chiesa allarga le braccia e dice: mi spiace, non ho il potere di tacere ciò che Dio mi ha dato in deposito e con l’obbligo di farlo sapere a tutti; né posso mutare alcunchè, perché di tale Verità son solo l’amministratrice non la proprietaria. Così stanno le cose, così è se vi pare. Nessuno è obbligato a niente, ma è chiaro pure che si è cattolici solo a queste condizioni.

GAYPRIDE 2: MA SE NON SIETE CATTOLICI CHE ROMPETE A FARE LE PALLE ALLA CHIESA?
A questo punto la domanda che uno si fa vedendo i cartelloni anticattolici nei gaypride è: ma se di fatto e ormai pure in teoria né sono né ci tengono a professarsi cattolici, né condividono alcunchè della divina e infallibile dottrina morale della chiesa, ma che motivo hanno di contestarla? La chiesa parla ai suoi fedeli, per metterli in guardia dal peccato mortale, stare attenti all’educazione dei figli; e poi sì, parla anche a tutti gli altri ricordando la legge di natura, che non l’ha inventata la chiesa, ma è sempre esistita, anche prima della chiesa. Stigmatizza il peccato, il peccato sociale, le cause e gli effetti di un peccato individuale traslato e rivendicato sul piano sociale, con grave pericolo per i suoi stessi fedeli (che non sono quelli dei gaypride).

Allora, cari omosessualisti mezzi nudi, se siete i pionieri di una nuova religione mondana e orizzontale, se non siete cattolici, ma che vi frega della morale della chiesa cattolica? Con la quale o senza la quale per voi tutto resta tale e quale? Ma cosa pretendete, di sfondarvi allegramente fra voi i deretani con la benedizione del papa? Questo non è mai accaduto e non accadrà mai, non può e non deve. Dice: ma noi vogliamo il libero amore non la scopata occasionale, e l’amore è di Gesù. Anzitutto mentite spudoratamente; poi siete pure ignoranti. Secondo, vale tutto quanto detto prima. Terzo, nella chiesa questo libero amore non esiste e non potrà mai esistere, esiste solo la sessualità matrimoniale e i sentimenti semplici e puliti. Infine, voi scambiate platealmente (e ancora una volta i gaypride ne sono la rivelazione conclamata) il vostro fallocentrismo con l’amore, scambiate la sessuomania con l’amore, scambiate l’apparenza dei sensi con la sostanza dell’amore, l’amore con la pesca amorosa. Perché questo è, fatti bene i conti, quel che ne vien fuori dalle loro rappresentazioni carnevalesche, arroganti, spregiudicate: il diritto alla pesca amorosa. Fatela: in caso ne risponderete a Dio. Ma se date pubblico scandalo, dal momento che è pubblico, non pretendete che la chiesa spruzzi sopra i vostri amplessi l’acqua benedetta.


GAYPRIDE 3: FALLOCRAZIA
Non v’è dubbio che in tutto questo influisce anche l’overdose acritica di ideologia freudiana e superstizione psicologista, con la loro fallocrazia monomaniaca. Nota Vittorio Messori, a proposito di coloro che contestano alla chiesa un eccessivo impicciarsi di morale sessuale: “Singolare è che coloro (e non mancano preti e suore liberati, nonché i soliti cattolici adulti) che denunciano una esagerazione del Magistero in questa materia, sono poi gli stessi che prendono sul serio la psicoanalisi, per la quale l’onnipresenza e la forza della sessualità è la chiave unica per spiegare l’uomo, la storia, il mondo. Se per Marx tutto è economia, per Freud tutto è eros: ma allora, se davvero è così, come potrebbe la Chiesa non dare una risposta adeguata - per prudenza e per fermezza - a una simile, invasiva potenza?”.

In realtà c’è un altro messaggio che ne vien fuori. Non deve esistere alcuna morale, men che meno cattolica, ok. È giusto solo quel che mi piace, è ragionevole solo quel che secondo me lo è, ok. Ma è l’ultimo messaggio, quel che (ancora) non osa dire il suo nome ma che già in Europa è operativo in diverse burocrazie giudiziarie ispirate dall’ideologia di genere, dal political correctness, il più pericoloso: la chiesa cattolica non deve proprio esprimere pubblicamente la sua morale, non deve professare la sua fede, perchè questa è in contrasto con l’ideologia dominante del momento. Alla fine, come vedete, tutti i conti tornano. Nulla di nuovo, ancora una volta, sotto gli occhi di Dio e del papa: sono secoli che periodicamente tutto ciò si verifica. Siamo alle solite, e tutti i salmi finiscono con le manette ai polsi e il bavaglio alla bocca. Lo spirito del mondo non tollera lo Spirito Santo.

L’AMORE COME SUPERAMENTO DEL PECCATO COME COLPA
Questo amore qui, non è più cristiano, non lo è mai stato. Ma sotto l’alibi dell’amore, si nasconde un altro intento, già attivamente operante del resto: l’annullamento dell’idea, della realtà, del senso stesso del peccato. Cancellare il peccato come colpa. È questo che certi cattolici liberal vogliono spazzar via: l’ostacolo del peccato, dopodichè ogni diga cederebbe, e finalmente il cattolicesimo sarebbe del tutto assimilato al secolo e alla società civile, per poi scomparire del tutto, come è successo per le confessioni riformate del Nord-Europa, non a caso portate da queste sempre ad esempio.

Questo amore col quale si infanga persino il nome del Dio cristiano, e che alla fine si riduce all’ognuno si faccia gli affari suoi, quando non proprio all’ognuno per sé Dio per tutti. Quale maggiore contraddizione in termini con l’amore di Cristo?

Questo amore amoreggiante, di genere, senza limiti di decenza, pieno di solitudine e ansimante di coiti consumati, occasionali, provvisori, a termine, disimpegnati, contronatura, questi incontri tutti geniatali e smancerie nei quali si perde l’umanità. Che cosa è se non aver perduto il senso proprio della parola Amore? Cosa è se non l’amore come superamento della responsabilità, disgiunto da questa, tutto fatto di diritti e di nessun dovere? Che scommette solo sull’assurdo e l’improbabile e mai su ciò su cui sarebbe naturale puntare? Che cosa è questa pretesa, la più assordante del momento perchè quella più a la page, dell’amore (e poi farse di matrimoni e purtroppo di vere adozioni) fra persone dello stesso sesso se non la provocazione e la scommessa balorda di chi non ha nulla da perdere in ogni caso? E che perciò, ancora una volta, è esentato da ogni responsabilità? Amore di Gesù, fratellanza di Gesù, pace e giustizia e uguaglianza di Gesù, strepitano questi post-cristiani, come se il loro Gesù avesse ancora qualcosa di cristiano. E non si rendono conto che questo Dio comune non c’è, come non ci sono tutti questi fratelli di un comune Padre, come non c’è questo amore che ammantano di grazia divina e che altro non è che una sinistra pesca amorosa, preludio di un castigo divino di immani proporzioni. Non si rendono conto che non adoriamo lo stesso Dio. Perchè il loro è il Vitello d’Oro, non il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, né di Cristo né persino di Maometto, è invece l’idolo innalzato a divinità della loro carne tremula e ingorda, senza più vergogna, senza più limiti, senza più umanità, che si nutre di se stessa, cannibale. Come quell’Ugolino dantesco che prospera generando figli e cibandosene. L’inferno.

Spesso questi teorici del volemose bbene dell’amore perchè Dio ama tutti e che perciò non si deve giudicare, usano un argomento bislacco assai. Quello della coscienza e del libero arbitrio.

Precisiamo prima una cosa. Il peccatore certo non si giudica, ma solo finchè non fa bandiera del suo peccato, per il resto il peccato va additato, giudicato e condannato soprattutto pubblicamente.

Detto questo veniamo a ‘sto presunto libero arbitrio (quanto a fraseologia luterana son sempre aggiornati: è quella cattolica che non gli sovviene mai). Dice: Dio ci ha dato il libero arbitro. Sì, è vero, ci ha lasciati liberi di scegliere. Ma prima ha indicato qual è la sua volontà. Cristo dal canto suo ha precisato che il Padre avrebbe messo i giusti alla sua destra e i malvagi alla sua sinistra e poi li avrebbe scacciati da sé “maledetti dal Padre” Suo. Non ha parlato di amnistia, né di amorosi sensi che dovrebbero influenzare in senso lassista la sentenza. Liberi tutti di peccare, certamente. Come Dio è libero di punire e condannare. E lo ha promesso a caratteri cubitali.

LA MALARIA DEL SENTIMENTALISMO CHE HA UCCISO L’AMORE
E poi, alla fine il male dei mali, la radice stessa di questo falso amore. Falso come amore umano e falso e sacrilego come amore divino: la malaria del sentimentalismo che ha sostituito i sentimenti veri. E che riguarda sia tutto quello del quale abbiamo parlato sinora, sia l’amore fidanzati, sia quello coniugale. Il totale disastro degli ultimi decenni su questo versante è talmente immane, tanto che tutti ne abbiamo ogni giorni sotto il naso un’ampia casistica, a cominciare dalle nostre famiglie. Un argomento talmente deprimente che non ti vien voglia manco di scriverne tu. E per questa ragione demando tutto al mio infinitamente amato Vittorio Messori, dal quale tutto ho imparato e al quale tutto devo (insieme al cardinale Ratzinger).

Del resto usa parole essenziali e mirabili. Ascoltatelo in questo collage che ho ricavato da diverse sue opere: “Il modello di famiglia che ci pare ormai il solo normale è in realtà una creazione recente e un po’ sospetta, venendoci dalla borghesia dell‘Europa già postcristiana dell’Ottocento. È la famiglia di Enrico. Lo stucchevole studente protagonista del Cuore del massone Edmondo de Amicis [...] È quel modello di famiglia (che si sarebbe poi imposto a tutta la società, facendoci dimenticare ogni altro modello) dove gli affetti tra i componenti sono vissuti innanzitutto come sentimenti. Ora: quello schema e quel clima sono il contrario di quelli della famiglia preborghese, tradizionale; della famiglia cristiana, dove l’ amore c’era, ma era agli antipodi della leziosaggine; dove ogni retorica sdolcinata era bandita nel nome di quel realismo (uno tra i maggiori doni del cristianesimo, e tra i più dimenticati oggi) che sa che la vita è dura; che sa che questo non è il giardino dell’Eden ma spesso, davvero, la lacrimarum vallis; che sa che il volersi bene sul serio non passa attraverso il pacchettino infiocchettato o il melenso coretto davanti alla torta del giorno del compleanno. Una famiglia dove i figli erano molti e dove molti, certo, morivano presto: ma morivano dopo la nascita, non prima, come adesso. Era una famiglia dove il separarsi era impensabile, non solo per le diverse condizioni economiche e sociali, ma perché ben diverso dal nostro era il concetto stesso di amore. Il punto è importante; eppure, poco si riflette sulla mutazione subita da questa parola che, in ogni suo senso, è centrale per il cristianesimo. In effetti, in quella accezione della borghesia europea secolarizzata che abbiamo fatto nostra, amarsi tra uomo e donna è sinonimo di piacersi, di sentire qualcosa , in particolare attrazione affettiva o sessuale. E, dunque, amore è sinonimo di sentimento: quando questo finisce, consideriamo finito anche l’amore. In una simile prospettiva, è logico (se non addirittura doveroso) andare alla ricerca di un’altra, di un altro, con cui sia possibile rinnovare un sentimento senza il quale ci pare non possa esistere l’amore tra i sessi. La ragione per cui è fallito in Occidente ogni tentativo di evitare la legislazione sul divorzio: ‘Se amore coniugale è sinonimo di reciproca attrazione, poter liberarsi dalla moglie – o dal marito – è una necessità, quando non si sente più niente’. Come sempre, l’etimologia è illuminante: coniugarsi viene da cum e iugare, vuol dunque dire legarsi assieme sotto il giogo. È, cioè, l’immagine, per noi ormai impensabile, di un uomo e di una donna che accettano di essere gravati da un giogo comune per trascinare il pesante carro della famiglia attraverso quell’asperrimo terreno che è la vita. I due avendo per giunta – altra prospettiva per noi troppo spesso del tutto inconsueta – come mèta finale, e sola davvero importante: la vita eterna”.

La ragione per la quale oggi bolliamo come scandaloso il matrimonio combinato allora molto in voga. Ma spiega Messori: “Si era convinti che, da soli, un bel viso che piace o un sorriso simpatico o un corpo attraente non bastassero per decidere di cum iugare, finché morte non separi”.

Dunque c’era meno amore all’epoca? “Di certo, c’era meno sentimento. O, almeno, la presenza tangibile e continua di questo non era, come per noi, il sine qua non perché l’unione familiare stesse in piedi. Sicuramente, gli affetti – pur non sentimentali – si allargavano come noi non sappiamo più fare: ad esempio, il «ricovero», l’«ospizio» per i vecchi espulsi dalla famiglia sono tipiche creazioni dell’illuminismo e della sua cultura secolarizzata. In quella «cristiana» erano assurdi”.

Conclude Messori in una discussione con Andrea Tornielli, che il disastro matrimoniale attuale, che nelle metropoli porta ormai la metà delle coppie davanti al giudice, deriva da qualcosa “che sembra molto bello”. Quella disfatta deriva dall’amore inteso non le senso cristiano ma in quello romantico e borghese: “L’amore come passione, attrazione fisica, sentimento, come sdolcinature tra fidanzatini. Con cupìdi e iniziali incisi sulla corteccia degli alberi, paroline dolci, mesaggini. Magari, oggi, anche lucchetti da appendere ai lampioni di Ponte Milvio”. Ma prima o poi, fisiologicamente, tutto questo deve venir meno. E quando succede “terminata la magia dello stato nascente, se ne trae la conclusione che l’amore è finito e, visto che solo quel tipo di amore giustifica lo stare insieme, è ora di ricominciare con un altra persona, per ritrovare il batticuore romantico, per sentire nuovamente qualcosa”.

Resta, dimenticata da tutti, l’unica verità sull’amore. Quella del Vangelo, cristiana: “Unione di realtà diverse: dunque, matrimonio come affetto ma anche come vincolo, nel bene e nel male; come legame personale e al contempo sociale; come piacere ma anche come dovere, talvolta arduo. Il realismo di chi crede nel Vangelo ed è consapevole che, per ritrovare l’amore come fondamento solido di quell’eterna tragicommedia che è l’incontro-scontro tra maschio e femmina, occorre decontaminarsi dal sentimento, anzi, non di rado dal sentimentalismo, presentato come amore da troppe canzoni, romanzi, film. La paccottiglia, insomma, da festa inventata, quella del povero, inconsapevole san Valentino”.

Che forse, avesse saputo che sorte da bacioperugina gli sarebbe spettata, avrebbe di certo deciso di sposarsi e fare figli invece che farsi prete
.

Postato da: giacabi a 18:37 | link | commenti
famiglia, omosessualita

lunedì, 18 luglio 2011

Figli senza padri
***

Pigi Colognesi

 

lunedì 18 luglio 2011

 
In un recente articolo su la Repubblica, lo psicanalista Massimo Recalcati sostiene che è necessario e urgente rivalutare la figura del padre. Per spiegarsi dice che dobbiamo passare dal mito di Edipo a quello di Telemaco.
Le due storie sono note. Edipo, per una misteriosa quanto inflessibile volontà degli dei, si è trovato a uccidere il padre e a sposare la madre. Per secoli la tragedia di Sofocle è stata letta come inarrivabile descrizione della potenza implacabile del fato, che realizza sempre ciò che ha deciso per gli uomini, anche se questi cercano disperatamente di sfuggirgli.
Con la nascita della psicanalisi, giusto un secolo fa o poco più, l’interpretazione si è trasformata nei termini del “complesso di Edipo”: l’uccisione del padre per conquistare il proprio ruolo virile rispetto al mondo femminile. Poi però la presunta necessità di uccidere il padre per diventare adulti si è costituita in dogma incontestabile in tutti i campi dell’esistenza; abbiamo così assistito all’attacco sconsiderato a ogni paternità, autorità e tradizione.
E ora siamo qui a constatare lo smarrimento di giovani che non hanno il padre, anche se in famiglia c’è questo adulto che si veste e parla da giovane e che goffamente cerca di essere “amico” del figlio; giovani che non riconoscono - nel senso che nessuno è capace di mostrarla loro - nessuna autorità al maestro, al professore, al prete e nemmeno all’allenatore di calcio. Lo smarrimento è evidente, perché senza una proposta autorevole il processo educativo non si avvia. E se sistematicamente autorevole viene identificato con autoritario, non c’è più niente da fare.
Telemaco è il figlio di Ulisse. Crede che suo padre sia morto chissà dove e subisce mestamente la prepotenza dei pretendenti al letto di sua madre e, di conseguenza, al trono di Itaca. Ma, sotto le vesti di un mendicante, la dea Atena lo rincuora: suo padre non è perduto e tornerà. A questo semplice annuncio, il giovane timido e remissivo si trasforma: diventa audace e coraggioso.
Ed effettivamente Ulisse tornerà e vincerà, con l’aiuto del figlio, i suoi nemici. Commenta Recalcati: «Siamo nell’epoca dell’evaporazione del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni». Certo, non il padre padrone, repressivo, puro vindice della disciplina, gerarca lontano; piuttosto il padre «capace di testimoniare come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità».
È a questo punto che il ragionamento dello psicanalista mostra, a mio avviso, un punto debole. Secondo Recalcati, il padre-testimone non può che essere «incapace di dire qual è il senso della vita, ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso». Perché questa paura strana di «dire qual è il senso della vita»? E poi che sicurezza può trasmettere un padre se semplicemente testimonia che la vita «può» avere un senso, ma non è in grado di dire di che senso si tratta? Legittimamente il figlio potrebbe chiedergli: ma sta vita un senso ce l’ha o no?
Domina ancora la paura che affermare qualcosa significhi ledere la libertà dell’altro. Invece, il padre autentico è eminentemente affermativo. Afferma prima di tutto l’esistenza del figlio e quindi la sua positività, e poi afferma e propone il senso per cui lui vive. Certo, il padre, come sostiene Recalcati, non è proprietario del figlio, così come non è proprietario del senso della vita che riconosce. Ma è solo affidandolo lealmente alla libertà di verifica del figlio che si mostra davvero padre.

Postato da: giacabi a 17:28 | link | commenti (1)
famiglia

domenica, 05 giugno 2011


LA FAMIGLIA
***

 
Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita e ad una crescente disgregazione della famiglia. Si assolutizza una libertà senza impegno per la verità, e si coltiva come ideale il benessere individuale attraverso il consumo di beni materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi; si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare tale mentalità! Accanto alla parola della Chiesa, è molto importante la testimonianza e l’impegno delle famiglie cristiane, la vostra testimonianza concreta, specie per affermare l’intangibilità della vita umana dal concepimento fino al suo termine naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi che sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli.

Drage obitelji, budite hrabre!

[Care famiglie, siate coraggiose!]

Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona! Care famiglie, gioite per la paternità e la maternità! L’apertura alla vita è segno di apertura al futuro, di fiducia nel futuro, così come il rispetto della morale naturale libera la persona, anziché mortificarla!
PAPA BENEDETTO XVI in Croazia giugno2011


Postato da: giacabi a 20:42 | link | commenti
famiglia, benedettoxvi

sabato, 21 agosto 2010


La famiglia è la cellula della società
***
La famiglia è la cellula della società: se essa è sana, tutto l’organismo prospera; se essa è malata, l’intera comunità deperisce e muore
(Leone XIII, papa).

Postato da: giacabi a 13:05 | link | commenti
famiglia

sabato, 03 luglio 2010

Orfanotrofio russo di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 4 marzo 2010 La cultura e le leggi bolsceviche che avrebbero dovuto portare alla “liberazione della donna”, magari contro la “sessuofobia cristiana”, causarono, come si è visto, la disgregazione della società, il boom degli infanticidi e degli aborti.
Tanto che i paesi comunisti, dal Vietnam alla Cina, da Cuba alla Federazione russa, mantengono ancor oggi il triste primato degli aborti nel mondo. Ma non è tutto: anche i bambini già nati furono vittime, in massa, dell’ideologia. Riguardo alla famiglia, infatti, all’inizio della rivoluzione comunista si sostenne che la lotta tenace al matrimonio religioso, il lavoro obbligatorio per le donne e l’intervento dello stato per sollevare i genitori dal “fardello dell’educazione dei figli”, avrebbero portato a una società armoniosa e felice. Alexandra Kollontai, in due discorsi del 1921, aveva infatti dichiarato: “Nella Società Comunista la donna non dovrà passare le sue scarse ore di riposo in cucina, perché esisteranno ristoranti pubblici e cucine centrali in cui si darà da mangiare a tutti…”; neppure sarà più necessario che le donne facciano le pulizie in casa, visto che ci penseranno persone stipendiate ad hoc dallo Stato. Inoltre il “focolare domestico” verrà sostituito dal “focolare comunitario”, il matrimonio indissolubile, “una mera frode”, dal “diritto alla felicità” per gli amanti; le case comuni prenderanno il posto degli alloggi privati, e la famiglia sarà sostituita, nell’educazione dei figli, dallo stato. Così “l’uomo nuovo, della nostra nuova società, sarà modellato dalle organizzazioni socialiste, dai giardini d’infanzia, residenze, asili per bambini e altre istituzioni di questo tipo, in cui il bambino passerà la maggior parte della giornata e in cui educatori intelligenti lo trasformeranno in un comunista cosciente”. “Non temete – continuava – per il futuro di vostro figlio. Non conoscerà il freddo e la fame. Non sarà disgraziato, non verrà abbandonato alla sua sorte come accadeva nella società capitalista. Non appena il neonato viene al mondo, lo Stato della classe lavoratrice, la Società Comunista, assicurerà al figlio e alla madre una razione per la sua sussistenza e una sollecita cura. La Patria Comunista crescerà, alimenterà ed educherà il bambino” e la famiglia non sarà più necessaria, ma al contrario “dannosa e inutile”, visto che “la donna che ha nutrito il suo bambino al seno ha assolto il suo dovere sociale”. Proprio in uno di questi discorsi, dopo aver ricordato che finalmente nel 1920 dodici milioni di cittadini, “bambini compresi”, hanno mangiato nelle mense pubbliche, e dopo aver stigmatizzato come “lavoro improduttivo” “la cura della casa e la cura dei bambini”, la Kollontai notava che “in Unione Sovietica, ahimè! il numero dei bambini abbandonati dai genitori non smette di crescere”.
Che cosa succedeva? La mentalità imposta dai bolscevichi, il matrimonio minimale, senza “formalità”, senza sacralità e quasi senza cerimonia, il cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di una o due settimane al massimo” (sfruttato da molti mariti), l’insistenza sulla morte della famiglia, il “doppio fardello” per le donne, si sommarono alla povertà determinata dalla guerra civile, dall’economia statalizzata e dalle carestie provocate, e portarono milioni di russi a smarrire il senso della genitorialità, all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad abbandonare i figli o allo stato o sulla strada. Gli storici sono concordi: fu un fenomeno di proporzioni inaudite. In breve la Russia fu strapiena di “besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di nessuno: si parla di 7 milioni di bambini nel 1922. A quelli abbandonati per i motivi suddetti infatti, bisogna aggiungere tutti i figli dei perseguitati politici: nella Russia comunista le mogli dei “traditori della patria”, ma spesso anche le mamme e le sorelle, venivano internate in appositi gulag, mentre i bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi in quelle che dovevano essere le “splendide” scuole pubbliche, sostitutive dei genitori, e che divennero invece gli immensi orfanotrofi-lager che disseminano ancora oggi l’Est postcomunista. A prendersi “cura” dell’emergenza fu incaricato il terribile Dzerzinskij, il capo della Ceka, determinando tra il resto il fatto che questi istituti sovraffollati di bambini disperati divennero talora veri e propri vivai per la polizia segreta di Stalin, capace, sovente, di ferocia senza pari. Nel 2007 in Russia vi erano ancora circa 5 milioni di bambini abbandonati.
Qualcosa di simile alla situazione di altri paesi comunisti, in cui la disgregazione familiare era stata considerata propedeutica a una maggior libertà dell’individuo e alla creazione di veri cittadini, fedeli solo allo stato e alla collettività. Nella Cina di Mao e nella Cambogia di Pol Pot, voler dormire a casa, dimostrare attaccamento per la moglie o i figli, tributare culto ai familiari defunti, costituirono motivi di sospetto. Si veniva incolpati di “mettere la famiglia al primo posto”, di porre in dubbio la capacità del partito di provvedere ai cittadini, di avere ancora “inclinazioni individualiste”, di essere troppo legati a “sentimentalismi” ed egoismi piccolo borghesi. Con esiti simili a quelli russi: una massa immensa di aborti, infanticidi e orfani nelle strade.
(Continua - 3)

Postato da: giacabi a 07:46 | link | commenti
comunismo, famiglia, aborto, agnoli


Qui si spiega perché i comunisti (nuovi e vecchi) sono i veri nemici della libertà delle signore
***


Guerra di modelli di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 4 marzo 2010
All’inizio della rivoluzione bolscevica l’introduzione del divorzio libero e senza formalità fu presentato come ciò che avrebbe permesso la “liberazione della donna”.
Provocò invece una quantità enorme di abbandoni e di divorzi che ebbero proprio le donne, e i bambini, come vittime principali. Al punto che il Partito comunista impose una drastica retromarcia, ostacolando le separazioni e lanciando una campagna di propaganda a favore dell’unità familiare. Lo si è visto la volta scorsa.
Sempre agli inizi della rivoluzione, il 18 novembre 1920, l’Urss fu il primo paese a legalizzare l’aborto e Lenin presentò tale iniziativa con la solita, utopica, dogmaticità. L’aborto legale sarebbe stato solo una misura transitoria, in quanto sarebbe scomparso con l’incentivo all’uso di anticoncezionali, con la diffusione capillare di asili, scuole, mense di stato, e con l’accesso delle masse a un livello superiore di moralità comunista. A. Kollontaj, amica del dittatore, in una conferenza tenuta nel 1921 all’Università di Sverdlov, esultando proprio per la legalizzazione dell’aborto, ebbe a dire: “Lasciamo da parte le donne borghesi che hanno generalmente altre ragioni per abortire: per evitare di dividere l’eredità, per timore delle sofferenze della maternità, per non rovinare il proprio profilo, per incapacità a rinunciare a una vita di piacere breve, per comodità e per egoismo”. In Urss, continuava, le donne abortiranno solo per motivi cogenti, e solo per pochi anni ancora, dal momento che il governo comunista, “rendendo la maternità compatibile col lavoro”, eliminerà automaticamente “la necessità dell’aborto”. Ma le cose non andarono così, neppure questa volta. Il ricorso all’aborto fu massiccio: la persecuzione della fede, la povertà, la disgregazione familiare, le idee sul libero amore, la deresponsabilizzazione dei genitori determinarono un’ecatombe e un vuoto demografico. L’aborto divenne un metodo anticoncezionale cui ricorrere con assoluta facilità. Il feto perse a tal punto la sua dignità che nacquero ricerche occisive, non solo su quelli abortiti spontaneamente, ma anche “inducendo gravidanze al solo scopo di interromperle in una certa fase per ottenere il tessuto embrionale”. Sappiamo che le sportive sarebbero state talora spinte a rimanere incinte e poi ad abortire, per beneficiare della forza fisica seguente appunto al concepimento.
Quanto ai gulag, scrive F. D. Liechtenhan, nel “laboratorio del gulag” (Lindau), quando le prigioniere “rimangono incinte, vengono obbligate ad abortire”. Il disprezzo della vita nascente si diffonde ovunque. Ne “Gli uomini di Stalin” Sebag Montefiore, racconta alcuni episodi tipici dell’epoca. Il terribile e onnipotente Berija, per esempio, vive in un turbine di violenze sessuali e di stupri consumati ai danni di attrici, sportive e di altre malcapitate convocate nella sua dacia, e minacciate di finire in un campo di concentramento se si rifiutano di sottostargli. Fatto sta che dinnanzi a un paese trasformato in mattatoio, per evitare il collasso, Stalin impone la retromarcia, già col codice del 1936, e poi con quello del 1944. Il dittatore arriva così a dichiarare, nell’aprile del 1936: “L’aborto che distrugge la vita è inammissibile nel nostro paese. La donna sovietica ha gli stessi diritti dell’uomo, ciò però non la esime dal grande e nobile dovere datole dalla natura: la donna è madre, dà la vita” (“Storia delle donne”, vol. V, Laterza). Si istituiscono così una “Medaglia della Maternità”, l’ordine “Gloria della Maternità” e il titolo d’onore “Madre eroina”. Alla faccia della vecchia retorica bolscevica contro la donna ridotta solo a madre dal cristianesimo! L’aborto verrà reintrodotto nel 1955, ma con esiti disastrosi. Tra il 1966 e il 1970 a fronte di 4 milioni di nascite l’anno, gli aborti legali nel paradiso dell’ateismo sono tra i 7 e gli 8 milioni. Un primato mondiale che verrà mantenuto dalla Russia anche dopo la caduta del regime. Sino all’ottobre 2007, quando Putin ha imposto una vigorosissima sterzata antiabortista, per salvare il paese dall’inverno demografico e ideologico.
(Continua - 2)


Postato da: giacabi a 07:41 | link | commenti
famiglia, agnoli


Perché l'idea di vera famiglia spaventa così tanto i nostalgici dei vecchi principi comunisti
***


Guerra di modelli di Francesco Agnoli
Tratto da
Il Foglio del 25 febbraio 2010
Uno dei concetti ribaditi dai padri del comunismo è che la liberazione generale che sarà garantita dalla nuova struttura economica riguarderà anche la famiglia, le donne e i bambini.
Il cristianesimo, accusano i marxistileninisti, disprezza la donna e la considera un essere inferiore destinato a procreare figli nel silenzio della casa. Ma divorzio libero, aborto, anticoncezionali, nuova visione dei rapporti prematrimoniali ecc., genereranno una società nuova, armoniosa, in cui la famiglia, finalmente "felice", non sarà più il luogo dell'oppressione dell'uomo sulla donna. Quest'ultima, lo affermava Engels, non sarà più schiava nella "camera da letto"o "nella camera dei figli, nella cucina". Sarà libera, felice, realizzata. Scomparirà del tutto anche la prostituzione, perché verranno eliminate "le condizioni che la generano e l'alimentano". Ciò avverrà, nella società comunista futura, tramite la fine, oltre che dello stato, anche di qualsiasi normativa atta a regolare il matrimonio, ridotto, come auspicava Engels, a "rapporti puramente privati, concernenti solo le persone che vi partecipano". Che siano per il "libero amore", magari anche di gruppo come nel film "Tre in uno scantinato", per il sesso come mero bisogno fisiologico, secondo la teoria del "bicchier d'acqua", o per una visione più moderata, per tutti i teorici del nuovo mondo comunista il divorzio libero farà miracoli. Fatto sta che nel 1917 il governo dell'Urss introduce nel codice il divorzio sia per mutuo consenso, sia su richiesta di anche uno solo dei due congiunti. Per celebrare l'evento Lenin afferma: "La repubblica dei soviet ha prima di tutto il compito di abolire ogni restrizione dei diritti della donna. Il procedimento giudiziario per il divorzio, questa vergogna borghese, fonte di avvilimento e di umiliazione, è stato completamente abolito dal potere sovietico. Da un anno esiste ormai una legislazione assolutamente libera sul divorzio".
Il codice del 1926 inoltre, accanto al matrimonio registrato, contempla anche il matrimonio di fatto, entrambi con lo stesso valore giuridico. Il divorzio è ancora più facilitato, può avvenire senza alcuna "formalità"ed essere unilaterale. Si assiste così alla morte della cosiddetta famiglia "borghese". Con quali conseguenze? La felicità promessa? H. Chambre, nel suo "Il marxismo nell'Unione Sovietica", ricorda che gli effetti di questa legislazione, e della cultura che vi è sottesa, sono l'instabilità della coppia coniugale, l'insicurezza dei fanciulli, l'aumento del numero dei figli per i quali la donna non percepisce pensione alimentare, l'incremento del disagio minorile… A sua volta F. Navailh, in "Storia delle donne"(Laterza), nota che tale "libertà degenera dando luogo a effetti perversi. L'instabilità maritale e il rifiuto massiccio di figli sono due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. L'aggravarsi delle condizioni delle donne (soprattutto in città) è evidente. I padri abbandonano o se ne vanno di casa, lasciando spesso una moglie priva di risorse. La procedura di divorzio mediante una semplice richiesta unilaterale incoraggia gli atteggiamenti più cinici...Gli assegni familiari sono anch'essi aleatori…". Si arriva così a una esplosione della disgregazione familiare, 44,3 per cento dei divorzi in città nel 1935, che spinge il governo a imporre una retromarcia per impedire il crollo del paese. Insomma, il "sol dell'avvenire" tarda a spuntare, così in economia come nella vita affettiva. Nel 1936, pur restando libero, il divorzio viene reso molto più difficile per le spese prescritte.
Nel 1944 si arriva a un'ulteriore virata: viene abolito il matrimonio de facto e solo quello registrato è ritenuto valido. La procedura è affidata ad un tribunale, che deve anche intraprendere un tentativo di conciliazione. Inoltre occorre pagare una cifra molto alta per presentare la domanda di divorzio e un'altra cifra notevole alla compilazione del certificato finale. Il divorzio diventa così, per molti, praticamente impossibile! I giudici sono chiamati a ostacolarlo in tutti i modi, a tentare l'impossibile per la conciliazione e a tenere conto del grado di colpevolezza dei due coniugi. In svariati casi rifiutano il permesso anche a chi abbia seguito tutte le procedure. Insomma, dal matrimonio senza alcuna formalità, puro affare di privati, si passa a una quasi totale inversione di rotta:ancora una volta l'utopia è sconfitta dalla realtà, e diventa necessario correre ai ripari.
Nascono così le crociate per limitare i divorzi. Già nel maggio del 1936 la Prava aveva spiegato che "la famiglia è la cosa più seria che esiste nella vita". "Senza una famiglia salda e felice -si legge su "Autoistruzione politica", organo del PCUS, nel 1962 -non vi può essere una felicità personale, né una retta educazione della nuova generazione.
Ecco perché il programma del nostro partito dà una grande importanza a un ulteriore rafforzamento della famiglia sovietica…". L'idea del "libero amore", in tutte le sue forme, è ormai lontana, l'ideologia è sostituita con la realpolitik: non è tanto la famiglia in sé che interessa, quanto la disgregazione dello stato che segue alla disgregazione della famiglia, che spaventa.
(Continua - 1)


Postato da: giacabi a 07:35 | link | commenti
comunismo, famiglia, agnoli

domenica, 07 giugno 2009

MATRIMONIO E VERGINITÀ
***

      Alla stupita reazione dei discepoli sulla natura originale del matrimonio, che prima abbiamo visto, Gesù oppone una frase che può apparire ancora più enigmatica: «Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quanti è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca "» .
In queste parole Gesù aggiunge una nuova categoria di eunuchi a quelle già note, vale a dire coloro che si fanno eunuchi per il regno dei cieli. Ovviamente si tratta della libera scelta di rinunciare a sposarsi che fanno coloro ai quali è stato concesso di riconoscere il valore unico del regno dei cieli. Commentando questo brano, Giovanni Paolo II ha avuto modo di esprimersi come segue: «nella chiamata alla continenza "per il Regno dei cieli ", prima gli stessi Discepoli e poi tutta la viva Tradizione scopriranno presto quell'amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa e Sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della sua Pasqua e dell’Eucaristia. In tal modo, la continenza "per il Regno dei cieli", la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è divenuta nell' esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo un atto di risposta particolare all' amore dello Sposo Divino e perciò ha acquisito il significato di un atto di amore sponsale, cioè di una donazione sponsale di sé, alfine di ricambiare in modo speciale l'amore sponsale del Redentore; una donazione di sé, intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per amore».
      Alla luce di questo si capisce cos'è la verginità: il nuovo rapporto assolutamente gratuito che Cristo ha introdotto nella storia. La verginità è vivere le cose secondo la loro verità. E come è entrata nel mondo la verginità? È entrata nel mondo come imitazione di Cristo, cioè come imitazione di vivere di un uomo che era Dio. Nessun altra ragione può sostenere una cosa così grande come la verginità nel vivere l'esistenza, se non l'immedesimazione con la modalità attraverso cui Cristo possedeva la realtà, cioè secondo la volontà del Padre.
      La persona di Gesù è un bene talmente grande e prezioso che Egli è l'unico che corrisponde pienamente alla sete di felicità dell'uomo. Proprio questa corrispondenza unica, che la Sua persona costituisce per chi Lo incontra, rende possibile un rapporto col reale assolutamente gratuito. Per questo chi abbraccia la verginità può essere libero per non sposarsi.
      Come coloro che sono chiamati alla verginità contribuiscono al regno di Dio? I chiamati alla verginità sono stati scelti perchè «gridino davanti a tutti, in ogni istante -tutta la loro vita e fatta per questo -che Cristo e l'unica cosa per cui valga la pena vivere, che Cristo è l'unica cosa per cui valga la pena che il mondo esista. [...] Questo è il valore oggettivo della vocazione: la forma della loro vita gioca nel mondo per Cristo, lotta nel mondo per Cristo. La forma stessa della loro  vita! [...] È una vita che come forma grida: "Gesù è tutto ". Gridano questo davanti a tutti, a tutti coloro che li vedono, a tutti coloro che in loro  si imbattono, a tutti coloro che li sentono, a tutti coloro che li guardano».
     La vocazione alla verginità è strettamente collegata alla vocazione al matrimonio. Rispondendo alla chiamata i vergini gridano agli sposati la verità del loro amore. Seguiamo ancora Giovanni Paolo II: «Alla luce delle parole di Cristo, come pure alla luce di tutta l'autentica tradizione cristiana, è possibile dedurre che tale rinuncia è ad un tempo una particolare forma di affermazione di quel valore, da cui la persona non sposata si astiene coerentemente, seguendo il consiglio evangelico. Ciò può sembrare un paradosso. É noto, tuttavia, che il paradosso accompagna numerosi enunciati del Vangelo, e spesso quelli più eloquenti e profondi. Accettando un tale significato della chiamata alla continenza "per Regno dei cieli ", traiamo una conclusione carretta, sostenendo che la realizzazione di questa chiamata serve anche -e in modo particolare -alla conferma del significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità. La rinuncia al matrimonio per il regno di Dio mette in evidenza al tempo stesso quel significato in tutta la sua verità interiore e in tutta la sua personale bellezza. Si può dire che questa rinuncia da parte delle singole persone, uomini- e donne, sia in un certo senso indispensabile, affinché lo stesso significato sponsale del corpo sia più facilmente riconosciuto in tutto l'ethos della vita umana e soprattutto nell' ethos della vita coniugale e familiare» .
      La verginità è  l’autentica speranza per gli sposati; è la radice della possibilità di vivere il matrimonio senza pretesa e senza inganni: «In forza di questa testimonianza, la verginità tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento».
      «Per questo la verginità è la virtù cristiana ideale di qualsiasi rapporto, anche del rapporto tra un uomo e una donna sposati. E, infatti, il culmine del loro rapporto, il momento culminante del  loro rapporto è la dove si sacrificano, non la dove esprimono il loro possesso. Perchè, per il peccato originale, di fatto, l'afferrare fa scivolare. È come se uno desidera una cosa e corre verso questa cosa e, quando è lì vicino, corre talmente che vi spacca il naso contro: scivola, incespica. È  per questo che noi diciamo che la verginità è un possesso con un distacco dentro». Il possesso vero che sperimentiamo è un possesso con un distacco dentro.

Don Carron   da : L'esperienza della famiglia.
Una bellezza da conquistare di nuovo»
Guarda il video
Scarica il pdf




Postato da: giacabi a 08:12 | link | commenti
famiglia, giussani

sabato, 14 febbraio 2009

Preghiera per la famiglia!
***

Dio, dal quale proviene ogni paternità in cielo e in terra, Padre, che sei Amore e Vita, fa che ogni famiglia umana sulla terra diventi, mediante il tuo Figlio, Gesù Cristo, "nato da Donna", e mediante lo Spirito Santo, sorgente di divina carità, un vero santuario della vita e dell'amore per le generazioni che sempre si rinnovano.

 Fa' che la tua grazia guidi i pensieri e le pene dei coniugi verso il bene delle loro famiglie e di tutte le famiglie del mondo.

Fa' che le giovani generazioni trovino nella famiglia un forte sostegno per la loro umanità e la loro crescita nella verità e nell'amore.

Fa' che l'amore, rafforzato dalla grazia del sacramento del matrimonio, si dimostri più forte di ogni debolezza e di ogni crisi, attraverso le quali, a volte, passano le nostre famiglie.

Fa' infine, te lo chiediamo per intercessione della Sacra Famiglia di Nazareth, che la Chiesa in mezzo a tutte le nazioni della terra possa compiere fruttuosamente la sua missione nella famiglia e mediante la famiglia.

Tu che sei la Vita, la Verità e l'Amore, nell'unità del Figlio e dello Spirito Santo. Amen

Joannes Paulus PPII

Postato da: giacabi a 08:52 | link | commenti
famiglia, preghiere, giovanni paoloii

sabato, 27 settembre 2008

Differenza tra: Coniuge e Compagno
***
Fernando-Botero-Una-famiglia-33510
C'è una bella differenza tra coniugo (da cum e iugum: colui o colei con cui divido il giogo), e compagno (da cum e panis: colui con il quale divido il pane): quest'ultimo è un semplice commensale, ma il pranzo lo divido con chi voglio, la sorte no. Il consenso espresso il giorno delle nozze non è dunque soltanto un momento di particolare intensità nella vicenda sentimentale tra un uomo e una donna, ma è quell'atto unico e irripetibile che li fa diventare sposi, ossia definitivi debitori di reciproco amore. E proprio l'esistenza di questo vincolo che segna la differenza tra amanti e sposi, tra il convivere e l'essere marito e moglie, tra il generare dei figli e l'essere famiglia.
(Arturo Cattaneo, con Franca & Paolo Pugni, Matrimonio d'amore. Tracce per un cammino di coppia, Edizioni Ares, Milano 1997, p. 22).

Postato da: giacabi a 22:07 | link | commenti
famiglia

domenica, 30 dicembre 2007

Julián Carrón su “EL MUNDO” alla manifestazione per la famiglia del 30 dicembre 2007, festa della “Sacra Famiglia”.
***

Indiscutibile.
L’appello a intervenire alla manifestazione di questa domenica (30 dicembre) nella Plaza de Colón di Madrid ha suscitato un moto di adesione in moltissime persone,desiderose di riunirsi per testimoniare gioiosamente davanti a tutti il bene che per loro significa la famiglia. Non dovremmo sottovalutare questa risposta. Da decenni continuiamo a ricevere messaggi che vanno nella direzione opposta: molte serie televisive, film e molta letteratura ci mettono davanti il contrario. Davanti a questo impressionante spiegamento di mezzi, parrebbe normale che la famiglia avesse smesso di interessare.
Invece c’è qualcosa che siamo costretti a riconoscere quasi con sorpresa: questo impressionante apparato ha dimostrato di non essere più potente dell’esperienza elementare che ciascuno di noi ha vissuto nella propria famiglia, l’esperienza di un bene. Un bene del quale siamo grati e che vogliamo trasmettere ai nostri figli per condividerlo con loro.
Qual è l’origine di questo bene di cui siamo così grati?
È l’esperienza cristiana.
Non è sempre stato così, come testimonia la reazione dei discepoli la prima volta che sentirono Gesù parlare del matrimonio. “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “è lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?”. E aggiunse: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. I discepoli gli dissero: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. (Mt 19,3-6.10)
Non dobbiamo sorprenderci, quindi.
La stessa cosa che a tanti oggi, e spesso a noi stessi, appare impossibile, tale appariva anche ai discepoli. Solo la grazia di Cristo ha reso possibile vivere la natura originale della relazione fra l’uomo e la donna. È importante guardare a questa origine per poter rispondere alle sfide che dobbiamo affrontare. Noi cattolici non siamo diversi dai più; molti fra noi hanno problemi nella vita familiare. Dolorosamente constatiamo come fra noi vi siano molti amici che non sono perseveranti di fronte alle numerose difficoltà esterne e interne che attraversano. E quanto a noi, non è sufficiente conoscere la vera dottrina sul matrimonio per resistere a tutte le tentazioni della vita. Ce lo ha ricordato il Papa: “Le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (Spe salvi, 25).
Dobbiamo far nostro quello che abbiamo ricevuto per poterlo vivere nella nuova situazione che siamo tenuti ad affrontare, come ci invita Goethe: “Ciò che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente”.
Per riappropriarci veramente dell’esperienza della famiglia dobbiamo imparare che “la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna – come ha detto Benedetto XVI – affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da quì. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?”. Davvero la persona amata ci rivela “il mistero eterno del nostro essere”. Nulla ci risveglia talmente, e ci rende così coscienti del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto l’esperienza di essere amato. La sua presenza è un bene così grande che ci fa rendere conto della profondità e della vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Le parole di Cesare Pavese sul piacere si possono applicare alla relazione amorosa: “Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito”. Un io e un tu limitati si suscitano reciprocamente un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal proprio amore verso un desiderio infinito.
In questa esperienza, a entrambi si svela la propria vocazione.
Per questo i poeti hanno visto nella bellezza della donna un “raggio divino”, ossia un segno che rimanda più oltre, a un’altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto al suo limite naturale. La sua bellezza grida di fronte a noi: “Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?”. Con queste parole il genio di C. S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, di cui la relazione fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cede all’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. E la relazione finisce per diventare insopportabile.
Come diceva Rilke, “questo è il paradosso nell’amore tra l’uomo e la donna: due infiniti trovano due limiti. Due infinitamente bisognosi di essere amati trovano due fragili e limitate capacità di amare. Solo nell’orizzonte di un Amore più grande non si divorano nella pretesa, né si rassegnano, ma camminano insieme verso la pienezza di cui l’altro è segno”.




La più bella esperienza, innamorarsi
In questo contesto si può comprendere l’inaudita proposta di Gesù perché l’esperienza più bella della vita, innamorarsi, non decada sino a trasformarsi in una pretesa soffocante. “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,37.39). Con queste parole Gesù rivela la portata della speranza che la sua persona costituisce per coloro che lo lasciano entrare nella propria vita. Non si tratta di una ingerenza nei rapporti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo ha potuto ricevere: se non si ama Cristo – la Bellezza fatta carne – più della persona amata, questo rapporto appassisce. È Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale i due reciprocamente si rinviano e nella quale il loro rapporto si realizza pienamente. Solo permettendogli di entrare in essa, è possibile che la relazione più bella che accade nella vita non decada e col tempo muoia. Noi sappiamo bene che tutto l’impeto col quale uno si innamora non basta a impedire che l’amore, col tempo, si corrompa.
Questa è l’audacia della sua pretesa. Appare quindi in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire una esperienza del cristianesimo per la pienezza della vita di ciascuno. Solo nell’ambito di questa relazione più grande è possibile non divorarsi, perché ciascuno trova in essa il suo compimento umano, sorprendendo in se stesso una capacità di abbracciare l’altro nella sua diversità, di una gratuità senza limiti, di un perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura, sarà difficile, se non impossibile, che la portino a compimento felicemente. Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione – della quale sono i protagonisti principali –, pensando che appartenere all’ambito della comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà. In questo modo si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro risveglia costantemente in me, cioè verso Cristo. Così si eviterà di passare, come la Samaritana, di marito in marito (cfr. Gv 4,18) senza riuscire a soddisfare la propria sete. La coscienza della sua incapacità a risolvere da sola il proprio dramma, nemmeno cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile da non poter fare a meno di gridare: “Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete” (Gv 4,15).
Senza l’esperienza di pienezza umana che Cristo rende possibile, l’ideale cristiano del matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile da realizzare. L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. E in realtà esse sono frutti tanto gratuiti di una intensità di esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la testimonianza che “a Dio nulla è impossibile”. Solo una tale esperienza può mostrare la razionalità della fede cristiana, come una realtà che corrisponde totalmente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto in questo modo costituisce la migliore proposta educativa per i figli. Attraverso la bellezza della relazione fra i genitori, essi vengono introdotti, quasi per osmosi, al significato dell’esistenza. Nella stabilità di questa relazione la loro ragione e la loro libertà vengono costantemente sollecitate a non perdere una tale bellezza. È la stessa bellezza, che risplende nella testimonianza degli sposi cristiani, che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare
.



Julián Carrón



Siamo di fronte a un fatto strano.

Postato da: giacabi a 20:17 | link | commenti (1)
famiglia, rilke, lewis, carron

domenica, 19 agosto 2007

Aborto
e libertà sessuale
 ***

L' aborto, il coito di Pierpaolo Pasolini
19/01/1975 - Il Corriere della Sera di Pierpaolo Pasolini

…..
Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano - cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.
…….L'aborto legalizzato è infatti - su questo non c'è dubbio - una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito - l'accoppiamento eterosessuale - a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della "coppia" così com'è concepita dalla maggioranza - questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi - da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.
Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti, primo: risultato di una libertà sessuale "regalata" dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l'ossessione; perché è una facilità "indotta" e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l'esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com'era nelle speranze democratiche).
……. E' questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell'aborto e quindi l'abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata…..
 

Postato da: giacabi a 21:54 | link | commenti
famiglia, pasolini, nichilismo, aborto

martedì, 29 maggio 2007

CHE BELLA COPPIA FORMANO DUE CREDENTI

Che bella coppia formano due credenti
che condividono la stessa speranza,
lo stesso ideale, lo stesso modo di vivere,
lo stesso atteggiamento di servizio!
Ambedue fratelli e servi dello stesso Signore,
senza la minima divisione nella carne e nello spirito,
insieme pregano, insieme s'inginocchiano
e insieme fanno digiuno,
s'istruiscono l'un l'altro,
si  sostengono a vicenda.
Stanno insieme nella Santa Assemblea,
insieme alla mensa del Signore,
insieme nella prova,
nella persecuzione, nella gioia.
Non c'è pericolo  che nascondano qualcosa,
che si evitino l'un l'altro,
che l'uno all'altro siano di peso.
Volentieri essi fanno visita ai malati
ed assistono i bisognosi.
Fanno elemosina senza mala voglia,
partecipano al Sacrificio senza fretta,
assolvono ogni giorno ai loro impegni, senza sosta.
Ignorano i segni di croce furtivi,
rendono grazie senza alcuna reticenza,
si benedicono senza vergogna nella voce.
Salmi ed inni essi recitano a voci alternate
e fanno a gara a chi meglio canta le lodi al suo Dio.
Vedendo e sentendo questo, Cristo gioisce
e ai due sposi manda la Sua pace.
Là dove sono i due, ivi è anche Cristo.
 (Tertulliano alla moglie, II,(8-9)
***
"Per sempre ..."
***

"Vieni a sederti accanto a me sulla panchina davanti a casa,

moglie cara.

È tuo diritto: saranno presto quasi quarant'anni che siamo insieme.

Questa sera è bel tempo ed è anche la sera della nostra vita:

tu hai ben meritato questo breve momento di riposo.

I nostri figli si sono ormai sistemati e se ne sono andati per il mondo;

e noi siamo di nuovo soli, come all'inizio.

Ricordi? Non avevamo nulla per cominciare,

bisognava fare tutto.

Ci siamo messi al lavoro ed è stata dura;

c'è voluto coraggio e perseveranza.

C'è voluto amore e l'amore non è quel che si crede quando si comincia.

Non sono soltanto quei baci che si scambiano,

quelle parole che si sussurrano all'orecchio:

non è neppure il tenersi stretti l'uno contro l'altra.

La vita è lunga, il giorno delle nozze non è che un giorno;

soltanto dopo, ricordi, è iniziata la vita.

Bisogna fare e viene disfatto;

bisogna rifare e viene disfatto ancora.

Vengono i figli: occorre nutrirli, vestirli, allevarli:

è una vicenda senza fine.

Talvolta si ammalavano, 

tu rimanevi in piedi tutta la notte,

io lavoravo dal mattino alla sera.

Giungono dei momenti in cui si dispera;

gli anni si succedono agli anni e non si va avanti.

Spesso sembra di tornare indietro.

Ricordi tutte queste cose?

Tutte queste preoccupazioni, tutti questi affanni:

soltanto tu sei sempre stata qui.

Siamo rimasti fedeli l'uno all'altra.

Ho potuto appoggiarmi a te e tu ti appoggiavi a me.

Abbiamo avuto la sorte d'essere insieme,

ci siamo messi tutte e due all'opera,

abbiamo resistito e tenuto duro.

Il vero amore non è quello che si crede.

Il vero amore non dura un giorno, ma sempre.

Vuol dire aiutarsi, comprendersi.

E, a poco a poco, si vede che tutto si accomoda.

I figli sono cresciuti, hanno preso una buona piega;

ne avevano avuto l'esempio.

Abbiamo consolidato le fondamenta della casa:

se tutte le case del paese saranno solide,

anche il paese sarà solido.

Perciò vieni accanto a me e guarda,

poiché quando il cielo è rosa come questa sera,

quando una polvere rosa s'alza da ogni parte e penetra fra gli alberi,

è giunto il tempo di raccogliere e riporre il grano.

Stringiti contro di me: non parleremo,

non abbiamo più bisogno di dirci nulla.

Abbiamo solo bisogno di stare insieme ancora una volta

e di attendere la notte nella soddisfazione del dovere compiuto". 

Charles-Ferdinand Ramuz (1878-1947)



Postato da: giacabi a 21:06 | link | commenti
chiesa, famiglia, bellezza, cristianesimo

sabato, 26 maggio 2007

DICO. NO!
Intervista a Mons. Luigi NEGRI

di Emanuele Gagliardi
Tratto da (C) Radici cristiane, n ° 23, aprile 2007,
http://www.radicicristiane.it/
C’è un attacco verso la famiglia fondata sul matrimonio, unico modello in cui si realizza il valore dell’unione fra uomo e donna.

Il tema delle unioni di fatto andava affrontato in parlamento, ma Prodi ha voluto prendere la scorciatoia per accontentare le sue ingombranti alleanze.

Stiamo andando verso uno "stato etico" pervaso da una mentalità radicale laicista: in pratica "prove tecniche di dittatura".

I Dico contribuiscono a dar vita ad un’umanità irresponsabile.


Da Pacs a Dico: cambiano gli acronimi ma la polemica resta, anzi s’infiamma, dopo il decreto di legge sulle unioni civili varato dal governo Prodi – nel frattempo battuto in Senato il 21 febbraio sulla politica estera - contro cui si sono schierati l’opposizione di Centrodestra, il Vaticano, i Teocon, ma che ha lasciato perplessi, quando non apertamente contrari, anche alcuni componenti del Centrosinistra. La Conferenza Episcopale Italiana, facendo eco al pensiero di Benedetto XVI, è entrata nel dibattito prendendo un netto atteggiamento di opposizione a questa "apertura" che rischia di minare irreversibilmente la famiglia.

Ne parliamo con mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, epigono di Don Giussani, studioso di filosofia, di storia, del Magistero di Papa Wojtyla e della Dottrina sociale della Chiesa.


Unioni civili, unioni omosessuali, procreazione assistita… c’è un attacco contro il modello classico di famiglia?

Sì. Come ho accennato più volte, c’è un attacco verso la famiglia come tale. Il modello di famiglia "cattolica", infatti, non è un optional, ma l’unico modello in cui si realizza con chiarezza il valore ideale ed etico dell’unione fra un uomo e una donna. Nella Costituzione della Repubblica i nostri padri costituzionali hanno sancito, all’articolo 29, il riconoscimento dei "diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". La famiglia "fondata sul matrimonio", quindi il modello di famiglia "cattolica", come cellula primaria della società. Soltanto l’attuale relativismo "sbracato" può vedere la famiglia cattolica, eterosessuale, come uno fra vari tipi di famiglia, se non addirittura qualcosa di abnorme.

La Chiesa, nel respingere questo attacco, sta mostrando una rigorosa unità a difesa dei fondamentali valori della persona umana.



Come giudica l’operato del governo?

Definirei "accanimento ideologico" l’atteggiamento di questo governo, un comportamento dettato dalla volontà di dare un segnale forte alla minoranza extraparlamentare che lo condiziona pesantemente.
Una recente indagine rivela che circa il 62% degli italiani vede il problema dell’educazione come un’emergenza nazionale, un buon 35% lo colloca ai primi posti nella scala delle preoccupazioni e c’è una diffusa insoddisfazione verso la scuola… il governo che fa? Si affretta a varare nientemeno che un disegno di legge per venire incontro agli interessi di una fetta di popolazione che non va oltre il 2%. Quale spirito di servizio anima un governo che non si preoccupa di sostenere la famiglia, rispettando le attese della maggioranza degli italiani, ma si piega a blandire soltanto una parte ridotta quantitativamente e deprecabile qualitativamente?

Va anche detto che il ricorso al disegno di legge governativo espropria il Parlamento della sua precipua funzione legiferante. Un Esecutivo-legislatore è fondamentalmente anticostituzionale. Il tema delle unioni di fatto doveva essere affrontato con un serio dibattito parlamentare, ma evidentemente Prodi ha voluto prendere la scorciatoia per accontentare le sue ingombranti alleanze.



Lo Stato vuole arrogarsi il diritto di decidere anche sull’inizio e sulla fine della vita umana, mentre la voce della Chiesa viene spesso bollata come "ingerenza". Cosa ne pensa?

Quanto sta accadendo si inserisce su una situazione sociale fortemente demotivata. Stiamo andando, e non solo in Italia, verso una sorta di "stato etico" pervaso da una mentalità radicale laicista. Processi di questo tipo possono essere definiti più prosaicamente "prove tecniche di dittatura". Lo stato che pretende di dettar legge sull’interruzione della gravidanza o sui limiti delle cure mediche, infatti, invade la sfera dei rapporti primari fra l’uomo e la famiglia e si autoeleva ad unico soggetto della storia.
In questi giorni in un dibattito con Ernesto Galli della Loggia intorno alla figura del Beato Papa Pio IX ricordavo la condanna espressa nel Syllabus del 1864 contro quello stato che "come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini": una vera profezia sui totalitarismi del XX secolo e sullo "stato etico" che si sta insidiosamente realizzando oggidì in varie parti del mondo con un inusitato vigore giacobino.

 Come stanno reagendo i cattolici?

I fedeli che frequentano le parrocchie, quelli con cui io vivo in diocesi, la "nostra gente", per usare la definizione di Benedetto XVI, sentono un grave disagio per la situazione attuale e percepiscono il fuoco concentrico di cui la Chiesa è bersaglio come una cosa lontana. Questo disagio dovrebbe essere "educato" affinché da "sentimento popolare" si trasformi in "mentalità attuale".

Spetta soltanto a Dio giudicare la fede di ciascuno, ma per quanto mi riguarda ritengo difficile definire ancora "cattolici" quanti non avvertono almeno il disagio verso certe iniziative che minano dalle fondamenta i valori assoluti del vivere civile. Questo vale anche per i politici, siano il Presidente del Consiglio o i ministri, che non ragionano più in modo "cattolico" poiché per loro la fede non è più "mens", non coincide più con il loro pensiero e con la loro azione pubblica.
Quanta responsabilità hanno i media nella crisi dei "valori irrinunciabili" che attanaglia la società italiana e occidentale tout court?

I mezzi di comunicazione hanno una responsabilità gravissima, per non dire totale. Mi piace sempre citare il monito, rimasto inascoltato come molti altri, lanciato da Giovanni Paolo II al paragrafo 11 dell’Enciclica Dives in misericordia del 1980: "I mezzi tecnici a disposizione della civiltà odierna celano non soltanto la possibilità di un'autodistruzione per via di un conflitto militare, ma anche la possibilità di un soggiogamento "pacifico" degli individui, degli ambiti di vita, di società intere e di nazioni, che per qualsiasi motivo possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo". Attraverso i media la società sta subendo un’espropriazione della propria umanità che lascia spazio allo spettacolo infame del nichilismo e dell’edonismo sfrenato.

Tornando ai Dico, concludo dicendo che un provvedimento del genere non fa altro che contribuire a dar vita ad un’umanità irresponsabile e, a tale proposito, vale la pena ricordare l’ammonimento di Platone secondo cui senza responsabilità non c’è umanità.

Postato da: giacabi a 22:05 | link | commenti
famiglia

lunedì, 14 maggio 2007

INTERVENTO di
EUGENIA ROCCELLA*
Al Family day
*'''Eugenia Roccella'' 1953, [giornalista e saggista italiana.
 Figlia di uno dei fondatori del Partito Radicale Franco Roccella, entra a 18 anni nel Movimento di liberazione della donna diventandone leader. Si fa portavoce in quegli anni di molte battaglie femministe.
 Negli  anni Ottanta ha lasciato i Radicali, colpevoli, a suo dire,di  un'idea di “libertà” enza limiti che non fa altro che ottenere ''un'illibertà assoluta''.
 Si è avvicinata così alle posizioni della morale cattolica  collaborando, pur non essendo cattolica, con il quotidiano Avvenire,Il Foglio]e rivista Ideazione ; in queste testate si occupa di problematiche relative alla bioetica


Cari amici, siamo qui in tanti, siete venuti da tutta Italia, con fatica, portando con voi le vostre famiglie, rinunciando a una giornata al mare, o a casa, in tranquillità. Ma avete sentito che quest’appuntamento era importante, più importante di una gita, di un sabato in famiglia.
In questi giorni ci hanno chiesto mille volte perché saremmo venuti a piazza San Giovanni, perché chiedevamo agli italiani di venire. Chiediamocelo ancora una volta: perché siamo qui? Siamo qui perché abbiamo nel cuore un’esperienza fondamentale, che ci unisce: siamo tutti nati nel grembo di una donna, generati da un atto d’amore tra un uomo e una donna. Siamo tutti figli: laici e cattolici, credenti e non credenti, islamici ed ebrei, omosessuali ed eterosessuali. E’ su questo che si fonda l’unicità della famiglia: sulla capacità di tessere un filo di continuità tra le generazioni, padri, madri, nonni, nipoti, antenati, di collegare passato e futuro dell’uomo, di dargli speranza nel domani. La famiglia vuol dire legami che danno il senso della continuità temporale; ma vuol dire anche rapporti di prossimità e vicinanza, la capacità di creare le reti di parentela, cioè gli zii, i cugini, e poi i rapporti di solidarietà tra famiglie, quelli che costruiscono il senso della comunità. Spesso accusano la famiglia di essere chiusa, egoista, ma è vero il contrario: è il cuore delle relazioni tra persone, delle amicizie e delle solidarietà. Non siamo qui a esibire le nostre famiglie, a ritenerci superiori a qualcuno o a giudicare gli altri. Le nostre famiglie sono come tutte le altre: belle, brutte, così così: famiglie in cui si litiga, in cui si soffre, magari non ci si capisce, e che qualche volta si rompono. Ma sono preziose in ogni caso, perché proteggono gli individui dall’invadenza dello stato e del mercato e creano quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini, così necessario allo sviluppo dell’identità individuale, della personalità.
Attraverso la famiglia non si trasmette solo il patrimonio, ma soprattutto cultura, fede religiosa, tradizioni, lingua, esperienza. La famiglia è una cellula economica fondamentale, centro che ridistribuisce il reddito non secondo le capacità, ma secondo i bisogni e gli affetti; ed è il nucleo primario di qualunque stato sociale, attraverso i compiti di sussidiarietà che si assume; è in grado di tutelare i deboli, i piccoli, i malati, i vecchi, e di scambiare  protezione e cura nel corso di tutta l’esistenza. Noi non diciamo che chi non si sposa non sia famiglia: lo è certamente sul piano degli affetti, e nessuno si permette di giudicare i comportamenti dei singoli. Siamo ancora legati a una vecchissimo principio: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la famiglia, così come la riconosce la nostra Costituzione, si fonda sul matrimonio, cioè su un impegno preso davanti alla collettività, un impegno forte di durata, basato sui doveri reciproci e sulle garanzie per le parti più deboli, i figli in primo luogo.
Il matrimonio è una costruzione pubblica, e per questo da sempre, in tutte le civiltà, esiste un rito di festa, in cui sono coinvolti i parenti, gli amici, la comunità. Si assumono impegni, si fanno promesse, garantite dai testimoni e sancite dalle autorità religiose oppure civili, e si dichiara solennemente al mondo che sarà per sempre. Poi certo, le cose umane declinano, falliscono, ed è giusto prevedere i modi per riparare ai danni.
 Noi siamo qui, da laici, a difendere il matrimonio civile, quello della costituzione, che si può sciogliere attraverso il divorzio. Ma agli impegni presi con il matrimonio non ci si può sottrarre con facilità: le responsabilità restano, coniugi e figli hanno diritti incancellabili, anche quando il matrimonio si rompe. Il resto, le unioni di fatto, le convivenze, l’amore in tutte le sue mille forme precarie o durature, sono storie di individui, regolate da diritti individuali, che forse hanno bisogno di qualche correzione, ma niente di più.
Tutti hanno la libertà di contrarre e sciogliere legami d’amore, di vivere le proprie emozioni senza certificarle con il matrimonio, però c’è una strana contraddizione. Chi accusa la famiglia di essere un luogo di repressione che soffoca le libertà dei singoli, è spesso la stessa persona che chiede di poterla imitare, di replicarne qualche regola o rituale. Chi  rifiuta il matrimonio e critica l’idea che l’amore possa essere riconosciuto dal cosiddetto “pezzo di carta” è spesso la stessa persona che pretende almeno un mezzo riconoscimento pubblico, una firma sul registro, insomma proprio il famoso pezzo di carta. Ma lo ripetiamo: esiste già il matrimonio civile, che noi siamo qui a difendere, esiste il divorzio e la possibilità di rifarsi una famiglia.
Diversa è la situazione degli omosessuali, che mi sembra chiedano il riconoscimento pubblico delle loro unioni non tanto per ottenere alcuni diritti individuali, che si potrebbero assicurare con altri strumenti, piuttosto come forma di legittimazione sociale. Ma se vogliamo eliminare ogni discriminazione, se vogliamo costruire una società dell’accoglienza, dobbiamo alimentare una cultura che sappia rispettare ogni persona per quello che è. Una cultura che tuteli la dignità dell’uomo in qualunque condizione, anche se non è inserito in una categoria riconoscibile, anche se non ha nessuna forza politica a difenderlo.
In questo paese la famiglia ha resistito a lungo, nonostante l’abbandono in cui è stata lasciata per decenni da parte della politica, e nonostante sia stata forte, in alcuni momenti storici, quella che è stata definita la cultura dell’antifamiglia, che individuava nell’istituzione familiare la fonte di quasi ogni male sociale. C’è stata, e c’è tuttora, una strana guerra tra il senso comune e il luogo comune: il luogo comune è fatto da quello che vediamo alle televisioni, che leggiamo sulla stampa, che ci viene proposto da una gran parte della classe dirigente e delle élite di questo paese, da tanti attori, cantanti, registi, uomini di cultura.  Il senso comune, invece, è quella resistenza del cuore che unisce tanti di noi, e ci impedisce di credere davvero, e di aderire, alla visione del mondo che viene proposta: il senso comune è l’esperienza della nostra vita e delle persone che amiamo. Questa resistenza ha sempre avuto nella Chiesa cattolica un grande punto di riferimento, lo abbiamo sentito nelle parole di Giovanni Paolo II, così semplici e chiare, e tutti noi gli dobbiamo un grazie.
Ma c’è un altro grazie che voglio dire, un grazie che nessuno dice mai: grazie a tutte le donne che sono qui, grazie all’amore, alla passione, alla generosità che le donne mettono nello sforzo di costruire e mantenere in piedi le famiglie. Grazie alle mamme, spesso sole nella loro volontà di fare figli, tanto che ormai esiste un grave divario tra il desiderio di maternità e la sua realizzazione: secondo le indagini, le donne vorrebbero in genere più bambini di quanti poi riescono a farne, perché la società glielo rende difficile, e la politica non le aiuta. Grazie per il coraggio, gli equilibrismi, i piccoli eroismi quotidiani; e grazie anche ai padri, perché noi vogliamo che la paternità resti un modello importante per gli uomini, perché vogliamo responsabilità genitoriali condivise, e non madri sole, come accade nei paesi del Nord Europa che ci vengono sempre proposti come modello di civiltà.
Vorrei chiudere con questo ringraziamento, e chiedere che il vostro applauso sia dedicato non tanto a noi che siamo sul palco, ma a voi che siete qui, e a tutti i genitori di questo paese. 

Postato da: giacabi a 15:41 | link | commenti
famiglia

domenica, 06 maggio 2007

La famiglia,
 luogo di educazione all'appartenenza
***
LUIGI GIUSSANI
::
Lezione tenuta al corso "Una cultura per la famiglia", organizzata dal Sindacato delle famiglie a Milano.
L'uomo può imparare la sua appartenenza ad un Destino ultimo solo attraverso la guida e la compagnia di altri uomini. La famiglia è il primo spazio di questa scoperta fondamentale per la dignità della persona.

1. Tutto è luogo di educazione all'appartenenza.
Ogni rapporto, ogni impatto con la realtà è avvenimento di un approfondirsi nell'essere; è un passo nel cammino di quella adesione, di quell'immedesimazione con l'essere in cui consiste la crescita della persona. Infatti la persona è rapporto con l'essere, è appartenenza al mistero, è relazione con l'infinito (come insegna e documenta l'itinerario descritto nel Senso religioso).
Al di fuori di questa appartenenza al mistero, al di fuori di questo rapporto determinato con l'essere, la persona non capisce più se stessa, cade in balìa di tutto, come la foglia fragile e caduca di cui parlava l'antico poeta. Al di fuori della appartenenza al mistero la comunità si riduce ad una sorta di agglomerato di individui isolati, come granelli di polvere dentro il polverone, in una solitudine senza fine.
Una poesia di Ciudakov, poeta clandestino russo del Samizdat, definisce come incombente pericolo per tutti, quello che egli accusa come situazione normale dell'uomo russo: «Quando gridano "un uomo in mare!" il transatlantico grande come una casa si ferma all'improvviso e l'uomo lo pescano con le funi: ma quando fuoribordo è l'anima dell'uomo, quando egli affoga dall'orrore e alla disperazione, nemmeno la sua propria casa si ferma, ma si allontana».
Come una foglia, come un granello di polvere: chi non riconosce di appartenere a Dio è - come dice il primo Salmo della Bibbia - «come pula che il vento disperde».
Oppure è definito dalla "ubris", dalla violenza, dall'affermazione di sé secondo la reazione provocata dagli impatti con la realtà.
È solo l'appartenenza che stabilisce l'unità della persona; e infatti tutto è convogliato e fluisce verso un destino per cui siamo fatti, destino che è origine carica di tensione e di desideri, alfa e omega, principio e fine. Come dice Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso: «Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per significare la mia domanda».

2. La famiglia è il luogo dell'educazione all'appartenenza.

In essa risulta evidente come la persona fluisca da un antecedente che la trama tutta.
Nella famiglia è evidente che l'elemento fondamentale di sviluppo della persona sta nell'appartenenza reciproca, coniugata, di due fattori, l'uomo e la donna.
Ed è nella famiglia che la vera appartenenza si rivela come libertà: l'appartenenza vera è libertà. La libertà, infatti, è quella capacità di aderire - fino all'immedesimazione e alla assimilazione - che è resa possibile dal legame. Il primo aspetto della libertà è affermare un legame, altrimenti uno non cresce perché non assimila più; ma un legame che passa attraverso il momento della responsabilità, momento strano, estraneo in un certo senso, perché è proprio l'imitazione dell'infinito, è il tocco del rapporto con l'infinito: la responsabilità plasma il legame secondo la coscienza del destino, e secondo la coscienza dei desideri che il destino, come origine, le suscita dentro.
La famiglia dunque è il luogo dell'educazione all'appartenenza perché in essa risulta evidente che l'origine dell'uomo è una presenza già esistente e che il suo sviluppo è assicurato dall'appartenenza a due fattori: appartenenza "coniugata", legame plasmato nella responsabilità.

3. Una condizione fondamentale.
Per educare a questo senso dell'appartenenza, che definisce la persona umana, occorre quasi un processo di osmosi o, per usare un'altra metafora, un "riflesso esemplare". Vale a dire: questa educazione all'appartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori.
Quando nei genitori è trasparente la coscienza che il proprio io è appartenenza, che l'essenza della propria persona sta nell'appartenere ad un altro (così che senza questa appartenenza cadrebbe nel nulla la propria consistenza) ecco, questa coscienza passa ai figli. Non attraverso dei discorsi: senza quella "pressione osmotica", senza riflesso esemplare, i discorsi stabiliscono nella coscienza dell'uditore, del figlio, degli ostacoli. Invece che aprirsi una strada, la parola diventa ostacolo.
Se noi usassimo la nostra autocoscienza fino in fondo, se riflettessimo fino in fondo su noi stessi, non più bambini ma adulti, quale sarebbe l'evidenza più impressionante che ci occuperebbe? Questa: che in quel dato momento, nell'istante, io non sto facendomi da me. Io non mi faccio da me. Perciò in questo momento io sono qualcosa-d'altro-che-mi-fa, sono come fiotto che sgorga da una sorgente.
Perciò dire "io" con totale consapevolezza è dire (non possiamo che usare questa che è la parola più dignitosa e più umana del vocabolario) "tu". lo, in questo istante, non ho evidenza più grande del fatto che io sono tu-che-mi-fai.
Senza abbordare questa esperienza, è come se uno non potesse comprendere che cosa è pregare.
La coscienza di sé fino in fondo sta soltanto nell'atto del pregare, cioè del riconoscimento di Colui cui apparteniamo, di Te cui appartengo: Padre Nostro. Dice la Bibbia: «tam pater, nemo», nessuno è così Padre.
Perché il padre naturale dà l'abbrivio iniziale alla creatura, mentre il Padre, che è l'Essere cui apparteniamo, ci genera ogni istante, sta generandomi ora come il primo istante. Per questo io sono totalmente fatto di Lui, gli appartengo totalmente, così che anche «i capelli del vostro capo sono numerati», come dice il Vangelo.

Ma in questa percezione, in questa trasparenza di coscienza, scaturisce l'esperienza più stimolante, più consolatrice, più affascinante della vita: l'esperienza della gratuità totale del fatto che ci .sono. Non c'è niente di più stimolante e di più affascinante: il fatto che ci sono implica la bontà originale, fondamentale e ineludibile dell'Essere, e perciò l'aspetto di dono, di ricchezza positiva, che l'Essere è per tutto ciò cui dà vita.
Ecco, è dentro questa esperienza della gratuità che quella «pressione osmotica" di cui si è parlato prima, quel "riflesso esemplare" può avvenire.
C'è una caratteristica di gratuità nel temperamento del padre e della madre necessaria perché l'educazione passi.
E' nell'esperienza della gratuità che il processo di educazione all'appartenenza può realizzarsi tra  genitori e figli
.
Un'esperienza di gratuità che ha come due flessioni.
La prima è la gratuità verso l'essere, verso Dio; la gratitudine - si badi - verso Colui che dà la vita, verso Colui di cui è fatta la vita, che diventa gratitudine per il figlio concepito. Io credo che tutti i difetti più gravi della personalità possano dipendere dalla non gratitudine con cui una donna o un padre hanno aspettato o ricevuto un figlio. Perché la gratitudine verso ciò che nasce è lo stupore della gratuità dell'essere, è la trasparenza della coscienza della propria appartenenza totale.

La seconda flessione è lo stupore, la meraviglia in cui si traduce e quasi si concreta il senso della gratuità ultima del rapporto tra l'uomo e la donna. Senza questo senso ultimo di gratuità, perciò di stupore e di meraviglia, dell'uno verso l'altro, l'educazione all'appartenenza diventa difficile, perché quella trasparenza di cui abbiamo parlato non c'è. Solo il rapporto fra i due è appesantito perché privo di gratuità, se fra uomo e la donna manca questa percezione di gratuità della presenza dell'uno all'altro, allora il "riflesso esemplare" tarda o viene meno.

Dice il Vangelo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ora, amare se stessi non è amare le proprie reazioni (come normalmente accade: questo è l'egoismo);
amare se stessi è amare il proprio destino. Perciò non si può amare la propria moglie o il proprio marito, l'altro, senza amore al suo destino (che è identico al mio).
Ma c'è un altro aspetto della gratuità: è il senso del compito comune. Dei due aspetti, amore al destino e senso dal compito comune, il più facilmente presente, il più copiosamente considerevole è questo secondo, anche se il più radicale e decisivo è il primo. Senza la gratuità data dal senso del compito umano il rapporto non tienetutto si disfa come foglie, o diventa "ubris", violenza. Il compito è infatti il confluire di tutto verso il destino comune.

4. Quale atteggiamento occorre avere verso il figlio?
Dovremo ripetere ancora: gratuità, la parola dominante, assolutamente non astratta, per la quale ci sopportiamo a vicenda e per la quale ancora un po' godiamo nella vita.
Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè l'accettazione completa che quel figlio appartenga a sé. In secondo luogo, della riconsegna del figlio all'Altro, a Ciò di cui il figlio è costituito e a cui appartiene in modo totale, sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità. Insomma è l'atteggiamento di adesione da parte dei genitori a ciò che costituisce la persona del figlio, il rapporto con l'Essere, con Dio.
Ricordo sempre una delle impressioni più grandi che provai nei primi anni di sacerdozio. Veniva una signora a confessarsi tutte le settimane, ma poi, d'improvviso, non venne più. Dopo un mese ritornò: «Sa, non sono venuta perché mi è nata la seconda figlia». E, prima ancora che io potessi dirle "congratulazioni" o "auguri", proseguì: «Sapesse che impressione ho avuto appena mi sono accorta che si staccava; non ho pensato "è un maschio" o "è una femmina", ma "ecco, incomincia ad andarsene"».
Il figlio se ne va, è uguale a dire: "il figlio cresce", tanto appartiene ad un Altro. In questo processo l'atteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso (sempre diverso da quello che uno si immaginava, e che ogni momento fa diventare diverso). Il figlio diverso è proprio il segno che appartiene a un Altro.
Se invece questo processo non si segue con gratuità, nasce il rancore: man mano che il figlio se ne va, un rancore più o meno sordo pone il genitore nella solitudine.
L'appartenenza del figlio al genitore è reclamata, recriminatoriamente, imprigionata dentro uno schema immaginato.
Il metodo per educare all'appartenenza. Il metodo, che rappresenta tutto il processo educativo, si può riassumere in una parola: esperienza. Che il figlio realizzi l'esperienza del vivere, del proprio io. E l'esperienza che salva l'appartenenza ad un altro dall'essere alienazione, ed assicura perciò l'identità, così che l'appartenenza all'altro è la propria identità.
Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza, ha un dinamismo
:
a
) La tradizione assimilata. L'appartenenza dei genitori nera sua concretezza assimilata, cioè la proposta. Il primo aspetto dell'educazione è la proposta, e questa è la propria trazione assimilata.
b) Il condurre per mano, cioè l'introduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare. Questo secondo punto è certamente il più delicato, perché deve identificare l'ambito che costituisca possibile assimilazione per il figlio.
c) L'ipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò si intende un'ipotesi di significato. È la tradizione come ragione: tradizione non solo assimilata. ma assimilata nelle sue ragioni, senso e valori.
d) Il rischio.
Che aumenta, che è destinato ad aumentare sempre. Proprio perché l'appartenenza è legame e responsabilità, lo spazio della responsabilità salva la santità e l'umanità del legame.
Assicura la vera appartenenza, per cui la proposta, il condurre per mano e l'ipotesi di lavoro come significato, tutto questo deve essere offerto e realizzato con delicatezza, o con discrezione verso la libertà che si evolve, verso la responsabilità del figlio.

Non credo che, tranne la morte, ci siano momenti così dolorosi per un genitore, nella compagnia che dà al figlio, che lasciarlo responsabile: «messo t'ho innanzi, omai per te ti ciba» (Virgilio a Dante).
e)
La compagnia stabile, cioè la fedeltà. Dio è fedele. San Paolo osserva che Dio rimane fedele anche se lo tradiamo. Quindi compagnia stabile ai figli, fedeltà ad essi, discreta, sempre pronta ad intervenire, vigilante. Compagnia fino al perdono, all'infinito.
 
Family Day - 12 Maggio

Postato da: giacabi a 07:33 | link | commenti
famiglia, giussani

venerdì, 04 maggio 2007

LA FAMIGLIA :
IL SACRARIO DELLA VITA
***
Tratto da: DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
AL CORPO DIPLOMATICOACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
Lunedì, 10 gennaio 2005
“5. La prima sfida è la sfida della vita. La vita è il primo dono che Dio ci ha fatto, è la prima ricchezza di cui l’uomo può godere. La Chiesa annunzia “il Vangelo della Vita”. E lo Stato ha come suo compito primario proprio la tutela e la promozione della vita umana.
La sfida della vita si va facendo in questi ultimi anni sempre più vasta e più cruciale. Essa si è venuta concentrando in particolare sull’inizio della vita umana, quando l’uomo è più debole e deve essere più protetto. Concezioni opposte si confrontano sui temi dell’aborto, della procreazione assistita, dell’impiego di cellule staminali embrionali umane a scopi scientifici, della clonazione. La posizione della Chiesa, suffragata dalla ragione e dalla scienza, è chiara: l’embrione umano è soggetto identico all’uomo nascituro e all’uomo nato che se ne sviluppa. Nulla pertanto è eticamente ammissibile che ne violi l’integrità e la dignità. Ed anche una ricerca scientifica che degradi l’embrione a strumento di laboratorio non è degna dell’uomo. La ricerca scientifica in campo genetico va bensì incoraggiata e promossa, ma, come ogni altra attività umana, non può mai essere esente da imperativi morali; essa può del resto svilupparsi con promettenti prospettive di successo nel campo delle cellule staminali adulte.
La sfida della vita ha luogo al contempo in quello che è propriamente il sacrario della vita: la famiglia. Essa è oggi sovente minacciata da fattori sociali e culturali che fanno pressione su di essa rendendone difficile la stabilità; ma in alcuni Paesi essa è minacciata anche da una legislazione, che ne intacca – talvolta anche direttamente – la struttura naturale, la quale è e può essere esclusivamente quella di una unione tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio. Non si lasci che la famiglia, fonte feconda della vita e presupposto primordiale ed imprescindibile della felicità individuale degli sposi, della formazione dei figli, e del benessere sociale, anzi della stessa prosperità materiale della nazione, venga minata da leggi dettate da una visione restrittiva ed innaturale dell’uomo. Prevalga un sentire giusto e alto e puro dell’amore umano, che nella famiglia trova un sua espressione veramente fondamentale ed esemplare.
 


Postato da: giacabi a 16:47 | link | commenti
famiglia, giovanni paoloii


Cesana(Cl) :
una battaglia che riparte dall’esperienza
***
Da: http://www.avvenire.it/  03-05-07

«Gli attacchi alla Chiesa? Sono il frutto di una degenerazione nichilista del pensiero» «Il primo fronte sui cui impegnarsi è l'educazione»
Di Giorgio Paolucci
La battaglia culturale sui Dico deve diventare l'occasione per un ripensamento e una mobilitazione in favore della famiglia. Anzitutto a livello educativo, per ridare consapevolezza a un soggetto che è la spina dorsale della società, ma che viene penalizzato dalla politica e dai media. Parola di Giancarlo Cesana, responsabile nazionale di Comunione e liberazione, uno dei firmatari del manifesto per il Family Day.
La proposta di legge sui Dico ha scatenato un confronto molto acceso. Come si può favorire un dibattito non ideologico e che superi gli steccati rigidi della politica?

Viviamo in una società in cui l'ideologia prevale sull'esperienza. La tendenza all'ideologizzazione si combatte attraverso la testimonianza di esperienze in cui, ad esempio, si possa constatare che la famiglia è un "di più" di umanità, e ha in sé una grande ricchezza e costruttività che invece non viene riconosciuta a livello politico, economico, fiscale. In questa che si presenta come una battaglia culturale di lungo periodo,
è fondamentale riproporre l'esperienza elementare, ciò che don Giussani definisce "evidenze originali dell'uomo": un dato di natura, oggettivo, con il quale ciascuno non può fare a meno di misurarsi. È questo il vero antidoto al prevalere dell'ideologia.
Obiezione: parlare di esperienza non è qualcosa di "troppo elementare" di fronte a quanto sta accadendo
?
Il guaio è che si è perso il significato autentico delle parole. "Esperienza" non significa semplicemente fare cose, ma è qualcosa che contiene un giudizio sulle cose fatte. Nel clima culturale in cui viviamo, è difficile che le contrapposizioni ideologiche portino a risultati costruttivi e convincenti. Ciò che convince, è l'esempio: non ha in sé la pretesa di definizione teorica e totalizzante che ha l'ideologia, ma è una scossa, provoca un contraccolpo in chi lo incontra, muove il cuore e la ragione. Per questo, alla fine, può risultare più decisivo di tante dissertazioni..
È innegabile che la famiglia viva una stagione di crisi, conseguente a una crisi a livello antropologico. Per affrontarla è necessario un lavoro lungo: le sembra che lo si stia facendo?

La famiglia in quanto cellula originaria della società è, come si è venuta affermando in Occidente, una conseguenza della diffusione della fede cristiana, che è la novità da riscoprire. Cl, in quanto movimento di educazione alla fede, cerca di favorire una simile riscoperta. E altri in Italia lo fanno, certamente. Credo che nell'educazione cattolica la comunicazione dell'ontologia, di un nuovo modo di essere e di vivere, debba precedere, sostenendolo, il richiamo morale
.
Secondo i suoi sostenitori, i Dico vanno incontro alle esigenze concrete di molte persone. Come si risponde altrimenti a queste esigenze?
Mi sembra che si sia già abbondantemente risposto che non c'è bisogno di una legislazione specifica, per ottenere certi riconoscimenti basta ricorrere al diritto privato. E d'altra parte non si può dare cittadinanza giuridica a qualsiasi aspirazione personale. Non si deve agevolare una deriva culturale che rischia di portare a una dittatura dei desideri.
La proposta sulla legalizzazione delle convivenze e le polemiche che l'accompagnano hanno risvegliato una sorta di "family pride", un orgoglio della famiglia. Paradossalmente, ci volevano i Dico per affermare il protagonismo familiare?
Non so se si possa parlare di "family pride", ma certamente la mobilitazione in atto dice che non siamo in presenza di qualcosa di epidermico. È così serio, affascinante e insieme impegnativo vivere l'esperienza della famiglia nella società di oggi, che non si può ridurre quello che sta accadendo a una fluttuazione dell'emozione. C'è qualcosa di solido sotto, c'è un giudizio che viene da lontano, che ha radici profonde.
In molti media, nel mondo dello spettacolo e tra gli opinion leader si guarda con favore alla cultura da cui nasce il ddl sui Dico. Si sta forse riproponendo lo schema creatosi durante il referendum sulla legge 40, che vide la maggioranza degli italiani rifiutare le posizioni che erano dominanti a livello mediatico?
Mi pare che la stragrande maggioranza degli italiani abbia il buon senso di apprezzare molto la famiglia. Tuttavia, il bombardamento mediatico che va in altre direzioni è forte. Basti pensare allo spazio dedicato su giornali e tv a certe esperienze di convivenza extra-familiare o legate alla cultura omosessuale, che diventano una sorta di icona mediatica, amplificando una realtà molto circoscritta ma sapientemente veicolata come una sorta di avanguardia del "mondo nuovo". Mentre è proporzionalmente più raro che la famiglia normale sia protagonista sui media. La normalità che vive nel popolo e costruisce nella società, non fa notizia.
Continuano gli attacchi contro la Chiesa, pochi giorni fa la busta con un proiettile e minacce contro monsignor Bagnasco: gesti isolati e marginali o la punta avanzata di un'ostilità diffusa?
Credo che siano un'espressione di una degenerazione nichilista del pensiero, di una mentalità diffusa purtroppo soprattutto a livello giovanile. Da questo brodo di coltura nascono anche atteggiamenti e gesti come la deresponsabilizzazione sociale, o certe solidarietà manifestate anche in questi giorni nei confronti delle Brigate rosse. Posizioni condivise, in fondo, anche dal radicalismo ipocrita di certi maitre-à-penser culturali e politici. Ipocrita perché non dice tutto, si guarda bene dall'esporsi oltre il limite del politically correct, usa le parole piuttosto che l'azione. Ma siccome occupa posizioni importanti nei media, nell'accademia e anche in politica, influenza mentalità e scelte e finisce per facilitare la strada all'estremismo
.
Cl sottolinea il valore della testimonianza pubblica della fede. Come si sta mobilitando in vista del 12 maggio?
Quello di piazza San Giovanni è un appuntamento in cui ci riconosciamo pienamente.
Abbiamo invitato le nostre comunità a partecipare e a far conoscere ed approfondire le ragioni di un gesto così importante. Da tempo sono in programma incontri pubblici in molte località, utilizzando il materiale messo a disposizione dal Coordinamento del Family Day e coinvolgendo esperti che aiutino a cogliere l'importanza della posta in gioco. La mobilitazione sta crescendo. È chiaro che una manifestazione serve a sollevare l'attenzione, più che a risolvere il problema. Il lavoro dell'educazione è il grande compito a cui siamo chiamati, e questo ci riguarda tutti e non finisce mai. È un lavoro da svolgere quotidianamente, in ogni ambiente della società civile. In questo senso, ogni giorno è un family day

Postato da: giacabi a 16:20 | link | commenti
famiglia

domenica, 15 aprile 2007

A PROPOSITO DI FAMIGLIE “ALLARGATE “
“SONO DIVENTATO MIO NONNO”
***
«Un uomo si è tolto la vita e ha lasciato questa lettera: “Mi sono sposato con una vedova. Questa aveva una figlia. Mio padre si è innamorato della mia figliastra e l’ha sposata. In tal modo, mio padre è diventato mio genero. La mia figliastra è diventata di conseguenza la mia matrigna, essendo moglie di mio padre. Mia moglie ha avuto un figlio che è il cognato di mio padre, dato che è il fratello di sua moglie, che in realtà è mia figlia. Anche mio figlio è diventato mio zio, perché è il fratello della mia matrigna. Inoltre la moglie di mio padre ha partorito un bambino che è naturalmente mio fratello (perché figlio di mio padre) e contemporaneamente mio nipote, in quanto figlio della mia figliastra. Ecco la ragione per cui mia moglie è mia nonna (in quanto madre della mia matrigna). E siccome è mia moglie, io sono diventato allo stesso tempo suo marito e suo nipote. Poiché il marito della nonna è naturalmente il nonno, sono perciò diventato mio nonno. In queste condizioni non posso più vivere, e mi uccido”».
Mark Twain

Postato da: giacabi a 08:42 | link | commenti
famiglia

venerdì, 14 luglio 2006

Oggi vi propongo spezzoni di un articolo di  Chesterton scritto nel 1935 ma molto attuale che ci fa capire chi ha imposto il "nichilismo gaio " alla nostra società e ciò che ne consegue.
Il capitalismo ha distrutto la famiglia
"….Si tratta di persone di diverso tipo, molto più ordinarie e formali, che non solo stanno lavorando per creare un paradiso di codardia, ma che vi stanno lavorando grazie ad una coalizione che si è formata tra i vigliacchi. L’atteggiamento di queste persone verso la famiglia e la tradizione delle virtù  cristiane è l’atteggiamento di uomini che vogliono ferire senza far rumore; o di scavare gallerie sotterranee e minare senza uscire allo scoperto. E coloro che fanno questo sono più della maggioranza, quasi due terzi, dei giornalisti che scrivono nei giornali capitalisti più rispettabili e tradizionali non si ripeterà mai abbastanza che ciò che distrusse la famiglia nel mondo moderno fu il capitalismo……. È il capitalismo che ha portato tensioni morali e la competizione affaristica tra i sessi: che ha sostituito all’inflluenza del genitore l’influenza del datore di lavoro: che ha fatto sì che gli uomini abbandonassero le loro case per cercare lavoro: che li ha costretti a vivere vicino alle loro fabbriche o alle loro ditte invece che vicino alle loro famiglie; e, soprattutto, che ha incoraggiato, per ragioni commerciali, una valanga  di pubblicità e di mode appariscenti che, per loro natura, uccidono tutto ciò che erano la dignità e il pudore dei nostri padri e delle nostre madri. Non il comunista ma il dirigente, il pubblicitario, il venditore e il promotore commerciale hanno, come un assalto e un tumulto di barbari, rovesciato e calpestato l’antica statua romana della verecondia. Ma in quanto queste cose vengono portate avanti da persone di  tal fatta, naturalmente vengono compiute in maniera soffocante e confusionaria: attraverso tutti i loro stratagemmi irresponsabili, che vanno dai loro corrotti suggerimenti alla loro sporca psicologia. Per esempio, vengono di continuo prese in giro quelle che furono le virtù o le restrizioni vittoriane, che in quanto non più esistenti, difficilmente potrebbero avere rivalsa. Vengono utilizzate di più le immagini che non le parole: il motivo è che le parole stampate potrebbero avere un significato e la persona che le ha scritte potrebbe risponderne personalmente. Vengono passate in rassegna ritratti ripugnanti e imbecilli di donne con gonne a campana e cappellini, come se quella fosse l’unica cosa importante da notare……..
Per il resto, la ragazza moderna naviga in un mare di sentimentalismo sdolcinato: un’effusione continua sulla sua franchezza e freschezza, la naturalezza ideale del suo trucco, il coraggio senza precedenti del suo non volerne sapere di avere bambini. Il tutto è diluito da una cupa ipocrisia sulla fratellanza, molto più sentimentale del buon sentimento. Quando vedo la famiglia sprofondare in queste melme dell’erotismo futile e amorfo, mi viene quasi da dire: “preferisco i comunisti”.
Meglio le battaglie dei comunisti e il “mirabile mondo nuovo”  che il marciume che silenziosamente erode l’antica casa dell’uomo tramite i vermi della sensualità subdola e dell’avidità individuale:<<il codardo usa il bacio, il coraggioso la spada>>OscarWilde."

Nessun commento: