CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


sabato 11 febbraio 2012

fede2


La fede
***
La fede consiste nel non rinnegare nelle tenebre quel che si è intravisto nella luce.”
G. Thibon



Postato da: giacabi a 11:27 | link | commenti
fede, thibon

sabato, 16 agosto 2008

La fede
***
«La fede è un tipo di percezione, un senso come la vista, l’udito o il tatto ed è tanto reale e concreta quanto i sensi»
 Marshall McLuhan


Postato da: giacabi a 09:37 | link | commenti
fede

martedì, 05 agosto 2008

La fede
***
« Il fondamento e il sostegno della vita di un uomo »
 Aleksandr Solzenitsyn

 


Postato da: giacabi a 15:11 | link | commenti
fede, solzenicyn

sabato, 24 maggio 2008

 La fede è una grazia da mendicare
***

 Indro Montanelli, Corriere della Sera, 28 febbraio1996

 Io ho sempre sentito la mancanza di fede e la sento come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza avere saputo di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento….Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. La nostra vita, il Mondo, il Creato, l'Esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove la mente e la ragione finiscono, e finiscono purtroppo presto, che per me comincia il grande Mistero di DioSo che morrò senza avere trovato risposta alle tre più importanti domande della nostra vita :di dove vengo, dove vado e che cosa sono venuto a fare: il che mi da quando ci penso, e ci penso sempre più spesso, un senso di disperazione. Ma non posso giocare a rimpiattino con me stesso, tanto meno con Dio, fingendo una fede che non ho."

Postato da: giacabi a 21:44 | link | commenti
fede, montanelli, senso religioso

lunedì, 19 maggio 2008

L'entusiasmo della fede
 ***
   Dobbiamo pregare lo Spirito perché ci faccia ritrovare l'entusiasmo della fede. Siamo troppo aridi e freddi nella nostra fede, troppo intellettuali. La missione fa ritrovare l'entusiasmo della fede e la gioia di vivere. Il Vangelo è comunicazione di una "Buona Notizia". (vedi mio testo già al computer)

   Lo Spirito dà la vera vita che è gioia ed entusiasmo, bellezza. Lo Spirito Santo rende la persona bella. Uno può anche avere un volto brutto a vedersi nella sua umanità, squadrato male, ma se è illuminato dalla luce dello Spirito, quel volto diventa bello, significativo, profondamente umano, cordiale, pieno di gioia. Mi viene in mente frate Lino da Parma, il santo Francescano che all'inizio del secolo (morto nel 1924) nella Parma rossa e anticlericale era l'uomo amato da tutti, ricercato, benvoluto anche dai più lontani, Che solo a vedere un prete o una suora toccavano ferro. Eppure padre Lino, che era piccolo e  storto, brutto a vedersi, tutti dicevano bene e lo ricordano come un bell'uomo, pieno di umanità. Giorgio dice: era davvero brutto, ma aveva una luce dentro che lo rendeva bello!

    Lo Spirito Santo comunica la vita di Dio in modo personale e la vita di Dio è bellezza, simpatia. Pensate a Madre Teresa, che se c'era una donna piccola, storta, gobba, brutta era proprio lei. Eppure, che fascino aveva! Madre Teresa è un segno di speranza per milioni di poveri. Ha risolto misteriosamenmte mille problemi che la Chiesa si affanna a voler risolvere:
   - non ha mai parlato o fatto il dialogo con i non cristiani, eppure al suo funerale ci sono state dichiarazioni di indù, musulmani, buddhisti che commuovono;
   - non ha mai parlato di teologia missionaria
.... (vedi testo di Cagnasso in M.M. febbraio 1998).
   - Era una straniera ma nell'India nazionalista ha avuto il Premio Nehru dato solo agli indiani benemeriti della patria...
   - In Cambogia, ancora sotto un governo comunista nel 1989, ottiene per la prima volta l'ingresso di un missionario del Pime per assistere spiritualmente le sue suore.
    (vedi testo di p. Franco Cagnasso, in Mondo e Missione, febbraio 1998)
    Una volta hanno chiesto a Madre Teresa qual'è la fame più grande dell'uomo d'oggi. Ha risposto: "La fame di Dio. Nella società del benessere gli uomini evoluti hanno allontanato Dio dalla loro vita, l'hanno perso di vista o l'hanno rifiutato. Sono affamati di Infinito e non lo sanno, cercano le cose materiali e hanno fame della vita che solo Gesù può dare". 
P.Piero  Gheddo Rai Due 1998

Postato da: giacabi a 21:09 | link | commenti
fede, bellezza

sabato, 29 marzo 2008

Domenica 30 marzo

della divina misericordia
**
"Desidero che la prima domenica dopo Pasqua sia la Festa della Mia Misericordia. Figlia Mia, parla a tutto il mondo della Mia incommensurabile Misericordia! L'Anima che in quel giorno si sarà confessata e comunicata, otterrà piena remissione di colpe e castighi. Desidero che questa Festa si celebri solennemente in tutta la Chiesa."

Promessa di Gesù a Santa Faustina Kowalska , l'apostola della Divina Misericordia,



Il disegno essenziale di questo quadro è stato mostrato a suor Faustina nella visione del 22 febbraio 1931 nella cella del convento di PÅ‚ock. "La sera, stando nella mia cella - scrive suor Faustina - vidi il Signore Gesù vestito di una veste bianca: una mano alzata per benedire mentre l'altra toccava sul petto la veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso l'uno e l'altro pallido (...) Dopo un istante, Gesù mi disse, Dipingi un'immagine secondo il modello che vedi, con sotto scritto: Gesù confido in Te" (Q. I, p. 26). Tre anni dopo a Vilnius Gesù ha spiegato il significato dei raggi: "I due raggi rappresentano il Sangue e l'Acqua" (Q. I, p. 132). Non si tratta qui di un qualche effetto artistico, ma di una simbologia del quadro estremamente profonda.
Agli elementi essenziali del quadro appartengono le parole poste in basso: "Gesù, confido in Te". Gesù parlava di ciò già durante la prima apparizione a P*ock e poi a Vilnius: "Gesù mi ricordò (...) che queste tre parole dovevano essere messe in evidenza" (Q. I, p. 138). Non si tratta qui del numero delle parole, ma del loro senso integralmente legato al disegno e al contenuto del quadro.Gesù ha definito un altro particolare di questo quadro, ha detto infatti: "Il Mio sguardo da questa immagine è tale e quale al Mio sguardo dalla croce" (Q. I, p. 140). La questione dello sguardo non è dunque senza importanza, se lo stesso Gesù mette l'accento su di essa, dando un significato a questo particolare. E qui incontriamo una doppia interpretazione di questo desiderio di Gesù: alcuni - e tra loro don Sopocko - leggono queste parole in modo realistico e dicono che lo sguardo deve essere diretto in basso come dall'alto della croce; altri credono, che si tratti dello sguardo che esprime la misericordia (tra loro padre J. Andrasz, il secondo direttore spirituale di suor Faustina). A seconda di questa interpretazione sono sorte - si può dire - due "scuole" di rappresentazione dell'immagine del Gesù Misericordioso: una ha il suo modello nel dipinto di E. Kazimirowski, mentre la seconda nel dipinto di A. Hyla, del santuario della Divina Misericordia a Cracovia


Postato da: giacabi a 13:05 | link | commenti
fede

venerdì, 28 marzo 2008



 La fede metodo di conoscenza
***

Se l'uomo fosse obbligato a dimostrare a  se stesso tutte le verità di cui si serve quotidianamente, non la finirebbe più si esaurirebbe in dimostrazioni preliminari senza mai avanzare siccome però non ha né il tempo, data la breve durata della vita, né la capacità, dati i limiti della sua intelligenza, di agire così, finisce per forza coll’assumere per certi una quantità d’opinioni, che non ha avuto né il tempo né la possibilità d’esaminare e di verificare da solo. Ma che sono stati trovati da altri più abili o adottati dalla massa. Solo su questa prima base l’uomo può innalzare personalmente l’edificio dei propri pensieri: un modo di procedere che non dipende dalla sua volontà, ma a cui si trova costretto dalla legge inflessibile della sua condizione. Non c'è al mondo filosofo tanto eccelso che non creda a una miriade di cose sulla fede di altri, e che non supponga più verità di quante non ne stabilisca. Ciò  non soltanto è necessario, ma anche auspicabile. Un uomo. che si mettesse a vagliare tutto personalmente, non potrebbe accordare che poco tempo e poca attenzione ad ogni cosa; questo lavoro terrebbe il suo spirito in uno stato di perenne agitazione. che gli impedirebbe  di penetrare profondamente in una verità e di radicarsi solidamente in una certezza. La sua intelligenza sarebbe contemporaneamente indipendente e imbelle.. È quindi necessario che. tra i diversi oggetti delle credenze umane l’uomo operi una scelta e adotti molte opinioni senza discuterle, allo scopo di approfondire meglio quel piccolo numero di cui sì è riservato l’esame. È vero che ogni uomo che accetta un'opinione fidando della parola di altri rende schiavo il suo spirito; ma è questa una soggezione salutare, che consente di fare un buon uso della libertà. Qualsiasi  cosa succeda. non si può quindi fare a meno, nel mondo intellettuale e morale. di incontrare sempre l'autorità. Il suo posto è variabile. ma un posto l’ha per forza. L'indipendenza individuale può essere più o meno grande, ma non può essere illimitata. La questione non è quindi di sapere se c’è o no autorità intellettuale nei secoli democratici, ma soltanto di sapere dove è concentrata e in quale misura.

Alexis de Tocqueville La democrazia in America
§   

Postato da: giacabi a 18:19 | link | commenti
fede, tocqueville


La fede metodo di conoscenza
***

Una intuizione del mondo non è mai dimostrabile scientificamente; ma è altrettanto certo che essa resiste incrollabile ad ogni tempesta purché rimanga in accordo con sé stessa e coi dati dell'esperienza. Non ci si venga a dire che anche nella più esatta di tutte le scienze si possa procedere senza una intuizione del mondo, ossia senza ipotesi indimostrabili. Anche in fisica non si è beati senza la fede, per lo meno senza la fede in una realtà fuori di noi. È questa
fede sicura quella che indica la via all'impulso creatore che ci sospinge, quella che offre gli appigli necessari alla fantasia che va tastando il terreno, quella che sola può ravvisare lo spirito stanco per gli insuccessi e spronarlo a nuovi balzi in avanti. Uno scienziato che nei suoi lavori non si lasci guidare da un'ipotesi, prudente e provvisoria quanto si vuole, rinuncia a priori all'intima comprensione dei suoi stessi risultati. Chi rigetta la fede nella realtà degli atomi e degli elettroni, o nella natura elettromagnetica della luce, o nell'identità fra calore dei corpi e movimento, riuscirà certamente a non farsi mai cogliere in contraddizioni logiche od empiriche. Ma resta a vedersi come riuscirà, partendo dal suo punto di vista, a far progredire la conoscenza scientifica.
D'accordo: la fede non ci riesce da sola e, come la storia di ogni scienza insegna, può anche condurre in errore e degenerare in ristrettezza mentale ed in fanatismo. Perché la fede sia sempre una guida fidata bisogna continuamente controllarla in base alle leggi del pensiero ed all'esperienza, e a tale scopo nulla vale come il lavoro coscienzioso, faticoso e pieno di abnegazione del singolo ricercatore. Anche un re della scienza, se il caso si presenta, devesapere e voler fare il facchino, in laboratorio o in archivio, all'aria libera o a tavolino. È proprio in queste dure lotte che l'intuizione del mondo matura e si affina. Solo chi ha provato di personache cosa sia questo processo, saprà apprezzarne appieno il significato. La fede è la forza che dà  efficacia al materiale scientifico radunato, ma si può andare ancora un passo avanti, ed affermare che anche nel raccogliere il materiale la preveggente e presenziante fede in nessi più profondi può rendere buoni servigi. Essa indica la via ed acuisce i sensi.
Max Plank  "La conoscenza del mondo fisico" ed. Boringhieri



Postato da: giacabi a 14:07 | link | commenti
fede, plank, scienza - articoli

domenica, 02 marzo 2008

La fede è ragionevole
***
Le ragioni ideologiche, antireligiose e pseudoscientifiche, non hanno osservato che il trascendente è semplicemente ciò che è oltre il mio pensiero, oltre la conoscenza, oltre i raggiungimenti intellettuali - non ci sarebbe nemmeno progresso nelle scienze senza porci davanti all'ignoto.
[...]
La ragione che ammette nel suo ambito l'irrazionale è più equilibrata e più strettamente "ragione" di quella che cerca di trarre dalla propria esperienza mentale ideologie e teorie del reale.

Franco Loi



Postato da: giacabi a 15:54 | link | commenti
fede, ragione, loi


 La fede è ragionevole

***

"I doni della grazia si aggiungono alla natura in modo da non toglierla di mezzo, ma da perfezionarla: perciò anche il lume della fede che ci fu infuso per grazia non distrugge il lume della conoscenza naturale che in noi è naturalmente presente. Sebbene il lume naturale della mente umana sia insufficiente alla manifestazione di quelle cose che attraverso la fede si manifestano, è tuttavia impossibile che le cose che ci sono attraverso la fede tramandate divinamente siano contrarie a quelle che ci sono date per natura. In questo caso occorrerebbe che o le une o le altre fossero false; e poiché sia le une sia le altre ci vengono da Dio, Dio sarebbe per noi autore della falsità: il che è impossibile.”

 San Tommaso d'Aquino (Commento al de Tinitate 

Postato da: giacabi a 14:21 | link | commenti
fede, ragione, stommaso

giovedì, 21 febbraio 2008

La capacità di fidarsi
***
La dimostrazione per una certezza morale è un complesso di indizi il cui unico senso adeguato, il cui unico motivo adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza.
Si chiama non solo certezza morale, ma anche
certezza esistenziale, perché è legata al momento in cui tu leggi il fenomeno, cioè intuisci l'insieme dei segni. Per esempio. Io sono tranquillo che chi ho davanti in questo momento non mi vuole ammazzare; e neppure dopo questa mia dichiarazione questa persona mi vuole ammazzare, neanche per il gusto di dimostrare che ho sbagliato. È un comportamento, è una situazione leggendo nella quale pervengo a questa certezza. Ma non potrei affermare tale certezza per un tempo futuro, cambiati i connotati delle circostanze!

Due rilievi importanti:
Il primo: Io sarò tanto più abilitato ad aver certezza su di te, quanto più sto attento alla tua vita, cioè condivido la tua vita. In questa misura i segni si moltiplicano. Per esempio, nel Vangelo chi ha potuto capire che di quell'uomo bisognava aver fiducia? Non la folla che andava a farsi guarire, ma chi gli andò dietro e condivise la sua vita. Convivenza e condivisione!
Il secondo: inversamente, quanto più uno è potentemente uomo, tanto più è capace da pochi indizi di raggiungere certezze sull'altro. Questo è il genio dell'umano, è il genio capace di leggere la verità del comportamento, del modo di vivere dell'uomo. Quanto più uno è potente come umanità tanto più ha la capacità di percepire con certezza. "Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio", dice il proverbio, ed è una saggezza abbastanza superficiale, perché la capacità di fidarsi è propria dell'uomo forte e sicuro. L'uomo insicuro non si fida neanche di sua madre. Quanto più uno è veramente uomo tanto più è capace di fidarsi, perché intuisce i motivi adeguati per credere in un altro.

A chi ha il "bernoccolo" per una certa materia scolastica, basta un cenno per intuire la soluzione del problema, mentre tutti gli altri devono faticare ogni passaggio. Avere il "bernoccolo" di una cosa è come avere con essa una affinità. Il "bernoccolo" dell'umano vuol dire avere molta umanità in sé; e allora sì che scopro fino a che punto posso fidarmi della tua umanità.
È come se l'uomo facesse un paragone veloce con se stesso, con la propria "esperienza elementare", con il proprio "cuore" e dicesse: fino a qui corrisponde, e perciò è vero, e mi posso fidare
.
don Giussani da:Il senso religioso - Rizzoli                                         a  P.

Postato da: giacabi a 18:25 | link | commenti
fede, giussani

lunedì, 11 febbraio 2008

Fede e razionalità
***

La fede compie, salva la ragione. La compie, perché la ragione aspira a qualcosa che non riesce ad afferrare, a spiegarsi. La fede salva la razionalità, che ne è come la grande premessa. La razionalità è una premessa alla fede, è come il campo immediato in cui entra in tensione l'avvenimento di Cristo. La razionalità, infatti, noi l'abbiamo sempre definita come quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé; ma prende coscienza di sé secondo la totalità dei suoi fattori. Ora, fattore della realtà è anche quel "punto" che noi chiamiamo "di fuga", quel "punto di fuga", quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l'insopprimibile esigenza di qualcosa d'altro oltre i fattori razionalmente enucleabili e dimostrabili. La ratio, la ragione, non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana. «Sotto l'azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / "più in là!"», diceva Montale in una poesia che i nostri ragazzi hanno spesso studiato. Il grande poeta norvegese Pär Lagerkvist, in una poesia della maturità, sinteticamente esprime una percezione del mondo che contiene un estraneo grido; c'è un grido dentro le cose, e non c'è nessuno che oda questo grido: «...Non c'è nessuno che ode la voce / risonante nelle tenebre; ma perché la voce esiste?». È incomprensibile, inspiegabile; ma "perché la voce esiste?". Nessuno riesce a udirla e a decifrarla. Perché esiste? È al di là delle nostre capacità. Ognuno di noi, in ogni sua esperienza cosciente, auto-cosciente, ne percepisce la presenza, come "punto di fuga" di ogni perimetro di propria esperienza. Perciò la fede, asseverando la presenza di questo Mistero attivo tra gli elementi decifrabili dalla ragione, completa la razionalità dello sguardo, intesa come singola esperienza o concezione del tutto».
Don Giussani  da: Avvenire 29 ottobre 2004


Postato da: giacabi a 19:49 | link | commenti
fede, ragione, giussani

giovedì, 17 gennaio 2008

Il Papa, la ragione etica e la Verità
Postato il Giovedì, 17 gennaio @ 10:04:38 CET di Peppone
::.Il
................................................................................................................................................................
Il messaggio cristiano dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.
«Se la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola».
Leggi il testo intergale dell’Allocuzione del Santo Padre per l’incontro con l’Università degli studi di Roma "La Sapienza"
Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".
Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo,
la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.
Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità
. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.
Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls,
pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee
.
Ritorniamo alla domanda di partenza.
Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica
.
Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "
Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università
.
È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità.
Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico
.
Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda:
Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.
Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.
Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i
Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito.
Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.
Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.


Dal Vaticano, 17 gennaio 2008

BENEDICTUS XVI

Sala Stampa vaticana 16.01.2008


Postato da: giacabi a 15:36 | link | commenti
fede, ragione, benedettoxvi

sabato, 12 gennaio 2008

Affidarsi a Dio
***
Solo i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità; i forti e i costanti non sogliono chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, ma come e dove abbiano a combattere.
Non hanno bisogno se non di sapere per quale via e per quale scopo, e sperano dopo, e si adoperano, e combattono, e soffrono così, fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti.

Cesare Balbo – Le speranze d’Italia


Postato da: giacabi a 14:18 | link | commenti (2)
fede

giovedì, 20 dicembre 2007

Affidarsi

 ***


Egli pensa ai suoi bambini che ha messo particolarmente sotto la protezione della Santa Vergine.
Un giorno che erano malati.
E che aveva avuto una grande paura.
E pensa ancora fremendo a quel giorno.
Che aveva avuto così paura.
Per loro e per sé.
Perché erano malati.
Ne aveva tremato nella sua carne.
All’idea soltanto che fossero malati.
Aveva ben capito che non poteva vivere così.
Con dei bambini malati.
E sua moglie che aveva una tale paura.
Così spaventosamente.
Che aveva lo sguardo fisso al di dentro e la fronte sbarrata
e non diceva più una parola.
Come una bestia che ha male.
Che tace.
Perché aveva il cuore serrato.
La gola strozzata come una donna che viene strozzata.
Il cuore in una morsa.
La gola nelle dita; nelle mascelle della morsa.
Sua moglie che serrava i denti, che serrava le labbra.
E che parlava raramente e con un’altra voce.
Con una voce che non era la sua.
Tanto aveva spaventosamente paura.
E non voleva dirlo.
Ma lui, per Dio, era un uomo. Non aveva paura di parlare.
Aveva perfettamente capito che le cose non potevano andare così.
Non poteva durare.
Così.
Non poteva vivere con dei bambini malati.
Allora aveva fatto un colpo (un colpo d’audacia), ne rideva
ancora quando ci pensava.
Si ammirava anche un po’. Ed era anche un po’ il caso. E ne fremeva ancora
Bisogna dire che era stato piuttosto ardito e che era un colpo
ardito.
Eppure tutti i cristiani possono fare altrettanto.
Ci si domanda perfino perché non lo facciano.
Come si prendono tre bambini da terra e come li si mettono
tutti e tre.
Insieme. Contemporaneamente.
Per divertirsi. Per una specie di gioco.
Nelle braccia della loro madre e della loro nutrice che ride.
E dà in esclamazioni.
Perché gli se ne mettono troppi.
E non avrà la forza di portarli.
Lui, ardito come un uomo.
Aveva preso, con la preghiera aveva preso.
(Bisogna che Francia, bisogna che cristianità continui.)
I suoi tre bambini nella malattia, nella miseria in cui giacevano.
E tranquillamente te li aveva messi.
Con la preghiera te li aveva messi.
Molto tranquillamente nelle braccia di colei che è carica di
tutti i dolori del mondo.
E che ha già le braccia così cariche.
Perché il Figlio ha preso tutti i peccati.
Ma la Madre ha preso tutti i dolori.
Lui aveva detto, con la preghiera aveva detto: Non ne posso più.
Non ci capisco più nulla. Ne ho fin sopra la testa.
Non voglio saperne più nulla.
La cosa non mi riguarda.
(Bisogna che Francia, bisogna che cristianità continui.)
Prendili. Te li do. Fanne quel che vorrai.
Io ne ho abbastanza.
Colei che è stata la madre di Gesù Cristo può ben essere anche la madre di questi due maschietti e di questa bambina.
Che sono i fratelli di Gesù Cristo.
E per i quali Gesù Cristo è venuto al mondo.
Cosa ti può fare questo. Ne hai tanti altri.
Cosa ti può fare, uno di più uno di meno.
Hai avuto il piccolo Gesù. Ne hai avuti tanti altri.
(Voleva dire nei secoli dei secoli, tutti i bambini degli uomini,
tutti i fratelli di Gesù, i fratellini, e ne avrà talmente tanti
nei secoli dei secoli.)...
 
...E’ perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto.
E’ così semplice.
Non si pensa mai a ciò che è semplice.
Si cerca, si cerca, ci si dà da fare, non si pensa mai alla cosa
più semplice.
Insomma si è sciocchi, tanto vale dirlo subito....
...E’ il contrario di un uomo che ha ingaggiato i suoi figli in
una fattoria.
Resta il proprietario dei suoi figli.
Ed è il fattore che ne diventa l’affittuario. Il fattore.
Lui al contrario non vuole più essere che l’affittuario dei suoi
figli.
Non ne ha più che l’usufrutto.
Ed è il buon Dio che ne ha la nuda (e la piena) proprietà.
Ma è un buon proprietario, il buon Dio.
Ammira come quest’uomo è saggio.
Quest’uomo che non vuole più essere che il fattore dei suoi
figli.
Quest’uomo che se ne va, che se ne ritorna a mani vuote.
Perché Dio non è geloso, né la santa Vergine.
Gli lasceranno tranquillamente tutto il godimento dei suoi figli.


Postato da: giacabi a 19:55 | link | commenti
fede, peguy

domenica, 25 novembre 2007

La fedeltà a Cristo
***
“Fra tanti titoli attribuiti alla Vergine durante i secoli dall’amore filiale dei cristiani, ve ne è uno di significato molto profondo: Vergine fedele, la “Virgo fidelis”! Che significato ha questa fedeltà di Maria? Quali sono le dimensioni di questa fedeltà? 
La prima dimensione si chiama ricerca. Maria fu fedele anzitutto quando, con amore, si mise a cercare il senso profondo del disegno di Dio in lei e per il mondo. “Quomodo fiet?” (Come avverrà questo?), chiedeva Maria all’Angelo dell’Annunciazione. Già nell’Antico Testamento il senso di questa ricerca si traduce in una espressione di rara bellezza e di straordinario contenuto spirituale: “cercare il volto del Signore”. Non ci sarà fedeltà se non ci sarà nella radice questa ardente, paziente e generosa ricerca; se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio offre risposta, dico meglio, per la quale solo Dio è la risposta.
GIOVANNI PAOLO II Città del Messico, 26 gennaio 1979

 

Postato da: giacabi a 12:20 | link | commenti
fede, giovanni paoloii

mercoledì, 21 novembre 2007

Senza il rischio la Fede è impossibile
***
2778. Socrate non cercava di accumulare prove sull'immortalità dell'anima, per vivere credendo in virtù delle prove. Al contrario diceva: l'affermazione dell'immortalità mi occupa a tal punto che arrischio assolutamente la mia vita per essa, come la cosa più certa. Viveva così — e la sua vita era una prova dell'immortalità dell'anima. Egli non credeva alle prove, per vivere: no, la sua vita ne era la prova e soltanto con la sua morte di martire la portò a termine. Ecco, in che consiste lo spirito: è davvero imbarazzante per gli scimmiottatori, per tutti quelli che vivono di seconda o di decima mano, per i cacciatori di risultati, per le nature vigliacche e sensuali.
L'osservazione, usata con cautela, può esser applicata quanto al diventare cristiani.
Prima viene giustamente quel dubbio di Lessing che “non si può fondare una salvezza eterna su di un fatto storico”.
Dunque qui esiste un fatto storico, il racconto della vita di Gesù Cristo.
Ma è anche storicamente certo? A ciò bisogna rispondere che, anche se fosse la cosa più certa di tutta la storia, questo non conta; non si può direttamente fare un passaggio da un fatto storico, per fondare su di esso una salvezza eterna. Ciò è qualcosa di qualitativamente nuovo.
E allora, come? Ecco, come Socrate, un uomo dice a se stesso: qui esiste un fatto storico che m'insegna che per la mia salvezza eterna io debbo rivolgermi a Cristo. Ora mi guarderò bene dal prendere una via sbagliata e dall'ingolfarmi nei cavilli delle ricerche scientifiche, per sapere se si tratta di un fatto storicamente certissimo, purché la cosa storicamente sia sufficientemente certa. Cioè, anche se la cosa fosse 10 volte più certa fino al minimo particolare, non mi sarebbe tuttavia di aiuto alcuno, perché direttamente ciò non mi sarebbe di aiuto.
Dico allora a me stesso: “Io scelgo”. Questo fatto storico impegna tutta la mia vita a questo “se”. — Ora egli vive; vive con l'animo ripieno soltanto di questo pensiero, rischiando tutta la sua vita per esso, e la sua vita è la prova ch'egli ci credeva. Egli non ebbe prima qualche prova e poi credette, e poi cominciò a vivere. No, tutt'al contrario.
Questo si chiama rischiare, e senza il rischio la Fede è impossibile. Rapportarsi allo spirito è essere sotto esame. [marg. 406] Questo è contenuto anche nelle parole di Cristo: “Se qualcuno vuol seguire la mia dottrina, vivere secondo essa, agire secondo essa, egli sperimenterà ecc.” [Mt 7,24; Gv 8,31]. Cioè, qui non si danno prima le prove —ed Egli poi neppure si accontenta che l'accettazione della sua dottrina significhi: io dò assicurazione.
Credere, voler credere, significa fare della propria vita un continuo esame; l'esame quotidiano è la tensione della Fede. Però lo si può ben predicare fino alla fine del mondo a tutti i vigliacchi, agli effeminati e ai sensuali: essi non capiscono, in realtà non lo vogliono capire. In fondo sembra a costoro che non è male che arrischi un altro, per poi accordarsi a lui... —prodigandosi solo in assicurazioni. Ma esser essi ad arrischiare — questo mai!
Quanto al diventar cristiani, si deve però ricordare una differenza che c'è qui rispetto alla dialettica di Socrate. Infatti rispetto all'immortalità, l'uomo si rapporta a se stesso e all'idea; non più in là. Ma dal momento che un uomo crede ad un “se” e sceglie di credere in Cristo, cioè sceglie d'impegnare la sua vita per questo, subito può rivolgersi nella preghiera direttamente a Cristo. Così la realtà storica è l'occasione, e nello stesso tempo l'oggetto della Fede.
Ma tutte le nature carnali invertono la situazione. Impegnare tutto ad un “se”, dicono, è una specie di scetticismo, di fantasticheria, di mancanza di positività. La ragione invece è che non vogliono “rischiare”. E questo brulicame di gente senza spirito, che il Cristianesimo si è trascinata dietro, ha finito per abolire il Cristianesimo.
 
Søren Kierkegaard, Diario , a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1981


Postato da: giacabi a 15:32 | link | commenti
fede, kierkeergaard

martedì, 30 ottobre 2007

La speranza viene dal Signor
***
"Solo i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità; i forti e i costanti non sogliono chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, ma come e dove abbiano da combattere.
Non hanno bisogno se non di
sapere per quale via e per quale scopo, e sperano dopo, e si adoperano, e combattono, e soffrono così, fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti."
 
Cesare Balbo

Postato da: giacabi a 12:41 | link | commenti
speranza, fede

sabato, 20 ottobre 2007

La fede cristiana
illumina la vita
***
Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:
La piccola mia lampa
Non, come sol, risplende,
Né, come incendio, fuma; Non stride e non consuma
Ma con la cima tende
Al ciel che me la diè.

       Starà su me, sepolto,
Viva; né pioggia o Vento,
Né in lei le età potranno;
E quei che passeranno
Erranti, a lume spento,
Lo accenderan da me
.

       Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: «Dio mi vede!» per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. «Dio mi vede...» perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione.
Luigi Pirandello :Il fu Mattia Pascal




Postato da: giacabi a 07:21 | link | commenti
fede, cristianesimo, pirandello

mercoledì, 11 luglio 2007

sulla fede e Cristo
***

sulla fede, Kafka risponde: "a Chi la possiede non la può definire, e quando uno non la possiede la sua definizione è aggravata dalla mancanza di grazia. Il credente quindi non può e il miscredente non dovrebbe parlare ". E Cristo? Kafka chinò la fronte: " Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare... ".
(Janouch, Colloqui con Kafka).


 

Postato da: giacabi a 22:04 | link | commenti
fede, kafka, gesù

martedì, 26 giugno 2007

LA FEDE
***
Quela Vecchietta ceca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse : - Se la strada nu' la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò una voce
fino là in fonno, dove c'è un cipresso,
fino là in cima dove c'è la Croce... -
Io risposi : - Sarà... ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede... -

La Ceca, allora, me pijò la mano
e sospirò : - Cammina ! - Era la Fede
TRILUSSA

Postato da: giacabi a 17:21 | link | commenti
fede, trilussa

venerdì, 22 giugno 2007

RAGIONE E FEDE
***
La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca."
Albert Einstein (1879-1955)


Postato da: giacabi a 22:18 | link | commenti
fede, einstein, scienza - articoli


LA RAGIONEVOLEZZA
DELLA FEDE IN DIO
***
“Se qualcuno, partendo dall'indubitabile dato che il mondo esiste, vuole dedurre la causa di tale esistenza, questa supposizione non contraddice in nessun punto la nostra conoscenza scientifica. Nessuno scienziato ha a disposizione anche un solo argomento o qualsivoglia fatto, con il quale poter contraddire tale supposizione. Anche se si tratta poi di una causa che - come potrebbe essere altrimenti? - va evidentemente cercata al di fuori di questo nostro mondo".
W. Heisenberg

Postato da: giacabi a 21:56 | link | commenti
fede


Cos’è la fede
 La fede
novella di Pirandello

          In quell'umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d'oro il rettangolo di sole della finestra con l'ombra precisa delle tendine trapunte e lì come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell'incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell'antico canterano.
          Pareva che ormai non potesse avvenire piú nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giú tra i ciottoli grigi del cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja, sotto il tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati dalla ripa che si stendeva scabra lassú.
          Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina argentata sulla spalliera, che dava loro un'aria di monacelle attempate, contente di starsene lì ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio Crocefisso d'avorio, gracile e ingiallito.
          Ma soprattutto un grosso Bambino Gesú di cera in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo sonno tra quegli odori misti d'incenso, di spigo e di caldo pane di casa.
          Dormiva anche, su la poltroncina di iuta a piè del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le pàlpebre esili pareva non avessero piú forza neanche di chiudesi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s'affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l'infermità del cuore.
          Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto in quel sonno, e pareva a tradimento, un'espressione cattiva e sguajata, come se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per tanti anni l'austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitú, così disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva piú. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.
          Don Angelino, entrato di furia nella cameretta, s'era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi. Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma con un'angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:
          - Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!
          Ma si sforzava di trattenere perfino il respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti all'improvviso con quell'angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto, tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il raspìo delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.
          Il giorno avanti, per piú di quattr'ore, andando su e giú per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l'abito talare, e movendo sott'esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso accanitamente con don Pietro sulla sua risoluzione d'abbandonare il sacerdozio, non perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione era sinceramente convinto d'averne acquistata un'altra, piú viva e piú libera, per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le mortificazioni che l'antica gli imponeva. La discussione s'era fatta, da parte sua soltanto, sempre piú violenta, non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito, invincibile e assurdo, d'andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo primo precettore e poi confessore per tanti anni, pur riconoscendolo incapace d'intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.
          E infatti don Pietro lo aveva lasciato sfogare, socchiudendo Su tanto gli occhi e accennando con le labbra bianche un lieve sorrisino, a cui non parevano neppure piú adatte quelle sue labbra, un sorrisino bonariamente ironico, o mormorando, senza sdegno, con indulgenza:
          - Vanità... vanità...
          Un'altra fede? Ma quale, se non ce n'è che una? Piú viva? piú libera? Ecco appunto dov'era la vanità; e se ne sarebbe accorto bene quando, caduto quell'impeto giovanile, spento quel fervore diabolico, intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe piú avuto tutto quel fuoco negli occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato piú così bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che aveva fatto tanti sacrifici per lui.
          E veramente, al ricordo della mamma, di nuovo ora don Angelino si sentì salire le lagrime agli occhi. Ma intanto, proprio per lei, proprio per la sua vecchia mamma era venuto a quella risoluzione; per non ingannarla più; e anche per lo strazio che gli dava il vedersi venerato da lei come un piccolo santo. Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione piú chiara delle verità nuove che gli s'erano rivelate.
          Ma in quel punto si schiuse l'uscio della cameretta ed entrò la vecchia sorella di don Pietro, piccola, cerea, vestita di nero, con un fazzoletto nero di lana in capo, piú curva e piú tremula del fratello. Parve a don Angelino che - chiamata dalle sue lagrime - entrasse nella cameretta la sua mamma, piccola, cerea e vestita di nero come quella. E alzò gli occhi a guardarla, quasi con sgomento, senza comprendere in prima il cenno con cui gli domandava:
          - Che fa, dorme?
          Don Angelino fece di sì col capo.
          - E tu perché piangi?
          Ma ecco che il vecchio schiude gli occhi imbambolati e con la bocca ancora aperta solleva il capo dalla spalliera della poltroncina.
          - Ah, tu Angelino? che c'è?
          La sorella gli s'accostò e, curvandosi sulla poltrona, gli disse piano qualche parola all'orecchio. Allora don Pietro si alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di don Angelino, e gli domandò:
          - Vuoi farmi una grazia, figliuolo mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giú in sagrestia. Puoi scendere di qua, dalla scaletta interna. Va', va', che tu sei sempre il mio buon figliuolo. E Dio ti benedica!
          Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja, angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che, scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto d'avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse alla sagrestia, si sentì improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia gli parve un'altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.
          Era una decrepita contadina, tutta infagottata e lercia, dalle palpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando, faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell'altra mano tre lire d'argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia piena di mandorle secche e di noci.
          Don Angelino la guatò con ribrezzo.
          - Che volete?
          La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo, barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra le gengive sdentate.
          - Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?
          Sì, zia Croce. Era la zia Croce. Don Pietro la conosceva bene. La zia Croce Scoma; che il marito le era morto tant'anni fa, nel fiume di Naro, annegato. Veniva a piedi, con quella bisaccia sulle spalle, dalle pianure del Cannatello. Piú di sette miglia di cammino. E con quell'offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calògero, il santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d'una malattia mortale. Appena guarito, però, quel figlio se n'era andato in America. Le aveva promesso che di là le avrebbe scritto e mandato ogni mese tanto da mantenersi. Erano passati sedici mesi; non ne aveva piú notizia; non sapeva neppure se fosse vivo o morto. Lo avesse almeno saputo vivo, pazienza per lei, se non le mandava niente. Neanche un rigo di lettera! Niente. Ma ora tutti in campagna le avevano detto che questo dipendeva perché lei, appena guarito il figlio, non aveva adempiuto il voto a San Calògero. E certo doveva essere così: lo riconosceva anche lei. Il voto però non lo aveva adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s'era spogliata di tutto per quella malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com'era e senz'ajuto di nessuno, come trovare da mettere insieme l'offerta e quelle tre lire della messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame? Sedici mesi le ci eran voluti, e con quali stenti, Dio solo lo sapeva! Ma ora, ecco qua i due galletti, ed ecco le tre lire e le mandorle e le noci. San Calògero misericordioso si sarebbe placato e tra poco, senza dubbio, le sarebbe arrivata dall'America la notizia che il figlio era vivo e prosperava.
          Don Angelino, mentre la vecchia parlava così, andava su e giú per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d'afferrare per le spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:
          - Questa è la tua fede?
          Ma no: altri, altri, non quella povera vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell'abiezione di fede tanta povera gente, e su quell'abiezione facevano bottega. Ah Dio, come potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le mandorle e le noci?
          - Riprendete codesta bisaccia e andatevene! - le gridò, tutto fremente.
          Quella lo guardò, sbalordita.
          - Potete andarvene, ve lo dico io! - aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiú. - San Calògero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don Pietro è malato. Andatevene! Andatevene!
          Come intronata da quelle parole furiose, la vecchia gli domandò:
          - Ma che dice? Non ha capito che questo è un voto? È un voto!
          E c'era nella parola, pur ferma, un tale sbalordimento per l'incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino fu costretto a fermarvi l'attenzione. Pensò che era lì in vece di don Pietro, e si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se proprio la voleva, magari gliel'avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a patto che lei si tenesse le tre lire.
          La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita, e ripeté:
          - Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse a un sacerdote? E perché allora mi tratta così? O che forse crede che non do a San Calògero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo?
          E così dicendo, si mise a piangere perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.
          Commosso e pieno di rimorso per quel pianto, don Angelino si pentì della sua durezza, sopraffatto all'improvviso da un rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva innanzi a lui per la sua fede offesa. Le s'accostò, la confortò, le disse che non aveva pensato quello che lei sospettava, e che lasciasse lì tutto; anche le tre lire, sì; e intanto entrasse in chiesa, che or ora le avrebbe detto la messa.
          Chiamò il sagrestano; corse al lavabo; e mentre quello lo ajutava a pararsi, pensò che avrebbe trovato modo di ridare alla vecchia, dopo la messa, le tre lire e i galletti e quell'altra offerta della bisaccia. Ma ecco, questa carità perché avesse il valore che potesse renderla accetta a quella povera vecchia, non richiedeva forse qualcosa ch'egli non sentiva piú d'avere in sé? Che carità sarebbe stata il prezzo d'una messa, se per tutti gli stenti e i sacrifizi durati da quella vecchia per adempiere il voto, egli non avesse celebrato quella messa col piú sincero e acceso fervore? Una finzione indegna, per una elemosina di tre lire?
          E don Angelino, già parato, col calice in mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d'angoscia, su la soglia della sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, così senza fede, salire all'altare. Ma vide davanti a quell'altare prosternata con la fronte a terra la vecchia, e si sentì come da un respiro non suo sollevare tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l'era immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lì, eccola lì, nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella paura prosternata, la fede!
          E don Angelino salì come sospinto all'altare, esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l'anima gli tremava, come la prima volta che vi si era accostato.
          E per quella fede pregò, a occhi chiusi, entrando nell'anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio, dov'essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.
          E finita la messa, si tenne l'offerta e le tre lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.


Postato da: giacabi a 14:26 | link | commenti
fede, pirandello

domenica, 06 agosto 2006

La fede

Si confida in Dio come il cane confida nel padrone. Basta un fischio e il cane accorre. Dovunque vada, ti segue allegro, senza chiedere, senza pensare. In capo al mondo.      A. Sinjavsk

Nessun commento: