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sabato 11 febbraio 2012

ferrara


La dittatura del desiderio
 ***

“Il mondo nuovo si annuncia così, con la dittatura del desiderio, la sua trasformazione in diritto, con l’intrusività onnipotente della tecnica, che forgia la cultura e impone la sua falsa coscienza o ideologia, e parole come terapia, autodeterminazione della donna, diritto a un figlio sano, decostruzione della famiglia e del matrimonio trionfano senza antidoti, senza discussione vera, senza esame razionale. Chi vuole verificare il mondo nuovo, illuminarne i significati, commisurarli alla realtà finita dell’umanità o all’infinità del divino, nel caso dei credenti, è considerato oscurantista. La devozione moderna trionfa dovunque, senza il limite del confronto razionale, e tende a farsi dottrina, conformismo di massa”
G. Ferrara su “Il Foglio”, 17.01 .2005
Questa concentrazione di nuovi poteri si giustifica da sé in nome dei diritti, che sono l'assoluto contenuto nell'estremo relativismo: un diritto stabilito da una maggioranza è di per sé giusto, basta a se stesso. Chi lo contesta è un cattivo teologo, un prete reazionario, uno strano animale laico e miscredente infervorato dal fanatismo delle guerre culturali. Tutta gente da evitare. In fondo, ci spiegano, si tratta di minoranze, di comportamenti e autorizzazioni che riguardano pochi, se proprio volete potete continuare a vivere all'antica, non si sa per quanto tempo, anche nel mondo nuovo. Non c'è ideologia, ci spiegano, non c'è attacco alla tradizione ed emancipazione dalla natura, ma eguaglianza di diritti emancipata dal criterio del giusto e dell'ingiusto, del buono e del cattivo: criteri vecchi, inservibili, bandiere abusate dell'assolutismo morale che il mondo liberale respinge a buon diritto. Anche gli antibiotici ci emancipano dalla natura. Dunque: che volete? I diritti di morte e di vita del mondo nuovo sono come la penicillina.
Tutte le cose qui elencate, e molte altre che lascio inesplorate, si vogliono fare, dunque si possono fare; si possono fare, dunque si vogliono fare. Per la prima volta, da laico, formulo una preghiera, ma ho già le labbra secche e so che non sarà esaudita: Benedetto XVI, aiutaci tu. "
G. Ferrara su “Il Foglio”, 25.04.2005


Postato da: giacabi a 07:42 | link | commenti
ferrara, desiderio

lunedì, 16 febbraio 2009

Nessun uomo è un`isola
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C`è una differenza tra essere liberi ed essere soli?
“Nessun uomo è un`isola;
Nessuno uomo sta solo.
Ogni uomo è una gioia per me;
Il dolore di ogni uomo è il mio dolore.
Abbiamo bisogno l`uno dell`altro,
perciò io difenderò ogni uomo come mio fratello;
ogni uomo come mio amico.
(John Donne, «Nessun uomo è un`isola»).
C`è una différenza tra vivere nel mondo in felice dipendenza dagli altri, e nella speranza, e vivere oscenamente di se stessi, della propria autodeterminazione, sempre sotto l`inflessibile e vano sguardo del proprio Io indulgente ma non misericordioso? Camillo Ruini, cardinale, ha posto la vera questione quando ha detto che non si può essere cattolici e al tempo stesso credere nell`autodeterminazione della propria vita (e della propria morte).
Carlo Caffarra, cardinale, in una bella lettera diocesana di sabato scorso, ha chiamato le cose con il loro nome e ha aggiunto che non siamo solo cittadini di uno stato, apparteniamo a un genere comune, quello umano, che ha le sue regole innate, prima della costituzione dello stato, e siamo infine un animale, l`unico, capace di carità perché riconosce la dimensione metafisica della persona, la sua dignità intrinseca e il suo ethos anche nella sofferenza, non solo l`utilità o l`inutilità del suo bios.
Giuliano Ferrara
da: www.ilfoglio.it  del 16.02.09

Postato da: giacabi a 15:55 | link | commenti
amicizia, ferrara, eutanasia

mercoledì, 23 luglio 2008

L’esercizio della libertà individuale è il problema, non la soluzione

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                                                                                               da :ilfoglio           
Perché esistono il bene, il male e la scelta tra i due. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma da qui non si scappa
Mi permetto, “per amore”, qualche glossa alle osservazioni del teologo e nostro collaboratore Vito Mancuso (1). La questione posta dalla sentenza che autorizza la disidratazione del corpo di Eluana, e la sua messa a morte, ci appassiona tutti. Sentiamo e pensiamo, con profonda convinzione ma senza arroganza o disprezzo per chi non è d’accordo, che non si tratta di una questione privata, dei termini di esecuzione di un lascito testamentario, un affare che si possa sbrigare in famiglia e dal notaio. Per ragioni troppo evidenti per essere richiamate in esteso. Ne faccio solo un breve accenno.
C’è una società in cui il capo dello stato rende visita al paziente Andreatta, in stato vegetativo da molti anni, e la sua famiglia attende la fine nella speranza cristiana, come attende la fine il sistema di cura e di relazioni, di assistenza e carità. Su tutte queste faccende tra la vita e la morte si stende il velo pietoso della discrezione, del discernimento umano e razionale, per sua natura flessibile. Ma qui campeggia l’idea caritatevole del primato assoluto della persona e della vita sulla legge, sul criterio scientifico probabilistico, su ogni altro possibile criterio compresa la disposizione testamentaria (intesa come omicidio pietoso del consenziente). E c’è una società, un’altra società, in cui la persona vivente ma non vigile viene spenta sull’onda dell’amore disperato di un padre, della sua famiglia o di parte della sua famiglia (come nel caso di Terry Schiavo), viene spenta per convinzione, per amore e anche per convenzione culturale, giudiziaria, domani legale (il testamento biologico o la sua sinistra cugina, l’eutanasia). Qui leggi e sentenze fissano con rigidità una “conclusione per il nulla” che diventa il simbolo della nostra libertà.
Sono due società diverse, la società della speranza e quella della disperazione. Possono convivere e convivono nei cuori, nelle teste, nelle aspettative di tanta buona gente convinta che la sofferenza e la morte vadano esorcizzate con l’appello alla dignità del morire “come vi piace”, e di tanti che al contrario a sofferenza e morte attribuiscono un significato. Ma sono e restano società diverse, in naturale e filosofico e storico conflitto. Per il professor Mancuso il conflitto etico discende da quello teologico: da una parte la libertà umana di scegliere per sé e disporre della propria vita, perché Dio è amore, perché l’Incarnazione rende concreto il problema dell’uomo, perché l’onnipotenza divina si realizza attraverso la libertà della creatura, e dall’altra l’obbedienza senza riserve al codice della natura o ai comandamenti di un Dio personale, onnisciente onnipotente e provvidente. E il conflitto lo risolve il diritto laico concedendo a ciascuno di fare quel che crede.
E invece a me sembra che il conflitto sia quello tra carità e legge, il tipico e primigenio conflitto che sta all’origine stessa del messianismo cristiano: come per l’aborto, il diritto potrà stabilire mille volte che, se lo vuoi, tu puoi staccare un sondino nasogastrico e procedere, ma tu non devi farlo. Puoi farlo, non devi. Per la semplice ragione che non sei creatore ma creatura, e il solo disporre della vita come di un prodotto della tua volonta è una manomissione dell’esistenza razionale, della dignità spirituale e razionale della persona umana, sia quella che “stacca” sia quella che è staccata.
E’ significativo che le note del professor Mancuso sul caso di Eluana, piene di cura amorevole, di rispetto umano, di attenzione filosofica e teologica ai passaggi più impervi del caso, si aprano con un paio di fulminanti dichiarazioni relativiste. Non esistono per lui queste due società in conflitto, non esiste una discussione di etica pubblica in funzione della quale ci si attesta su usi, costumi ricevuti, norme riconosciute o date (le tavole, per esempio). Esiste soltanto la libertà individuale, che si certifica attraverso una concezione della vita irriducibile a un criterio comune, a una verifica tra i soggetti umani. A ciascuno la propria libera idea della dignità (2).
Osserva dunque Mancuso, dopo aver dichiarato la personale intenzione di lasciare libero corso alla sua vita naturale: “Ciò che è un valore per me non è detto che lo sia per lei [per Eluana, ndr]”. Aggiunge: “Una diversa concezione della vita produce una diversa etica” e “lo stato laico deve produrre, a partire dalle diverse etiche dei suoi cittadini, un diritto unico, tale da essere per quanto possibile la casa di tutti”, perché “la distinzione tra etica e diritto è decisiva”.
Ammiro la semplicità diretta e franca con cui il teologo cristiano abbraccia la forma radicale moderna e positivista della liberaldemocrazia o la sua variante procedurale del socialismo ciudadano in cui contano le maggioranze e le procedure, e basta (un liberale religioso come John Locke, per non parlare di Edmund Burke, non sottoscriverebbe mai quelle affermazioni). Venuto come sono da una giovinezza totalitaria, la mia decisione per la libertà è definitiva. Ma più invecchio più la sento fragile, ancora tutta da spiegare. E di fronte alla laïcité rigorosa, proceduralistica, di un Mancuso, mi viene sofisticamente da obiettare che: primo, se i tuoi valori sono sempre inferiori al valore della loro convivenza con valori opposti, allora non sono valori né relativi né assoluti, sono opinioni fuggevoli; secondo, come si faccia a concepire la vita e poi a produrre un’etica, io non lo so, per me si arriva a concepire la vita mentre si scopre, si rinviene, si riconosce un fondamento etico della vita stessa, poiché l’etica è una religione o una filosofia o perfino una incerta narrazione, ma non un’ideologia; terzo, il diritto è una serie di caselle particolari, che riconoscono la distinzione ma non la dissociazione tra etica e legge, caselle normative fondate su una norma fondamentale derivata dall’osservazione razionale della natura, della sua struttura creaturale e metafisica, e da principi dati, tramandati o rivelati, altrimenti il diritto si trasforma in un mostro onnipotente autoreferenziale come il Leviatano contrattualista, il contratto sociale giacobino, lo stato etico, lo stato autosufficiente del positivismo giuridico eccetera, fino al partito unico e alla classe, se vogliamo.
La parte più direttamente teologica dello scritto di Vito Mancuso è molto bella, conduce a conclusioni sentite con intensità e ragionate con grande intelligenza della cosa. Mi stupisce però. Mi stupisce come non credente, tanto per cominciare, il cristianesimo come implausibilità assoluta. Mancuso dice che nessun Cristo e nessun Pietro riscatterà dal suo dolore o dalla sua condizione vegetativa Eluana, come avvenne per la figlia di Giairo nel vangelo secondo Marco (l’episodio è rammentato dal cardinal Tettamanzi). Hai voglia a pregare, “non accade nulla di quanto richiesto”.
I miracoli sono cose successe tanti anni fa, e oltre tutto più che cose sono segni, questo è vero; ma che cosa resta della fede, sia pure di una fede da rifondare come quella che professa il teologo laico Mancuso, quando la sostanza di cose sperate si dissolve nell’implausibile, si scioglie nella corrosione acida dell’inverosimile? In che cosa si è salvi, di grazia, nella speranza o nel testamento biologico? E quanto alla ragione, che è quel che mi interessa come non credente, devo dunque rassegnarmi a restringerla ai dati sperimentali, alle diagnosi e alle prognosi piuttosto fallibili del possibile tecnico-scientifico, alla dimensione utilitaria che si disinteressa della verità? E l’impulso di allargarne lo spazio fino a comprendere la nozione di fede come elemento cruciale della condizione umana e della storia sociale del mio tempo, che debbo fare, debbo bruciarlo sull’altare del realismo, del relativismo e della solita vecchia morte di Dio? Certe volte il professore non ti lascia scampo.
Le teologie danno sempre il meglio di sé quando trattano la figura del padre, e lo scritto di Mancuso anche in questa ultima parte, dedicata al padre terreno e a quello celeste di Eluana, non fa eccezione (3). Mi fermo sulla soglia di questa definizione del divino, di questa teodicea complessa e sottile, semplice e beata, che Mancuso porta per mano a conclusioni da spirito assoluto hegeliano, conclusioni trionfanti e felici che parlano di “esercizio della libertà consapevole” come soluzione finale del problema, come happy ending. Mi limito a questa osservazione. L’esercizio della libertà consapevole non è la scelta etica che noi facciamo per risolvere il problema della distinzione del bene e del male, non del bene e del male per noi ma del bene morale in sé e per sé: l’esercizio consapevole della libertà è il problema, è il dilemma, è il metodo che si autotrascende accettando il tabù della vita indisponibile o realizzando la possente signoria dell’uomo sull’uomo. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma qui non si scappa.

(1) Come ha detto con altre parole
il cardinal Ruini nella sua straordinaria conversazione con Marco Burini (Il Foglio, 17 luglio), la teologia laica di Vito Mancuso rompe la forma cattolica ma si propone come modello di pensiero e di scrittura alternativo a una teologia accademica, irrilevante o inerte. Questo intervento del professor Mancuso sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna priva da molti anni di coscienza vigile, del cui diritto di continuare a “vivere così” o di lasciare il mondo si sta discutendo oggi in Italia, dimostra che Ruini ha ragione.

(2) In tema di relativismo etico è anche significativa la citazione gloriosa e finale dal cardinal Martini, influente uomo di chiesa convinto che debba essere difeso lo spazio di un relativismo cristiano, anche nella tempesta veritativa scatenata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a coronamento del dramma novecentesco del Concilio. Dice il Martini citato da Mancuso che la dignità del vivere è più importante del vivere.
Ora il bios, il vivere biologico, ha un ancoraggio materiale e oggettivo all’essere e al divenire, perché si coglie la differenza tra un corpo caldo e uno freddo, tra un occhio che si apre al mattino e un occhio che non si aprirà mai più; mentre la dignità del vivere è letteralmente disancorata, galleggia nel mare dello spirito, nella decisione di coscienza del soggetto umano libero. La dignità del vivere in opposizione alla vita biologica ha per sé forse la più vera e bella delle realtà cristiane, l’affermazione dello spirito contro la carne, ma è anche equivocabile, è esposta ai sofismi dell’Anticristo e alle lusinghe della disperazione, che cristiana non è, e alle seduzioni del nulla.

(3) E’ un errore, secondo me, attribuire lo spirito maligno dell’insinuazione personale, frutto per di più di odio teologico deviato e dunque di fanatismo arcaico, da rogo inquisitoriale, a coloro che criticano duramente come “condanna a morte” la sentenza voluta dal padre di Eluana. E’ un punto a cui tengo molto, riemerso sempre maldestramente in tutte le polemiche sull’aborto di questi mesi (sei contro l’aborto e allora dici che le donne sono assassine). Io non sono d’accordo con la critica all’amore di padre di Beppino Englaro, che è al di sopra di ogni considerazione, in quanto tale, in quanto amore. Ma le cose vanno nominate con il loro nome. Una sentenza che toglie la vita è una condanna a morte, come la distruzione di un feto nel grembo materno è un omicidio. Il che non implica affatto la responsabilità personale dei giudici o del padre ricorrente o della gestante. Mi viene da dire: magari fosse tutto risolvibile in termini di responsabilità personali. Qui è in atto una dialettica di grazia e peccato, da una parte, come nella vita di ciascuno di noi, e una guerra culturale del tutto impersonale all’inservibile concetto di persona umana, un avanzo del cristianesimo che il secolarismo ideologico tende a gettare nella discarica dei suoi incubi.


Postato da: giacabi a 07:12 | link | commenti
ferrara, eutanasia

domenica, 06 aprile 2008

CARISSIMO FERRARA,
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Nella foto Giuliano Ferrara (Infophoto)
ti giungano i sentimenti di profonda e affezionata solidarietà per l'ignobile atto di barbarie di cui sei stato oggetto nel silenzio connivente di troppa società che faccio fatica a chiamare civile.
La mia, proprio perché è una grande formazione cristiana, che debbo come sai a monsignor Giussani, è anche una grande formazione laica. Per me è stato sempre naturale lavorare e soffrire per la libertà, non solo mia ma di tutti.
Eravamo ancora in ginnasio e abbiamo fatto grandi scioperi studenteschi contro la brutale repressione sovietica in Ungheria. E poi non abbiamo più perduto neppure un colpo. Certo la nostra generazione aveva accanto a sé dei grandi padri della chiesa che ci hanno sempre sostenuto e seguito in questa lotta per la libertà. Noi abbiamo imparato da Montini a Milano, da Fossati a Torino, da Della Costa a Firenze, da Roncalli a Venezia, da Lercaro a Bologna, da Siri a Genova, da Ruffini a Palermo, e soprattutto dal grande PioXII, che nei pochi e terribili giorni della rivoluzione d'Ungheria seppe scrivere due lettere encicliche e fare due interventi radiofonici.
Poi abbiamo combattuto per la libertà nelle scuole e nelle università. Tante volte a me e ai miei ragazzi è successo quello che è successo a te a Bologna ieri.
Tante volte ho cominciato la giornata andando a visitare negli ospedali gli studenti cattolici, colpevoli di voler soltanto essere integralmente cattolici nell'ambiente.
Caro Ferrara
, laici e cattolici oramai sono i capisaldi su cui si può costruire una civiltà meno disumana.
Io non sono un politico raffinato e soprattutto sono vescovo, perciò non posso dirti se la tua lista abbia o no una convenienza politica, ma s
ono lieto di dirti che la tua è una limpida testimonianza ideale, e ti posso assicurare che non gli intellettualoidi delle grandi città ma il sano popolo cattolico riconosce la tua grandezza umana e perciò, lasciamelo dire, almeno implicitamente cristiana.
Che tristezza quando penso che in questi decenni abbiamo mandato in giro per il mondo, dico noi pastori, dei cristiani incolori, inodori e insapori, pronti a dire subito che innanzitutto sono d'accordo con tutti gli altri perché dicono di essere " trasversali".
Avrei tante altre cose da dirti ma ci vedremo presto.
Non fare nulla per affrettare il tuo funerale, perché sai che un vescovo cattolico non può officiare funerali civili.

Luigi Negri  [Diocesi San Marino]
Pennabilli, 3 Aprile 2008 


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ferrara, negri

venerdì, 30 novembre 2007

L'amicizia coniugale
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Tempi num.24 del 14/06/2007
Editoriali
Il don e l'Elefante.
L'amicizia coniugale spiegata da Ventorino e Ferrara contro le ninne nanne
relativiste
di Tempi
Un'ennesima consacrazione della famiglia come Dio, natura e ragione
comandano, viene da un volume in libreria la prossima settimana. Si intitola
L'amicizia coniugale (Marietti 1820). E' stato scritto dal teologo siciliano
don Francesco Ventorino e benedetto da una elegiaca postfazione del
direttore romano Giuliano Ferrara.
Il libro si colloca in quell'ambito di aperta e distesa battaglia culturale
che si sta agglutinando in Italia in controtendenza al conformismo
bacchettone che predica relativismo e indifferenza sessuale. Dimostra
Ventorino e applaude l'Elefantino, non è che risultasse soltanto a Tommaso
D'Aquino che «
è l'uso della facoltà sessuale contro o oltre l'ordine della
ragione a generare nell'uomo una inquietudine profonda
».
Ferrara irride il moderno culto delle relazioni vagabondeggianti
Il
libertinaggio è una ninna nanna in confronto all'ardore di desiderio di un'amicizia coniugale castigata, casta, leale e insieme estroversa, sicura della propria potenza di conversione e di conversazione
») ed esalta l'indissolubilità del matrimonio: «L'indissolubilità, che non è nelle carte e nelle formule, è tuttavia nelle cose dette e promesse nel nome di qualcosa di diverso dalla solidarietà umana e ad essa perfino superiore, in faccia a quell'essere della realtà con il quale si viene a patti finendola di fare i capricci».
A conferma di quel che scrive don Ventorino: «
Il matrimonio ha
un'interferenza positiva sulla vita del popolo, poiché questo legame diventa esempio di ogni altra compagnia».

Finitela di avere Grillini per la testa e smettetela di fare capricci.
Diventate grandi, non regalatevi pasticcini Bindi. Crescete e
moltiplicatevi. Insomma, avanti o popolo

Postato da: giacabi a 19:59 | link | commenti (1)
ferrara, ventorino

giovedì, 15 novembre 2007

Grande Ferrara!
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Ferrara : io, ateo devoto, credo nella fede del Papa in Gesù

di Giuliano Ferrara - Agorà di Avvenire 14-11-2007
«La mia ragione mi dice così il suo limite. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della morte»
Se il Papa ha scritto un libro su Gesù ci deve essere un motivo. La Chiesa è già un libro vivente su Gesù, dipende da Gesù come il corpo dalla testa. La Chiesa segue Gesù, testimonia per lui e in lui attraverso la fede, le opere, la carità, i sacramenti e soprattutto la liturgia.
Tutto nella Chiesa si fonda sulla parola di Gesù annunciata nel Vangeli, che per la Chiesa sono i primi e definitivi libri in cui Gesù si trova e, in parte, enigmaticamente si nasconde. La Chiesa è la tipografia universale di Gesù, cura da sempre l’ortografia del racconto che lo riguarda, Gesù è la sua A e la sua Zeta. La Chiesa legge da due millenni anche i libri più antichi della fede ebraica, l’Antico Testamento, alla luce di quelli più recenti. Nella parola di Cristo Gesù e dei suoi apostoli, nelle Lettere e negli Atti, la Chiesa ritrova e riconosce come suo anche il patrimonio comune degli ebrei, il gran libro di Mosé, la sua legge, e i salmisti e i profeti e tutto il resto della Bibbia, tutto il resto di quei libri che diventano patrimonio comune di ebrei e cristiani. In apparenza, dunque, i libri su Gesù sono già stati scritti. Secondo la Chiesa, che sposa storia, teologia, filosofia e profezia, perfino le Sacre Scritture degli agiografi, che scrivevano secoli prima della nascita di Gesù di Nazaret, riguardano il suo avvento. E allora? Perché il Papa ha scritto un libro su Gesù?
La risposta la dà lui stesso in modo apparentemente molto semplice. Il Papa, che è un teologo e un filosofo e uno storico, ha voluto dare un contributo personale alla ricostruzione del volto del Signore. E il suo contributo è di una semplicità inaudita: il Papa Benedetto XVI, che con una doppia firma in quanto autore si qualifica anche come Joseph Ratzinger, non si limita a credere nel Gesù dei Vangeli, aggiunge qualcosa alla sua fede, aggiunge che la figura di Gesù Cristo è logica, è storicamente sensata e convincente, solo se esaminata e per così dire razionalmente argomentata alla luce dei Vangeli. Senza argomentazione razionale, senza ricorrere criticamente al metodo storico, Gesù diventa un’astrazione interiore, perde il contatto con il tempo, con la storia, con il creato, con l’umanità e con il suo ethos, con la vita e con il suo significato, diventa una figura evanescente separata dalla realtà dell’essere e dall’essere della realtà. Non si capirà mai che cosa volesse dire quando disse: «Io sono». Ma con il puro metodo storico si possono formulare solo ipotesi su Gesù, ipotesi che si contraddicono, che stanno irrimediabilmente nel passato. (…) A questo punto potreste obiettarmi: e tu che c’entri con il libro del Papa, se il libro del Papa è quello che tu dici? Come fai a entrare in un discorso sul Figlio del Dio vivente se non credi? E la mia risposta è questa. La mia ragione mi dice il suo limite. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della mia morte, sarei un nichilista. La mia ragione mi dice che sono un credente, sebbene non disponga di una fede personale e confessionale praticamente vissuta. Credo nel concetto matematico e fisico di infinito, che segna il mio limite e lo descrive. Credo che mio padre e mia madre non siano l’origine biologica del mio Dna ma un semplice e irrisolto mistero d’amore. Credo che l’altro, la persona umana o anche solo il suo progetto o anche solo il suo ricordo, sia titolare di diritti che sono al tempo stesso i miei doveri, e che questo ciclo della delicatezza e del rispetto tra le generazioni sia stato messo a punto, nella sua massima perfezione, dentro la civilizzazione cristiana del mondo. Credo che non tutto sia negoziabile e relativo. Ed è già un bel credere, ve lo assicuro.
In più credo nella fede degli altri, la rispetto e la amo, in un certo senso la desidero. L’inesistenza della mia fede non mi porta a considerare la fede, anche e soprattutto la fede dei semplici, dei piccoli, come una variante della superstizione o del fanatismo. Se poi la fede degli altri mi si presenta con il vigore e la passione razionale di un magnifico libro di teologia, se il sapere della fede e la fede nel sapere di un Papa mi insegnano qualcosa di prezioso che attraversa la storia ma non la esaurisce e in essa non si esaurisce, crescono a dismisura la mia inquietudine, la mia curiosità e la mia fiducia

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