Io credo per colpa dei miscredenti
di Chiara Sirianni
«Ho
il culto del cattivo gusto: mi piace andare a verificare l’odio degli
altri. E un giorno decisi di scoprire chi mai fosse questo tanto
disprezzato Joseph Ratzinger». Giovanni Lindo Ferretti si racconta. Dal
Soviet alla Grazia Ricevuta
«Non fare di me un idolo, mi brucerò/ se divento un megafono mi incepperò cosa fare o non fare non lo so/ quando dove perché riguarda solo me/ Io so solo che tutto va ma non va/ Non va, non va». (“A Tratti”, da K.O. del mondo, Csi, 1994)
Giovanni Lindo Ferretti vive a Cerreto Alpi, sull’Appennino emiliano. Un centro di settanta abitanti, il classico paesino da cui tutti vogliono scappare, e in cui lui cerca invece ostinatamente di tornare. Con due cavalli nella stalla, che ogni giorno porta a pascolare, e una casa antica, la stessa in cui è nato (nel 1953), senza computer, senza campanello, ma con le finestre sempre aperte.
Il padre muore di peritonite prima della sua nascita. Il piccolo Giovanni studia dalle suore (che gli chiedono di «pregare per l’uomo che ha salvato l’Emilia dai soviet», il monaco Dossetti) poi si trasferisce a Reggio. Entra al Dams a Bologna, ma per cinque anni fa l’operatore psichiatrico. Crede nel punk perché mette al centro l’essere umano e l’anima di chi suona, piuttosto che tecnica o regole, e urla brevi e secche frasi, ispirato dai pazienti. Nel 1981 parte per Berlino, due anni dopo fonda i Cccp (Urss, in caratteri cirillici). Le icone, la mitologia e le parole d’ordine che Giovanni e i suoi useranno per raccontarsi saranno sovietiche soprattutto per scelta estetica, per assorbirne la carica provocatoria. L’Urss rappresenta un pensiero forte, l’ultima fede possibile prima della fine del socialismo reale e del nichilismo di massa. In un volantino scriveranno: «Il punk è una sorta di magma mistico che protegge la propria esistenza ostentando il contrario», prendendosi i fischi dei centri sociali. Ma la canzone “Emilia paranoica” (nell’album: Compagni, cittadini, fratelli, partigiani del 1984) diventa uno degli inni del punk italiano. Due anni dopo, Ferretti prova per 25 giorni da solo un canzone, “Madre”. «Madre di dio/ e dei suoi figli/ madre dei padri/ e delle madri/ madre o madre o madre mia/ l’anima mia si volge a te». È il primo atto di devozione mariana del punk comunista, o forse una semplice inconsapevole ripresa dei salmi ascoltati da bambino. La Virgin non ne è troppo entusiasta. Ferretti invece profetizza: «La canteranno tutti a pugno chiuso e con le lacrime agli occhi». Caduta l’Unione Sovietica, nel 1992 i Cccp si trasformano in Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti). Poi in Pgr (Per Grazia Ricevuta). Il gruppo si è sciolto un anno fa, ma il primo giugno è uscito ConFusione, la rilettura di alcuni brani dei Pgr firmata Franco Battiato.
Ferretti è il punto di riferimento per i punk emiliani degli anni Ottanta, e il portavoce del senso di smarrimento vissuto dai giovani di sinistra negli anni Novanta. Subisce il fascino dell’islam e della filosofia cinese. La sua svolta degli ultimi dieci anni, dal comunismo – più o meno eretico – all’essere un “punk cattolico”, ha diviso il suo pubblico: più di un orfano di sinistra ha parlato di tradimento, opportunismo, follia. Lui, nella quiete della sua Cerreto, non si cura né delle critiche di chi per nostalgia non accetta il suo cambiamento, né delle lusinghe dei benevoli che vorrebbero appiccicargli addosso il cliché del convertito. Tra una sigaretta e l’altra, si limita a raccontare di un umanissimo (e aspro) percorso di ricerca personale, perché da Togliatti a Benedetto XVI scorre un filo invisibile: il senso del sacro, attribuito un tempo all’Unione Sovietica, trapassato nella ricerca condotta in altrui luoghi e religioni, per poi tornare alle proprie origini, alle proprie radici. In una parola, a casa. «Sono come un reduce, che torna da un mondo all’altro», racconta Ferretti a Tempi. «La mia guerra è stata sociale, culturale e dello spirito: ho simpatizzato prima per i radiati dal Pci del Manifesto, poi ho aderito a Lotta continua. Ho partecipato alla prima riunione politica del gruppo che poi avrebbe fondato le Brigate rosse nella mia città. “Reduce” implica per me l’accettazione di due mondi: quello in cui sono nato e cresciuto, e l’altro che ho contribuito a distruggere. E il reduce è anche colui che ha un posto in cui tornare, e ricominciare».
La scoperta della Mongolia
A fare da spartiacque tra punk e cattolicesimo è un viaggio in Mongolia, nel 1996. Il gruppo di Ferretti cancella il tour estivo, rifiuta di suonare con i Sex Pistols e si appresta a percorrere cinquemila chilometri nella steppa. Massimo Zamboni (allora chitarrista dei Csi) parte in aereo, Ferretti sceglie il treno da Mosca. Poi arriva l’Asia e le sue lande desolate, la radicale alterità rispetto agli ossessivi ritmi del moderno Occidente. «Ero all’apice del successo personale e del benessere materiale, e mi sono messo in viaggio a ritroso, lungo i paesi che avevano costruito politicamente il mio immaginario: viaggiare attraverso la Russia è stato come riattraversare la mia giovinezza, la mia adolescenza. In Mongolia invece è come se avessi rivissuto la mia infanzia: la natura incontaminata mi ricordava i ritmi lenti e naturali di Cerreto Alpi, una sorta di tardo Medioevo in cui i valori erano scanditi dalla famiglia, dalla comunità, dagli animali, dall’arciprete. Poi per me, con il ’68, è arrivata la voglia di cambiare il mondo per farne uno più bello e più giusto. L’Asia, invece, mi ha calato in una dimensione opposta rispetto a quella fervente e politicizzata dell’Europa, lì i segni della storia, comunismo compreso, non erano sedimentati. È stata un’esperienza molto forte: mi sono sentito come una creatura, immerso in un’appena avvenuta creazione, al cospetto di un creatore di cui mi ero dimenticato. La Mongolia mi ha insegnato che il mondo esisteva anche prima della contro-cultura giovanile, degli anni Settanta, della chitarra elettrica».
Il ritorno a casa diventa molto più complicato del comprare un semplice biglietto aereo. Ferretti riprende a fare concerti, ma bendato: guardare il pubblico in faccia lo mette in imbarazzo, stare sul palco non gli dà più la soddisfazione di prima. E allora inizia a cercare risposte altrove. «Sono sempre stato un cultore del cattivo gusto: mi piace andare a verificare l’odio degli altri. Così finisco per credere a ciò in cui credo grazie a chi avversa un’idea, non a chi la sostiene, è il mio modo di rapportarmi alla vita. I Cccp erano filosovietici in quanto nati in Occidente: fossimo nati nell’Unione Sovietica saremmo andati in giro con la Coca-Cola in mano e vestiti come Sylvester Stallone. Allo stesso modo, sono diventato cattolico non grazie ai preti, ma grazie ai miscredenti». È sempre il culto del cattivo gusto che porta Ferretti a scoprire «chi è questo c… di Ratzìnger (credevo ci fosse l’accento sulla “i”, mi suonava più cattivo»). Va in una libreria, chiede se per caso quel cardinale ha pubblicato qualcosa. Ne esce con nove libri, e trova una guida spirituale.
L’unica rivoluzione vitale
«I teologi sono come le tasse: pochi, ma ci vogliono. Ho capito che esiste un ritorno a casa nel momento in cui c’è un ritorno al Padre. Che è indispensabile un rapporto verticale per risolvere i rapporti orizzontali. Ho imparato che non esiste casa senza una chiesa, è un pensiero che ho trovato anche in Yukio Mishima, autore giapponese, che ha scritto: “Senza un imperatore, non ci si può nemmeno amare”. Perché i rapporti d’amore costituiscono in realtà un triangolo, se non hanno qualcuno di più alto a cui fare riferimento non hanno senso».
Ma perché, dopo l’islam e Confucio, proprio il cattolicesimo? Per caso, per tradizione, per l’influenza materna? «Perché l’uomo ha bisogno di rapportarsi a qualcosa che lo sovrasti, altrimenti subentra una fede assoluta nell’uomo che finisce per tradursi in cannibalismo. Io l’ho creduto per molto tempo: sono stato un comunista convinto che la giustizia in terra si potesse ottenere con la necessaria volontà e il necessario rigore. Ma l’idealista corre un rischio: raramente va a verificare nella concretezza ciò che l’idea produce. E io non conosco nessuna idea, tra quelle prodotte unicamente dalla volontà dell’uomo, che abbia generato frutti duraturi. L’ho cercata, non l’ho trovata. Quindi mi sembra ragionevole affidare la mia speranza a Dio, e all’unica rivoluzione che abbia dato linfa vitale alla storia umana: l’infinito che si fa uomo. E l’uomo diventa partecipe di questo infinito. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Che non è granché, mi rendo conto. Però è moltissimo».
Quello di Ferretti è un ritorno alle radici per trovare una direzione. «Una notte stavo guidando per arrivare qui, e mi sono accorto di avere affrontato la vita come se fosse una galleria, impegnandomi a rendere elegante l’abitacolo della mia macchina, mentre il mio problema era uscire dalla galleria, non rendere più gradevole il percorso. Ho sempre cercato di seguire la luce, la felicità. Che molto spesso è un’idea. O meglio, la luce c’è, ma io non è che la veda, così come non so perché va l’elettricità o il gas in cucina. È un rapporto di “bassa fede”. So solo che tutto quello che riesco a vivere, concretamente, è la percezione di un mistero».
«Non fare di me un idolo, mi brucerò/ se divento un megafono mi incepperò cosa fare o non fare non lo so/ quando dove perché riguarda solo me/ Io so solo che tutto va ma non va/ Non va, non va». (“A Tratti”, da K.O. del mondo, Csi, 1994)
Giovanni Lindo Ferretti vive a Cerreto Alpi, sull’Appennino emiliano. Un centro di settanta abitanti, il classico paesino da cui tutti vogliono scappare, e in cui lui cerca invece ostinatamente di tornare. Con due cavalli nella stalla, che ogni giorno porta a pascolare, e una casa antica, la stessa in cui è nato (nel 1953), senza computer, senza campanello, ma con le finestre sempre aperte.
Il padre muore di peritonite prima della sua nascita. Il piccolo Giovanni studia dalle suore (che gli chiedono di «pregare per l’uomo che ha salvato l’Emilia dai soviet», il monaco Dossetti) poi si trasferisce a Reggio. Entra al Dams a Bologna, ma per cinque anni fa l’operatore psichiatrico. Crede nel punk perché mette al centro l’essere umano e l’anima di chi suona, piuttosto che tecnica o regole, e urla brevi e secche frasi, ispirato dai pazienti. Nel 1981 parte per Berlino, due anni dopo fonda i Cccp (Urss, in caratteri cirillici). Le icone, la mitologia e le parole d’ordine che Giovanni e i suoi useranno per raccontarsi saranno sovietiche soprattutto per scelta estetica, per assorbirne la carica provocatoria. L’Urss rappresenta un pensiero forte, l’ultima fede possibile prima della fine del socialismo reale e del nichilismo di massa. In un volantino scriveranno: «Il punk è una sorta di magma mistico che protegge la propria esistenza ostentando il contrario», prendendosi i fischi dei centri sociali. Ma la canzone “Emilia paranoica” (nell’album: Compagni, cittadini, fratelli, partigiani del 1984) diventa uno degli inni del punk italiano. Due anni dopo, Ferretti prova per 25 giorni da solo un canzone, “Madre”. «Madre di dio/ e dei suoi figli/ madre dei padri/ e delle madri/ madre o madre o madre mia/ l’anima mia si volge a te». È il primo atto di devozione mariana del punk comunista, o forse una semplice inconsapevole ripresa dei salmi ascoltati da bambino. La Virgin non ne è troppo entusiasta. Ferretti invece profetizza: «La canteranno tutti a pugno chiuso e con le lacrime agli occhi». Caduta l’Unione Sovietica, nel 1992 i Cccp si trasformano in Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti). Poi in Pgr (Per Grazia Ricevuta). Il gruppo si è sciolto un anno fa, ma il primo giugno è uscito ConFusione, la rilettura di alcuni brani dei Pgr firmata Franco Battiato.
Ferretti è il punto di riferimento per i punk emiliani degli anni Ottanta, e il portavoce del senso di smarrimento vissuto dai giovani di sinistra negli anni Novanta. Subisce il fascino dell’islam e della filosofia cinese. La sua svolta degli ultimi dieci anni, dal comunismo – più o meno eretico – all’essere un “punk cattolico”, ha diviso il suo pubblico: più di un orfano di sinistra ha parlato di tradimento, opportunismo, follia. Lui, nella quiete della sua Cerreto, non si cura né delle critiche di chi per nostalgia non accetta il suo cambiamento, né delle lusinghe dei benevoli che vorrebbero appiccicargli addosso il cliché del convertito. Tra una sigaretta e l’altra, si limita a raccontare di un umanissimo (e aspro) percorso di ricerca personale, perché da Togliatti a Benedetto XVI scorre un filo invisibile: il senso del sacro, attribuito un tempo all’Unione Sovietica, trapassato nella ricerca condotta in altrui luoghi e religioni, per poi tornare alle proprie origini, alle proprie radici. In una parola, a casa. «Sono come un reduce, che torna da un mondo all’altro», racconta Ferretti a Tempi. «La mia guerra è stata sociale, culturale e dello spirito: ho simpatizzato prima per i radiati dal Pci del Manifesto, poi ho aderito a Lotta continua. Ho partecipato alla prima riunione politica del gruppo che poi avrebbe fondato le Brigate rosse nella mia città. “Reduce” implica per me l’accettazione di due mondi: quello in cui sono nato e cresciuto, e l’altro che ho contribuito a distruggere. E il reduce è anche colui che ha un posto in cui tornare, e ricominciare».
La scoperta della Mongolia
A fare da spartiacque tra punk e cattolicesimo è un viaggio in Mongolia, nel 1996. Il gruppo di Ferretti cancella il tour estivo, rifiuta di suonare con i Sex Pistols e si appresta a percorrere cinquemila chilometri nella steppa. Massimo Zamboni (allora chitarrista dei Csi) parte in aereo, Ferretti sceglie il treno da Mosca. Poi arriva l’Asia e le sue lande desolate, la radicale alterità rispetto agli ossessivi ritmi del moderno Occidente. «Ero all’apice del successo personale e del benessere materiale, e mi sono messo in viaggio a ritroso, lungo i paesi che avevano costruito politicamente il mio immaginario: viaggiare attraverso la Russia è stato come riattraversare la mia giovinezza, la mia adolescenza. In Mongolia invece è come se avessi rivissuto la mia infanzia: la natura incontaminata mi ricordava i ritmi lenti e naturali di Cerreto Alpi, una sorta di tardo Medioevo in cui i valori erano scanditi dalla famiglia, dalla comunità, dagli animali, dall’arciprete. Poi per me, con il ’68, è arrivata la voglia di cambiare il mondo per farne uno più bello e più giusto. L’Asia, invece, mi ha calato in una dimensione opposta rispetto a quella fervente e politicizzata dell’Europa, lì i segni della storia, comunismo compreso, non erano sedimentati. È stata un’esperienza molto forte: mi sono sentito come una creatura, immerso in un’appena avvenuta creazione, al cospetto di un creatore di cui mi ero dimenticato. La Mongolia mi ha insegnato che il mondo esisteva anche prima della contro-cultura giovanile, degli anni Settanta, della chitarra elettrica».
Il ritorno a casa diventa molto più complicato del comprare un semplice biglietto aereo. Ferretti riprende a fare concerti, ma bendato: guardare il pubblico in faccia lo mette in imbarazzo, stare sul palco non gli dà più la soddisfazione di prima. E allora inizia a cercare risposte altrove. «Sono sempre stato un cultore del cattivo gusto: mi piace andare a verificare l’odio degli altri. Così finisco per credere a ciò in cui credo grazie a chi avversa un’idea, non a chi la sostiene, è il mio modo di rapportarmi alla vita. I Cccp erano filosovietici in quanto nati in Occidente: fossimo nati nell’Unione Sovietica saremmo andati in giro con la Coca-Cola in mano e vestiti come Sylvester Stallone. Allo stesso modo, sono diventato cattolico non grazie ai preti, ma grazie ai miscredenti». È sempre il culto del cattivo gusto che porta Ferretti a scoprire «chi è questo c… di Ratzìnger (credevo ci fosse l’accento sulla “i”, mi suonava più cattivo»). Va in una libreria, chiede se per caso quel cardinale ha pubblicato qualcosa. Ne esce con nove libri, e trova una guida spirituale.
L’unica rivoluzione vitale
«I teologi sono come le tasse: pochi, ma ci vogliono. Ho capito che esiste un ritorno a casa nel momento in cui c’è un ritorno al Padre. Che è indispensabile un rapporto verticale per risolvere i rapporti orizzontali. Ho imparato che non esiste casa senza una chiesa, è un pensiero che ho trovato anche in Yukio Mishima, autore giapponese, che ha scritto: “Senza un imperatore, non ci si può nemmeno amare”. Perché i rapporti d’amore costituiscono in realtà un triangolo, se non hanno qualcuno di più alto a cui fare riferimento non hanno senso».
Ma perché, dopo l’islam e Confucio, proprio il cattolicesimo? Per caso, per tradizione, per l’influenza materna? «Perché l’uomo ha bisogno di rapportarsi a qualcosa che lo sovrasti, altrimenti subentra una fede assoluta nell’uomo che finisce per tradursi in cannibalismo. Io l’ho creduto per molto tempo: sono stato un comunista convinto che la giustizia in terra si potesse ottenere con la necessaria volontà e il necessario rigore. Ma l’idealista corre un rischio: raramente va a verificare nella concretezza ciò che l’idea produce. E io non conosco nessuna idea, tra quelle prodotte unicamente dalla volontà dell’uomo, che abbia generato frutti duraturi. L’ho cercata, non l’ho trovata. Quindi mi sembra ragionevole affidare la mia speranza a Dio, e all’unica rivoluzione che abbia dato linfa vitale alla storia umana: l’infinito che si fa uomo. E l’uomo diventa partecipe di questo infinito. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Che non è granché, mi rendo conto. Però è moltissimo».
Quello di Ferretti è un ritorno alle radici per trovare una direzione. «Una notte stavo guidando per arrivare qui, e mi sono accorto di avere affrontato la vita come se fosse una galleria, impegnandomi a rendere elegante l’abitacolo della mia macchina, mentre il mio problema era uscire dalla galleria, non rendere più gradevole il percorso. Ho sempre cercato di seguire la luce, la felicità. Che molto spesso è un’idea. O meglio, la luce c’è, ma io non è che la veda, così come non so perché va l’elettricità o il gas in cucina. È un rapporto di “bassa fede”. So solo che tutto quello che riesco a vivere, concretamente, è la percezione di un mistero».
Postato da: giacabi a 07:19 |
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ferretti
Dal punk filosovietico al “ritorno a casa”:
un’intervista a Giovanni Lindo Ferretti,
***
di Andrea Possieri
Un ex cantante punk convertito al cattolicesimo o, più semplicemente, un punk cattolico. Giovanni Lindo Ferretti,
spesso, viene presentato con questo ossimoro che si trasforma
velocemente in un'etichetta dal sapore agrodolce. Prima di tutto,
però, l'ex cantante dei "Cccp. Fedeli alla linea" è un "reduce" delle
battaglie ideologiche del Novecento. Un superstite che ha "fatto la
pace" con la propria famiglia e che è "tornato a casa" tra le montagne
dell'appennino tosco-emiliano.
Raggiungere la dimora di Giovanni Lindo Ferretti, in questo gelido inverno, non è un'impresa da poco. Lasciata alle spalle l'autostrada, superati insidiosi tornanti innevati, una minuscola carreggiata ricca di curve e di ponti ci introduce a Cerreto Alpi, piccolo borgo di montanari e allevatori, "un postaccio in alto, scosceso e aspro, sporco d'umanità e di bestiame". È qui che ha vissuto e che vive quella Bella gente d'appennino (Milano, Mondadori, 2009, pagine 198, euro 17) che dà il titolo all'ultimo libro di Ferretti. *** Sul tuo ultimo libro hai scritto che "la casa in ristrutturazione e un tumore alla pleura" ti hanno "ancorato alla vita" e ti hanno aiutato a salvarti. Da cosa ti hanno salvato? Mi hanno salvato da una dissipazione vitale. Dissipare la vita, per me, non è stata una questione di grandi idee ma un problema di quotidianità. La mattina mi alzavo tardi, bighellonavo, preparavo un concerto e, infine, mi esibivo sul palco. Una vita che pensavo fosse libera ma che, invece, era schiava di ogni moda stagionale. La malattia che dovevo affrontare e la casa da ristrutturare, che avrebbero potuto essere considerate soltanto una doppia disgrazia mi hanno obbligato a fare seriamente i conti con la vita e mi hanno aiutato a cambiare radicalmente la mia quotidianità. Sembra quasi che ci sia un parallelo tra la malattia del corpo e la casa in rovina. Effettivamente, la ristrutturazione della casa di famiglia, dove sono nato e cresciuto ha a che fare con un'idea che travalica la mia singola esistenza. Inizialmente, volevo rimetter mano soltanto al tetto, poi, però, è venuta un'alluvione e la casa si è riempita d'acqua. Così sono sceso alle fondamenta e non avevo abbastanza soldi. Due gravosi problemi: salvarmi la vita, non far crollare la mia venerabile dimora. Partendo da questi due dati, profondamente negativi, ho accettato la realtà e sono andato avanti, cominciando a ringraziare Dio per ciò che avevo. Tutto questo, però, accadeva in un momento di particolare successo. Sì, grossomodo tra il 1999 e il 2001, nel periodo in cui il mio gruppo musicale, i Csi (Consorzio suonatori indipendenti), è diventato troppo fortunato e io sono salito sul palcoscenico, per ben due anni, con gli occhi bendati per non vedere niente e la speranza che i concerti finissero alla svelta. Già prima della malattia, comunque, avevo iniziato a pensare che la vita che mi ero costruito non era di così grande interesse e gradimento come avevo immaginato e continuavo con sempre maggiore insoddisfazione pensando che occorresse cambiare radicalmente: fornire un senso alla mia vita, tornarmene a casa. Nelle tue canzoni, comunque, c'è sempre stata un'attenzione alla dimensione spirituale. Non sono mai stato ateo e ho sempre avuto una visione carnale della dimensione della Creazione. Quando mi sono distaccato dalla Chiesa cattolica non ho abbandonato l'idea della Creazione. Per un periodo ho subito il fascino dell'islam. Poi ho iniziato a coltivare un grande amore per la letteratura e la storia ebraica - che è già quasi "un ritorno a casa" - e per un periodo di tempo ho frequentato il buddismo. Alla fine, però, c'è stato il ritorno al cristianesimo e alla casa di famiglia. Quando sono tornato a vivere nella casa della mia famiglia, a Cerreto Alpi, c'era ancora un prete in paese. Sono andato da don Guiscardo e gli ho esposto tutti i miei problemi e i miei dubbi. Don Guiscardo mi ha risposto che non c'era molto da discutere. Ogni giorno, non solo la domenica, c'era la messa. E poi c'erano le festività durante l'anno. Ho riscoperto la dimensione al tempo stesso naturale e liturgica dell'anno solare. Tornare a casa, per me, ha significato tornare nella casa della mia famiglia e risentirmi generazione su generazione. Chi mi guarda, guarda anche mio padre, mia madre e mio nonno. È una bella responsabilità! "Tornare a casa" è un'espressione che ricorre molto spesso nei tuoi interventi. Cosa ha significato nascere e crescere in questo piccolo borgo di montagna? Sono nato in un periodo in cui la disgrazia si era particolarmente accanita contro la mia famiglia. Mio padre è morto quando mia madre ha scoperto di essere incinta. Dopo la sua morte mia madre ha dovuto mandare avanti tutta la famiglia, compresi i vecchi e i malati, ed è stato un periodo molto difficile e di estrema povertà. Sono stato allevato qui a Cerreto Alpi in una comunità tradizionale e posso dire di essere stato un bambino cattolico, felice perché amato. Crescere in una famiglia tradizionale vuol dire che non sono mai andato a catechismo: era mia nonna che si preoccupava della mia educazione religiosa. Visto che in paese esisteva una pluri-classe e lo studio non era eccellente sono stato mandato in collegio dalle suore di Maria Ausiliatrice. Quand'è che hai deciso di diventare un cantante punk filo-sovietico? Fino alle scuole medie inferiori ho avuto una educazione cattolica, poi, la mia adolescenza ha coinciso con il 1968 e, in quel particolare momento storico, ho abbandonato con molta buona volontà tutto ciò che ero, tutto ciò che mi avevano insegnato. Quando sono entrato al liceo scientifico pubblico ho pensato bene di rigirare il mio mondo, di ricostruirmi nuovo. Un uomo nuovo adatto ai tempi e con grandi aspettative: un po' come uscire dalla superstizione per avviarmi verso un luminoso futuro scientifico e materialista. C'è una frase, nel libro, che sottolinea questo tuo passaggio biografico: "Giovanotto sono stato succube e agente di un'ideologia falsificante che estirpava, in baldanzosa marcia, ogni legame organico". Quelle parole mi rappresentano a pieno e potrei anche cantarle. Devo aggiungere, però, che anche nel periodo di maggior distacco dalla Chiesa cattolica, non ho mai troncato in maniera assoluta con ciò che ero prima. Per cinque anni, prima di iniziare a cantare, sei stato un operatore psichiatrico. Quanto ha influito quell'esperienza? Quell'esperienza mi ha toccato profondamente, senza non avrei mai avuto il coraggio e, forse, il cattivo gusto di inventarmi cantante. Dopo aver lavorato per cinque anni come operatore psichiatrico ho pensato di aver saldato il mio debito con la società. È come se mi fossi accollato un dolore della società che, prima, era stato nascosto nei manicomi e, poi, era stato rigettato sulle famiglie e sugli operatori psichiatrici come me. Quei cinque anni mi hanno fornito un'attitudine ad accettare la vita nella sua complessità e la sofferenza che non si può evitare. Dopo così tanto disagio psichico e fisico, il fatto che io fossi diventato un cantante punk mi sembrava plausibile. Uno dei miei matti, quando tornai a trovarlo, mi abbracciò e mi disse: "Era ora che tu venissi dalla nostra parte!". Finita l'esperienza con i Cccp, con i Csi e con i Pgr (Per grazia ricevuta) chi è oggi Giovanni Lindo Ferretti: un musicista, uno scrittore o un attore di teatro? Di sicuro ero sbandato, ora non so bene cosa sono. Direi un cantore. Porto in giro due piccoli spettacoli, ma non posso lavorare più di due o tre serate al mese perché devo accudire mia madre. Da quattro anni vado in giro con voce e violino, oppure con voce, violino, organetto e una seconda voce maschile. Ho sperimentato il piacere di uno spazio scenico non deputato ai concerti. Cortili, aie, radure. Più di cento concerti in chiesa, per quanto esibirmi in chiesa mi crei sempre un po' di timore e di imbarazzo. Questo non trova corrispondenza nel pubblico, nei sacerdoti e alla fine mi rasserena. Sicuramente, però, il gusto per la parola è un punto di contatto con il vecchio Ferretti. Me lo riconoscono anche i detrattori. Il livello essenziale della mia dimensione pubblica è il piacere della parola, la sua musicalità, il gusto arcaico della parola. Non sono legato alle sperimentazioni o alle avanguardie del Novecento, ma sono intriso di oralità, legato ai salmi, all'epica. Credo che la parola sia il dono più grande che il Creatore ha fatto all'uomo. La parola è vita. E io, fra l'altro, vivo di parole. Nel libro hai dedicato alcune pagine ai Papi che hanno caratterizzato la tua vita. Il pontificato di Giovanni PaoloIIi ha coinciso con la tua affermazione pubblica. Quello è stato il periodo di maggior distanza dalla Chiesa. Il pontificato di Giovanni Paolo II coincide con la mia vita pubblica, il mio essere un cantante punk. Mi ricordo benissimo quando Karol Wojtyla è diventato Papa. L'ho visto in televisione e mi è sembrato un patriarca biblico, giovane e forte. Un'immagine che mi fa sempre pensare a san Giuseppe. Solitamente san Giuseppe viene rappresentato come un vecchio. Invece no, per me lo sposo di Maria è un bell'uomo, giovane e nel pieno delle forze. Giovanni Paolo II era un bell'uomo, con quell'incedere fiero e deciso. È proprio una bella immagine. Nonostante ciò, per un lungo periodo della mia vita ho manifestato una costante forma di disprezzo verso il Papa. L'immagine di Giovanni Paolo II che mi arrivava leggendo "la Repubblica", "l'Unità" o "il Manifesto" era un insieme di negatività. La stessa cosa succede oggi per Benedetto XVI. Gli stessi che criticano Benedetto XVI usano Giovanni Paolo II come termine di paragone: il Papa polacco era bravo invece "il pastore tedesco" è reazionario, dimenticando, che del "bravo" dicevano, a suo tempo, le stesse cose che dicono oggi del "reazionario". Che cosa ti ha fatto cambiare idea su Giovanni Paolo II? Quello che mi ha molto colpito è stato il modo in cui ha vissuto la propria vecchiaia, la malattia. L'accettarsi compiutamente nella propria forza e nella propria debolezza. Smisi di leggere quei giornali che auspicavano le dimissioni del Papa malato e iniziai ad ascoltare l'Angelus, in televisione o direttamente a Roma. Ci sono stati momenti in cui mi sembrava che quel dolore, quel viso sofferente, quella persona malata parlassero direttamente a me. Legavo quella sofferenza al dolore dei vecchi della mia famiglia, alla loro agonia. È un grande dono se un vecchio può permettersi una agonia nelle propria casa assistito amorevolmente dai propri cari. Non si possono sciupare questi momenti. È un insegnamento vitale che si trasmette alle generazioni e non si verifica in altra situazione. Il Papa, usando i media e pur essendone usato, ha fatto un dono credibile non solo al popolo di Dio ma a tutti coloro che lo hanno visto. Ha mostrato che si può morire con una grande dignità nell'accettazione del mistero della vita. La sofferenza non si può spiegare con le parole si può solo vivere e si deve mostrare come ha fatto Giovanni Paolo II. Invece a proposito del cardinale Ratzinger hai scritto: "Un giorno, stanco di leggere sui quotidiani frasi estrapolate, esposte al pubblico disprezzo, del reazionario per eccellenza "Pastore tedesco", entrai in libreria e chiesi: "Non ha mai scritto un libro, questo tal Ratzinger?"" L'immagine che avevo del cardinale Ratzinger, senza aver mai letto un suo libro, era quella del "reazionario per eccellenza". Le prime volte che, da Papa, si è presentato in pubblico percepivo un indole di riservatezza e timidezza. Mentre Giovanni Paolo II dominava le scene, Benedetto XVI è l'esatto opposto. Un po' soffro con lui e vorrei far sparire tutte le macchine fotografiche, le videocamere e i telefonini che circondano il Papa! Benedetto XVI incarna l'immagine dello studioso, dell'uomo saggio e sapiente, timorato di Dio. Quando il cardinale Ratzinger è diventato Papa mi sono inginocchiato davanti alla televisione piangendo per la commozione, la gioia. Il Papa è il nostro Santo Padre e può essere malato, sano, giovane o vecchio. Io lo amo per come egli è. Il Papa è forte al di là della propria indole perché, dietro e attorno a sé, c'è qualcosa che si chiama la comunione dei santi che regge anche l'invasione dei media. È vero che, qualche tempo fa, hai firmato un contratto in cui erano previste delle clausole dove era vietato parlare male del Papa? Quando lavoravo con il regista teatrale Giorgio Barberio Corsetti la produzione aveva aggiunto una clausola al contratto che intimava: "È vietato parlare del Papa nei camerini o attorno a Ferretti". Questo perché quando sentivo parlare male di Benedetto XVI mi innervosivo oltremodo e ne nascevano liti furiose per le stupidaggini che sentivo. Naturalmente io ho cumulato molte colpe nella mia vita e accetto la stupidaggine mia e altrui. Non sono stato meno sciocco di coloro che adesso si comportano da stolti nei confronti del Santo Padre. Ma io difendo il Papa e non sono in grado di accettare certe banalità determinate da ignoranza, malafede e superficialità. Leggendo il libro par di capire, però, che non hai una particolare predilezione per l'arte sacra contemporanea. Quando vedo certe opere d'arte o partecipo ad alcune celebrazioni liturgiche rimango senza parole. La messa è il sacrificio perfetto! Invece, ci sono celebrazioni liturgiche che per noi, povera gente di montagna, sono insultanti. La liturgia non è qualcosa che possiamo alimentare in base alle nostre voglie e alle nostre volontà. La liturgia è un legame fortissimo, è la Tradizione e non si può cambiare perché qualcuno crede di aver avuto una bella idea. La dimensione della Chiesa è storicizzata e storicizzabile ma non si può inventare di colpo un'altra cosa. Non voglio fare il moralista, però, di fronte all'arte moderna sono in uno stato di grande empasse. Francamente non ho mai visto niente, dell'arte moderna, che sia riconducibile a una dimensione religiosa. La religione è un legame con il divino e un rapporto con la storia determinato da un avvenimento, non proprio indifferente, che si chiama Incarnazione. Come è possibile costruire una chiesa che non sta in nessun rapporto con la Tradizione? Questo discorso vale anche per la preghiera? Ognuno di noi può inventarsi le proprie preghiere, ha tutta la libertà e anche il dovere di farlo. Ma la comunità non è la somma numerica dei convenuti. Io non sento alcun bisogno di preghiere nuove perché ci sono le preghiere di sempre che ci legano alla storia. A me dispiace di non sentire più il nome Melchisedek. Da bambino ero incantato dal nome Melchisedek e non vedevo l'ora di imparare a leggere per andare a studiare chi fosse. Egli è sommo sacerdote al cospetto di Dio prima ancora che cominci la storia di Abramo. Alcuni anni fa lessi il libro del cardinale Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, e lo trovai meraviglioso. Lui mi diceva tutte le cose che io volevo sentirmi dire per tornare in Chiesa in pace. Anzi, me ne diceva molte di più e mi sistemò molti punti che prima mi erano confusi. Dovrebbe essere il nostro dovere, oltre che piacere, ascoltare quel che dice il Santo Padre. Dalla spiritualità alla pratica politica. Tu hai assunto anche una netta posizione pubblica sull'aborto. La storia dell'aborto nel nostro mondo è una questione da cui non si può svicolare, l'aborto è un crimine incredibile che si commette con una leggerezza credibilissima. Io non posso far altro che ribadire quello che credo: nessuno ha il diritto di uccidere un innocente. Non mi permetto di giudicare una donna che abortisce, ma giudico severamente una società che invece di farsi carico della maternità trasforma, nel regno delle idee, l'uccisione dell'innocente assoluto in un diritto festoso sostenuto da cortei, balletti, striscioni e impone, nei fatti, non solo la desacralizzazione della vita ma la riduzione dell'uomo a materiale organico atto allo scarto o alla sperimentazione. C'è una cosa, nella tua vita, che ti penti di aver fatto? Aver scritto e cantato: "Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta". Prima di tutto, per aver messo insieme Allah e Gheddafi e poi per quella spocchioseria, sottintesa, che si permette di irridere tutto e tutti ma che spero si possa perdonare a un giovane estremista sciocco e di buon cuore come era il sottoscritto. Due scappellotti, per questo, me li meriterei proprio. Mi pento di molte altre cose, ovvio, ma attengono alla relazione tra il Creatore e la mia persona e trovano nella dimensione del confessionale il proprio spazio. Rifuggo il parlar pubblico che diventa necessariamente pettegolezzo. (©L'Osservatore Romano - 6 gennaio 2010) |
Postato da: giacabi a 18:30 |
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ferretti
Chiambretti night intervista Giovanni Lindo Ferretti
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Postato da: giacabi a 22:28 |
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ferretti
Un ragionevole dubbio
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Sono
tante le figlie che vivono vite che i loro padri ritengono indegne.
Capita anche che alcune di queste figlie ritenessero, in precedenza,
indegna quel tipo di vita. Alcune di queste figlie le ho conosciute e
anche qualche padre. A volte i padri hanno ragione, a volte la ragione è
delle figlie, a volte è difficile scorgere anche solo un barlume di
ragionevolezza. E’ la vita. Evidente e non quantificabile il dolore in
atto. E’ altresì evidente che non si può sopprimere il dolore del padre
eliminando la figlia o viceversa. Non si potrebbe ma due storie
identiche nella sostanza quanto opposte nella forma sono davanti i miei
occhi. Tutte e due sono determinate da un grande dolore: personale,
familiare, storico e sociale. Cosmico. In tutte e due c’è una figlia che
vive una vita ritenuta indegna ma si intravede una soluzione.
Nel
primo caso il padre sgozza la figlia e la seppellisce in giardino: è la
barbarie. Nel secondo caso entra in ballo la civiltà: non basterà una
lama, sarà sedato il rantolo e la purificazione rituale è già avvenuta
sui giornali e in tv, nel dibattito. E tanto tanto dolore, tanto tanto
rispetto, sgorga da chi la vuole morta. Chi è incredulo per la
mostruosità scientifico-legale è troppo incazzato e non fa bella figura.
E’ la civiltà:
ci vuole una sentenza, un team medico, una struttura idonea, tanto
volontariato per far morire di fame e sete, ma monitorata, una giovane
donna indifesa e bisognosa che, guarda caso, ha anche trovato chi si
prende cura di lei. Sorriderle, accarezzarla, lavarla e asciugarla.
Farle compagnia. Darle da mangiare e da bere. Per quel che si può,
finché si può. Chi ama la vita, per quello che è, fatica a trovare le
parole che ne esprimano la complessità, la gratuità, la ricchezza e il
mistero; sa che non tutto è riducibile a diritto o pretesto per
rivendicazioni.
Caro direttore, qui
nevica poi piove e rinevica e ripiove, ogni tanto uno squarcio di sole e
bisogna socchiudere gli occhi per reggere tanta bellezza. Ho passato la
mattina a pulire un bagno, cambiare un letto e lavare: ha presente
l’incontinenza di un vecchio malato sommata a imperizia e pudore
filiale? Uno schifo. Mi giravo da ogni parte per non incrociare gli
occhi di mia madre ma il suo dolore dominava su tutto. Il dolore per
essermi di peso, per obbligarmi a mansioni così umili, per non essere
più bastante a sé, lei che sosteneva tutto e tutti. Quante facce ha il
dolore? Ma che sia l’amore, ogni atto di umile amore, a reggere il mondo mi pare un ragionevole dubbio.
Che un giudice, una legge, una democrazia condannino un innocente
assoluto e indifeso a morire di fame e di sete strappandolo a chi se ne
prende cura, amorevole e quotidiana, mi pone un ragionevole dubbio sullo
stato di salute di un tale ordine sociale. Non è un bel pensare.
Con infinita tristezza,
suo Ferretti Lindo Giovanni
(da Il Foglio, 06/02/2009)
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Postato da: giacabi a 21:38 |
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eutanasia, ferretti
Venite alla Capanna
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G.L.Ferretti - A.Sparagna: (Litania) Venite alla Capanna
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Postato da: giacabi a 19:41 |
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natale, ferretti
Testimonianza
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Giovanni Lindo Ferretti
grazie!
intervistato da Ferrara a : ottoemezzo
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Postato da: giacabi a 14:46 |
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ferretti
Testimonianza
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Giovanni Lindo Ferretti
grazie!
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Postato da: giacabi a 16:44 |
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ferretti
25 aprile, oltre la retorica la verità nel cuore della gente
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In
questa testimonianza resa da Giovanni Lindo Ferretti si parla, tra le
altre cose, di due personaggi: il comandante Azor e Giorgio Morelli.
Il comandante Azor è Mario Simonazzi, di Albinea (Reggio Emilia), partigiano delle Fiamme Verdi scomparso misteriosamente poco prima della liberazione all’età di 25 anni. Il suo cadavere fu ritrovato per caso alcuni mesi dopo. Giorgio Morelli, anch’egli di Albinea e amico di Azor, fondò il giornale indipendente “La Nuova Penna”, sulle cui colonne pubblicò inchieste intorno ai delitti politici compiuti nella zona. Firmava i suoi articoli con lo pseudonimo “il Solitario”. Il 29 gennaio 1946 venne gravemente ferito in un agguato; pochi giorni dopo passeggiò per la città portando addosso il cappotto bucato dai proiettili, e sfilò di fronte al capo dell’ANPI da lui indicato come la mente di molti di quei delitti politici. Ma le ferite non guarirono; e Morelli, accudito dalla sorella Maria Teresa, morì l’anno successivo, all’età di 21 anni. Ancora un’annotazione: quando lo abbiamo contattato, Giovanni Lindo Ferretti non era nelle condizioni di scrivere. Ma era entusiasta di poter parlare di questo argomento. Anzi, ci ha ringraziato di avergliene dato la possibilità. Quella che riportiamo è la trascrizione, un po’ aggiustata, di ciò che ci ha raccontato al telefono. Ieri sera prima di andare a letto ho acceso la televisione e ho visto il finale di una trasmissione. Quello che ho visto mi ha turbato, mi ha innervosito; c’era qualche cosa che non funzionava. Era un resoconto assolutamente asettico e ideologico, fatto da uno storico della resistenza: raccontava un episodio molto importante accaduto a Reggio Emilia, rimasto nascosto per mezzo secolo; un episodio di cui, per molto tempo, non si era potuto e non si era dovuto parlare. Poi improvvisamente – diceva lo storico –, con la caduta del Muro di Berlino, e quindi con la nuova situazione creatasi in Europa e nel mondo, era infine venuta l’ora di affrontare la resistenza per quello che è stata, e non nella sua dimensione ideologica. Partendo da questo presupposto (politico ed ideologico) raccontava, anche con precisione, la storia del comandante Azor. Io continuavo a pensare: «che cos’è che mi disturba? che cos’è che non posso accettare in questa ricostruzione?». Ecco, quello che mi disturba: il tramutare la vita delle persone, il dare alla vita delle persone una dimensione storico-ideologica. La storia di Azor, per quello che la conosco io, e per come la conosciamo noi tutti a Reggio Emilia, è diversa, nel suo svolgersi dalla sua morte ad oggi. Perché a Reggio Emilia si parla del comandante Azor, anche se altrove per cinquant’anni non se n’è saputo niente? Il motivo non è dato dallo studio di uno storico; è molto più interessante. Il motivo è una giovane nipote che non ha mai conosciuto uno zio, e che è stata allevata nel ricordo di questa persona dall’amore di un padre, il fratello del comandante Azor, e di una famiglia, la famiglia dei Simonazzi. È la famiglia dei Simonazzi, e il fatto che la famiglia dei Simonazzi continui a vivere, che ha fatto sì che non si sia dimenticata la storia del comandante Azor. Che sia caduto il muro di Berlino, e che gli studiosi della resistenza adesso usino questa storia per farsi propaganda in una nuova veste, è altra cosa, è un elemento disturbante. Noi non conosceremmo questa storia se non ci fosse stata la nipote, la Daniela, a cui non tornava qualcosa: in casa le raccontavano una storia, e fuori questa storia non c’era. Il comandante Azor (lo diceva anche quello storico della resistenza) era un personaggio importantissimo; quando si sono fatti i suoi funerali c’erano migliaia e migliaia di persone. Allora come è possibile che un comandante importantissimo, con migliaia e migliaia di persone che vanno al suo funerale, dieci anni dopo non sia nemmeno menzionato nella storia della resistenza? Eppure si pretende che la resistenza sia l’inizio non solo della nostra storia moderna, ma che sia “il tutto”: noi siamo cresciuti nell’idea che la resistenza è all’origine di tutto. Però in quel tutto il comandante Azor non c’è. Allora c’è questa bambina, che cresce in un contesto familiare, e a un certo punto decide che lei vuole riscoprire la storia di suo zio, e comincia a girare da una casa all’altra e a ricercare quelle pochissime, pochissime persone, che sanno questa storia e sono disposte a parlarne. Ma si contano sulle dita di una mano, in una intera città. Poi quella bambina si mise a girare nella zona dove operava il comandante Azor, e si fermava nelle case dei contadini, si presentava e chiedeva se sapevano qualcosa su questo zio che esisteva in maniera così forte nella famiglia, e che invece era scomparso nella società. Trovava gente che l’abbracciava, che piangeva, e tornava a casa la sera piena di roba: frutta, verdura, dolci, bottiglie di vino. E piano piano ha ricostruito la storia. Ecco la cosa importante: il fatto che noi oggi parliamo di Azor è perché la famiglia, come istituzione precedente la politica, sovrasta di gran lunga la politica stessa. Se non ci fosse una famiglia, e una nipote e un fratello che hanno mantenuto vivo e saldo il ricordo, chissà quale storia potrebbero raccontarci. Adesso non possono raccontare una storia molto diversa dalla realtà, perché comunque c’è un testimone, testimone che è vivente, che è sangue e carne. E quindi bisogna farne i conti, anche se si cerca di enuclearlo, di tenerlo lontano. Esce il libro, costruito con un grande sforzo, non da uno storico, ma da una nipote. Poi, subito dopo, esce un altro libro, quello con i crismi della storicità. In realtà i crismi della storicità significa che è stato copiato tutto quello che si poteva copiare dall’altro racconto. Un racconto che era una necessità che prorompeva dall’anima, dalla carne, dalla storia di una persona, di una famiglia. Quando ho scoperto questa storia mi sono stupito della mia dabbenaggine; non ci credevo, pensavo «non è possibile che io sia cresciuto nella menzogna». Questa cosa ha fatto il paio con un altro ricordo della mia infanzia, perché la verità non passa mai tramite le ideologie e non la raccontano gli storici: la verità passa attraverso la vita, e la raccontano le persone. E mi veniva in mente quando ero ragazzino, che uscivo per andare alle manifestazioni del 25 aprile, e mia nonna con le lacrime agli occhi mi diceva: «Giovanni non è così, non è successo così; io non sono capace di raccontarti come è successo, ma questa non è la verità». Io la scusavo perché le volevo bene, perché era vecchia, perché era incolta. Invece aveva ragione lei. Quello su cui noi abbiamo costruito una struttura politica che è durata cinquant’anni non è esattamente la verità; la verità della resistenza a Reggio Emilia (uno dei luoghi centrali della resistenza in Italia) è qualcosa di molto diverso. Innanzitutto c’è l’importanza dei sacerdoti delle montagne, delle parrocchie, delle comunità tradizionali, che non viene mai presa in considerazione. La resistenza, quando è cominciata, si è organizzata intorno a pochissime persone, per lo più legate alle parrocchie, legate al cattolicesimo tradizionale. Poi, qualche grande anarchico, e qualche grande personaggio di sinistra. Però nella dimensione di una civiltà tradizionale di montagna, ormai agli sgoccioli. Questa cosa si è completamente persa nell’ultimo periodo della resistenza, quando sono arrivati in montagna quelli che avevano una concezione politica e ideologica molto forte, quando sono arrivate le truppe e i commissari politici: questo ha creato moltissimi problemi nei paesi di montagna, nelle comunità, tra le comunità, e anche ai sacerdoti che avevano allevato la resistenza. Quando io ho scoperto questa storia mi sono davvero sentito la persona più sciocca e più stupida sulla faccia della terra; poi però mi sono sentito pacificato, perché potevo finalmente capire quello che mi voleva raccontare mia nonna. Ma questa storia non l’ho scoperta perché è caduto il muro di Berlino, e gli storici improvvisamente si sono messi a raccontare la verità; l’ho scoperta perché ho incontrato una persona, e poi un’altra persona. La prima anche per caso; poi bisogna vedere se il caso esiste, o cos’è che lo gestisce. Fatto sta che un giorno ho incontrato una signora a un convegno, con in mano un libro, che non era per me, ma per un relatore che non si è presentato. Allora lei mi ha visto e ha pensato: quasi quasi do da leggere questo libro a Giovanni (anzi, a Lindo, perché le mi chiama Lindo) così magari può aiutarmi. Si è presentata a me e io non sapevo neanche di cosa lei stesse parlando, e mi ha raccontato la storia del comandante Azor. Lei era Daniela, sua nipote. L’ho anche tenuta un po’ distante, dicendo «non mi interesso di queste cose, non ho tempo», tutte quelle cose che si dicono quando qualcuno ti viene a importunare. Poi sono arrivato a casa e ho preso questo libretto, questa sua ricerca sulla storia dello zio, e l’ho letta d’un fiato. Poi l’ho riletta. Poi ho cominciato a chiedere informazioni alle persone che conoscevo: ognuno sapeva qualcosa, ma tutto in una nebbia oscura. Come diceva monsignor Beniamino Socche, anche se non ricordo con precisione la frase, «quando smise di soffiare la bufera calò la nebbia». Una caligine nasconde tutte queste cose. Ma nella caligine ognuno aveva il suo piccolo particolare, anche se confuso. Quindi ho pensato che questa storia io l’avevo conosciuta e non potevo fare finta di non conoscerla. Ho cominciato a mettere qualche frase qua e là nei miei spettacoli, a parlare del comandante Azor, e poi di Giorgio Morelli. Poi due anni fa l’altro incontro. Avevo tenuto una veglia natalizia nella Basilica della Ghiara. Alla fine di questa veglia è arrivata la Daniela con una vecchia signora che aveva due occhi meravigliosi: io l’ho salutata, e sono rimasto molto colpito da questi occhi. Lei si è presentata: era la sorella di Giorgio Morelli, Maria Teresa. Mi ha fatto un po’ di complimenti, mi ha ringraziato perché per la prima volta aveva risentito nominare suo fratello e il suo grande amico, il comandante Azor, in un contesto pubblico. Io non so perché ma ho avuto un moto istintivo, l’ho guardata e le ho chiesto: «Maria Teresa, come posso fare per far sorridere i tuoi occhi? Come hai passato i 25 aprile della tua vita?». Lei mi ha detto: «Io ho passato il 25 aprile come il giorno più bello della mia vita, perché mio fratello è stato il primo ad entrare in città e ad annunciare la liberazione. Era giovanissimo, aveva scritto l’articolo di fondo del giornale delle forze di liberazione, che parlava della libertà che arrivava. Ero la ragazzina più felice di Reggio Emilia. L’anno dopo ero la ragazzina più triste della terra, e poi per tutti gli anni della mia vita il 25 aprile è stato un giorno dolorosissimo». Io le ho detto: «senti, facciamo un 25 aprile in compagnia? Io tutti i 25 aprile della mia vita li ho sbagliati; i tuoi sono stati dolorosi. Facciamo un 25 aprile in pace, in pace con la nostra storia e con noi stessi?». Da lì è uscita l’idea di fare un 25 aprile in una canonica di montagna, in una canonica molto precisa, quella di don Pasquino Borghi, e di farlo alla nostra maniera: nessun discorso, niente di niente. Solo un rientrare nella nostra storia. Una giornata nella chiesa, davanti alla chiesa e intorno alla chiesa; una bella messa, un pranzo tutti insieme, un piccolo concerto, poi la recita del rosario, poi cantare le litanie, poi ci si abbraccia e ci si bacia e ognuno va a casa. Abbiamo organizzato questo 25 aprile “solitario”; non avevamo molta voglia di essere in grandi compagnie. Abbiamo impedito a qualsiasi politico di qualsiasi genere di venire a raccontarci le sue storie, e abbiamo fatto tutto il possibile per non farne una questione di dibattito politico o robe di questo genere; era nient’altro che il riappropriarsi della propria storia, il voler essere in pace con la propria storia, il rendere merito e onore ai propri morti e alla vita che continua. Non potevamo che farlo in questo modo. E tutto è andato secondo le nostre migliori aspettative: volevamo le persone giuste e sono arrivate le persone giuste. Siamo riusciti a dare da mangiare a tutti, e alla sera non era rimasto niente. Se ne venivano due in più, non avevamo da dar loro da mangiare. La chiesa era strapiena, di più non ce ne stavano, sia durante la messa che durante la recita del rosario. Maria Teresa non ha fatto altro che piangere e ridere tutto il giorno. Ha rivisto persone che non vedeva dal funerale di suo fratello. Tutta qua, la storia di un 25 aprile molto particolare. |
Postato da: giacabi a 20:54 |
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ferretti
Giovanni Lindo Ferretti
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Da: www.sandrodiremigio.com
Mi ero stufato, qualche anno fa di leggerne su Repubblica tutto il male possibile. Sono andato in libreria e ho chiesto se questo Ratzinger
avesse scritto qualcosa. Mi hanno indicato una pila di libri. Da lì ho
scoperto un genio prima che diventasse Papa". E poi Simone Weil, Hannah
Arendt, Don Giussani, Dante. A 53 anni Ferretti continua a "campare di parole". (Intervista a Socci - Libero)
... Certo, sono cambiato, ma per me è stato consequenziale. Sono stato educato da mia nonna e dai miei genitori, da cattolico. Ma sono stato anche figlio del Sessantotto e ho volontariamente aderito al comunismo, questa pestilenza dell'animo che si è rubata i figli migliori delle nostre famiglie. In un certo senso, sono tornato a casa. Ma non sopporto l'idea di essere anticomunista con lo stesso livore stupido di come sono stato ateo e bestemmiatore per anni. Voglio un po' più di dignità". ... "Negli anni novanta mi interessava moltissimo L'islam. Le tragedie dell'Algeria e della Jugoslavia mi hanno portato ad avvicinarmi a questo mondo. Ma la concezione della donna di quel mondo mi ha fatto capire che non faceva per me. Sono passato dal confucianesimo, dal buddismo. Ho capito che per anni avevo convissuto con pensieri insignificanti rispetto alla comprensione del mondo. Aveva ragione Wojtyla: anche per me è stato un male necessario. E qui ho riscoperto il cristianesimo". ... "Se c'è da cantare "Fedeli alla linea" la canto. Non abiuro i miei errori, sarebbe troppo comodo. La mia storia è questa e chi mi ascolta oggi la conosce benissimo. Del resto, le cose non sono mai scontate. Al tempo dei Cccp un ragazzo, fan sfegatato, insiste per offrirmi un caffè e mi dice sottovoce di essere un missino. Uno choc! Ne ho conosciuto un altro, entrato in un convento monastico, che ha chiesto al suo superiore di portarsi in cella "Affinità e divergente tra il compagno Togliatti e noi (uno dei dischi più noti dei Cccp, ndr). ... Il dolore... "Nella mia vita l'ho conosciuto. Sono stato operato sette volte, ho avuto malattie gravi. Il nostro mondo ha prima abolito la morte, nascondendola ai bambini, confinandola più lontano possibile, abolendo le veglie, i funerali. Adesso cerca di abolire il dolore: ma è un atto di una violenza terribile, la stessa che portava il comunismo a voler costruire il paradiso in terra. Avvicinandosi all'inferno". (Intervista Antonio Socci per Libero INTERVISTA A OTTOEMEZZO - parte 2/2 - 6'23" CSI - Forma e Sostanza |
Postato da: giacabi a 20:36 |
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La rabbia di un "Reduce”
di Vites Paolo Il titolo del libro la dice già lunga: Reduce, come uno che torna a casa da una lunga guerra. Un sopravvissuto. Ma non è di una guerra che racconta Giovanni Lindo Ferretti - leader dei Cccp-Fedeli alla linea prima, poi dei Csi e oggi dei Pgr (Per Grazia Ricevuta!) - nel suo primo libro pubblicato in questi giorni da Mondadori (120 pp., 13 euro). «A me m'ha rovinato il '68!» dice nella poesia che conclude il volume, «altro che "formidabili quegli anni"». È un reduce di una generazione cresciuta nell'ideologia, e in questo libro racconta un percorso di sofferenza e ricerca che l'ha portato in ogni angolo del mondo (splendida la sezione dedicata ai viaggi, cominciati negli anni Settanta a bordo di una scassata Fiat che lo porta a partecipare alla rivoluzione dei garofani a Lisbona, poi sempre più in là, dall'Algeria alla Mongolia, con una profonda inquietudine, a cercare il volto della Bellezza - «aprire gli occhi alla Bellezza» come intitola uno dei capitoli) sempre accompagnato da una presenza misteriosa e discreta. Non è un caso che queste lunghe peregrinazioni si concludano a Gerusalemme. Per poi tornare nella vecchia casa di famiglia sperduta sull'appennino toscano, dove tutto fa memoria di un Dio fatto carne: «All'essere uomo e donna resta tutto il Divino che riesce a penetrare il quotidiano». Non si parla di musica, nel libro. Ma si lanciano accuse che creeranno scompiglio negli ambienti di sinistra di cui fino a ieri Ferretti era portavoce: «È passato il secolo ventesimo, quello veloce e breve, dal 1919 al 1989. Doveva decretare nei fatti come da idee che l'hanno prodotto l'alba della libertà, a seguire il sol dell'Avvenire, l'uomo nuovo, la nuova umanità. Eccolo: mattatoio abominevole in dimensione industriale, milioni e milioni, a decine, di uomini e donne, vecchi e bambini, ridotti a fumo cremoso, fanghiglia viscida escrementizia e putrida. Tolto il soffio divino a questo si riduce l'uomo. Macello d'ogni speranza, illusione d'umana presupponenza. Su questo costruisce chi s'affida, contro Dio, all'uomo. Nelle due dimensioni in dote alla modernità: il nazifascismo e il comunismo. Alla post modernità: lo scientismo tecnologico genetico». E allo scientismo tecnologico genetico, alla pretesa dell'uomo di farsi dio di se stesso, Ferretti dedica lunghe riflessioni, piene di quella rabbia iconoclasta che un tempo scagliava dalle sue canzoni punk. Ma con una certezza ormai incrollabile: «Gesù nacque a Betlemme (.): da che mondo è mondo, questa è la sola vera Buona Novella».
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Postato da: giacabi a 18:09 |
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ferretti
Giovanni Lindo Ferretti
da Lotta Continua
alla Chiesa Cattolica:
L'articolo originale e' all'indirizzo http://italy.indymedia.org/news/2006/10/1169826.php Stampa i commenti.
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