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domenica 12 febbraio 2012

Giovanni Paolo II, 2


La misericordia di Dio
***
Può Dio, il quale ha tanto amato l’uomo, permettere che costui lo rifiuti così da dover essere condannato a perenni tormenti? E, tuttavia, le parole di Cristo sono univoche. In Matteo egli parla chiaramente di coloro che andranno al supplizio eterno [cf. 25,46]. Chi saranno costoro? La Chiesa non si è mai pronunciata in merito. Questo è un mistero, veramente inscrutabile, tra la santità di Dio e la coscienza dell’uomo. Il silenzio della Chiesa è, dunque, l’unica posizione opportuna del cristiano. Anche quando Gesù dice di Giuda il traditore, “sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” [Mt 26,24], la dichiarazione non può essere intesa con sicurezza nel senso dell’eterna dannazione
(Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 202).

Postato da: giacabi a 16:27 | link | commenti
giovanni paoloii, amore

domenica, 24 luglio 2011

L’uomo che vuol comprendere se stesso
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L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo ‒ non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere ‒ deve con la sua inquietudine e incertezza ed anche nella sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo”.

Giovanni Paolo II


Postato da: giacabi a 07:14 | link | commenti
giovanni paoloii

sabato, 11 giugno 2011

Rinnovate continuamente la scoperta
del carisma che vi ha affascinati
***
«Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso
diventa uno strumento privilegiato per una personale e sempre nuova
adesione al mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione
alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia

[l’esatto contrario della vita nuova]! Rinnovate continuamente la scoperta
del carisma che vi ha affascinati ed esso vi condurrà più potentemente
a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo signore!

Giovanni Paolo II, Discorso ai sacerdoti partecipanti all’esperienza del Movimento «Comunione
e Liberazione», 12 settembre 1985.

Postato da: giacabi a 15:56 | link | commenti
giovanni paoloii

domenica, 15 maggio 2011

Il cammino della fede
passa attraverso tutto ciò che viviamo
.

***
Carissimi amici, perché all’inizio del vostro Giubileo ho voluto offrirvi questa testimonianza personale? L’ho fatto per chiarire che il cammino della fede passa attraverso tutto ciò che viviamo.
            Dio opera nelle vicende concrete e personali di ciascuno di noi: attraverso di esse, talvolta in modi veramente misteriosi, si presenta a noi il Verbo “fatto carne”, venuto ad abitare in mezzo a noi.
            Cari giovani e ragazze, non permettete che il tempo che il Signore vi dona trascorra come se tutto fosse un caso. San Giovanni ci ha detto che ogni cosa è stata fatta in Cristo. Credete dunque fortemente in Lui. Egli conduce la storia dei singoli come quella dell’umanità. Certamente Cristo rispetta la nostra libertà, ma in tutte le vicende gioiose o amare della vita non cessa di chiederci di credere in Lui, nella sua Parola, nella realtà della Chiesa, nella vita eterna!
            Non pensate mai, perciò, di essere ai suoi occhi degli sconosciuti, come numeri di una folla anonima.
            Ognuno di voi è prezioso per Cristo, è conosciuto personalmente, è amato teneramente, anche quando non se ne rende conto.
Giovanni Paolo II  Giubileo 2000

Postato da: giacabi a 07:58 | link | commenti
giovanni paoloii

sabato, 07 maggio 2011


Rinnovate continuamente la scoperta del carisma
***
Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso
diventa uno strumento privilegiato per una personale e sempre nuova
adesione al mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia [l’esatto contrario della vita nuova]! Rinnovate continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo signore!

Giovanni Paolo II,

Postato da: giacabi a 17:54 | link | commenti
giovanni paoloii

mercoledì, 04 maggio 2011

Giovanni Paolo II ha restituito la fisionomia autentica della speranza al Cristianesimo
***
«Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: “Quando nel giorno 16 ottobre il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszynski mi disse: “Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. E aggiungeva: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo ho partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”. E qual è questa “causa”? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con al forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.
Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà.
Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.
Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo, (ogni uomo) è la via della Chiesa, e Cristo è la via di ogni uomo, dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere”, il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare “soglia della speranza”. Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace»
[Benedetto XVI, Omelia per la Beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011].

Postato da: giacabi a 21:46 | link | commenti
benedettoxvi, giovanni paoloii

mercoledì, 02 marzo 2011
L'esperienza elementare

L'esperienza elementare
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1. “Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua perché non abbia sete” (Gv 4, 15). La domanda della Samaritana a Gesù esprime, nel suo significato più profondo, il bisogno incolmabile e il desiderio inesauribile dell’uomo. Infatti ogni uomo degno di questo nome si accorge inevitabilmente di una incapacità congenita di rispondere a quel desiderio di verità, di bene e di bellezza che scaturisce dal profondo del suo essere. Man mano che si inoltra nella vita, egli si scopre, proprio come la Samaritana, incapace di spegnere la sete di pienezza che porta dentro di sé. Da oggi, fino a Natale, le riflessioni di questo incontro settimanale saranno sul tema dell’anelito dell’uomo alla Redenzione. L’uomo ha bisogno di un Altro; vive, lo sappia o meno, in attesa di un Altro, che redima questa sua innata incapacità a saziare le sue attese e le sue speranze.
Ma come potrà incontrarsi con lui? Condizione indispensabile per questo incontro risolutivo è che l’uomo prenda coscienza della sete esistenziale che lo affligge e della sua radicale impotenza a spegnerne l’arsura. La via per giungere a tale presa di coscienza è, per l’uomo di oggi come per quello di tutti i tempi, la riflessione sulla propria esperienza. Lo aveva intuito già la saggezza antica. Chi non ricorda la scritta che campeggiava bene in vista sul tempio di Apollo a Delfi? Essa diceva appunto: “Uomo, conosci te stesso”. Questo imperativo, espresso in modi e forme diverse anche in più antiche aree di civiltà, ha attraversato la storia e si ripropone con la medesima urgenza anche all’uomo contemporaneo.
Il Vangelo di Giovanni in taluni episodi salienti documenta assai bene come Gesù stesso, nel proporsi quale Inviato del Padre. abbia fatto leva su questa capacità che l’uomo possiede di capire il suo mistero riflettendo sulla propria esperienza. Basti pensare al citato incontro con la Samaritana, ma anche a quelli con Nicodemo, con l’adultera o il cieco nato.
Ma come definirla questa esperienza umana profonda che indica all’uomo la strada dell’autentica comprensione di sé? Essa è il paragone continuo tra l’io e il suo destino. La vera esperienza umana avviene solo in quella genuina apertura alla realtà che consente alla persona, intesa come essere singolare e consapevole, carico di potenzialità e di bisogni, capace di aspirazioni e di desideri, di conoscersi nella verità del suo essere. E quali sono le caratteristiche di una simile esperienza, grazie alla quale l’uomo può affrontare con decisione e serietà il compito del “conosci te stesso”, senza perdersi lungo il cammino di tale ricerca? Due sono le condizioni fondamentali che egli dovrà rispettare.
Dovrà anzitutto essere appassionato a quel complesso di esigenze, bisogni e desideri che caratterizzano il suo io. In secondo luogo dovrà aprirsi ad un incontro oggettivo con tutta la realtà.
San Paolo non cessa di richiamare ai cristiani queste fondamentali caratteristiche di ogni esperienza umana quando sottolinea con vigore: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3, 23), oppure quando invita i cristiani di Tessalonica a “vagliare ogni cosa e trattenere ciò che è buono” (1 Ts 5, 21). In questo continuo paragone col reale alla ricerca di ciò che corrisponda o meno al proprio destino, l’uomo fa l’esperienza elementare della verità, quella che dagli Scolastici e da san Tommaso è stata definita in modo mirabile come “adeguazione dell’intelletto alla realtà” (San Tommaso, De Veritate, q. 1 a. 1 corpus).
3. Se per essere vera l’esperienza deve essere integrale e aprire l’uomo alla totalità, si capisce bene dove stia per l’uomo il rischio dell’errore: egli dovrà guardarsi da ogni parzializzazione. Dovrà vincere la tentazione di ridurre l’esperienza, ad esempio, a mere questioni sociologiche o ad elementi esclusivamente psicologici. Così come dovrà temere di scambiare per esperienza schemi e “pregiudizi” che l’ambiente in cui normalmente vive e opera gli propone: pregiudizi tanto più frequenti e rischiosi oggi perché ammantati dal mito della scienza o dalla presunta completezza dell’ideologia.
Come è difficile per l’uomo di oggi approdare alla sicura spiaggia della genuina esperienza di sé, quella nella quale gli si può adombrare il vero senso del suo destino! egli è continuamente insidiato dal rischio di cedere a quegli errori di prospettiva che, facendogli dimenticare la sua natura di “essere” fatto ad immagine di Dio, lo lasciano poi nella più desolante delle disperazioni o, che è ancora peggio, nel più inattaccabile cinismo.
Alla luce di queste riflessioni quanto appare liberante la frase pronunciata dalla Samaritana: “Signore . . . dammi di quest’acqua perché non abbia più sete . . .”! Veramente essa vale per ogni uomo, anzi a ben vedere è una profonda discrezione della sua stessa natura.
Infatti l’uomo che affronta seriamente se stesso e osserva con occhio chiaro la sua esperienza secondo i criteri che abbiamo esposti, si scopre più o meno consapevolmente come un essere a un tempo carico di bisogni, cui non sa trovare risposta, e attraversato da un desiderio, da una sete di realizzazione di sé, che non è capace, da solo, di appagare.
L’uomo si scopre così collocato dalla sua stessa natura nell’atteggiamento di attesa di un Altro che completi la sua mancanza. Un’inquietudine pervade in ogni momento la sua esistenza, come suggerisce Agostino all’inizio delle sue Confessioni (I, 1): “Ci hai fatti per te, o Signore, ed è inquieto il nostro cuore finché non riposa in te”. L’uomo, prendendo sul serio la sua umanità, percepisce di essere in una situazione di impotenza strutturale!
Cristo è Colui che lo salva. Egli solo può toglierlo da questa situazione di stallo, colmando la sete esistenziale che lo tormenta.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 12 ottobre 1983

Postato da: giacabi a 20:29 | link | commenti
giovanni paoloii

lunedì, 31 gennaio 2011

Una testimone eroica di nome Wanda
***

 

di Antonio Giuliano
27-01-2011

«Una sera studiavo con la mia amica Nata, quando all’ingresso risuonò una voce maschile, estranea e ostile, benché parlasse polacco: “Chi di voi è Wanda?”». Iniziò proprio così nel 1941 il calvario di una diciottenne studentessa polacca di nome Wanda Poltawska. Già, perché oltre allo sterminio di milioni di ebrei, conobbero l’inferno dei lager nazisti anche tanti cattolici, come questa donna impavida che il prossimo 2 novembre compirà 90 anni.
Quella maledetta sera, la ragazza, originaria di Lublino, fu trascinata al comando della Gestapo di Cracovia e interrogata per giorni. Aveva partecipato alla Resistenza polacca contro l’invasore tedesco. Eppure nonostante le percosse e le minacce, tenne duro e non fece nessun nome dei suoi compagni. Ma per lei si aprirono le porte del baratro. Sette mesi di prigionia prima di essere caricata su un sinistro treno merci destinato al famigerato lager di Ravensbrück, lì dove i medici nazisti usavano le persone come cavie per i loro esperimenti.
Riuscì a venirne fuori dopo quasi 5 lunghissimi anni, come racconta lei stessa in un libro impressionante uscito qualche anno fa in Italia (Edizioni dell’Orso) e ora riproposto dalla San Paolo. Il titolo parla da sè: “E ho paura dei miei sogni” (pp. 254, euro 16). Chi non ha vissuto l’esperienza traumatica di un campo di concentramento non potrà mai capire come si possa aver paura dei propri sogni. Solo Wanda Poltawska può testimoniare le notti insonni seguite al suo ritorno a casa nel 1945.
«Già dalla prima notte provai qualcosa di terribile - spiega nel testo -. Giorno dopo giorno, o meglio notte dopo notte, sognai di Ravensbrück. I sogni assunsero una vivezza e una plasticità inafferrabile, al punto che non potevo distinguere se si trattasse di un sogno o della prosecuzione del lager». Seguì allora il consiglio di una sua vecchia insegnante e affidò alla scrittura il compito di liberarla dagli incubi: avrebbe provato a raccontare ciò che aveva vissuto. L’idea funzionò, smise di sognare. Ma chiuse i manoscritti in un cassetto.
Soltanto dopo molti anni acconsentì alla pubblicazione. Troppe le cicatrici che rimarranno incancellabili. E quelle pagine sono pugni nello stomaco. Sin dall’arrivo nel campo. «Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano distruggere la nostra personalità». Poi i lavori pesanti, fino allo sfinimento: «Ricordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c’era un’altra prigioniera e l’avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava un poco».
Non c’era sosta al tormento: «Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un’ora suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un’altra ora ancora la sirena per l’appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Eravamo magre come scheletri».
Nel dormitorio si gelava, nelle baracche di lavoro il caldo era asfissiante. Ma più di ogni altro patimento era temuto il padiglione dell’infermeria. Qui i prigionieri arrivavano in piedi e ritornavano spesso su una sedia a rotelle. Bastava un’iniezione degli infermieri nazisti per perdere coscienza e ritrovarsi con le gambe ingessate. Gli interventi chirurgici si ripetevano a intervalli di tempo regolare e lasciavano ferite aperte pronte a tradursi in infezioni.
Wanda Poltawska pur fiaccata dagli “esperimenti” si trascinava ogni volta dalle compagne più sofferenti per consolarle. Rimase immutata la sua fiducia nell’uomo: «Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone».
C’era da impazzire e quando tutto finì ci vollero diversi anni per ricominciare a vivere. Ma riuscì a superare i traumi laureandosi in medicina e specializzandosi in psichiatria. E se la scrittura riuscì a lenire il dolore, quando ritornò a casa molto le giovò l’incontro con un giovane prete polacco: Karol Wojtyla. A lui confidò le sofferenze indicibili e l’amicizia profonda che si creò tra di loro proseguì anche durante gli anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Insieme fondarono l’Accademia per la vita di Cracovia, per sostenere le ragazze che sceglievano di non abortire.
E Wojtyla che la chiamava affettuosamente “dusia, sorellina, la volle con sé a Roma. Sul legame profondo che li univa l’anno scorso è uscito anche Diario di un’amicizia (San Paolo, 24 euro) in cui Wanda Poltawska rivela un prodigio: nel 1962 si ammalò gravemente. Don Karol scrisse a padre Pio di pregare per lei e il tumore sparì. Woytyla che pure aveva conosciuto gli orrori della guerra, condivideva nell’intimo le sofferenze che aveva patito la sua migliore amica.
Lo rivelò in una lettera del 1978: «A me Dio ha risparmiato quella prova, perché lei è stata lì. Si può dire che questa convinzione fosse “irrazionale”, tuttavia essa è sempre stata in me, e continua a rimanerci». Così come non si spiega razionalmente la forza interiore di questa donna testimone dell’abisso del male. Scrive Wanda Poltawska: «Non ho mai perduto la fede nel fatto che l’uomo è creatura divina, capace di azioni eroiche; ma Ravensbrück mi ha anche insegnato che l’uomo non è automaticamente un’immagine di Dio, che deve anzi lavorare per essere tale».

 

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comunismo, giovanni paoloii

sabato, 15 gennaio 2011

Un uomo
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15 gennaio 2011 / In Articoli
Per noi cristiani non sono gli ecclesiastici a fare i santi, ma è Dio (la Chiesa semplicemente li riconosce e invita a farsi loro amici). I santi sono anzitutto uomini veri, la cui persona è resa affascinante, autentica, meravigliosa dall’amicizia con Gesù.
La loro vita però è un messaggio accorato di Dio a una certa generazione, a un’epoca e poi – più ampiamente – anche a tutte le altre.
Allora la beatificazione di Karol Wojtyla impone anzitutto questa domanda: cosa ha voluto dire Dio all’umanità del XX e del XXI secolo mandando un uomo così?
Perché quest’uomo è stato addirittura prefigurato e accompagnato da tanti segni anche soprannaturali ed è stato posto davanti al mondo intero con la sua elezione come Vicario di Cristo e con uno dei pontificati più lunghi della storia?
Secondo me il Cielo ha voluto dirci anzitutto due cose decisive.
Primo messaggio
Per capire la prima bisogna tornare a quel 16 ottobre 1978. Il pontificato di Paolo VI – apertosi con le luminose speranze del Concilio – si era concluso, come lui stesso dichiarò amaramente, sotto neri nuvoloni.
La tempesta che aveva colpito la Chiesa era gravissima. Il post-concilio e il Sessantotto furono dirompenti.
Circa 70 mila sacerdoti lasciarono l’abito, la pratica religiosa crollò verticalmente, l’anarchia e la contestazione nel mondo ecclesiastico sostituirono l’obbedienza, i cattolici – come disse Ratzinger – si trovarono portati qua e là da ogni vento di ideologia.
La solitudine dell’anziano papa Montini fu resa ancor più drammatica dall’esplosione della violenza politica e del terrorismo in Italia, un paese dilaniato dai conflitti.
La sensazione generale era che la Chiesa e il papato fossero ormai allo stremo e che il cattolicesimo fosse diventato residuale, una cosa per vecchiette e per bambini.
La sera del 16 ottobre 1978 quando quell’uomo giovane e vigoroso si affacciò col suo sorriso alla terrazza di San Pietro, infrangendo subito tutti i cerimoniali, con la libertà e la serena forza di chi è stato destinato fin dalla nascita a una missione grandiosa, tutti, perfino i più lontani dalla Chiesa, capirono che era accaduto qualcosa di inaudito.
Tutti rimasero a bocca aperta davanti al Papa venuto dall’Est, intuendo che era l’alba sorprendente di un giorno nuovo e che sarebbero accadute cose inimmaginabili. Dio stava “parlando”.
E papa Karol ci ha incantati subito. Ha catturato i cuori soprattutto della mia generazione e di tutte le nuove generazioni che si sarebbero affacciate sulla scena da allora in avanti: finalmente un uomo vero!
Di tutti i personaggi costruiti dai media, o comunque dal potere, chi poteva reggere il confronto? Assolutamente nessuno. E infatti per ventisette anni si sono visti, sulle tv del mondo intero, tutti i potenti dei più diversi stati e regimi che davanti a lui apparivano impacciati e insicuri come scolaretti.
Tutti ne subivano il fascino, tutti (a cominciare da Gorbacev che pare abbia addirittura pianto) si sentivano in soggezione nonostante il calore umano e la cordialità di quell’uomo.
Milioni di giovani sono corsi a incontrarlo ai quattro angoli del pianeta, incantati da un uomo che sentivano finalmente come padre vero, che comprendeva il loro desiderio di felicità, che svelava loro il senso della vita e che lo testimoniava con eroismo, con umanità e con gioia. Incantati dalle sue parole e soprattutto dalla sua persona, dalla sua libertà.
Era totalmente diverso dal cliché clericale, secondo cui i cristiani sono ometti impauriti dalla vita.
Era il papa che a vent’anni era stato operaio, poeta, attore di teatro, “combattente” nella tragedia della sua terra invasa da nazisti e comunisti e devastata; il Papa che poi era stato seminarista clandestino, giovane prete che amava andare in montagna con i suoi studenti e amava sciare e nuotare, il papa che era stato un intrepido vescovo quarantenne che si era opposto agli abusi della tirannia comunista a Cracovia e che poi ha partecipato al Concilio e poi è stato il ciclone che ha abbattuto il moloch planetario del comunismo, con la forza inerme della sua testimonianza, il papa che ha sfiorato più volte il martirio.
Ebbene quest’uomo dalla vita leggendaria, che ha percorso tutti i continenti, era la prova vivente che l’amicizia di Gesù rende più uomini e non meno uomini. Rende più autentici, più liberi, più umani, più ragionevoli, più felici.
Secondo messaggio
La seconda cosa che il Cielo ci ha detto mi pare la seguente: quest’uomo è il santo della Chiesa del silenzio, della Chiesa dei martiri, del secolo in cui si è perpetrato il più grande macello di cristiani in duemila anni di storia.
Egli appare anzitutto come il sigillo di Dio sull’età del comunismo. Sul secolo che ha visto consumarsi l’esperimento criminal-politico più vasto, duraturo e sanguinario della storia per l’eliminazione di Dio e della Chiesa dal mondo.
Giovanni Paolo II che sale agli onori degli altari dimostra che si realizza la profezia della più grande profetessa di tutti i tempi, Maria di Nazaret, quando proclamò: “Dio abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”.
Con la glorificazione di quest’uomo, che ha conosciuto sulla sua pelle il totalitarismo nazista e quello comunista e che ha rischiato il martirio per mano degli uni e degli altri, la Chiesa – in qualche modo – glorifica milioni e milioni di martiri del nostro secolo che sono stati massacrati nei Gulag, nei lager e in mille altri modi e il cui nome è scritto nei cieli, ma resta ignoto sulla terra.
Soprattutto quei martiri del comunismo che la Chiesa stessa – prima di Wojtyla – si vergognava di nominare, di celebrare e di indicare alla venerazione del popolo, per soggezione verso la prepotenza ideologica del comunismo mondiale.
La stessa soggezione che indusse qualche sventato ecclesiastico a evitare, al Concilio, con metodi scorretti, la condanna del comunismo, richiesta dai vescovi dell’Est europeo.
E’ evidente infatti che il comunismo per la Chiesa è stato una tragedia di natura teologica, come hanno dimostrato fior di pensatori, a cominciare da Augusto Del Noce. Del resto tutti i pontefici ne hanno denunciato la natura satanica e soprattutto lo ha fatto la Madonna a Fatima.
Il suo pontificato stesso, trascorso sotto il segno di Maria, è stato il capolavoro della Madonna che lo ha accompagnato da Medjugorije con le più lunghe apparizioni pubbliche di tutti i tempi.
Gratitudine
Giovanni Paolo II è stato infatti il Papa che ha re-insegnato alla cristianità la grandezza, la bellezza e la potenza della Madonna.
E questo è stato decisivo per la Polonia (che si riprese la sua libertà, ai cantieri di Danzica, inalberando l’icona della Madonna di Chestokowa) e grazie alla Polonia per tutto l’Est europeo e per il mondo.
Dunque bisogna prendere esempio da Giovanni Paolo il Grande, dal suo coraggio che gli faceva gridare a nome delle vittime davanti a tutti i tiranni.
E bisogna affermare a chiare note – senza timidezze – che oggi viene beatificato il Papa che – dopo aver denunciato la natura satanica del comunismo – con la forza della fede lo ha abbattuto.
Anche per questo è un santo a cui tutta l’umanità deve essere grata. Perché – come ho dimostrato, carte alla mano, nel mio libro (in queste poche righe sarebbe impossibile) – abbattendo il comunismo, per una via miracolosamente pacifica, egli ha probabilmente scongiurato una nuova (e stavolta fatale) guerra mondiale.
Attraverso di lui la Madonna ha salvato l’umanità da una autodistruzione che sarebbe stata definitiva.

Antonio Socci

Postato da: giacabi a 20:56 | link | commenti
socci, giovanni paoloii

lunedì, 06 dicembre 2010

Portare agli altri Cristo Risorto
***
 
"Il Vangelo di Giovanni oggi letto ci parla di Tommaso, una figura enigmatica perché quando tutti hanno visto Gesù Risorto lui non l’ha visto e dice: io se non vedrò non crederò, se non toccherò non crederò.
Noi conosciamo molto bene questa categoria, questo tipo di persone, anche di giovani. Questi empirici, affascinati dalle scienze nel senso stretto della parola, scienze naturali e sperimentali. Noi li conosciamo, sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza della realtà. E questi sono pronti, se una volta Gesù viene e si presenta loro, se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28).
Penso che sono tanti i vostri amici, vostri coetanei, che hanno questa mentalità empirica, scientifica; ma se una volta potessero toccare Gesù da vicino - vedere il volto, toccare il volto di Cristo - se una volta potranno toccare Gesù, se lo vedranno in voi, diranno: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28)."

Giovanni Paolo II AI GIOVANI DELLA DIOCESI DI ROMA Giovedì, 24 marzo 1994

Postato da: giacabi a 21:29 | link | commenti
giovanni paoloii

mercoledì, 01 settembre 2010
L’islamismo non è una religione di redenzione
***
L’islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Risurrezione. Viene menzionato Gesù, ma solo come profeta in preparazione dell’ultimo profeta, Maometto. E’ ricordata anche Maria, Sua Madre verginale, ma è completamente assente il dramma della redenzione. Perciò non soltanto la teologia, ma anche l’antropologia dell’islam è molto distante da quella cristiana”.
Giovanni Paolo II

Postato da: giacabi a 12:24 | link | commenti
islam, giovanni paoloii

sabato, 29 maggio 2010

Karol e Wanda
Libro interessante che getta ulteriore luce sul grande pontificato wojtyliano e rende anche un giusto tributo a un sodalizio tanto importante quanto poco conosciuto
di Davide Malacaria

 
 
 
Giacomo Galeazzi – Francesco Grignetti, Karol e Wanda, Sperling Kupfer, Milano 2010, 244 pp., euro 18,00
      «Mia sorella». È la risposta di Wojtyla a una signora che gli domandava chi fosse la donna al suo fianco in quel lontano ’58, giorno della sua nomina a vescovo ausiliare di Cracovia. Una risposta che più di altre descrive il lungo sodalizio che ha legato papa Wojtyla a Wanda Poltawska, al quale due giornalisti de La Stampa, Giacomo Galeazzi e Francesco Grignetti, hanno dedicato il libro Karol e Wanda.
      Il volume ripercorre la lunga amicizia tra il pontefice e Wanda Wojtasik (Poltawska, dopo il matrimonio), la cui gioventù è accomunata da una tenace opposizione al nazismo. Lei, militante partigiana, è catturata e reclusa nel Castello di Lublino dove viene torturata per sei mesi prima di essere deportata nel lager di Ravensbrück. Dal canto suo, «Wojtyla faceva parte dell’Unia, una cellula segreta della resistenza polacca che affiancava il ramo militare», spiega padre Adam Boniecki, già direttore de L’Osservatore Romano polacco e amico di lunga data del Papa: «Si occupava di informazione e cultura appoggiandosi al Teatro Rapsodico di Wadowice. Wojtyla fece giuramento di segretezza...». Il libro racconta quei drammatici anni, durante i quali il giovane Karol, tra un rastrellamento e l’altro, organizza incontri culturali clandestini con i giovani resistenti. Temperie drammatica, nella quale però nasce nel cuore del ragazzo un fiore imprevisto: la vocazione sacerdotale.
      Le strade dei due, ricorda la Poltawska, si incrociano negli anni Cinquanta, presso «la chiesetta di San Wojciech, nel cuore antico di Cracovia». Sono gli anni duri del «terrore rosso», che vedono il giovane sacerdote in prima linea contro il comunismo. Una sfida che però non gli impedisce di trovare estimatori ovunque, perfino tra i dirigenti del Partito. Nel 1964 la Chiesa polacca deve scegliere un nuovo arcivescovo di Cracovia. Così nel libro: «Più volte Wyszynski aveva presentato terne di nomi rifiutate dal governo comunista. Dopo due diverse terne respinte in tronco, un alto funzionario del Partito comunista, Zenon Kliszko, suggerisce che venga proposto “un uomo di dialogo, come il giovane vescovo ausiliare, di cui ho dimenticato il nome, con il quale in due settimane abbiamo risolto il caso del seminario di Cracovia”».
      Al confronto tra papa Wojtyla, sostenitore instancabile di Solidarnosc, e il regime, il volume dedica ampio spazio. Snodo cruciale di questo confronto è il ’68, giunto in Polonia sull’onda della Primavera di Praga. Che un filo rosso lega all’89, come spiega lo storico Andrea Riccardi: «Mi ricordo che, una volta, Giovanni Paolo II mi parlò del valore del ’68 polacco e di come poi si fosse collegato alla rivolta operaia: per lui erano le due spinte verso l’89». E, nel capitolo dedicato al «Sessantotto di Wojtyla», gli autori si soffermano sulla contestazione «dentro la Chiesa», simbolizzata dalle critiche feroci rivolte all’enciclica Humanae vitae di Paolo VI. Wojtyla, uno degli ispiratori di tale enciclica, scende in campo scrivendo un articolo per L’Osservatore Romano, nel quale palesa la consueta apertura teologica e mentale: per difendere il documento inizia il suo intervento con ampie citazioni di Gandhi.
      In tutti questi anni Wanda gli è accanto. «Parlavamo dell’amore», spiega, sintetizzando quello che è stato un dialogo spirituale durato decenni, fatto di riflessioni sull’etica, sulla sessualità, sulla maternità. Riflessioni che poi sono confluite negli insegnamenti di Giovanni Paolo II (Amore e responsabilità ne è esempio lampante), ma anche nella sua impostazione pastorale. Nell’intento di dare una formazione completa ai suoi seminaristi, il vescovo di Cracovia chiama la psichiatra Wanda a tenere corsi sul matrimonio e sulla sessualità presso il seminario, ma anche a vigilare sulla loro vocazione per prevenire eventuali deficit e devianze.
      Una collaborazione talmente proficua che non s’interrompe neanche dopo l’ascesa di Karol al soglio pontificio. Wanda, nei periodi estivi, è ospite fisso, con marito e figli, a Castel Gandolfo. Un sodalizio che dà frutti tangibili: la Curia pontificia si arricchisce dei cosiddetti «ministeri di Wanda», ovvero quei «dicasteri della Santa Sede istituiti da Giovanni Paolo II come sviluppo del “laboratorio pastorale” di Cracovia»: il Pontificio Consiglio per la Famiglia, il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli operatori sanitari, la Pontificia Accademia della Vita, nonché il Pontificio Istituto per Studi su matrimonio e famiglia (presso l’Università Lateranense).
      Il rapporto con Wanda per il Papa polacco è anche conforto nei momenti bui. Nel 1981 viene ferito dal turco Ali Agca ed è ricoverato al policlinico Gemelli. Un momento drammatico del pontificato, che diventa ancora più drammatico quando una mano misteriosa fa pervenire in Curia una foto che lo ritrae, convalescente, sul terrazzo del Vaticano. Wanda, che si è precipitata a Roma subito dopo l’attentato, indaga. La foto, si scopre, è stata fatta dalla lanterna posta sopra la cupola della Basilica di San Pietro, con un teleobiettivo di «mille millimetri (circa un metro e oltre di teleobiettivo)», in ore in cui il luogo dovrebbe essere inaccessibile al pubblico. L’anno precedente era già accaduto che il Papa fosse oggetto di fotografie indiscrete, che lo riprendevano mentre nuotava nella piscina di Castel Gandolfo. Ma stavolta è diverso, più minaccioso. Ed è evidente che l’anonimo fotografo ha goduto di complicità vaticane. L’energica Wanda crea una cortina di sicurezza intorno all’infermo, dove «tutti quelli scelti per ruotare attorno alla persona del Santo Padre sono polacchi». E svolge un’indagine riservata sull’attentato, alla ricerca di complicità interne. Senza però approdare a niente. È quello che succede anche all’inchiesta ufficiale della magistratura italiana, arenata sulle secche della cosiddetta pista bulgara. A questo proposito, il volume riporta un’interessante riflessione del giudice Rosario Priore, per lungo tempo titolare dell’inchiesta: «A parte gli anticomunisti, che sul piano politico volevano cogliere l’occasione per attaccare il sistema dell’Est, vi erano, tra coloro che tentavano una ricostruzione dei fatti, i partigiani della pista bulgara, che si muovevano con particolare zelo, come se dovessero assicurare ad altre sedi – non so dire quali ma diverse da quelle della verità giudiziaria – soluzioni che individuassero le responsabilità di ben determinati Stati. Questi zelanti, quand’anche fossero stati senza colpa, dovrebbero essere tacciati comunque di superbia. Superbi perché dotati di tale iattanza da voler accreditare una tesi senza prova».
      La convalescenza del Papa è più lunga del previsto. A complicare le cose anche un’infezione da citomegalovirus. Wanda resta accanto a lui. Così nel libro: «Spesso la mattina si reca alla messa del Papa indossando le pantofole [...]. Ha le chiavi del famoso ascensore con cui sale e scende liberamente dalla terza loggia», sede dell’appartamento del Papa. Questa vicinanza fa nascere mormorii di disapprovazione in Curia, ma il Papa non se ne cura e la vorrà accanto a sé anche nell’ora estrema, quando cioè, nel 2005, inizia la sua lunga agonia. Spiega Wanda: «Del suo ultimo anno di vita, più di metà l’ho trascorso a Roma». Ogni giorno la Poltawska fa la spola tra Vaticano e Gemelli, grazie a un’auto che le è stata messa a disposizione, a portare l’ultimo, estremo conforto al suo amico Pontefice.
      Amicizia davvero importante, quella tra la Poltawska e Wojtyla. Sulla quale però per lungo tempo è calata una cortina di silenzio, fino a quando lei stessa la rende pubblica, per dare seguito, spiega, a un invito espresso a suo tempo dal suo amico Papa. Nel 2009 esce il suo libro Esercizi di Beskid (dal nome di una località nella quale si recava con il marito e il giovane Wojtyla), che ha tutti i crismi dell’ufficialità: edizioni San Paolo-Polonia e prefazione del presidente della Conferenza episcopale polacca.
      L’agevole volume Wanda e Karol, oltre che a gettare ulteriore luce sul grande pontificato wojtyliano, appare anche un giusto tributo a un sodalizio tanto importante quanto poco conosciuto.
da: www.30giorni.it


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giovanni paoloii

venerdì, 21 maggio 2010


Karol Wojtyla e la famiglia di Wanda Poltawska

La donna polacca miracolata da padre Pio per intercessione del Papa ieri a Milano per la presentazione del suo libro. «Prima di morire gli chiesi: devo bruciare le nostre lettere? E lui: sarebbe un peccato».

di
Andrea Tornielli,
da
Il Giornale
(10/02/2010)

«Io non ricordo Giovanni Paolo II, in un certo senso sono ancora in contatto con lui, perché con i santi si può dialogare. Credo che anche in questo momento sia qui, dietro di me...». Wanda Poltawska, l’amica di don Karol Wojtyla, ha 88 anni, è una donna piccola, ma forte come una quercia. Ha il volto scavato dalle rughe e lo sguardo che sa essere duro quando ricorda gli anni tremendi trascorsi nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove diciottenne fu sottoposta a barbari esperimenti chirurgici e dove vide morire tanti bambini appena nati. Per lei, ammalatasi di cancro nel 1962 quando le figlie erano ancora piccolissime, il vescovo Wojtyla chiese l’intervento di Padre Pio da Pietrelcina, che ricevendo la lettera del giovane prelato polacco, commentò: «A questo non si può dire di no». E la guarigione avvenne.

La incontriamo nella sede milanese delle edizioni San Paolo, dov’è venuta per presentare l’edizione italiana del suo libro Diario di un’amicizia (pp. 640, 24 euro), il diario spirituale di un’anima e del rapporto con quello che lei chiama il suo «grande fratello» Karol, un volume contenente molti inediti del futuro Papa che ricostruiscono il legame profondo instaurato da Wojtyla con la famiglia Poltawski.

Nel diario si racconta l’orrore del lager, gli anni non facili che seguono la liberazione, quando Wanda, profondamente segnata da quell’esperienza, studia medicina e psichiatria tentando di comprendere come sia possibile che l’uomo giunga a questi abissi di disumanità. Un giorno, in una chiesa, vede entrare un giovane sacerdote e va a confessarsi da lui: «Mi capiva, mi ricordo quel senso di incredibile sollievo per il fatto che esisteva qualcuno che finalmente mi capiva». Don Karol diventa il suo direttore spirituale e da quale giorno ogni mattina estrapola un passo dalle Scritture lette durante la messa chiedendo a Wanda di meditarle.

Lui la chiama con un soprannome, «mia carissima Dusia», lei lo chiama «fratello». Il futuro Papa diventa amicissimo di Wanda, del marito Andrzej, e delle figlie della coppia. La loro famiglia diventa la sua famiglia. Un’amicizia vera, profonda, pura, che ha destato qualche preoccupazione negli ultimi mesi – poi subito svanita – in chi temeva che la pubblicazione delle lettere e del diario potesse nuocere alla causa di beatificazione del Pontefice polacco. Il marito di Wanda Poltawska, nell’introduzione al libro, scrive: «Fu l’incontro di due forti personalità, che avevano tra loro, pur nella sostanziale diversità, molto in comune; fu l’incontro di un uomo molto virile, nel senso più profondo della parola, con una donna molto femminile, nel senso migliore della parola: sensibile, con una ricca dinamica di sentimenti, capace di lavorare con dedizione per gli altri». Chiediamo alla protagonista di parlare di questo rapporto, ricordando come la storia della Chiesa sia costellata di esempi di forti legami spirituali come quello che emerge dalle pagine del libro. «Anche oggi – spiega –
è possibile vivere un’amicizia pura tra un uomo e una donna. Gesù ha detto: amatevi gli uni e gli altri, come io vi ho amato. Si possono e si devono amare tutte le persone come fratello e sorella, al di là di come si ama il proprio marito e la propria moglie, con la quale c’è un legame speciale benedetto da Dio che li rende una sola carne».

«Il Papa – racconta la dottoressa Poltawska – invitava sempre i giovani e i ragazzi alla disciplina, a tenere aperti gli occhi dell’anima e non quelli del corpo. E io ho incontrato tanti sacerdoti santi, non soltanto Wojtyla, che fedeli al celibato sapevano coltivare rapporti d’amicizia pura e fraterna con donne. La Chiesa cattolica ha bisogno di testimoni, che facciano vedere come sia possibile l’amore casto. Non è complicato, basta convertirsi...».

Alla domanda su quali ricordi ha di Karol Wojtyla, Wanda risponde con un sorriso: «Non lo ricordo, io sono in contatto con lui. Una volta, parlando di un luogo particolare, in un bosco nel sud della Polonia, da dove si godeva di un panorama bellissimo e dove più volte siamo passati durante le escursioni guidate da lui, mi ha detto che ogni qual volta vi fossi tornata, non sarei mai stata sola, lui sarebbe stato lì. Anche ora sono sicura che lui sia qui, alle mie spalle. Con i santi si può parlare, si può essere in contatto con loro».

Wanda ha raccontato della collaborazione con Wojtyla, prima sacerdote, poi professore, vescovo, cardinale e Papa.

Una collaborazione che aveva come terreno comune proprio la famiglia, la sua salvaguardia, la tutela della vita umana nascente. «Mi ha incoraggiato a fondare un istituto per la famiglia, una casa di accoglienza per ragazze madri. Mi ha lasciato a disposizione una stanza del suo appartamento per realizzare un consultorio dove aiutare le coppie in crisi che volevano separarsi. Voleva educare i giovani all’amore responsabile». C’è tanto di Giovanni Paolo II nelle pagine di Wanda Poltawska. Poco prima che il Papa morisse, nel gennaio 2005, l’amica gli chiese se doveva bruciare le sue lettere e le sue annotazioni. Wojtyla rispose: «Sarebbe un peccato».

Postato da: giacabi a 21:50 | link | commenti
amicizia, giovanni paoloii


 
La famiglia Poltawski e Karol Wojtyla

di Renzo Allegri,
da
Zenit (08/02/2010)

È arrivato in libreria l'ennesimo libro dedicato a Giovanni Paolo II: un grosso volume di 640 pagine pubblicato dalle Edizioni San Paolo con il titolo Diario di un'amicizia e il sottotitolo La famiglia Poltawski e Karol Wojtyla.

Tra i numerosi libri che sono stati scritti sul Papa polacco, questo è una cosa a se stante. Autrice, Wanda Poltawska, medico psichiatra polacca, che fu amica e collaboratrice di Wojtyla fin dal 1950, quando il futuro Papa era un semplice sacerdote, assistente spirituale dei giovani universitari, amicizia che è continuata fino alla morte del grande Pontefice.

E' un libro fuori dai normali schemi, che contiene molti scritti inediti di Wojtyla, riflessioni, appunti, suggerimenti per la vita spirituale e soprattutto parecchie lettere. Non è una biografia. Non ha niente a che fare con la storia pubblica e cronologica di Wojtyla. Non è neppure stato scritto per essere pubblicato. Si tratta di una raccolta di appunti, di impressioni, che la dottoressa Poltawska ha fissato in vari quaderni nel corso degli anni, una specie di diario, dal quale ha tratto questo libro, utilizzando, in pratica, una piccola parte dell'enorme materiale che possiede. E fu lo stesso Giovanni Paolo II, che aveva letto i quaderni di appunti, a suggerire che se ne facesse una pubblicazione, ritenendo che sarebbe stata utile.

Nel giugno dello scorso anno, quando il libro venne pubblicato in Polonia, fece parlare i giornali di mezzo mondo, suscitando critiche e scandalo. Molti giudicarono sconveniente che Karol Wojtyla avesse coltivato una amicizia così profonda con una donna al punto da continuare a scriverle lettere anche da Papa. Altri condannarono la dottoressa Poltawska, accusandola di protagonismo e smania di pubblicità, per aver rese pubbliche quelle lettere che, secondo loro, dovevano rimanere segrete e affermando che la pubblicazione poteva addirittura nuocere alla causa di beatificazione. Per fortuna, questo non è accaduto.

La Chiesa, nei suoi rappresentanti qualificati allo scopo, era al corrente del contenuto del libro, lo aveva già esaminato, e nessun riverbero negativo si è avuto sul processo che, per la parte dell'esame della vita e degli scritti di Wojtyla, è stato concluso con il decreto di riconoscimento delle virtù eroiche firmato dal Benedetto XVI a metà dicembre scorso. E si prevede che la solenne beatificazione possa avvenire ad ottobre o al più tardi nell'aprile del 2011.

Leggendo questo libro con calma e attenzione, si rimane profondamente colpiti dal contenuto altamente spirituale. Scritto con uno stile asciutto, conciso, e pochi pochi accenni personali da parte dell'autrice, ha un fascino irresistibile. Fa scoprire innumerevoli dettagli dell'animo di Karol Wojtyla e di quello della dottoressa Poltawska. Le lettere di Wojtyla, non essendo ufficiali, ma destinate a una singola persona, palesano la sua straordinaria sensibilità, la grandissima umanità e soprattutto l'eccezionale santità. Svelano come egli fosse in continuo contatto con Dio. Non in forma pietistica, formalistica, ma concreta e permanente. Viveva come se camminasse davanti allo sguardo di Dio. Mai, in nessun momento della sua giornata, perdeva questa consapevolezza e la trasmetteva a chi gli era vicino.

Per la quasi totalità, il libro è costituito da "esercizi scritti" per un cammino ascetico che la dottoressa Poltawska ha fatto sotto la guida del suo direttore spirituale che era appunto Karol Wojtyla. Lui le indicava i temi delle meditazioni quotidiane e lei metteva per scritto i pensieri e le riflessioni che faceva, inviandoli poi al direttore spirituale che valutava, suggeriva, guidava verso nuovi traguardi interiori. E inviava lui stesso i propri appunti sugli stessi temi, quasi a confrontarsi. Una lunga ascesi, precisa, quotidiana, costante, che la dottoressa Poltawska ha compiuto insieme al proprio marito, Andrzej, e alle proprie figlie, e, si può dire, anche insieme allo stesso Wojtyla che ha voluto farsi, con loro e per loro, "fratello", e " viandante" nel cammino verso Dio.

Un'esperienza eccezionale, diventata nel tempo amicizia profonda. Scrivendo le sue lettere, Wojtyla chiamava la dottoressa con il diminutivo di "Dusia" (sorellina) e si firmava con la sigla "Fr", (fratello). Esperienza certamente originale e d'avanguardia, ma viva, concreta e sublime, che richiama la vita dei primitivi cristiani, di santi come Francesco e Chiara, e in particolare l'amicizia di San Francesco di Sales e Santa Giovanna di Chantal. Solo un uomo come Wojtyla, santo e poeta, drammaturgo e mistico, grande e umile, poteva realizzare un'esperienza del genere, che diventa ora, attraverso il libro, un vero "patrimonio spirituale" per chi ha il coraggio di leggere e di lasciarsi conquistare.


Per capire bene questa meravigliosa avventura umana e spirituale, bisogna conoscere la storia che l'ha originata. In particolare quella dell'autrice, donna molto nota in Polonia per la mole di iniziative cui ha dato vita nella sua ormai lunga esistenza, ma anche, in un certo senso, "sconosciuta" perché riservata, chiusa, gelosa della propria esistenza privata. Consapevole, però, del ruolo che le è stato riservato dalla Provvidenza, giunta a un'età che si avvicina ai novant'anni ha ceduto alle pressioni degli amici e al desiderio che aveva già espresso Wojtyla, mettendo a disposizione in questo libro le esperienze fatte accanto a un grande uomo e un grandissimo santo.

Wanda Poltawska conobbe Karol Wojtyla nel 1950, a Cracovia. Lei aveva 29 anni, lui 30. Wojtyla, sacerdote da quattro anni, era assistente dei giovani studenti universitari, e Wanda, già laureata in medicina, frequentava i corsi di psicologia e psichiatria. Aveva alle spalle una terribile esperienza. Nata a Lublino, in una famiglia molto cattolica, aveva avuto una infanzia e una prima giovinezza serene, impegnata nel movimento degli Scout. Nel 1939, quando i nazisti invasero la Polonia, Wanda, che aveva 18 anni, come altri suoi coetanei era entrata nella Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta e arrestata e inviata nel famigerato campo di concentramento nazista di Ravensbriick, dove visse uno spaventoso calvario durato oltre quattro anni.

Anni di autentico martirio. Non solo per le umiliazioni, la fame, i lavori pesanti, il freddo, le violenze fisiche e morali, pane quotidiano in quei luoghi di sterminio, ma perché, ad un certo momento, lei e alcune altre compagne furono scelte come cavie per misteriosi esperimenti medici. Trasferite in una specie di infermeria, erano sottoposte a interventi chirurgici, ad orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni di batteri nelle ferite per provocare infezioni e cancrene, che erano poi trattate con altri prodotti chimici. Un calvario spaventoso e interminabile. Quasi tutte le ragazze morirono una dopo l'altra e Wanda sopravvisse per miracolo.


Tornata a casa, era una larva umana. Riprese a studiare, si laureò in medicina, ma dentro di lei il tarlo degli incubi continuava a roderla e a tormentarla. Si sentiva una donna finita, che lottava disperatamente con i fantasmi del passato, senza riuscire a sconfiggerli. Aveva paura di se stessa, degli altri, della vita. I principi cristiani che aveva ricevuto da bambina cozzavano spaventosamente con la crudeltà che aveva subito nel Lager.

Cercava aiuto. Lo cercava soprattutto dai sacerdoti, ma non trovava nessuno disponibile ad ascoltarla e a capire i suoi problemi. Nel 1950 incontrò Karol Wojtyla, e rimase colpita dal fatto che era una persona che "ascoltava". Divenne il suo confessore e direttore spirituale. Fu lui a "guarire" la sua anima, ad aiutarla a ritrovare se stessa e la fiducia nei propri simili. E, mano a mano che la conosceva bene, Wojtyla capì che quell'incontro non era casuale. Abituato a vedere le cose da un punto di vista mistico, si convinse che le terribili sofferenze che quella giovane donna aveva subito e sopportato non erano cosa che riguardasse solo lei stessa. Per il mistero del "Corpo mistico di Cristo", riguardavano tutti, in particolare forse proprio lui, che dalla guerra era stato risparmiato.

Negli anni in cui Wanda "moriva" nel Lager, egli aveva scoperto la propria vocazione al sacerdozio. E poi, era toccato a lui, sacerdote, il compito di "curare" le ferite che il Lager aveva lasciato nell'anima di quella persona. Non erano coincidenze casuali, c'era un nesso, un legame, e questa sua convinzione divenne, a poco a poco, consapevolezza. Lo rivelò lui stesso alla dottoressa Wanda in uno dei momenti più importanti della sua esistenza, il 20 ottobre 1978, quattro giorni dopo essere stato eletto Pontefice della Chiesa. In una lunga e bellissima lettera, la prima che le scrisse da Papa, volle affrontare apertamente il tema della loro amicizia. Amicizia che ora, dopo che lui era diventato Papa, poteva anche essere giudicata male da estranei. Ma era un'amicizia "radicata e fissata in Dio, nella sua grazia", come egli scrisse, e quindi doveva continuare.

Ecco la parte di quella lettera che parla esplicitamente di questo argomento:

Il Signore Gesù ha voluto che quello che a volte veniva detto, quello che tu stessa avevi detto il giorno dopo la morte di Paolo VI, diventasse realtà. Ringrazio Dio per avermi dato, questa volta, così tanta pace interiore - quella pace che mi mancava in modo evidente ancora in agosto - che ho potuto vivere tutto ciò senza tensione. Con la fiducia che Lui e sua Madre dirigeranno tutto, anche in queste relazioni, preoccupazioni e responsabilità più personali. Con la convinzione che - se non seguirò la chia­mata - anche in questi rapporti posso rovinare tutto.

Capisci che, in tutto questo, penso a te. Da oltre vent'anni, da quando Andrzej mi disse per la prima volta: "Duska è stata a Ravensbriick", è nata nella mia consapevolezza la convinzio­ne che Dio mi dava e mi assegnava te, affinché in un certo senso io "compensassi" quello che avevi sofferto lì. E ho pen­sato: lei ha sofferto al mio posto. A me Dio ha risparmiato quella prova, perché lei è stata lì. Si può dire che questa convinzione fosse "irrazionale", tuttavia essa è sempre stata in me - e continua a rimanerci. Su questa convinzione si è sviluppata gradualmente tutta la consapevolezza della "sorella". E anche questa appartiene alla dimensione di tutta la vita. Anch'essa continua a rimanere. Mia cara Dusia! Tutta quella dimensione rimane in me e deve rimanere in te. È sempre stata radicata e "fissata" in Dio, nella sua grazia - ora deve esserci fissata ancora di più.

Sono parole che spiegano in modo chiaro la natura e la qualità dell'amicizia che ha legato Karol Wojtyla a Wanda Poltawska. Un'amicizia così straordinaria e sublime che può nascere e crescere solo nel cuore e nell'anima dei grandi santi.

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giovanni paoloii

domenica, 04 aprile 2010
Giovanni Paolo II - Jesus Christ You are my life


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giovanni paoloii

mercoledì, 27 gennaio 2010

Conoscere se stesso
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«L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» ("n. 10")..               
Giovanni PaoloII Redemptoris hominis, n.10    

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giovanni paoloii

lunedì, 18 gennaio 2010

IL VALORE DELLA VITA UMANA NEL MAGISTERO DI GIOVANNI PAOLO II
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Nel Magistero dei suoi Pontefici la Chiesa esprime la sua fede e la sua testimonianza alla Verità di Cristo. Per questa ragione, l’autore della lettera agli Ebrei raccomanda ai suoi destinatari di vedere nella varietà delle persone che lo rappresentano, il Cristo che rimane sempre lo stesso: ieri, oggi e sempre, non lasciandosi così sviare da insegnamenti vaghi e peregrini (cfr. Ebr 13,8).
Ma è precisamente la permanenza della Verità di Cristo nella Chiesa ad esigere dai suoi Pastori di richiamare la coscienza dell’uomo soprattutto sulle verità evangeliche che, a seconda delle situazioni, sono maggiormente contestate. Ed è fuori dubbio che oggi il valore della vita umana lo sia particolarmente. La testimonianza al Vangelo della vita è pertanto centrale nel Magistero di Giovanni Paolo II. Testimonianza che ha trovato il suo momento più alto e teologicamente più qualificato nella Lett. Enc. Evangelium Vitae del 25 marzo 1995. (da ora in poi EV).
1. La certezza di base
 Possiamo iniziare la nostra riflessione da un’affermazione di sconcertante semplicità, ma di decisiva importanza. Quale è la certezza di base, la radice più profonda della difesa della vita umana da parte del Magistero della Chiesa? La certezza che l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene. Di fronte a una persona umana nessuno ha il diritto di dire: “è un male che tu ci sia!”. Al contrario, di fronte a qualsiasi persona ciascuno deve dire: “è un bene che tu ci sia!”. E’ la certezza, assoluta ed incondizionata, che “la vita è sempre un bene” (EV. 34,1).
 
La certezza della Chiesa si radica sull’affermazione che al principio di ogni esistenza umana c’è un atto di intelligenza e di libertà divine: c’è un atto creativo di Dio: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato (Ger. 1,5): l’esistenza di ogni individuo, fin dalle origini, è nel disegno di Dio” (EV. 44,3: sott. nel testo). La Chiesa esclama di fronte ad ogni essere umano vivente: “è un bene che tu ci sia, poiché Dio ti ha pensato e voluto (cioè creato)”. La difesa del valore di ogni vita umana è sempre implicata nella confessione del primo articolo della fede cristiana: Dio Creatore  e la Sua glorificazione (cfr. EV. 34 e 36).

2. Il «test» decisivo: la vita umana concepita non ancora nata
 La certezza del valore di ogni vita umana accompagna il Magistero di Giovanni Paolo II così costantemente, che è impossibile riassumerlo in poco spazio. Vorrei allora attirare l’attenzione soprattutto su un capitolo del suddetto Magistero: quello riguardante la vita umana già concepita e non ancora nata. La ragione di questa scelta sarà spiegata più avanti.
 La prima domanda che il Magistero di Giovanni Paolo II si pone è la seguente: quale è l’atto eticamente degno di dare origine ad una persona umana o - il che equivale - quando la persona umana è concepita in modo adeguato alla sua dignità? La seconda domanda è coerentemente correlativa alla prima: quando il valore della vita umana è negato nel suo stesso concepimento? Il Magistero di Giovanni Paolo II ha dunque il momento della proposta positiva, quindi di conseguenza diventa denuncia delle ferite inferte, già a questo livello originario, alla dignità della persona umana.
 
L’atto eticamente degno di dare origine ad una persona umana è l’atto sessuale coniugale. Si tratta di un’affermazione centrale nel Magistero del S. Padre. Dignità etica significa che solo l’atto coniugale ha in sé la capacità di istituire un rapporto col possibile concepito, adeguato alla dignità di questi. Quali sono le ragioni profonde di quest’affermazione? Ne troviamo diverse nel Magistero di Giovanni Paolo II. Mi limito alle due fondamentali, fra loro strettamente connesse.
La prima. L’atto di porre le condizioni del concepito di una nuova persona umana è una cooperazione con l’attività creativa di Dio (cfr. EV. 43 ad anche Es. ap. post-sinodale Familiaris consortio 28 e Lett. alle famiglie Gratissimum sane 9). Una cooperazione che deve essere la più simile possibile all’amore creativo di Dio. La seconda ragione è che, all’infuori di questo modo di porre le condizioni del concepimento della nuova persona, non esiste che la possibilità di un’azione di carattere tecnico che istituisce un rapporto ingiusto col concepito: possiamo produrre le cose, non le persone (cfr. Congregazione per la Dottrina delle Fede Istr. Donum vitae  22/02/87, soprattutto n. 4).
Dall’affermazione dottrinale, secondo la quale l’unica culla degna del concepimento di una persona è l’atto coniugale, deriva la conseguenza che ogni procedimento tecnico che si sostituisca all’atto coniugale nel porre le condizioni del concepimento, è da ritenersi moralmente illecito, in quanto non rispettoso della persona umana. Quando Giovanni Paolo II emise un giudizio negativo sulla fecondazione in vitro, ed allora era solo omologa, non mancò chi, anche fra cattolici, parlò di un “nuovo caso Galileo” che si poteva aprire; né mancò chi avrebbe preferito che il S. Padre si limitasse a dare orientamenti solo generali. Ma il futuro della procreatica, quello che oggi viviamo, ha dato ragione al Magistero pontificio. Certo può sembrare strano, ed a molti è sembrato e sembra tale, questo giudizio negativo: proprio in rapporto al valore della vita umana. Sembra logico che la difesa, così intransigente nel Magistero di Giovanni Paolo II, della vita umana e l’esaltazione del suo valore comporti l’accoglienza di procedimenti, i quali precisamente rendono possibile il sorgere di una nuova vita umana altrimenti impossibile: almeno all’interno di una coppia legittimamente sposata. Il punto è importante, perché ci aiuta a capire la vera, intima natura della testimonianza del S. Padre al valore della vita umana. Non si tratta, infatti, di una generica valutazione della vita, di una indistinta affermazione. E’ la vita della persona che è un valore etico, non la vita come tale. La vita di una pianta, di un animale non ha in sé alcuna preziosità di carattere propriamente etico, ma solo di carattere utilitaristico al servizio dell’uomo (cfr. EV 34,3), E’ la persona vivente il valore etico, poiché essa è la Gloria di Dio. C’è un abisso a separare la Chiesa dai movimenti ecologici, da questo punto di vista. La condanna dei procedimenti procreativi artificiali non è altro che l’affermazione della dignità della persona. Non ogni modo di dare origine alla vita è eticamente accettabile, così come non ogni modo di prolungarla comunque: è la «persona vivente» al centro delle preoccupazioni del Magistero, non in quanto vivente, ma in quanto persona.
E’ nella sua difesa che Giovanni Paolo II ha raggiunto, dal punto di vista della qualificazione teologica, il vertice del suo Magistero (cfr. EV
. 57,3).
3. Il delitto abominevole dell’aborto
 Durante gli ultimi trent’anni la legislazione permissiva dell’aborto è stata massicciamente promulgata: anche nei paesi di più lunga tradizione umanistica e cristiana. E’ difficile esprimere brevemente tutto il Magistero di Giovanni Paolo II su questo fatto, di incalcolabile portata. Mi limiterò all’essenziale accenno di alcuni temi che mi sembrano i più importanti.
 In primo luogo l’abdicazione da parte dello Stato di difendere quella persona umana, la persona umana già concepita e non ancora nata, è in realtà l’abdicazione dello Stato alla sua ragione d’essere stessa, nel piano della Provvidenza divina. In una parola: è l’abdicazione alla sua propria dignità. Rifiutando intatti la difesa a chi può far appello per essere rispettato unicamente alla sua appartenenza all’umanità, al fatto di essere una persona umana, ritenendo che questo non sia sufficiente per meritare un rispetto assoluto ed incondizionato, lo Stato diventa il garante dell’interesse dei più forti. Ed è in questo che ha perduto ogni sua dignità. In una parola: o la legge difende e promuove la dignità di ogni persona umana semplicemente perché tale o essa diventa l’espressione della volontà del più forte. Che sia una sola persona a promulgare tali leggi o che sia una maggioranza parlamentare è indifferente (cfr. EV 72).
 La difesa della vita concepita si inserisce pertanto nel contesto di un richiamo forte all’uomo di non tradire la propria identità, tradendo la propria coscienza morale. Mi spiego. La negazione del valore della vita umana, quale si ha nella legittimazione dell’aborto, è la corruzione totale della sorgente stessa del sociale umano. La prima originaria forma del sociale umano, cioè la società coniugale, si “supera”, si apre, costituendo così tutto il sociale umano nel suo germinare, quando la donna, per prima, si rende conto di aver concepito un uomo. (cfr. EV 43,3). Dal sociale duale (un uomo-una donna) si esce per aprirsi in un sociale che non ha limite. Se si legittima il principio secondo il quale il concepito è uomo perché la donna lo riconosce come tale e non il contrario, la donna riconosce il concepito come uomo perché tale egli è, per ciò stesso si legittima il principio che l’accesso all’umanità, alla dignità umana è condizionato dal consenso di un altro. Si legittima il principio che il sociale umano è posto in essere dalla convergenza degli interessi e non dalla partecipazione di tutti e ciascuno alla e nella stessa umanità. Si cambia la definizione stessa di «prossimità umana»: non «mio prossimo perché partecipe della stessa umanità», ma «mio prossimo perché non contrasta la mia utilità». Cioè: la fondazione ultima del sociale umano non è costituito dal legame nella stessa umanità, ma dalla contrattazione sugli interessi degli individui (cfr. EV 20).
 Posta alla base del sociale umano questa «ontologia» , il principio utilitarista e non la norma personalista ne diviene la base etica colla conseguenza che l’esistenza di chi non può, non ha la forza di difendere il proprio utile, viene inesorabilmente distrutto.
Alla radice di questa corruzione totale del sociale umano sta l’oscurarsi della verità sul bene nella nostra coscienza morale. Questa viene impedita di vedere in ogni persona umana qualcuno di incondizionato valore: impedita di vedere il bene morale come tale. Il bene morale infatti si mostra concretamente nella persona umana.
 Nel magistero di Giovanni Paolo II anche la difesa della vita umana contro i sacerdoti dell’idolo scienza al quale vorrebbero sacrificarla, usando embrioni umani per la ricerca scientifica, è sempre fatta nella luce abbagliante della certezza di fondo: l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene inviolabile perché “nell’uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio” (EV 34,2),

4. Nel cuore del dramma
 “Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo”: scrive il S. Padre (EV 21,1). Esso consiste nella «eclissi del senso di Dio e dell’uomo» (ivi).
 Spezzando il rapporto con Dio come ragione del proprio essere, l’uomo ha voluto fondarsi su se stesso: essere ragione lui stesso del proprio essere. Si deve notare che non stiamo parlando di quell’atto di libertà che è il peccato e che implica sempre una “aversio a Deo”. Stiamo parlando di un evento spirituale diverso, e più radicale e sconvolgente: voler essere se stesso, fondando se stesso su se stesso, e non più sulla Potenza che ci fonda. Sotto questo peso l’uomo è crollato ed è giunto ormai alla rassegnata noia di un esistere che non sa più donde viene e dove va: si accontenta solo di esserci. Il magistero di Giovanni Paolo II fa notare quasi ad ogni pagina che questa vicenda spirituale non poteva che generare una cultura di morte. Una cultura in cui si è giunti perfino ad “attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri” (EV 20,4). Le coordinate essenziali di questa cultura della morte sono due forme di disperazione. Una disperazione per ostinazione (Kierkegaard): non voler essere ciò che si è, cioè indegni della morte;  una disperazione per debolezza: non poter essere ciò che si è, e quindi chiamare la morte una conquista di civiltà (come si è fatto per l’aborto e si sta facendo per l’eutanasia).

Conclusione: il bacio della misericordia
 Non sono così grande!” sembra dire l’uomo di oggi alla Chiesa che gli annuncia il Vangelo della vita. L’uomo, si dice, non è assolutamente indegno della morte, e quindi non si può esigere che non sia violata la vita di nessuno in nessuna circostanza. E’ la disperazione per debolezza, appunto. Che cosa fa allora la Chiesa a questo uomo disperato più per debolezza che per ostinazione? Ciò che Cristo fece al grande Inquisitore, che pure rinfacciava a Cristo di nutrire troppa stima per l’uomo. Lo bacia col bacio che è la Misericordia di Dio, e per questo gli annuncia il Vangelo della vita.
Card. Caffarra
 


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nichilismo, laicismo, caffarra, giovanni paoloii

domenica, 03 gennaio 2010

La condizione dell’uomo
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"L'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione
definitiva, un valore supremo oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non
soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza a una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio"
Giovanni Paolo II


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giovanni paoloii, senso religioso

lunedì, 28 dicembre 2009

Il  Crocifisso
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Questo desiderano i giovani che, difendendo eroicamente assieme ai genitori la presenza del Crocifisso nei luoghi di studio e di lavoro dei credenti, testimoniano che Cristo è per loro il valore più grande. E per questo i vescovi polacchi continuano a ricordare e rivendicare l’osservanza di questi fondamentali diritti dell’uomo.
 “La croce è il sostegno della vita morale dell’uomo - leggiamo nella lettera pastorale del 6 dicembre 1984 -. Essa mostra e avvicina sempre, e a tutti, i più alti valori etici . . . svolge una funzione educativa della massima importanza: a casa, a scuola, in tutti i luoghi di lavoro e di vita sociale . . . La croce è scuola di fratellanza e di amore, poiché su di essa si è compiuta la riconciliazione . . . Vogliamo le croci nei luoghi dove cresce la nuova generazione, i figli della nazione prevalentemente cristiana
 DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PELLEGRINI POLACCHI PER GLI AUGURI NATALIZI
Aula Paolo VI - Lunedì, 24 dicembre 1984


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croce, giovanni paoloii

sabato, 26 dicembre 2009

La scienza
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"La scienza ha radici nell'immanente,
ma porta l'uomo verso il trascendente".
Papa Giovanni Paolo II

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giovanni paoloii, scienza - articoli

martedì, 22 settembre 2009

 La coscienza
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 La scienza senza la coscienza ad altro non può portare che alla rovina dell’uomo
                Giovanni Paolo II
   “ La coscienza senza Dio è spaventosa, può  smarrirsi  fino a commettere le cose più immorali. Non basta seguire le proprie convinzioni: bisogna anche chiedersi se sono vere le mie convinzioni. La loro unica verifica è Cristo. Questa però non è più filosofia ma fede
F.Dostoeskij


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dostoevskij, giovanni paoloii

venerdì, 04 settembre 2009


L'amore vero
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L'amore vero, nobile e puro porta con sé la bellezza, la serenità e la felicità, è duraturo e sempre in sviluppo, è gratuito, deciso a sacrificarsi,perché non cerca il suo interesse, bensì il bene della persona amata: ogni sacrificio diventa piacevole.
Giovanni PaoloII


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giovanni paoloii

sabato, 08 agosto 2009

ALZATEVI, ANDIAMO!
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"Quando giunse la "sua ora", Gesù disse a coloro che erano con Lui nell'orto del Getsemani, Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli particolarmente amati: "Alzatevi, andiamo!". Non era Lui solo a dover "andare" verso l'adempimento della volontà del Padre, ma anch'essi con Lui.
Anche se queste parole significano un tempo di prova, un grande sforzo e una croce dolorosa, non dobbiamo farci prendere dalla paura. Sono parole che portano con se anche quella gioia e quella pace che sono frutto della fede. In un'altra circostanza, agli stessi tre discepoli Gesù precisò l'invito così: "Alzatevi e non temete!". L'amore di Dio non ci carica di pesi che non siamo in grado di portare, né ci pone esigenze a cui non sia possibile far fronte. Mentre chiede, Egli offre l'aiuto necessario.
Parlo di questo da un luogo in cui mi ha condotto l'amore di Cristo Salvatore, chiedendomi di uscire dalla mia terra per portare frutto altrove con la sua grazia, un frutto destinato a rimanere. Facendo eco alle parole del Maestro e Signore, ripeto perciò anch'io a ciascuno di voi: "Alzatevi, andiamo!". Andiamo fidandoci di Cristo. Sarà Lui ad accompagnarci nel cammino, fino alla meta che Lui solo conosce
. "
Papa Giovanni Paolo II

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auden, giovanni paoloii

lunedì, 13 luglio 2009

L’amore
***
«L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio, solo lui è Eternità»
 Wojtyla da: La Bottega dell’Orefice

«L’amore mi ha spiegato ogni cosa,
 l’amore ha risolto tutto per me
 perciò ammiro questo Amore
dovunque Esso si trovi».
Wojtyla

«L’uomo giunge alla conclusione che, per essere interamente giusto verso il Creatore, deve offrirgli tutto ciò che ha in sé, tutto il suo essere... ».
Wojtyla da:Amore e responsabilità

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domenica, 17 maggio 2009

Prigionieri dell’eugenetica
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Sopravvissuta agli esperimenti medici nazisti, amica personale di Wojtyla, Wanda Póltawska riconosce nei sogni scientisti di oggi il delirio superomistico che sessant’anni fa eliminava i più deboli

di Lorenzo Fazzini
«Non basta parlare della bellezza della vita: bisogna parlare della santità della vita, perché la vita umana deve essere santa». Niente più che una bella frase, se non fosse che a pronunciarla è stata una “Versuchskaninche”, una cavia medica del lager nazista di Ravensbrück. «Se qualcuno mi svegliasse improvvisamente di notte e mi chiedesse chi sono, potrebbe succedere che risponda: “Shutzhaftling siebenundsiebzig null neun”. Questo è il mio numero in lingua tedesca: 7709. E per questo non c’è rimedio».
La vita di Wanda Póltawska sarebbe il sogno di qualsiasi regista cinematografico: nell’esistenza di donna polacca oggi 87enne, psichiatra, si concentrano alcune delle più drammatiche vicende del Novecento.
Membro della Resistenza antinazista a Lublino, sua città natale, nel 1941, giovanissima scout cattolica, viene arrestata, imprigionata e torturata dalla Gestapo. Wanda viene quindi spedita nel lager nei pressi di Berlino e qui, insieme ad un manipolo di altre compagne polacche, diventa cavia umana per efferati esperimenti medici delle Ss: subisce continue operazioni chirurgiche sugli arti che le lasciano non solo ferite nelle gambe ma, ancor di più, una cicatrice nell’anima. Dopo la guerra diventa amica personale di Karol Wojtyla, conosciuto durante i suoi studi di medicina a Cracovia. È lui ad affidarla a padre Pio – e il miracolo avviene – quando una paralisi la colpisce negli anni Sessanta. In seguito sarà una stretta collaboratrice dell’allora arcivescovo di Cracovia: dal 1957, per 40 anni, direttrice dell’Istituto di teologia della famiglia alla Pontificia accademia teologica della città di Wojtyla, che la nomina membro del Pontificio consiglio per la famiglia e della Pontificia accademia per la vita.
Non rilascia mai interviste, Wanda Póltawska. «Mi dispiace» ci dice da casa sua, a Cracovia. Quello che aveva da dire l’ha raccontato in un libro drammatico, E ho paura dei miei sogni (Edizioni dell’Orso), scritto come terapia psicoanalitica, apposta per allontanare gli incubi che, tornata a casa, la tormentavano ogni notte (il libro è uscito in polacco nel 1961, già tradotto in inglese e solo recentemente in italiano). A Tempi confida che è «sciocco e piuttosto insincero» ogni tentativo negazionista alla Mahmoud Ahmadinejad. E invita «gli italiani a vedere Katyn», il film-capolavoro di Andrzej Wajda sull’eccidio sovietico di ufficiali polacchi, «perché questo crimine è una cosa che deve essere ricordata». Come il dramma che la Póltawska porta come stimmate sulla sua pelle, cicatrici quali segni della pazzia superomistica di Hitler che pensava di rimodellare l’«umanità nuova». «È dall’uomo che dipende cosa farà di se stesso ed è per questo che alla domanda su dove sia Dio io posso contrapporre un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”. Non si può accusare Dio delle conseguenze dell’operare umano: quest’accusa la possono fare degli uomini ad altri uomini». Così afferma la Póltawska quando le si chiede conto della sua fede cristiana dentro l’orrore del lager.
Ricco di spunti è il suo intervento “Quando la morte non vince”, pubblicato in L’eclissi della bellezza. Genocidi e diritti umani, volume che raccoglie gli atti di un omonimo convegno organizzato tempo fa a Brescia e ora edito da Fede & Cultura (pp. 185, euro20).
«Finché viviamo, la linea di demarcazione tra il bene ed il male non passa tra un uomo e l’altro, passa dentro ogni uomo. Puoi anche accorgerti che, lentamente, impercettibilmente, si stia spostando verso la bestialità, ma tu, uomo libero, puoi tendere consapevolmente all’eroismo, alla santità».
Proprio in forza della disumana esperienza di Ravensbrück la Póltawska ha da sempre portato avanti una causa pro-life politicamente scorretta, la lotta contro l’aborto. «Hess e i medici ginecologi: anche loro uccidono migliaia di persone, di bambini indifesi, ed essendo medici sanno bene che si tratta di esseri umani. Ma nessuno li giudica, nessuno li condanna. La legge degli uomini non difendeva e non difende i bambini». Non ha timore di sembrare irriverente
, questa anziana reduce dai nazisti, a lottare per la difesa della vita innocente in nome di quella dignità umana che ha visto calpestata dagli anfibi delle Ss. Alla domanda di Tempi sul perché sia una così strenua nemica dell’aborto risponde:
«Sono cattolica e ho visto dei bambini buttati nelle fiamme dai tedeschi».
Wanda ricorda un episodio per lei illuminante: «Durante un congresso in Austria un medico disse di avere una domanda da fare ai teologi. Aveva un problema di coscienza, poiché aveva in frigorifero tre embrioni congelati e non riusciva a trovare una candidata ad essere madre. Non potei resistere: “Lei, collega, ha già dimenticato Norimberga, perché ha questi bambini congelati?”. Al processo di Norimberga Karl Gerardt, che aveva commissionato operazioni sperimentali sulle ragazze di Ravensbrück – e io sono tra queste – fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita, mentre, dopo solo 50 anni, centinaia di medici effettuano impunemente esperimenti pseudo-medici su bambini indifesi. Che uomini sono? Sono diversi dalle Ss tedesche, e se sì, in che cosa? Uomini disumani, una medicina disumana, una mascolinità disumana, una femminilità disumana, semplicemente una umanità disumana: ma perché?».

«Buttavano i neonati nel fuoco»

Proprio di fronte all’orrore nazista è nata la vocazione pro-life di questa indomita testimone della bellezza della vita: «Io ho iniziato il mio lavoro per difendere la vita nel campo di concentramento. Nel campo, specialmente dopo l’insurrezione di Varsavia, erano state internate molte donne incinte. I tedeschi non le facevano abortire, lasciavano che partorissero, poi buttavano i bambini nel fuoco. Io più volte ho dovuto assistere a questa scena. Allora tutte insieme ci siamo organizzate per salvare questi neonati e siamo riuscite a salvarne trenta. Devo dire che in seguito a questi fatti ho deciso di diventare medico». Nel suo racconto autobiografico, intessuto di una drammaticità asciutta, con l’autrice quasi incapace di raccontare l’orrore che ha davanti agli occhi, la Póltawska non smentisce quella fede cattolica che tanto la contrassegna: «No, non odiavo nel modo più assoluto. Si trattava di qualcosa di completamente diverso: una enorme delusione, piuttosto, per il fatto che degli esseri umani potessero fare tutto quello a cui assistevo, che ci fossero degli esseri umani così. Non sentivo odio per nessuno, ma sentivo che il perdono poteva darlo solo Dio».

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aborto, testimonianza, giovanni paoloii

sabato, 02 maggio 2009

L'uomo di fronte al dilemma: Dio o la solitudine esistenziale ***
1. Gli disse Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4).
La domanda di Nicodemo a Gesù esprime bene la meraviglia inquieta dell'uomo di fronte al mistero di Dio, un mistero che egli scopre nell'incontro con Cristo. Tutto il dialogo tra Gesù e Nicodemo rivela la straordinaria ricchezza di significato di ogni incontro, anche di quello dell'uomo con l'altro uomo.
L'incontro infatti è il fenomeno sorprendente e reale con cui l'uomo esce dalla sua solitudine originaria per affrontare l'esistenza. È la condizione normale attraverso la quale egli è condotto a cogliere il valore della realtà, delle persone e delle cose che la costituiscono, in una parola, della storia. In questo senso è paragonabile ad una nuova nascita.
Nel Vangelo di Giovanni l'incontro di Cristo con Nicodemo ha come contenuto la nascita alla vita definitiva, quella del Regno di Dio. Ma nella vita di ogni uomo non sono forse gli incontri a tessere la trama imprevista e concreta dell'esistenza? Non sono essi alla base della nascita di quella autocoscienza capace di azione, che sola consente un vivere degno del nome di uomo?
Nell'incontro con l'altro, l'uomo scopre di essere persona e di dover riconoscere pari dignità agli altri uomini. Attraverso incontri significativi egli impara a conoscere il valore delle dimensioni costitutive dell'esistere umano, prime fra tutte quelle della religione, della famiglia e del popolo cui appartiene.

2. Il valore dell'essere con le sue connotazioni universali - il vero, il bene, il bello - si presenta all'uomo sensibilmente incarnato negli incontri decisivi della sua esistenza.
Nell'affezione coniugale l'incontro fra l'amante e l'amato, che trova compimento nel matrimonio, incomincia dall'esperienza sensibile del bello incarnato nella «forma» dell'altro. Ma l'essere, attraverso l'attrattiva del bello, chiede di esprimersi nella pienezza del bene autentico. Che l'altro sia, che il suo bene si realizzi, che il destino tracciato su di lui dal Dio provvidente si compia, è il desiderio vivo e disinteressato di ogni persona che ama veramente. La volontà di bene duraturo, capace di generare e di rigenerarsi nei figli, non sarebbe, per altro, possibile, se non poggiasse sul vero. Non si può dare all'attrattiva del bello la consistenza di un bene definitivo senza la ricerca della verità di sé e la volontà di perseverare in essa.
E proseguendo: come potrebbe aversi un uomo pienamente realizzato, senza l'incontro, che avviene nell'intimo di sé, con la propria terra, con gli uomini che ne hanno costruito la storia mediante la preghiera, la testimonianza, il sangue, l'ingegno, la poesia? A loro volta il fascino per la bellezza della terra natale e il desiderio di verità e di bene per il popolo che continuamente la «rigenera», accrescono il desiderio della pace, che sola rende attuabile l'unità del genere umano.
Il cristiano è educato a comprendere l'urgenza del ministero della pace dal suo incontro con la Chiesa, dove vive il popolo di Dio che il mio predecessore Paolo VI ebbe a definire «...entità etnica sui generis».
La sua storia sfida il tempo ormai da duemila anni lasciandone inalterata, nonostante le miserie degli uomini che vi appartengono, l'originaria apertura al vero, al bene e al bello.

3. Ma l'uomo prima o poi si accorge, in termini drammatici, che di tali incontri multiformi e irripetibili egli non possiede ancora il significato ultimo, capace di renderli definitivamente buoni, veri, belli. Intuisce in essi la presenza dell'essere, ma l'essere in quanto tale gli sfugge.
Il bene da cui si sente attratto, il vero che sa affermare, il bello che sa scoprire sono infatti lontani dal soddisfarlo. L'indigenza strutturale o il desiderio incolmabile si parano davanti all'uomo ancor più drammaticamente, dopo che l'altro è entrato nella sua vita. Fatto per l'infinito, l'uomo si sente prigioniero del finito!
Quale tragitto può ancora compiere, quale altra misteriosa sortita dall'intimo di sé potrà tentare colui che ha lasciato la sua originaria solitudine per andare incontro all'altro, cercandovi definitivo appagamento? L'uomo, impegnatosi con genuina serietà nella sua esperienza umana, si trova posto di fronte a un tremendo aut aut: domandare a un Altro, con la A maiuscola, che sorga all'orizzonte dell'esistenza per svelarne e renderne possibile il pieno avveramento o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la possibilità stessa dell'essere. Il grido di domanda o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!
Ma la misericordia con cui Dio ci ha amati è più forte di ogni dilemma. Non si ferma neppure di fronte alla bestemmia. Anche dall'interno dell'esperienza del peccato l'uomo può riflettere sempre e ancora sulla sua fragilità metafisica e uscirne. Può cogliere il bisogno assoluto di quell'Altro con la A maiuscola, che può colmare per sempre la sua sete! L'uomo può ritrovare la strada dell'invocazione all'Artefice della nostra salvezza, perch'egli venga! Allora l'animo si abbandona all'abbraccio misericordioso di Dio, sperimentando infine, in questo incontro risolutivo, la gioia di una speranza «che non delude» (Rm 5,5).
GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE Mercoledì, 16 novembre 1983

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giovanni paoloii


L'Amore
***
L'Amore mi ha spiegato ogni cosa,
l'Amore ha risolto tutto per me –
 Perciò ammiro questo Amore,
 dovunque Esso si trovi.
E poiche' sono una distesa aperta
al flusso silenzioso
che non ha nulla dell'onda tonante
che non poggia ai tronchi iridescenti
ma ha molto di un'onda quieta
che scopre luce negli abissi
e alita questo chiarore
su foglie non inargentate.
Percio' in quel silenzio io - foglia,
 liberata dal vento,
 non mi curo più di alcuno dei giorni inabissati
 perche' so che tutti si inabisseranno "
Giovanni Paolo II  In Canto del Dio nascosto,


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giovanni paoloii

venerdì, 01 maggio 2009

Dall'esperienza di radicale solitudine l'impegno di solidarietà
***
1. La pagina del Siracide, ora ascoltata, carissimi fratelli e sorelle, ci invita a riflettere sul mistero dell'uomo: questo essere «creato dalla terra», alla quale è «destinato a tornare di nuovo» e tuttavia «formato ad immagine di Dio»; questa creatura effimera, a cui sono stati assegnati «giorni contati e un tempo fissato e che, ciò nonostante, ha occhi capaci di «contemplare la grandezza della gloria di Dio» (cfr. Sir 17,1-11).
In questo mistero originario dell'uomo radica la tensione esistenziale, che sta al cuore di ogni sua esperienza.
Il desiderio di eterno, presente in lui per il riflesso divino che risplende sul suo volto, si scontra con l'incapacità strutturale a darvi attuazione, che mina ogni suo sforzo. Uno dei grandi pensatori cristiani dell'inizio del secolo, Maurice Blondel, che ha dedicato ampia parte della sua vita a riflettere su questa misteriosa aspirazione dell'uomo all'infinito, scriveva: «Noi siamo costretti a voler divenire ciò che da noi stessi non possiamo né raggiungere né possedere... È perché ho l'ambizione di essere infinitamente, che sento la mia impotenza: io non mi sono fatto, non posso ciò che voglio, sono costretto a superarmi» (M. Blondel, «L'action», Parigi 1982, p. 354).
Quando, nel concreto dell'esistenza, l'uomo percepisce questa impotenza radicale che lo caratterizza, si scopre solo, di una solitudine profonda e incolmabile. Una solitudine originaria che gli deriva dalla consapevolezza acuta, e talora drammatica, che nessuno, né lui né alcuno dei suoi simili, può definitivamente rispondere al suo bisogno e appagare il suo desiderio.

2. Paradossalmente, tuttavia, questa solitudine originaria, per il cui superamento la persona sa di non poter contare su nulla di puramente umano, genera la più profonda e genuina comunità tra uomini.
Proprio questa sofferta esperienza di solitudine è all'origine di una socialità vera, disposta a rinunciare alla violenza dell'ideologia e al sopruso del potere. Si tratta di un paradosso: infatti se non fosse per questa profonda «compassione» per l'altro, che uno scopre solo se coglie in sé questa solitudine totale, chi spingerebbe l'uomo, consapevole di questo suo stato, all'avventura della socialità? Con simili premesse, come potrebbe la società non essere il luogo del dominio del più forte, dell'«homo homini lupus» che la concezione moderna dello Stato non solo ha teorizzato, ma ha anche posto tragicamente in atto?
È grazie ad uno sguardo così carico di verità su di sé che l'uomo può sentirsi solidale con tutti gli altri uomini, vedendo in essi altrettanti soggetti attraversati dalla medesima impotenza e dal medesimo desiderio di compiuta realizzazione.
L'esperienza della solitudine diventa così il passo decisivo per il cammino verso la scoperta della risposta alla domanda radicale. Essa genera infatti un legame profondo con gli altri uomini, che sono accomunati dallo stesso destino e animati dalla stessa speranza. Così da questa abissale solitudine nasce l'impegno serio dell'uomo verso la propria umanità, un impegno che diviene passione per l'altro e solidarietà con ciascuno e con tutti. Una società autentica è, allora, possibile per l'uomo, perché non ha fondamento in un calcolo egoistico, ma nell'attaccamento a quanto di più vero vive in lui stesso e in tutti gli altri.

3. La solidarietà con l'altro diviene più propriamente incontro con l'altro attraverso le diverse espressioni esistenziali che caratterizzano gli umani rapporti. Di questi,
il rapporto affettivo tra uomo e donna sembra essere il principale, perché poggia su un giudizio di valore in cui l'uomo investe in modo originalissimo tutti i suoi dinamismi vitali: l'intelligenza, la volontà e la sensibilità. Egli fa allora l'esperienza di quell'intimità radicale, ma non priva di dolore, che il Creatore ha posto in principio nella sua natura: «Il Signore plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa volta essa è la carne della mia carne è osso delle mie ossa"» (Gn 2,23).
Sulla scorta di questa primaria esperienza di comunione l'uomo si applica con gli altri alla costruzione di una «società» intesa come convivenza ordinata. Il conquistato senso di solidarietà con tutta l'umanità si concretizza anzitutto in una trama di rapporti, nei quali l'uomo primariamente è chiamato a vivere e ad esprimersi, recando ad essi il suo contributo e ricevendone, di rimando, un considerevole influsso sullo sviluppo della propria personalità. È nei diversi ambienti in cui si attua la sua crescita che l'uomo si educa a percepire il valore di appartenere ad un popolo, come condizione ineliminabile per vivere le dimensioni del mondo.

4.
I binomi uomo-donna, persona-società e, più radicalmente, anima-corpo, sono le dimensioni costitutive dell'uomo. A queste tre dimensioni si riduce a ben vedere tutta l'antropologia «pre-cristiana», nel senso che esse rappresentano tutto ciò che l'uomo può dire di sé al di fuori di Cristo. Ma esse si caratterizzano per la loro polarità. Implicano cioè una inevitabile tensione dialettica. Anima-corpo, maschio-femmina, individuo-società sono tre coppie che esprimono il destino e la vita di un essere incompiuto. Sono ancora una volta un grido che si eleva dall'interno della più intima esperienza dell'uomo.
Sono domanda di unità e di pace interiore, sono
desiderio di una risposta al dramma implicito nel loro stesso reciproco rapportarsi. Si può dire che esse sono invocazione ad un Altro che colmi la sete di unità, di verità e di bellezza, emergente dal loro fronteggiarsi.
Anche dall'interno dell'incontro con l'altro - possiamo dunque concludere - si apre l'urgenza di un intervento dall'Alto, che salvi l'uomo da un drammatico, e altrimenti inevitabile, fallimento.
Giovanni Paolo II  UDIENZA GENERALE Mercoledì, 9 novembre 1983

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giovanni paoloii

giovedì, 23 aprile 2009

Difficoltà dell'uomo d'oggi nel vivere la sua umanità
***
1. L'apostolo Paolo, carissimi fratelli e sorelle, ci ha parlato di «uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia» (Rm 1,18), finendo per smarrire la strada che, dall'esperienza del mondo creato, avrebbe dovuto condurli a Dio. Resta in tal modo frustrato quell'insopprimibile anelito verso il divino, che urge nell'animo di ogni uomo capace di riflettere seriamente sulla propria esperienza di uomo.
Quali sono gli scopi nei quali più frequentemente s'incaglia la navicella dell'uomo in rotta verso l'Infinito? In rapida sintesi potremmo classificarli sotto tre grandi categorie di errori.
Vi è innanzitutto quella sorta di arroganza, di «hybris», che conduce l'uomo a misconoscere il fatto di essere creatura, strutturalmente dipendente, come tale, da un Altro. È questa un'illusione presente con particolare pertinacia nell'uomo di oggi. Figlio della pretesa moderna di autonomia, abbagliato dal proprio splendore («...mi hai fatto come un prodigio»: Sal 139,13), egli dimentica di essere creatura. Come ci insegna la Bibbia, egli subisce il fascino della tentazione di ergersi contro Dio con l'argomento insinuante del Serpente nel paradiso terrestre: «Sarete come Dio» (Gn 3,5).
In realtà c'è nell'uomo qualcosa di divino. A partire dalla Bibbia, la grande tradizione cristiana ha sempre proclamato questa verità profonda con la dottrina dell'«Imago Dei». Dio ha creato l'uomo a sua immagine. Tommaso e i grandi Scolastici esprimono questa verità con le parole del Salmo: «Risplende su di noi la luce del tuo volto, o Signore» (Sal 4,7). Ma la sorgente di tale luce non è nell'uomo, è in Dio. L'uomo, infatti, è creatura. In lui si coglie soltanto il riflesso della gloria del Creatore.
Anche chi non conosce Gesù Cristo, ma affronta con serietà la propria esperienza di uomo, non può non accorgersi di questa verità, non può non percepire con ogni fibra del suo essere, dall'interno della sua stessa esistenza, questa presenza di un Altro più grande di lui, da cui veramente dipendono il giudizio e l a misura del bene e del male. San Paolo è categorico in questo senso: egli considera i Romani responsabili dei loro peccati perché «...dalla creazione del mondo in poi le sue (di Dio) perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute...» (Rm 1,20).
Quando l'uomo non si riconosce dipendente dal Dio che la Liturgia definisce come «Rerum... tenax vigor» (Breviario romano, Inno di Nona), allora inevitabilmente finisce per smarrirsi. La sua ragione si pretende a misura della realtà, reputando come inesistente ciò che non è da essa misurabile. Analogamente la sua volontà non si sente più interpellata dalla legge che il Creatore ha posto nella sua mente (cfr. Rm 7,23) e cessa di perseguire il bene da cui pure si sente attratta. Concependosi come arbitra assoluta di fronte a verità ed errore, se li figura, illudendosi, come indifferentemente equidistanti. Sparisce così dall'orizzonte dell'esperienza umana la dimensione spirituale della realtà e, conseguentemente, la capacità di percepire il Mistero.
Come potrà a questo punto l'uomo accorgersi di quella tensione che egli porta in sé tra il suo io carico di bisogni e la sua incapacità di risolverli? Come potrà avvertire la pungente contraddizione tra il suo desiderio dell'Essere e Bene Infinito e il suo vivere limitato come ente tra gli enti? Come potrà fare un'esperienza autentica di sé, cogliendo nelle radici più profonde del suo essere l'anelito della Redenzione?

2. Il secondo tipo di errore che impedisce un'esperienza umana autentica, è quello che conduce l'uomo a tentar di spegnere in sé ogni domanda e ogni desiderio che vadano al di là del suo essere limitato, per appiattirsi su ciò che possiede. È forse il più triste dei modi in cui l'uomo possa dimenticare se stesso, perché implica una vera e propria alienazione: ci si estrania dal proprio essere più vero per disperdersi nei beni che si possiedono e che si possono consumare.
Non è certo disprezzabile lo sforzo che l'uomo compie per dare una sicurezza materiale e sociale a sé e ai suoi cari. È meravigliosa la ricerca di solidità e consistenza con cui la natura, attraverso il complesso fenomeno dell'affezione, conduce l'uomo alla donna e questa all'uomo. Ma come è facile praticamente che queste lodevoli sicurezze umane vengano parzializzate o esasperate così da accendere nell'uomo illusori miraggi e false speranze! Gesù nel Vangelo ha espressioni terribili contro questo peccato (Lc 12,16-21).
Anche in questo caso l'uomo si priva di un'esperienza umana integrale, perché non riconosce la sua vera natura di creatura spirituale e lascia quasi morire nel suo cuore ogni anelito a quella verità di sé che lo apra al Dono mirabile della Redenzione.

3. Il terzo tipo di errore, in cui cade l'uomo alla ricerca della sua genuina esperienza, si manifesta quando egli investe tutte le sue energie - intelligenza, volontà, sensibilità - in una interminabile ed esasperante ricerca volta solo alla sua interiorità. Egli diviene così incapace di accorgersi che ogni esperienza psicologica esige, per costituirsi, l'accettazione della realtà oggettiva, raggiunta la quale il soggetto può ritornare su di sé in modo compiuto. L'uomo che si chiude in questa solitudine psicologica volontaria diviene incapace di qualunque comunicazione oggettiva con la realtà. Per questa figura umana, egoistica e patetica, l'altro finisce per essere ridotto ad un fantasma facilmente strumentalizzabile.
Ma l'uomo che si oppone alla necessità innata di aprirsi alla realtà come è in se stessa e alla vita con la sua drammatica verità, si erge in ultima analisi contro il loro Autore, precludendosi la possibilità di trovare in lui la risposta che, sola, potrebbe appagarlo.
Carissimi, l'importanza di aver richiamato queste difficoltà dell'uomo nel vivere la sua integrale esperienza umana sta nel fatto che anche noi in questo Anno Santo della Redenzione ci sentiamo richiamati all'urgenza di essere uomini nuovi per la nostra fede. Anche noi che abbiamo incontrato Cristo, il Redentore, dobbiamo sempre e di nuovo stare ritti di fronte a lui vincendo in noi la tentazione del peccato perché «egli possa portare a compimento l'opera che in noi ha iniziato» (Fil 1,6).
GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE  Mercoledì, 26 ottobre 1983


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giovanni paoloii, senso religioso

mercoledì, 22 aprile 2009

Dio è la risposta compiuta sul senso della vita umana
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1. «Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male?» (Sir 18,7).
Gli interrogativi, posti nella pagina del libro del Siracide, ora ascoltata, interrogativi ai quali fa eco tutta la letteratura biblica sapienziale, che ha riflettuto parimenti sul senso della nascita, della morte e della fragilità dell'uomo, individuano un livello dell'esperienza umana assolutamente comune a tutti gli uomini.
Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che quasi profezia dell'umanità, ripropone continuamente la «domanda seria» che rende l'uomo veramente tale.
Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così come ai suoi momenti più comuni
.
In tali questioni è testimoniata la ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la volontà dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso pieno alla vita
. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza.

2. In particolare,
quando il «perché delle cose» viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino.
In questa prospettiva si coglie l'importanza dell'insegnamento conciliare che, a proposito della libertà religiosa, afferma: «L'esigenza di libertà nella società umana riguarda soprattutto i beni dello spirito umano e in primo luogo ciò che si riferisce al libero esercizio della religione nella società» («Dignitatis Humanae», 1).
L'attitudine religiosa dell'animo umano si pone come una sorta di capacità connaturale al nostro stesso essere. Per questo,
domande e risposte sul significato ultimo delle cose non si possono mai cancellare dal cuore dell'uomo. Per quanto ci si ostini a rifiutarle e a contraddirle nella propria esistenza, non si riesce tuttavia a tacitarle. Ogni uomo - il più superficiale o il più dotto, il più convinto assertore o il più accanito oppositore della religione - per vivere deve dare, e di fatto dà, una risposta a questa radicale questione.
L'esistenza e l'universalità della domanda sul senso della vita trovano
la conferma più clamorosa nel fatto che chi la nega è costretto ad affermarla nell'istante stesso in cui la nega! Ecco la riprova più solida del fondamento metafisico del senso religioso dell'uomo. E ciò è in perfetta armonia con quanto abbiamo appena detto sulla religiosità come culmine della razionalità.
Il senso religioso dell'uomo non dipende in sé dalla sua volontà, ma è iniziativa di chi l'ha creato. La scoperta del senso religioso è, dunque, il primo risultato che l'uomo consegue, se affronta seriamente l'esperienza di impotenza strutturale che lo caratterizza.
3.
La tradizione religiosa chiama «Dio» la risposta compiuta alla domanda ultima ed esauriente sull'esistenza. La Bibbia, nella quale è documentata in modi svariatissimi e drammatici l'universale presenza del disegno religioso nell'uomo, indica tale fondamentale risposta nel Dio vivo e vero. Tuttavia nei momenti della tentazione e del peccato Israele fabbrica l'idolo, il dio falso e inerte.
Così è per l'uomo di ogni tempo, anche il nostro. Alla domanda sul suo destino ultimo egli può rispondere riconoscendo l'esistenza di Dio, oppure sostituendovi una caricatura di propria invenzione, un idolo come ad esempio il denaro, l'utile o il piacere.
Per questo san Paolo ammonisce duramente nella lettera ai Romani: «Mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (Rm 1, 22-23). Non è forse racchiuso in questo giudizio di Paolo il senso dell'inevitabilità della domanda religiosa nell'uomo?
Come voce di Dio, luce del suo volto impressa nella nostra mente, l'energica inclinazione del senso religioso è all'erta nell'animo di ogni uomo. Che egli la attui nel riconoscimento di Colui da cui dipende tutto il suo essere, fragile e splendido, o che tenti di sfuggire alla sua presa, inseguendo svariati e parziali motivi per il suo esistere, l'inclinazione del senso religioso resterà sempre alla radice dell'essere umano, creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Dio solo, infatti, può pienamente appagare la sete dello spirito umano, tendente istintivamente al Bene Infinito.
Noi che crediamo in Cristo e che in questo straordinario Anno Santo della Redenzione vogliamo portare con onore il glorioso nome di cristiani, preghiamo perché ogni uomo accolga l'orientamento fondamentale a cui il senso religioso inclina la sua mente
.
 Giovanni PaoloII
UDIENZA GENERALE Mercoledì, 19 ottobre 1983

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