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mercoledì 1 febbraio 2012

giussani 3

Il primo oggetto della carità

si chiama Gesù Cristo

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 Cos'è questa carità senza della quale non siamo nulla? È che il primo oggetto della carità si chiama Gesù Cristo. Il primo il primo oggetto dell'amore e della commozione dell’uomo si chiama «Dio fatto carne per noi», ed è proprio perché c’è questo Cristo che non c’è più nessun uomo che non mi interessi.

Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli


Postato da: giacabi a 09:25 | link | commenti
giussani

mercoledì, 17 febbraio 2010

Il peccato

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Il peccato è la meschinità della distrazione e della dimenticanza; il peccato è la meschinità di non tradurre in novità, non fare splendere di aurora nuova quello che facciamo: lo lasciamo opaco, così come viene; senza colpire nessuno, ma senza donarlo allo splendore dell’Essere.
Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli

Postato da: giacabi a 08:24 | link | commenti
giussani

martedì, 16 febbraio 2010

Dio cos’è?

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La natura di Dio appare all’uomo come dono assoluto: Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice

Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli

Postato da: giacabi a 07:28 | link | commenti
dio, giussani

martedì, 09 febbraio 2010

La carità
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 ...Carità deriva dal greco charis, che vuol dire gratis o gratuità. La carità dunque richiama la forma suprema dell'espressione amorosa.  La gratuità - da cui è bandito ogni calcolo, ogni attesa di ricompensa, ogni previsione di tornaconto - la totale assenza di  "ragioni" che la ragione capisce, che la ragione spiega.  La carità implica l’assenza di ragioni, cioè di tornaconto, di calcolo, di proporzionalità ad attese: un ritorno insomma. La ragione di un’azione è il ritorno che l’azione ha. È un ritorno:facendo quella azione, guadagno i soldi al ventisette del mese; dando soldi a questo qui, ho come ritorno il suo attaccamento a me, di cui sento il bisogno come affezione o di cui sento il bisogno come collaborazione a qualche cosa. Ecco, la carità abolisce totalmente - totalmente, nel senso assoluto del termine - ogni ritorno.  Vale a dire: la carità agisce per puro amore... E, infatti, cos'è l'amore se non volere il bene dell'altro?  Non per avere qualcosa io, ma per il bene dell'altro, e il bene dell'altro è il rapporto con il suo destino. Il rapporto con il suo destino è il rapporto con una Presenza, perché il suo destino è diventato uno che cammina per le strade, che prende i bambini in braccio, che guarda la società e piange e guarda dall'alto della collina, che vien preso per un malfattore, e l'assassino è liberato e lui è crocifisso. La carità è amore puro-si dice- si esaurisce nel volere il bene dell’altro, cioè il suo destino, il suo rapporto con Cristo…  la ragione che sostiene la carità è totalmente ed esclusivamente l’oggetto dell’amore. L’oggetto autentico dell’amore cos’è?  Il bene dell’altro, il destino dell’altro, il suo rapporto con Cristo.
Luigi Giussani    "Si può vivere così? Rizzoli

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giussani

giovedì, 04 febbraio 2010

La sorgente della morale
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«non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo»
Non arzigogolare o tendere alla perfezione, ma guardare in faccia Cristo [come Giovanni e Andrea]: se uno guarda in faccia Cristo, se uno guarda in faccia una persona a cui vuol bene, tutto in lui si rimette a posto, tutto corre a posto e si mette i capelli in un certo modo, e si allaccia il bottone, e ha vergogna delle scarpe sporche, e dice: “Scusami se sono così trasandato
La sorgente della morale è voler bene a uno, non realizzare delle leggi.
Mons. Luigi Giussani, (Si può vivere così?),pag.283

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gesù, giussani

sabato, 30 gennaio 2010

Com'è pesante la vita di un  saggio ***
È il libro di un saggio, pieno di osservazioni sagge; ma che pesantezza il saggio!  Com'è pesante la vita, se dovessi seguire la saggezza: pesantissima! È il contrario «dell'insostenibile leggerezza dell'essere»; insostenibile è la vita di un saggio, tant'è vero che è impossibile che ci sia un saggio che faccia quel che dice, quel che  pensa. Tutte le frasi erano bellissime- a parte il fatto che le più belle le diciamo anche noi:coincidevano!

Mons. Luigi Giussani, (Si può vivere così?),pag.279

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giussani

sabato, 23 gennaio 2010

L'ottimismo cristiano
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un ottimismo profondo di fronte all'esistenza e alla storia al quale il cristiano perviene in forza della coscienza della resurrezione di Cristo
Don Giussani
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 "Spesso ho preferito chiamarmi ottimista per evitare la troppo evidente bestemmia del pessimismo. Ma tutto l'ottimismo dell'epoca e' stato falso e scoraggiante, per questa ragione: che ha sempre cercato di provare che noi siamo fatti per il mondo.
L'ottimismo cristiano invece e' basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo."
Gilbert Keith Chesterton
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 Chi ai nostri tempi può ancora coltivare senza
preoccupazioni la musica e l’amicizia, suonare e stare allegro?
Sicuramente non l’uomo “etico”, ma solamente il cristiano.
 Dietrich Bonhoeffer  Così scriveva dal carcere nazista

Postato da: giacabi a 15:17 | link | commenti
felicità, bonhoeffer, giussani, chesterton


La fiducia 
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È l'oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto il nostro futuro, è l’oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto quanto l’ignoto della speranza, perché la speranza è piena di ignoto…..
«Maestro anche noi non comprendiamo  quello che tu dici, ma se andiamo via da te, dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita »,che portano il peso della vita, secondo una traiettoria che va a finire al destino, cioè al nostro compimento: questo è introdotto dal concetto di fiducia.
La povertà, cioè non è un abbandonare, ma è definita dal cammino verso l’avere, verso la verità dell’avere.
Fiducia, infatti, nasce da un verbo latino che suona fidere, fidere se alicui, affidarsi a uno . Fiducia è affidarsi a uno. La  fiducia, perciò, ha dentro la speranza come compimento, cioè ha dentro la povertà come regola della vita; cioè anche se  uno non lo vuole, è costretto a lasciare.
Mons. Luigi Giussani, (Si può vivere così?),pag.280

Postato da: giacabi a 09:57 | link | commenti
fede, giussani


La fede  
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La fede è un atto dell'intelletto, dice il catechismo, è un atto di conoscenza che coglie la Presenza di qualcosa che la ragione non saprebbe cogliere, ma che pur si deve affermare, altrimenti si eluderebbe, si eliminerebbe qualcosa- che c'è dentro l'esperienza, che l'esperienza indica, quindi in qualche modo innegabilmente c'è dentro; è inspiegabile, ma c'è dentro. Allora per forza c'è in me una capacità di capire, di conoscere un livello della realtà che è più grande del solito; e son costretto dalla ragione ad ammetterlo: se non lo ammettessi non affermerei tutti i fattori che compongono la mia esperienza. Questa cosa è il nucleo portante di tutta quanta la concezione della conoscenza e della intelligenza della realtà dal punto di vista cristiano, tutto il nucleo della intelligenza cristiana è qui.

Mons. Luigi Giussani, (Si può vivere così?),pp. 272-273

Postato da: giacabi a 09:18 | link | commenti
fede, giussani

mercoledì, 20 gennaio 2010

Don Giussani
che simpatico!!!
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don Giussani, che simpatico!!
grazie a gigi

Postato da: giacabi a 16:19 | link | commenti
giussani

sabato, 16 gennaio 2010

L’amore
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La legge dell’uomo, cioè il dinamismo stabile del meccanismo naturale che si chiama uomo, è l’amore, e l’amore è l’affermazione di qualcosa d’altro come significato di sé.
L. Giussani, Si può vivere così?. pag.265

Postato da: giacabi a 11:11 | link | commenti
giussani

giovedì, 14 gennaio 2010

La Vera educazione deve essere una educazione alla critica:
il rischio educativo
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L'idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quel che avviene adesso).

Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l'educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l'educazione, un'educazione che sia vera, cioè corrispondente all'umano. Educazione, dunque, dell'umano, dell'originale che è in noi, che in ognuno si flette in modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti, nella varietà delle espressioni, delle culture e delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell'uomo è uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o continenti.
La prima preoccupazione di un'educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell'uomo come Dio l'ha fatto. La morale non è nient'altro che continuare l'atteggiamento in cui Dio crea l'uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente.
Di tutto quello che si deve dire sull'educazione, a noi importano soprattutto questi punti.

1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un'ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all'ipotesi che si è presa.
In Realtà e giovinezza. La sfida ho scritto: «È la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà, offre una ipotesi di significato, un'immagine del destino». Uno entra nel mondo con un'immagine del destino, con un'ipotesi di significato, che non è ancora svolta in libri: è il cuore, come dicevamo prima. «La tradizione, infatti - prosegue il testo -, è come un'ipotesi di lavoro con cui la natura butta l'uomo nel paragone con tutte le cose».

2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato. Ma se il passato non appare, se non è proposto dentro un vissuto presente che cerchi di dare le proprie ragioni, non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all'educazione: la critica.

3. La vera educazione deve essere un'educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L'ha detto la signora maestra, l'ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l'istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l'italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente.
Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo.

Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche diverse per i connotati vari delle circostanze dell'esperienza.

La nostra insistenza è sull'educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». E così, con l'aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l'uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d'uomo.

Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l'ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l'ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L'identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù.
Il dubbio è il termine di un'indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l'invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura.

Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica - come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) -, il giovane è foglia fragile lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?», diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un'opinione pubblica generale creata dal potere reale.

Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri.

Fin dalla prima ora di scuola ho sempre detto: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un'esperienza che è l'esito di un lungo passato: duemila anni».

Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall'inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperita e trovata nell'esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l'opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento.

Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo «quindi» è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola «razionalità», usa la parola «cuore». La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell'uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé che - come spesso sottolineo ai ragazzi - identifica lo stesso contenuto indicato dalla parola «perfezione» («satisfacere» o «satisfieri», in latino è analogo al termine «perficere», perfezione: perfezione e soddisfazione sono la stessa cosa, come lo sono felicità ed eternità).

Quindi, intendiamo per razionalità il fatto di corrispondere alle esigenze fondamentali del cuore umano, quelle esigenze fondamentali con cui un uomo - volente o nolente, lo sappia o non lo sappia - giudica tutto, ultimamente giudica tutto, in modo imperfetto o in modo perfetto.

Per questo dare ragione della fede significa descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente, gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella sua autenticità, quella la cui «sentinella» è il Papa di Roma. È il cambiamento della vita che, dunque, la fede propone.

Il delitto sta nel concepire, proporre e vivere la fede come una premessa che non viene mantenuta, come una premessa che non c'entra con la vita. Con la vita: la vita è oggi, perché ieri non c'è più, domani non c'è ancora. La vita è oggi. Io oso dire ai ragazzi che ciò che non c'entra in nessun modo con la mia esperienza di oggi, con la mia esperienza presente, non c'è; semplicemente non c'è. Perciò un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento, non c'entra in nessun modo: non c'è, è un Dio che non c'è, è un Cristo che non c'è, è un corpo di Cristo che non c'è; sarà in testa ai teologi, ma non in me, non può essere in me.

La separazione del cielo dalla terra è il delitto che ha reso il senso religioso o, meglio, il sentimento religioso, vago, astratto, come una nube che corre nel cielo e presto si svaga, si fiacca e scompare, mentre la terra resta dominata - volenti o nolenti - ultimamente, come lo fu con Adamo ed Eva, dall'orgoglio, dalla imposizione di sé, dalla violenza.

Il rabbino di Roma, Elio Toaff, ha scritto in un libro recente, Essere ebreo: «L'epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il Cristianesimo: noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l'uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». Quando l'ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il Cristianesimo, perché il Cristianesimo è «Dio in terra» e la nostra opera, tutta la nostra vita, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell'uomo Cristo, dell'uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia, al di qua dell'ultimo limite, perché al di là ci pensa solo Lui a farsi gloria: coincide con l'eterno di là, ma di qua, se io non lo servo, la Sua gloria è minore. [...]

Dice il secondo capitolo della lettera di San Paolo ai Galati: «Pur vivendo nella carne [carne è ciò che è definito nel tempo e nello spazio; si definisce nel contingente] io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Si può concepire una fede al di fuori di questa emozione che nasce da un'esperienza presente (domani sarà esperienza presente nel domani!)? Ecco, la persuasione da cui siamo nati è questa: diversamente non si può concepire la fede, sarebbe assurda e sarebbe assurdi aderirvi! Non c'è amico che mi segua che non senta questo. Può sbagliare, essere incoerente mille volte, essere peccatore come me; ma la strada è questa...

Con ciò voglio sottolineare che se la fede non c'entrasse con la razionalità, la fede non potrebbe c'entrare con la vita, perché la razionalità è il modo di vivere tipico dell'uomo.

Quanto ho detto ha centrato tutto l'assetto teorico del Movimento che Dio mi ha dato la grazia di vedere, e che ha preso origine dal gusto della razionalità, dal gusto della chiarezza di concepire la razionalità, dal gusto di viverla continuamente nell'atto che si pone. Tra l'altro, in questo essendo abbastanza soli nel mondo culturale di allora e di oggi: è come se tra una ragione debole e il nichilismo di oggi, la forza e la corposità rivelatrice del segno fosse affermata.

Non ci sono appena la ragione debole e il nichilismo: c'è questo misterioso, ma reale, sperimentabile fenomeno di una realtà che è segno di un'altra realtà. La fede è l'esaltazione del segno, del valore del segno. Così la razionalità tra di noi diventò la ricerca di un modo autentico di cogliere la realtà giudicando gli avvenimenti, cogliendone la corrispondenza alle esigenze costitutive del nostro animo o del nostro cuore, come dice la Bibbia.

Pretendevamo, così tradurre l'antico adagio scolastico: la verità è una «adequatio rei et intellectus», una corrispondenza dell'oggetto alla autocoscienza, alla coscienza di se stessi, cioè alla coscienza di quelle esigenze che costituiscono il cuore, che costituiscono la persona, senza delle quali essa sarebbe niente!

La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità. La fede così espressa può essere criticabile, ma occorre intendere quel che si vuole dire. La fede viene proposta come appoggiata al supremo vertice della razionalità: quando giunge al suo vertice nell'esame di una cosa, la nostra natura umana sente che c'è qualcosa d'altro.

Questo definisce l'idea di segno: la nostra natura sente che quello che vive, che quello che ha tra mano, rimanda ad altro. L'abbiamo chiamato «punto di fuga»: è il punto di fuga che c'è in ogni esperienza umana, cioè un punto che non chiude, ma rimanda. Questo è un altro concetto fondamentale del nostro insegnamento.

La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensabile.

Giovanni e Andrea, quando sono andati a casa di Gesù, quel pomeriggio, e sono stati là a vederlo parlare, sono tornati a casa loro dicendo: «Abbiamo trovato il Messia». E il testo non dice cosa abbia detto; chissà cosa avevano capito di quello che aveva detto! Ma era chiaro che come quell'uomo non c'era nessuno, perché era qualcosa di oltre. Ed è la domanda che gli rivolsero dopo un po' di tempo, quando nel mare in tempesta lui fece il miracolo di far bonaccia immediata. E i suoi discepoli (che sapevano chi era suo padre, sua madre, i suoi fratelli, dove abitava; sapevano tutto di lui perché erano già alcuni mesi che erano affiatatissimi), spaventati, si chiedevano: «Ma chi è costui?». Era così sproporzionato, quello che l'uomo era, a ciò che loro potevano pensare, immaginare, aspettare, che non potevano darsi ragione: era oltre la ragione. Questo è il processo per cui la fede avviene in me, in te, in chiunque, con la grazia di Dio, naturalmente! [...]

Questo è stato il momento più decisivo della mia vita culturale. Dico «culturale» tanto la fede c'entra con la ragione. Ho intuito che la fede risponde alle esigenze del cuore più di qualsiasi altra ipotesi; per questo è più razionale di qualsiasi altra ipotesi razionale.
La fede viene proposta come la suprema razionalità, in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensata, impensabile. [...]

«Esiste un punto d'arrivo - diceva Kafka -, ma nessuna via». Ed è questo un altro passaggio importante. La fede è proprio la via a ciò che la ragione cerca sopra ogni cosa. Ultimamente, la ragione che cosa cerca, se non il senso della vita, il senso dell'esistenza, il senso di tutto? E tutta la filosofia contemporanea è rassegnata a dire: ci sarà un senso?...
Duemila anni fa il senso stesso è venuto tra noi a dirci: «Io sono la via, la resurrezione, la vita» (cfr. Gv 14,6). L'unico uomo che abbia detto così nella storia del mondo!

Mi permetto di aggiungere un'ultima sola cosa. L'evento di cui tratta la fede è un avvenimento che bisogna vivere, non leggere o discutere: un avvenimento si vive, altrimenti non è adeguato il nostro porci di fronte ad esso. [...] L'evento in questione è che Dio si è fatto carne, uomo, ed è presente: «Sarò con voi tutti i giorni» (cfr. Mt 28,20). È presente, è presente tutti i giorni! Occorre abbandonarsi a questo messaggio e accostare l'esperienza secondo le connotazioni di questo messaggio. Egli disse che sarebbe stato presente ogni giorno nella comunità dei credenti, che li raccoglie e che li fa essere il suo corpo misterioso. Bisogna che noi ci abbandoniamo a questa presenza e viviamo la nostra vita all'interno di questa presenza, sotto l'influsso di questa presenza, giudicata da questa presenza, illuminata da questa presenza, sostenuta da questa presenza.

Il Cristianesimo è un evento: bisogna sottoporgli la vita, la vita intera nell'istante. Come «nell'esperienza di un grande amore - ricordava Guardini - tutto diventa un avvenimento nel suo ambito», così all'evento cristiano bisogna sottoporre l'intera storia della nostra vita. [...]

Nell'Italia fine anni '50: il sorgere di un'intuizione
In una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto cattolico teorico ed etico - parrocchie efficienti con offerta di corsi di catechismo «per tutte le stagioni»; lezione di religione obbligatoria in ogni ordine di scuola fino alla media superiore; tradizione almeno formalmente ben salvaguardata nei criteri familiarmente trasmessi; un certo non ancora sconfessato pudore di fronte ad indiscriminata critica o informazione irreligiosa; una buona percentuale di prassi di Messa festiva - un primo contatto con i giovani studenti delle medie superiori forniva un triplice fattore di rilievo che colpiva l'osservatore interessato.

Innanzitutto una immotivazione ultima della fede. Suggestiva è a questo proposito un'immagine che si trova nei Sermoni di sant'Agostino che nel simbolo della lettura evoca in positivo la certezza di una fede motivata: «Colui che in un libro guarda dei caratteri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l'opera d'arte e ne comprende il senso, colui cioè che non soltanto è in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso...».

In secondo luogo, una scontata inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale, e scolastico in particolare.

Infine, un clima decisamente generativo di scetticità che lasciava libero campo all'attacco alla religione da parte di determinati professori. Tale atteggiamento, quando si verificava, otteneva facilmente una certa attenta stima e custodiva un disinteresse di fondo il cui primo riverbero pratico si identificava in una perdita di eticità.

In una simile situazione sembrava porsi come inevitabile un aut-aut: o si doveva considerare il Cristianesimo come qualcosa che aveva ormai perso ogni forza persuasiva e determinante la vita di un giovane studente, oppure si doveva concludere che il fatto cristiano non veniva presentato, offerto, in modo a lui adeguato.

Accettare la prima ipotesi sarebbe stato evidentemente dare per scontato il giudizio storico gramsciano, ma la chiarezza e l'impeto di una fede cristiana vissuta altrettanto evidentemente non poteva cedere al suggerimento di tale punto di vista culturale.

Una comunicazione, e uno sviluppo, del contenuto tradizionale era quindi legata soprattutto ad un problema di metodo.
Due sono stati i cardini di questa intuizione.
Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani.

Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell'azione, cioè l'evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell'esperienza di un bisogno umano affrontato dall'interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale.

La prova del rischio
In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell'insistere sulla razionalità del progetto di fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica.
E si entra in un rischio quando si dice che è dall'esperienza che una convinzione può scaturire: non si tratta infatti di un «feeling» da evocare, di un'emozione pietistica da suscitare, ma di un impegno che non può barare; si è quindi alla mercé delle sabbie mobili di una libertà.

Ricordo una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: «egli comprende che, per comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà "discepolo". Egli si impegna, si affida al "cammino"».
D'altra parte, senza affrontare la prova del rischio, educatore ed educando partirebbero entrambi da una finzione: un mistero supposto riducibile ad evidenza oculare e una libertà immaginata come meccanicamente reattiva in corrispondenza ad ogni stimolo dato.
 L.Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, pp. XIII-XXIV e 5-7

da:  www.gliscritti.it/

Postato da: giacabi a 18:06 | link | commenti
educazione, giussani


La povertà cristiana
***
Povertà è non sperare da un certo possesso: certo vuol dire fissato da noi, previsto da noi,scelto tra quello che è comodo a noi, scelto tra quello che più persuade noi, scelto tra quello che più ci dà ricchezza e quindi sicurezza economica.
La povertà si oppone alla speranza perché colloca la sicurezza nella felicità futura in un certo possesso, che può essere presente o futuro
……La nostra speranza non dipende da Cristo, dipende da un certo possesso dal possesso di una certa cosa.
…. Il fondamento della povertà sta nella certezza che Dio compie quello che ti fa desiderare.
Se Dio, Dio presente, Cristo – perché è in Cristo che Dio opera -, se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo dalle cose; nasce l’immagine della libertà, innanzitutto come libertà dalle cose. Non sei schiavo di niente, non sei incatenato a niente, non dipendi da niente: sei libero.
(…) non sei schiavo di quello che usi, perché sei schiavo solo di Colui che ti dà la certezza della tua felicità.
La povertà si rivela come povertà dalle cose in quanto è Dio che compie i desideri, non la certa cosa cui tu miri.
Non stiamo dicendo cose astratte, perchè la tale ragazza l’avere il tal partito è questione di vita e di morte, si strappa le vesti se pensa di non potere avere il tale ragazzo, lo fissa lei. E invece quel tale ragazzo se ne infischia e ne prende un’altra…..
Dalla libertà dalle cose, che la povertà porta con sé, nasce un sentimento che nessun altro ha se non chi è povero, cioè chi non fissa in determinate cose da lui scelte la speranza della sua vita. (…)

Da questa libertà dalle cose, che nasce dalla certezza che Dio compie tutto Lui, scaturisce un’altra caratteristica dell’animo povero che è la letizia,
L. Giussani, Si può vivere così?. Pp. 256-259). 
 


Postato da: giacabi a 10:40 | link | commenti
giussani, cl

martedì, 12 gennaio 2010


La Comunione
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 Jacobello del Fiore-S. Lucia riceve l'Eucarestia
Perché l’accostarsi alla Comunione è un grido, è il grido di un povero, il grido di un derelitto, che non capisce e non sente più nulla, e perciò ricorre alla forza, al Mistero, alla potenza che fa tutto e che lo convertirà; ricorre a quel Mistero di Dio diventato uomo, inseritosi nella sua vita, che lo ha raggiunto a parole e a fatti col Mistero della Chiesa e che gli dice: «Sono qui», e che ha cambiato tanti e perciò potrà cambiar te. Un giudizio e un desiderio del bene, un grido verso il bene: questo è la Comunione. Non è uno stato d’animo, un sentimento, un piacere, una sincerità da commerciante.
In questo senso, dunque, vi invito, per rinfocolare quel “più”, per diventare finalmente uomini, per vivere umanamente, per rendere alle nostre azioni l’anima che a loro manca normalmente, perché si illumini e si guidi la nostra angoscia ,
perché la carità, cioè l’amore, sia la direttiva della vita, perché la nostra azione sempre più viva coscientemente in rapporto col grande contesto per cui nasce e in cui vive, perché la nostra vita sia cristiana, per capire cos’è Dio e che Dio è diventato uomo, per capire che cos’è la potenza di Dio, per sperimentare che Cristo è vero, per sperimentare che la potenza di Dio si è fatta vedere tra noi, io vi invito innanzitutto all’incontro col Sacramento. L’incontro con una realtà che non potete che percepire confusamente, che non potete capire: è soltanto, perciò, come corollario strano di qualcosa d’altro che noi ci accostiamo a quei gesti. Ed è vivendoli che essi si illuminano e sempre più chiaramente descrivono al nostro spirito anche una metodologia di vita da applicare in tutti i nostri rapporti e in tutte le nostre azioni: vivere il Sacramento nella vita o rendere tutti i nostri rapporti Comunione.

Luigi Giussani  Eucaristia: una Realtà presente, familiare

Appunti da una meditazione di Luigi Giussani agli Esercizi spirituali di Gioventù Studentesca
della Svizzera. Friburgo, novembre 1967

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giussani

mercoledì, 06 gennaio 2010

Epifania del Signore
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http://www.francovalente.it/wp-content/uploads/2009/05/re_magi.jpg


Perché ai Magi è apparso? Non per nulla l’Epifania è sempre stata nella storia della Chiesa la festa missionaria per eccellenza; e non per nulla il Natale era identificato con l’Epifania, cioè il primo manifestarsi del Dio nato tra noi, del Dio-uomo al mondo.
La vita di Cristo non era sua, era per la missione. La vita di Maria non fu sua, ma per la missione. Quella vita dei pastori che, prima di vederlo, di ricevere l’annuncio, era loro, non fu più loro, ma era missione; anche se rimasero a casa loro con le loro mogli, con i loro figli e con il loro gregge. Il loro messaggio nel loro entourage, il messaggio nel paese dove erano, il messaggio che riferivano, che narravano a se stessi e agli altri, qual era? Quella vita, che per i Magi fu loro fino a quel momento, non divenne più loro
Proviamo a immedesimarci con tutta la gente attorno a Maria, con tutta la gente attorno ai Magi, con tutta la gente attorno ai pastori. Come li giudicavano? Impazziti. Come li giudicavano? Strambi. Li sentivano d’un altro mondo, un mondo dissolto, un mondo fantasioso, vano.
Così la nostra vita non è più nostra, ma la nostra vita è missione, è il comunicare ciò che ci è accaduto. Comunicare ciò che ci è accaduto, rendere perciò comunione la nostra presenza, rendere comunione le presenze in cui ci imbattiamo, rinnovare il miracolo della sua Presenza, rinnovare il suo avvenimento, rinnovare con gli altri l’avvenimento che Egli ha realizzato con noi: con gli altri e con le cose, con tutto.
È questa vigilanza missionaria che rende la nostra vita
strategia di Dio, che identifica la nostra vita con la
strategia di Dio, col disegno di Dio. La nostra persona
si identifica con la sua Presenza,  certezza  e  pienezza, tenerezza, allegria, allegrezza  e gioia:  perché questo  è il Natale.

grazie a :     Graciete

 


 

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giussani

giovedì, 24 dicembre 2009

Natale 2009
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Il volantone di Natale di Cl.
La fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?... perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. Nell'uomo vi é un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate é sufficiente: solo il Dio che si é reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, é in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo.

Benedetto XVI


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Ora, con questi muscoli che non tengono, con questa stanchezza, con questa facilità alla malinconia, con questo masochismo strano che la vita di oggi tende a favorire o con questa indifferenza e questo cinismo che la vita di oggi rende, come rimedio, necessario per non subire una fatica eccessiva e non voluta, come si fa ad accettare sé e gli altri in nome di un discorso?
Non si può rimanere nell'amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come é una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora -ora!-, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora.

Luigi Giussani

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natale, benedettoxvi, giussani

sabato, 14 novembre 2009


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Vi è una accezione della parola santità la quale si rifà ad una immagine di eccezionalità che una aureola esprime. Eppure il santo non è né un mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana.  pur dentro la parzialità di certe immagini, rimane la traccia di una idea fondamentalmente esatta: il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero.  Il santo è un uomo vero perchè aderisce a Dio e quindi all'ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costruito il suo destino. Eticamente tutto ciò significa "fare la volontà di Dio" dentro una umanità che rimane e pur diventa diversa. San Paolo testimoniava ai Galati: "Pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio".  Infatti la santità è il riflesso della figura dell'unico in cui l'umanità si è compiuta secondo tutta la sua potenzialità: Gesù Cristo.

Luigi Giussani    (Presentazione del libro  "Santi"  di Cyril Martindale)
grazie a: stellanuova





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santi, giussani

giovedì, 29 ottobre 2009
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Ma che differenza, che differenza con ciò che don Giussani ci ha testimoniato - lo ricordava prima Davide - leggendo Giacomo Leopardi. Perché è impossibile che uno veda quella umanità e non desideri quello sguardo, non desideri partecipare a quella modalità di rapportarsi al reale; perché quello che vediamo in quel video è un uomo, testimone di come si può stare davanti al reale e leggere Leopardi in modo tale da scoprire, da testimoniare quel «Misterio eterno / Dell’esser nostro» («Sopra il ritratto di una bella donna…», in Cara beltà, Bur, Milano 1996, p. 96), cioè quello che noi siamo. E qual è questo mistero? «Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?» (Ibidem, p. 97). Tu, essendo così fragile, hai desideri così grandi. Ma questi desideri - diciamo tante volte - non ci sono, è come se tutto venisse meno. Don Giussani - ed è impressionante sentirlo mentre brandisce Leopardi - dice: neanche un po’, no, questo è il pensiero dominante: «Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente» («Il pensiero dominante», in Ibidem, p. 77). Questo grido, questa esigenza di felicità, riemerge dal naufragio universale, perché «l’infinita vanità del tutto» («A se stesso», in Ibidem, p. 84) non riesce a togliere il seme di questo pensiero dominante, di questa sete, di questa passione per la felicità: «Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei» («Il pensiero dominante», in Ibidem, pp. 77-78). Possiamo trovarci in mezzo a questo naufragio universale e a questa confusione totale, ma il pensiero dominante implacabilmente riemerge. Puoi essere confuso quanto vuoi, ma quando qualcuno ti fa una ingiustizia riemerge tutta l’esigenza di giustizia; puoi essere stanco quanto vuoi, ma davanti alla bellezza non puoi evitare che venga fuori tutto lo stupore. E ciò che chiamiamo cuore, questo pensiero dominante, è una realtà «dimenticabile, mistificabile, obiettabile, ma inestirpabile» (Uomini senza patria. 1982-1983, Bur, Milano 2008, p. 256). È di questo che don Giussani è testimone: di questa lealtà con l’esperienza, che trova un compagno in uno come Leopardi. In mezzo al disastro c’è questa realtà inestirpabile che si erge impetuosa, grandiosa. Se qualche volta noi seguissimo questo…
Il testimone è uno che usa la ragione così, che ha questa lealtà con se stesso, che è definito da questo pensiero dominante, e perciò non può entrare in rapporto con alcuna cosa senza che gli venga il desiderio di tutto. E questo è il giudizio. È con questa umanità che occorre paragonare tutto, è questa esigenza che viene fuori nel rapporto con tutto, ma occorre la lealtà che vediamo in Giussani e in Leopardi: solo uno che prende sul serio questo pensiero dominante, questa esigenza che è dentro le viscere di ciascuno di noi, che viene fuori nel rapporto con tutto e che non si accontenta di meno di questa esigenza di tutto, può capire veramente che cosa è l’esperienza.
Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia Fiera Rho-Pero, 26 settembre

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giussani, carron, senso religioso

lunedì, 26 ottobre 2009
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“don Giussani ci dice che non c’è esperienza fin quando uno non riconosce «Dio come l’ultima implicazione della umana esperienza, e quindi la religiosità come dimensione inevitabile di autentica, esauriente esperienza» ((Il rischio educativo, op. cit., p.129). Facciamo il paragone tra quello che noi chiamiamo “esperienza” e questa affermazione, e ci renderemo conto fino a che punto la riduciamo...
È così semplice che ho scelto come titolo del nostro incontro questa frase di Leopardi: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà» («Aspasia», in Cara beltà, op. cit., p. 86). È così semplice che Leopardi non può evitare che nel contraccolpo della bellezza della donna che ama scopra il raggio divino. Questa è l’esperienza nella sua semplicità: la bellezza della donna conduce Leopardi a riconoscervi dentro il raggio divino. È esattamente quel che intendiamo quando diciamo che non c’è vera esperienza che non abbia dentro il Mistero, che non implichi il Mistero come spiegazione esauriente
Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia Fiera Rho-Pero, 26 settembre

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esperienza, giussani, carron

domenica, 11 ottobre 2009
 Il sogno e l’ideale
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giussani

 La fede:
un metodo fondamentale per la cultura e la storia
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fede, giussani

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 video
A) UN CAMMINO CHE È FATICA.
Primo punto di uno svolgimento meditativo sulla parola speranza in quanto certezza dinamicamente protesa a possedere un bene arduo: il compimento del nostro destino implica sempre una modalità di cammino che è fatica, perché il compimento del destino, il cammino al destino è una prova. Prova in latino si direbbe esame: è un esame, una prova. Sempre il cammino al destino implica una fatica perché il cammino è una prova da superare: in questo senso si dice che è arduo. Superare un fiume in piena è arduo, salire sulla cima del Monte Bianco è arduo: ogni prova è ardua, ogni prova ha dentro un po' di questo aggettivo. Come si dice esame in latino? Periculum, è un pericolo, cioè una prova; pericolo non vuol dire pericolo, vuol dire una prova.

B) LA FORZA DI GESÙ.
Seconda idea. La cosa supremamente importante, detto questo, è che la forza di quella realtà presente che si chiama Gesù, la forza di Gesù non ci abbandonerà mai ed è più forte di qualsiasi difficoltà o fatica.
«T'amo, Dio, mia forza», dice un salmo con una frase che è ripetuta come antifona, «T'amo, Dio, mia forza», o come diceva san Paolo: «Di tutto io sono capace [omnia possum, posso ogni cosa] in Colui nel quale è la mia forza [in Eo qui me confortat, in Lui che mi conforta]». Non nel senso che mi dice «Carino, carino, su coraggio», confortat vuol dire «io ho forza con Lui», insieme a Lui ho la forza. Confortare vuol dire ultimamente esattamente questo, altrimenti che conforto sarebbe? Ti stanno tagliando la testa, i nuovi giacobini, e uno vien lì a «confortarti»: «Oh, fa niente; oh, fa niente».
La famosa frase dell'ultimo discorso di Gesù in san Giovanni: «Non vi lascerò orfani, ritornerò a voi, vi lascerò il mio Spirito»: lasciarti il mio spirito vuoi dire ti lascio me stesso; lo Spirito di Cristo è il suo io, è l'energia del suo io. «Sarò così presente da mettere continuamente dentro di voi, da far passare continuamente dentro di voi, la mia energia e la mia forza.»
Lo Spirito, dunque, indica la modalità con cui la grande Presenza prosegue il cammino con noi; lo Spirito è l'energia di luce e di cuore con cui Cristo mantiene la sua presenza e così ci aiuta, ci conforta, ad affrontare tutte le prove.
In che termini ci aiuta? In che senso lo Spirito è luce?
Primo, ci fa capire che non sono le prove a definire la vita, la vita non si esaurisce nella prova;
ma, secondo, attraverso le prove - la prova è un «attraverso» - ci fa camminare costruendo così la nostra vita, la nostra vita che non verrà mai meno. Per costruire bisogna passare attraverso la fatica, anche se non è la fatica che ne esaurisce lo scopo: il senso del lavoro di un muratore non è la fatica che fa, ma, attraverso quella fatica, costruire la casa e prendere i soldi al ventisette del mese, posto che non sia nel frattempo fallita l'impresa!
Terzo: ma, soprattutto, lo Spirito di Cristo, sempre presente nel cammino attraverso tutte le prove, ci insegna la grande parola del cammino della speranza: la pazienza.

 

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giussani

Come bello il mondo
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giussani, senso religioso

Il Mendicante
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giussani

Tu sai tutto  
di don Giussani
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giussani

Largerkvist e Giussani
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giussani, lagerkvist

sabato, 10 ottobre 2009

Perché quelle due lezioni sono il cuore di sette giorni

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Gli incontri di don Carrón e di Di Martino sono stati il cardine di tutto il Meeting. Nell’esperienza di Paolo di Tarso il culmine di ogni vera conoscenza
Ascoltando le due relazioni che hanno aperto l’orizzonte, e al tempo stesso hanno segnato la direzione al Meeting di quest’anno - quella tenuta da Carmine Di Martino, che ha illustrato il tema generale, e quella su san Paolo svolta da Julián Carrón - emergeva un dato comune: una passione per l’evidenza, cioè un interesse sincero e un’attenzione acuta a capire e a far capire che nella vita di un uomo tutto si gioca, o passa, attraverso l’apertura della sua conoscenza e l’accoglienza dei dati della realtà.

Un tema decisamente “filosofico” (sebbene ben più che accademico), che è stato affrontato non genericamente o per slogan, ma cercando di entrare nel merito delle questioni, vale a dire nella descrizione di cosa avviene quando noi incontriamo il mondo e diveniamo coscienti di noi stessi. Risalendo alla genesi del nostro modo abituale di pensare, sviluppatosi a partire da alcune decisioni fondamentali prese nel corso della filosofia moderna (soprattutto Cartesio e Kant), Di Martino ha mostrato la grande, persistente disputa tra coloro che ritengono che sia il “soggetto” o l’io a precedere di diritto l’“oggetto”, vale a dire il dato della conoscenza, e a determinare a priori le condizioni alle quali esso può apparire a noi, e coloro che invece ritengono sia la realtà a precederci, ma non come un dato estraneo o indifferente al nostro io, bensì come qualcosa che si dà a noi e anzi chiede la nostra apertura (percezione, ragione, giudizio) per manifestarsi nella sua presenza.

È a proposito di questa seconda posizione che appare in tutta la sua pertinenza il contributo originale di Giussani - a buon diritto presentato come un “autore” di primo piano all’interno della discussione storica e filosofica sulla conoscenza umana - e in particolare il suo concetto di “esperienza”, vale a dire
il luogo in cui la realtà si rende evidente: nell’esperienza la realtà tocca il soggetto umano e lo sollecita a rispondervi e ad aderirvi, e l’io da parte sua si scopre capace di un giudizio sulle cose, cioè di interrogare e seguire ciò che accade nel mondo, come segno o traccia di un significato che attende di essere scoperto e affermato.
Per questo “
la conoscenza è sempre un avvenimento”: occorre un incontro, cioè che accada o si doni qualcosa, perché da questo “urto” possa avviarsi il nostro conoscere. E quest’ultimo si sviluppa adeguatamente solo per una ragione “affettiva”, che segua l’attrattiva di ciò che ci ha toccato, non sottraendosi all’invito che i dati ci fanno di continuo a ricercarne e a coglierne il perché. Un invito che noi non potremo mai concludere o arrestare una volta per tutte, trattandosi di una prospettiva tendenzialmente infinita, così come è inesauribile il richiamo delle cose e il linguaggio dei fatti.
Da questo punto di vista il caso di Paolo di Tarso può ben essere inteso come un’esemplificazione straordinaria di un tale significato di “esperienza”, e cioè dell’“avvenimento” come origine e dimensione della conoscenza umana: è per l’incontro storico con Cristo, che sin dall’inizio ha sfidato la sua intelligenza e la sua libertà, che Paolo diviene capace di “conoscere” Colui che lo ha raggiunto, e quindi aderire alla rivelazione di Cristo come ad un avvenimento di cui ha fatto esperienza personale. Ma l’esperienza di Paolo è qualcosa di più, come ha sottolineato Carrón: essa diventa metodo paradigmatico per tutti coloro che vivono
la fede, non come il frutto di una dottrina o di un insieme di leggi, ma come l’impatto con una realtà eccezionale che irrompe nella vita e cambia tutto rispetto ai pregiudizi e alle abitudini del singolo e della cultura in cui si vive. Una novità, un incontro, che costituisce la strada permanente lungo la quale la conoscenza può effettivamente realizzarsi, lì dove si sia disponibili a seguire ciò che ci è accaduto - e che continua ad accadere - come l’unico metro di giudizio ragionevole per valutare ogni cosa.

Sfidando la tentazione sempre incombente nella modernità di sostituire all’avvenimento le nostre idee e le nostre immagini, si scopre così il paradosso per cui la nostra “passività” rispetto all’essere - il fatto cioè che non lo produciamo né lo dominiamo noi, ma lo riceviamo come altro da noi - è la fonte inesauribile di un’“attività” e di una creatività che ci rende protagonisti della vita e della storia, cioè scopritori del significato. Ma appunto, il significato della realtà, per Paolo come per noi, è più grande di ogni dottrina e di ogni cultura: esso ha il volto di una presenza vivente, che si può conoscere solo perché riaccade, e la cui possibilità trascende sempre le nostre misure. Solo in questa scoperta dell’infinito da parte della ragione, l’io scopre la sua vera dimensione: e se fosse proprio in Paolo che bisogna cercare la vera fisionomia dell’uomo moderno?
Costantino Esposito                   da: tracce 09/09

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giussani, carron

giovedì, 24 settembre 2009
 Gesù è misericordia
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 Gesù si rivolge a noi e si fa "incontro" per noi, chiedendoci una cosa sola: non "che cosa hai fatto", ma "mi ami? ". Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia, una potenza infinita dalla quale - in questo mondo terreno, nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere, negli anni, pochi o tanti che siano - noi nutriamo, attingiamo letizia. Perché un uomo, con la coscienza di tutta la sua pochezza, è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia: Gesù è misericordia. Egli è mandato dal Padre per farci conoscere che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo la misericordia.
Don Luigi Giussani

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gesù, giussani

domenica, 20 settembre 2009

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E' un fenomeno di conoscenza che implica la ragione, un fenomeno di conoscenza di ciò che c’è,della realtà
“ La fede è la conoscenza di una realtà che è al di là, di una realtà che è più di quello che la ragione conosce
La fede è la cosa più razionale che ci sia, perché compie la ragione, risponde finalmente a ciò che il cuore desidera,indica l’esistenza della realtà che compie ciò che il cuore desidera”
"Senza la fede non ci sarebbe possibilità neanche per la ragione; non ci sarebbe possibilità di affermare ciò per cui l'uomo è mosso.
“la parola "fede"...riassume tutto, afferma la novità nel mondo"
“La novità nel mondo è la possibilità di un incontro nel quale l'uomo percepisce che esiste la risposta al suo cuore, alle esigenze del suo cuore… già nel presente
“La fede è accogliere,riconoscere un presente, riconoscere che già nel presente inizia qualcosa che appartiene oltre tutto:già nel presente esiste qualche cosa che appartiene al destino, che ha la forma del destino. Ecco, questa è la parola più bella: l'incontro con un presente nella cui forma esiste già il destino"
Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli

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fede, giussani


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"...Il sintomo della certezza è che si ha simpatia umana per tutto quello che si incontra. Infatti, la simpatia umana con tutto quello che si incontra è solo data dalla presenza in noi della certezza del destino. Senza certezza non vi è possibilità di simpatia, se non formale, con chi ripete le nostre cose e con chi è d'accordo con noi [...] Quanto più una persona è potente, come certezza di coscienza, tanto più il suo sguardo, anche nel modo abituale di andare per la strada, abbraccia tutto, valorizza tutto, e non gli scappa niente. Vede anche la foglia gialla in mezzo alla pianta verde. E' solo la certezza del significato ultimo che fa sentire, come fossimo un detector, la più lontana limatura di verità che sta nelle tasche di ognuno. E non è necessario, per essere amico di un altro, che lui scopra che quello che dici tu è vero e venga con te. Non è necessario, vado io con lui, per quel tanto di limatura di vero che ha."
Luigi Giussani, da Certi di alcune grandi cose
Grazie a: Annina

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