Il povero
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"Il povero è chi è certo di alcune grandi cose, per cui -certo di alcune grandi cose - ti costruisce la cattedrale e vive nelle catapecchie,
centomila volte più uomo di chi ha come orizzonte ultimo l'appartamento
totalmente confortevole e poi, se viene, dà anche l'obolo per la
Chiesa.
Poveri: certi di alcune grandi cose. Perché povertà è essere certi? Perché la certezza vuole dire un abbandono di sé, vuole dire superamento di sé, vuole dire che io sono piccolino, sono niente, e la cosa vera e grande è un'altra: questa è la povertà. È questa povertà che rende pieni e liberi, che rende attivi, vivi, appunto perché la legge dell'uomo, cioè il dinamismo stabile del meccanismo naturale che si chiama uomo, è l'amore, e l'amore è l'affermazione di qualcosa d'altro come significato di sé.
Per questo, se non è facile trovare tra di noi gente certa, è perché
non c'è ancora povertà fra noi. La povertà, infatti, è una conquista
molto adulta."
Don Giussani-Certi di alcune cose
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Postato da: giacabi a 11:18 |
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povero, giussani
L’amicizia
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«Un po' di sere fa, pensando, ho scoperto che l'unico amico mio eri tu: non per sterile esclusivismo: [ma perché] quella vibrazione ineffabile e totale nel mio essere di fronte alle "cose" o alle "persone" non riesco a captarla se non nel tuo modo di reagire»
Don Giussani Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Maio San Paolo
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Postato da: giacabi a 20:25 |
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amicizia, giussani
Giorgio Gaber
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Postato da: giacabi a 06:28 |
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gaber, giussani
Da: www2.unicatt.it
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...Il che mi fa ricordare il più famoso miracolo fatto dalla Madonna di Lourdes, che non è stato fatto a Lourdes, ma a Oostacker, in Belgio.
Quello che è stato miracolato era un boscaiolo, si chiamava Pietro de Rudder. Mentre tirava giù una pianta, un castano, questa gli è caduta addosso e gli ha spiaccicato una gamba. Fra le radiografie e le descrizioni, c'era una foto in cui si vede il ginocchio - io adesso non so i termini tecnici - unito alla tibia per mezzo di due legamenti che lasciano cinque centimetri di vuoto, che la portata di calcio del sangue non avrebbe mai potuto riempire. La gamba di quest'uomo è immediatamente entrata in processo di cancrena, emanava un puzzo terribile. L'hanno curato tre medici, un cattolico e due protestanti, uno dei quali si è convertito al cattolicesimo in seguito. Bisognava amputargli immediatamente la gamba, altrimenti per la cancrena sarebbe morto. Ma quello non voleva lasciare il villaggio; si rifiutò di farsi tagliare la gamba. Il parroco gli dice: "Vada alla grotta di Lourdes", una delle prime artificiali, che si trovava in un paese vicino, a venti chilometri. Ci sono tutte le documentazioni dei passeggeri della diligenza, che non volevano farlo salire, per il puzzo che dava la gamba, pur avvolta da una enorme fascia tura dalla quale colava pus. L'hanno issato sulla diligenza. Arrivato a Oostacker l'hanno messo su una panchina. Improvvisamente si è sentito il ginocchio, della sua ferita non restava più nulla, eccetto, cosa meravigliosa un enorme callo osseo con cui la natura, seguendo le sue leggi, aveva realizzato una copertura di cui era da sola incapace. É come se quel ginocchio fosse stato una macchina e l'lngegnere che l'aveva inventata l'avesse fatta rendere all'improvviso al cento per cento, mentre gli altri la facevano rendere al due-tre per cento. Il miracolo di san Pampuri su quel midollo è !a stessa cosa. Questo racconto di de Rudder lo presentò padre Gemelli, allora il più giovane scienziato, al Convegno internazionale di scienza medica che si teneva ogni quattro anni (l'avevano fatto all'Università Cattolica, che non era ancora l'Università Cattolica). Erano in quattrocento. Alla fine della sua relazione, padre Gemelli disse: "Qualsiasi ipotesi scientifica è impossibile che tenga. Siccome ogni cosa ha una sua causa, non si può non ipotizzare una causa diversa da quella scientifica, superiore"11. Tutti si sono messi a urlare e l'hanno cacciato fuori a pedate. La scienzia, eh! La scienza moderna. 11 Cfr. M.Sticco. Padre Gemelli. Appunti per la biografia di un uomo difficile, Edizioni O.R. , Milano 1976,67 ss Cfr. anche A. Gemelli. La lotta contro Lourdes, Libreria Editrice Fioroentina, Firenze 1911 |
Postato da: giacabi a 21:51 |
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giussani
LA VERA COMPAGNIA
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Che miseria sarebbe la nostra compagnia se fosse determinata da un atto alienato, da un meccanismo e da un automatismo di rapporti! È un' altra cosa l'immagine cristiana della compagnia. La compagnia cristiana è una realtà creata dal cambiamento che la persona, incontrando Cristo, realizza in se stessa. È un cambiamento di mentalità da cui nasce un altro modo di vedere, di concepire e di giudicare le cose. E muta la dinamica dei rapporti che si spalancano a una capacità di amare impensabile prima, in un compito che ha un orizzonte infinito di bene. E lo scopo del tempo è compiere questo bene.»
Don Giussani
a P.
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Postato da: giacabi a 08:42 |
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chiesa, giussani
La famiglia,
luogo di educazione all'appartenenza
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LUIGI GIUSSANI
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Lezione tenuta al corso "Una cultura per la famiglia", organizzata dal Sindacato delle famiglie a Milano.
L'uomo
può imparare la sua appartenenza ad un Destino ultimo solo attraverso
la guida e la compagnia di altri uomini. La famiglia è il primo spazio
di questa scoperta fondamentale per la dignità della persona.
1. Tutto è luogo di educazione all'appartenenza. Ogni rapporto, ogni impatto con la realtà è avvenimento di un approfondirsi nell'essere; è un passo nel cammino di quella adesione, di quell'immedesimazione con l'essere in cui consiste la crescita della persona. Infatti la persona è rapporto con l'essere, è appartenenza al mistero, è relazione con l'infinito (come insegna e documenta l'itinerario descritto nel Senso religioso). Al di fuori di questa appartenenza al mistero, al di fuori di questo rapporto determinato con l'essere, la persona non capisce più se stessa, cade in balìa di tutto, come la foglia fragile e caduca di cui parlava l'antico poeta. Al di fuori della appartenenza al mistero la comunità si riduce ad una sorta di agglomerato di individui isolati, come granelli di polvere dentro il polverone, in una solitudine senza fine. Una poesia di Ciudakov, poeta clandestino russo del Samizdat, definisce come incombente pericolo per tutti, quello che egli accusa come situazione normale dell'uomo russo: «Quando gridano "un uomo in mare!" il transatlantico grande come una casa si ferma all'improvviso e l'uomo lo pescano con le funi: ma quando fuoribordo è l'anima dell'uomo, quando egli affoga dall'orrore e alla disperazione, nemmeno la sua propria casa si ferma, ma si allontana». Come una foglia, come un granello di polvere: chi non riconosce di appartenere a Dio è - come dice il primo Salmo della Bibbia - «come pula che il vento disperde». Oppure è definito dalla "ubris", dalla violenza, dall'affermazione di sé secondo la reazione provocata dagli impatti con la realtà. È solo l'appartenenza che stabilisce l'unità della persona; e infatti tutto è convogliato e fluisce verso un destino per cui siamo fatti, destino che è origine carica di tensione e di desideri, alfa e omega, principio e fine. Come dice Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso: «Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per significare la mia domanda». 2. La famiglia è il luogo dell'educazione all'appartenenza. In essa risulta evidente come la persona fluisca da un antecedente che la trama tutta. Nella famiglia è evidente che l'elemento fondamentale di sviluppo della persona sta nell'appartenenza reciproca, coniugata, di due fattori, l'uomo e la donna. Ed è nella famiglia che la vera appartenenza si rivela come libertà: l'appartenenza vera è libertà. La libertà, infatti, è quella capacità di aderire - fino all'immedesimazione e alla assimilazione - che è resa possibile dal legame. Il primo aspetto della libertà è affermare un legame, altrimenti uno non cresce perché non assimila più; ma un legame che passa attraverso il momento della responsabilità, momento strano, estraneo in un certo senso, perché è proprio l'imitazione dell'infinito, è il tocco del rapporto con l'infinito: la responsabilità plasma il legame secondo la coscienza del destino, e secondo la coscienza dei desideri che il destino, come origine, le suscita dentro. La famiglia dunque è il luogo dell'educazione all'appartenenza perché in essa risulta evidente che l'origine dell'uomo è una presenza già esistente e che il suo sviluppo è assicurato dall'appartenenza a due fattori: appartenenza "coniugata", legame plasmato nella responsabilità. 3. Una condizione fondamentale. Per educare a questo senso dell'appartenenza, che definisce la persona umana, occorre quasi un processo di osmosi o, per usare un'altra metafora, un "riflesso esemplare". Vale a dire: questa educazione all'appartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori. Quando nei genitori è trasparente la coscienza che il proprio io è appartenenza, che l'essenza della propria persona sta nell'appartenere ad un altro (così che senza questa appartenenza cadrebbe nel nulla la propria consistenza) ecco, questa coscienza passa ai figli. Non attraverso dei discorsi: senza quella "pressione osmotica", senza riflesso esemplare, i discorsi stabiliscono nella coscienza dell'uditore, del figlio, degli ostacoli. Invece che aprirsi una strada, la parola diventa ostacolo. Se noi usassimo la nostra autocoscienza fino in fondo, se riflettessimo fino in fondo su noi stessi, non più bambini ma adulti, quale sarebbe l'evidenza più impressionante che ci occuperebbe? Questa: che in quel dato momento, nell'istante, io non sto facendomi da me. Io non mi faccio da me. Perciò in questo momento io sono qualcosa-d'altro-che-mi-fa, sono come fiotto che sgorga da una sorgente. Perciò dire "io" con totale consapevolezza è dire (non possiamo che usare questa che è la parola più dignitosa e più umana del vocabolario) "tu". lo, in questo istante, non ho evidenza più grande del fatto che io sono tu-che-mi-fai. Senza abbordare questa esperienza, è come se uno non potesse comprendere che cosa è pregare. La coscienza di sé fino in fondo sta soltanto nell'atto del pregare, cioè del riconoscimento di Colui cui apparteniamo, di Te cui appartengo: Padre Nostro. Dice la Bibbia: «tam pater, nemo», nessuno è così Padre. Perché il padre naturale dà l'abbrivio iniziale alla creatura, mentre il Padre, che è l'Essere cui apparteniamo, ci genera ogni istante, sta generandomi ora come il primo istante. Per questo io sono totalmente fatto di Lui, gli appartengo totalmente, così che anche «i capelli del vostro capo sono numerati», come dice il Vangelo. Ma in questa percezione, in questa trasparenza di coscienza, scaturisce l'esperienza più stimolante, più consolatrice, più affascinante della vita: l'esperienza della gratuità totale del fatto che ci .sono. Non c'è niente di più stimolante e di più affascinante: il fatto che ci sono implica la bontà originale, fondamentale e ineludibile dell'Essere, e perciò l'aspetto di dono, di ricchezza positiva, che l'Essere è per tutto ciò cui dà vita. Ecco, è dentro questa esperienza della gratuità che quella «pressione osmotica" di cui si è parlato prima, quel "riflesso esemplare" può avvenire. C'è una caratteristica di gratuità nel temperamento del padre e della madre necessaria perché l'educazione passi. E' nell'esperienza della gratuità che il processo di educazione all'appartenenza può realizzarsi tra genitori e figli. Un'esperienza di gratuità che ha come due flessioni. La prima è la gratuità verso l'essere, verso Dio; la gratitudine - si badi - verso Colui che dà la vita, verso Colui di cui è fatta la vita, che diventa gratitudine per il figlio concepito. Io credo che tutti i difetti più gravi della personalità possano dipendere dalla non gratitudine con cui una donna o un padre hanno aspettato o ricevuto un figlio. Perché la gratitudine verso ciò che nasce è lo stupore della gratuità dell'essere, è la trasparenza della coscienza della propria appartenenza totale. La seconda flessione è lo stupore, la meraviglia in cui si traduce e quasi si concreta il senso della gratuità ultima del rapporto tra l'uomo e la donna. Senza questo senso ultimo di gratuità, perciò di stupore e di meraviglia, dell'uno verso l'altro, l'educazione all'appartenenza diventa difficile, perché quella trasparenza di cui abbiamo parlato non c'è. Solo il rapporto fra i due è appesantito perché privo di gratuità, se fra uomo e la donna manca questa percezione di gratuità della presenza dell'uno all'altro, allora il "riflesso esemplare" tarda o viene meno. Dice il Vangelo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ora, amare se stessi non è amare le proprie reazioni (come normalmente accade: questo è l'egoismo); amare se stessi è amare il proprio destino. Perciò non si può amare la propria moglie o il proprio marito, l'altro, senza amore al suo destino (che è identico al mio). Ma c'è un altro aspetto della gratuità: è il senso del compito comune. Dei due aspetti, amore al destino e senso dal compito comune, il più facilmente presente, il più copiosamente considerevole è questo secondo, anche se il più radicale e decisivo è il primo. Senza la gratuità data dal senso del compito umano il rapporto non tienetutto si disfa come foglie, o diventa "ubris", violenza. Il compito è infatti il confluire di tutto verso il destino comune. 4. Quale atteggiamento occorre avere verso il figlio? Dovremo ripetere ancora: gratuità, la parola dominante, assolutamente non astratta, per la quale ci sopportiamo a vicenda e per la quale ancora un po' godiamo nella vita. Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè l'accettazione completa che quel figlio appartenga a sé. In secondo luogo, della riconsegna del figlio all'Altro, a Ciò di cui il figlio è costituito e a cui appartiene in modo totale, sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità. Insomma è l'atteggiamento di adesione da parte dei genitori a ciò che costituisce la persona del figlio, il rapporto con l'Essere, con Dio. Ricordo sempre una delle impressioni più grandi che provai nei primi anni di sacerdozio. Veniva una signora a confessarsi tutte le settimane, ma poi, d'improvviso, non venne più. Dopo un mese ritornò: «Sa, non sono venuta perché mi è nata la seconda figlia». E, prima ancora che io potessi dirle "congratulazioni" o "auguri", proseguì: «Sapesse che impressione ho avuto appena mi sono accorta che si staccava; non ho pensato "è un maschio" o "è una femmina", ma "ecco, incomincia ad andarsene"». Il figlio se ne va, è uguale a dire: "il figlio cresce", tanto appartiene ad un Altro. In questo processo l'atteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso (sempre diverso da quello che uno si immaginava, e che ogni momento fa diventare diverso). Il figlio diverso è proprio il segno che appartiene a un Altro. Se invece questo processo non si segue con gratuità, nasce il rancore: man mano che il figlio se ne va, un rancore più o meno sordo pone il genitore nella solitudine. L'appartenenza del figlio al genitore è reclamata, recriminatoriamente, imprigionata dentro uno schema immaginato. Il metodo per educare all'appartenenza. Il metodo, che rappresenta tutto il processo educativo, si può riassumere in una parola: esperienza. Che il figlio realizzi l'esperienza del vivere, del proprio io. E l'esperienza che salva l'appartenenza ad un altro dall'essere alienazione, ed assicura perciò l'identità, così che l'appartenenza all'altro è la propria identità. Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza, ha un dinamismo: a) La tradizione assimilata. L'appartenenza dei genitori nera sua concretezza assimilata, cioè la proposta. Il primo aspetto dell'educazione è la proposta, e questa è la propria trazione assimilata. b) Il condurre per mano, cioè l'introduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare. Questo secondo punto è certamente il più delicato, perché deve identificare l'ambito che costituisca possibile assimilazione per il figlio. c) L'ipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò si intende un'ipotesi di significato. È la tradizione come ragione: tradizione non solo assimilata. ma assimilata nelle sue ragioni, senso e valori. d) Il rischio. Che aumenta, che è destinato ad aumentare sempre. Proprio perché l'appartenenza è legame e responsabilità, lo spazio della responsabilità salva la santità e l'umanità del legame. Assicura la vera appartenenza, per cui la proposta, il condurre per mano e l'ipotesi di lavoro come significato, tutto questo deve essere offerto e realizzato con delicatezza, o con discrezione verso la libertà che si evolve, verso la responsabilità del figlio. Non credo che, tranne la morte, ci siano momenti così dolorosi per un genitore, nella compagnia che dà al figlio, che lasciarlo responsabile: «messo t'ho innanzi, omai per te ti ciba» (Virgilio a Dante). e) La compagnia stabile, cioè la fedeltà. Dio è fedele. San Paolo osserva che Dio rimane fedele anche se lo tradiamo. Quindi compagnia stabile ai figli, fedeltà ad essi, discreta, sempre pronta ad intervenire, vigilante. Compagnia fino al perdono, all'infinito. |
Postato da: giacabi a 07:33 |
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famiglia, giussani
La Bellezza del cristianesimo
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Da: www.clonline.org
Sabato 24 marzo 2007. Roma, Piazza San Pietro
Saluto al Santo Padre Benedetto XVI di don Julián Carrón presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
“…… Noi siamo affascinati dalla bellezza di Cristo, resa persuasiva dall’intensità contagiosa di don Giussani, fino al punto che ciascuno di noi può ripetere con Jacopone da Todi: «Cristo me trae tutto, tanto è bello». Questa bellezza del cristianesimo noi l’abbiamo scoperta senza tralasciare niente di quello che è autenticamente umano. Anzi, per noi vivere la fede in Cristo coincide con l’esaltazione dell’umano. Tutto il tentativo educativo di don Giussani è stato mostrare la corrispondenza di Cristo con tutte le autentiche esigenze umane. Egli era convinto che solo una proposta rivolta alla ragione e alla libertà, e verificata nell’esperienza, fosse in grado di interessare l’uomo, perché l’unica in grado di fare percepire la sua verità, cioè la sua convenienza umana. Così ci
ha mostrato come è possibile vivere la fede da uomini, nel pieno uso
della ragione, della libertà e dell’affezione. Noi vogliamo seguire le
sue orme.
Don Carron
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Postato da: giacabi a 07:43 |
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bellezza, cristianesimo, giussani, carron, senso religioso
A proposito di Dico, di cattolici:
“adulti”, “progressisti” e “democratici”
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«……gli avvenimenti ci impongono di scegliere con Cristo, o contro Cristo; o con la Fede dei nostri vecchi, o contro questa Fede.
Voi qui comincerete a ribellarvi e a dire che non si tratta di questo. Se ve lo dicessi io, povero prete qualsiasi, avreste ragione di ribellarvi. Ma quando
i Pastori supremi che Dio stesso ha messo nel mondo per guidarci,
quando cioè il Papa e tutti i Vescovi del mondo lanciano e ripetono con
insistenza angosciosa il loro grido di allarme -sentite -o la Chiesa di
Dio è impazzita o il grande pericolo c'è davvero. E non sapete che anch'io prete devo obbedire al Papa e ai Vescovi come qualsiasi vero Cristiano? (...) Per
essere Cristiani bisogna ubbidire alla Chiesa. Gesù ha detto nel
Vangelo: "Chi ascolta voi ascolta me; chi non ascolta voi non ascolta
me". E non lo ha detto ai propagandisti o ai capi di nessun partito: lo
ha detto al Papa e ai Vescovi. Ed ha soggiunto: "Qualunque
cosa voi approverete sulla terra l'approverò anch'io nel cielo;
qualunque cosa voi condannerete la condannerò anch'io".
Lo
so che voi avete le vostre idee: ma ci sono dei momenti -e questo è uno
-in cui bisogna saper rinunciare anche ad una propria idea politica per
non tradire la propria Fede Cristiana.
Lo
so che avete interessi o necessità economiche: ma è una ben triste
illusione cercare il benessere o l'interesse economico in movimenti
contrari alla legge di Dio.
Lo
so che voi mi griderete: "Pensate a voi stessi che siete peggio degli
altri". E avete ragione. E lo sappiamo anche noi; e siamo umiliati di
dover sostenere la Divina Idea Cristiana, noi che siamo così disgraziati
e cattivi; ma non siamo in gioco noi o la nostra cattiveria: è in gioco Dio e la Sua Chiesa. Se voi non votate per l'Idea Cristiana, voi votate non contro di noi, ma contro Gesù e contro la vostra Fede.
(...) È per questo, amici, che con lo stesso affettuoso zelo con cui mi
prodigo per i bambini, e con la stessa cordialità con cui sempre vi
saluto, io vi prego: (...)
non guardate a noi uomini che sosteniamo questa Idea e questo segno, non
guardate alle nostre debolezze e alle nostre cattiverie personali:
guardate alla vostra Chiesa e al vostro Signore.
E scusate.
Il vostro Sempre affezionatissimo Don Luigi Giussani».
Da:Don Giussani Vita di un amico
di Renato Farina ed.Piemme
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Postato da: giacabi a 08:14 |
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dico, cristianesimo, giussani
RICONOSCERE DIO
E’ UN PROBLEMA DI LIBERTA’
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La libertà dunque ha a che fare non solo nell'andare a Dio come coerenza di vita, ma già nella scoperta di Dio.
Vi sono tanti scienziati che, approfondendo la loro esperienza di
scienziati, hanno scoperto Dio; e tanti scienziati che hanno creduto di
eludere o di eliminare Dio attraverso la loro esperienza di scienza. Vi
sono tanti letterati che attraverso una percezione profonda
dell'esistenza dell'uomo hanno scoperto Dio; e tanti letterati che
attraverso l'attenzione all'esperienza umana hanno eluso o eliminato
Dio. Vi sono tanti filosofi che sono arrivati a Dio attraverso la loro
riflessione; e tanti filosofi che attraverso la riflessione hanno
escluso Dio. Allora vuol dire che riconoscere Dio non è un problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale. È un problema anche di libertà. Lo riconosceva uno dei più noti neo-marxisti Althusser, quando diceva che tra esistenza di Dio e marxismo il problema non è di ragione, ma di opzione. Certo, c'è una opzione che è secondo la natura, ed essa evidenzia la ragione, ed un'opzione che è contro la natura, ed essa oscura la ragione. Però, alla fin fine, l'opzione è decisiva.
....
LUIGI GIUSSANI :SENSO RELIGIOSO
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Postato da: giacabi a 14:00 |
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dio, libertà , giussani
Che cos’è il cristianesimo
Che
cos’è il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per
sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo?
La questione eminente di tutto il problema cristiano è l’accadere anche
per i laici della creatura nuova di cui parla san Paolo. È a tale uomo
che vengono dati compiti e funzioni diverse: ma questo, in fondo,
rispetto al primo è problema secondario. Tale infatti è il contenuto di
ogni impegno cristiano: quello della preghiera di Gesù: «Padre, è giunta
l’ora, glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). 2. L’uomo
di oggi, dotato di possibilità operative come mai nella storia, stenta
grandemente a percepire Cristo come risposta chiara e certa al
significato della sua stessa ingegnosità. Le istituzioni spesso non offrono vitalmente tale risposta. Ciò
che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio.
L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza
dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così
presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano
che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco
dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: «Zaccheo
scendi subito, vengo a casa tua» (Cfr. Lc 19,5). 3. In
questo modo il mistero della Chiesa, che da duemila anni ci è
tramandato, deve sempre riaccadere per grazia, deve sempre risultare
presenza che muove, cioè movimento, movimento che per sua natura rende
più umano il modo di vivere l’ambiente in cui accade. Per quanti sono
chiamati avviene qualcosa di analogo a quel che il miracolo fu per i
primi discepoli. Sempre
l’esperienza di una liberazione dell’umano accompagna l’incontro con
l’evento redentivo di Cristo: «Chi mi segue avrà la vita eterna, e il
centuplo quaggiù» Come
il Battesimo è grazia dello Spirito, così ogni realizzarsi del
Battesimo è dono dello Spirito che si incarna nel temperamento e nella
storia di ognuno. Questo dono dello Spirito può comunicarsi con una
forza particolarmente persuasiva, pedagogica e operativa così da
suscitare un coinvolgimento di persone, un ambito di affinità e di
rapporti, per cui si realizza una dinamica stabile di comunione. L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, pp. 23-24)
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Postato da: giacabi a 21:13 |
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cristianesimo, giussani
PREGHIERA PER QUANDOSI È TRISTI E STANCHI
Le due grazie che il Signore dona sono:
la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perchè mi obbliga alla memoria e la stanchezza perchè mi obbliga alle ragioni per cui faccio le cose. Fà, o Dio, che una POSITIVITA' TOTALE guidi il mio animo, in qualsiasi condizione mi trovi, qualunque rimorso abbia, qualunque ingiustizia senta pesare su di me, qualunque oscurità mi circondi, qualunque inimicizia, qualunque morte mi assalga, perché Tu, che hai fatto tutti gli esseri, sei per il bene. Tu sei l'ipotesi positiva su tutto ciò che io vivo. (Mons. Luigi Giussani) |
Postato da: giacabi a 16:41 |
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preghiere, giussani
''Oh Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza!''
Pellegrinaggio a Loreto, 16 ottobre 2004
Nel cinquantesimo anniversario della nascita di Comunione e Liberazione
Questa è la frase più importante per tutta la storia della Chiesa; in essa si esaurisce tutto il cristianesimo.
« Tu sei la sicurezza della nostra speranza» indica il fiorire delle cose. Senza la Madonna noi non potremmo essere sicuri del futuro, perché la sicurezza del futuro ci viene da Cristo: il Mistero di Dio che si fa uomo.Non sarebbe potuto accadere questo, non si sarebbe potuto neanche ridire, se non avessimo avuto la Madonna. Attraverso di Lei il dono dello Spirito si è comunicato all’uomo; nel seno di Maria è cominciata l’ultima storia dell’umanità. E’ un miracolo, l’inizio della fine del mondo. La morte di Cristo e la sua Resurrezione costituiscono l’annuncio di quel messaggio finale in cui il perché di ogni istante del tempo e dello spazio fluisce come memoria dell’Eterno. Così, per noi, la preghiera a Cristo si identifica sempre più con la preghiera alla Madonna. Vi invito a pregare ogni giorno il Santo Rosario che è la contemplazione del Mistero, è la contemplazione della SS. Trinità.
La Madonna ci aiuti a vivere questo.
don Luigi Giussani
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Postato da: giacabi a 16:47 |
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maria, giussani
Postato da: giacabi a 20:52 |
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ragione, giussani, senso religioso
LE IDEOLOGIE
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Tutte le ideologie, poco o tanto, in primo luogo eliminano il passato e in secondo luogo violentano il presente, e questo è il segno chiaro della loro menzogna, è la negatività che si rende palese. Per l'ideologia d'oggi qual è il significato del passato? Negativo. Qual è il significato del presente? Negativo. Ma se il passato può essere dimenticato, il presente è presente, e allora lo si distrugge: invece di costruire.
Invece la verità guarda il passato e tira fuori dal passato il suo contributo alla costruzione, interpreta il passato, è una vera anamnesis, fa risorgere il passato nella figura che sta nascendo, che sta partorendo; e il presente è la doglia del parto. Don Giussani
tratto da:Che cosa abbiamo pensato, detto e fatto di più?
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Postato da: giacabi a 07:29 |
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ideologia, giussani
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Compagni, il vero Sessantotto
l'ha fatto Giussani
Tempi n° 34 del 07 settembre 2006 |
«Abbiamo iniziato parlando di Cristo, cercando di affrontare tutti i problemi a partire da un punto di vista cristiano, da quello che ci sembrava essere il punto di vista della parola di Cristo, autenticata dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico; mettendoci insieme in vista di tale progetto». Con queste parole don Luigi Giussani tratteggiava nelle prime pagine del libro-intervista curato da Robi Ronza, pubblicato nel 1976 da Jaca Boook, i primi passi di Comunione e Liberazione. Un volume storico, non solo perché ripercorre la genesi di un percorso fondante per il cammino di molti cattolici, ma perché s'inserisce nella realtà dell'uomo e ne testimonia razionalmente l'originale anelito di emancipazione e liberazione. E perché, ancora oggi, le parole di Giussani appaiono l'unico grimaldello concretamente rivoluzionario in grado di scardinare la coltre acquietante della società moderna. Può sembrare paradossale che un non credente, come il sottoscritto, possa oggi rimanere affascinato dalla ricerca di verità, eppure è la ragione stessa che conduce al riconoscimento di tale percorso. Giussani analizza la realtà di un paese che già dalla metà degli anni Cinquanta ha rischiato di perdere la coscienza di sé. Non fa sconti il professore del Berchet, né alle organizzazioni ecclesiali che protraevano il culto rischiando di cadere nel gesto senza valore educativo, né ai movimenti della contestazione i quali, prescindendo dall'uomo, assumevano come guida astratti valori aprioristici. Il pensiero che mosse Gioventù Studentesca (poi diventata Cl) fu la totale adesione alla sfida dell'esperienza. Pratica rischiosa, perché contenente la prova della verifica con la realtà. «Se diventando adulti, non volete alienarvi e diventare schiavi di coloro che hanno il potere, dovete abituarvi subito a paragonare alla vostra esperienza ogni cosa che io vi dirò, ma ogni cosa che anche gli altri vi diranno». Principio che diverrà la pietra miliare del metodo educativo. Apprendimento della tradizione che ci ha formati e, contemporaneamente, verifica sulla propria esistenza dell'ipotesi tradizionale. Una prassi metodologica nella quale Giussani individua nell'autorità il soggetto indispensabile per offrire un termine di paragone adeguato. Nulla si potrebbe individuare oggi di più democratico, aperto e quindi antiautoritario di codesto metodo. E basterebbe questo per dire che l'avventura di don Giussani ha in seno l'universale valore della ragione. Ragione che è ben lontana dal dubbio sistematico che la cultura laica ha preso come ideale propulsivo. «Quanto più è chiara la certezza di un comune destino favorevole e positivo, tanto più emerge l'interesse ad una pazienza rispettosa ed ammirata per tutti i cammini e per tutti i tentativi». Dopo trent'anni dalla pubblicazione, leggere quest'intervista a don Giussani vuole dire prendere atto di un'esperienza umana, individuale e collettiva, che con la realtà ha voluto giocare a carte scoperte, rischiando in prima persona. Riconoscere che l'esperienza sviluppatasi attorno a quel manipolo di giovani aveva in nuce e si è eretta su un ideale che nel reale ha piantato le sue radici |
Postato da: giacabi a 09:40 |
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giussani, il 68
La vacanza
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un consiglio di don Giussani www.tracce.it
…..La vacanza è il tempo più nobile dell’anno, perché è il momento in cui uno si impegna come vuole col valore che riconosce prevalente nella sua vita oppure non si impegna affatto con niente e allora, appunto, è sciocco.
La risposta che davamo a genitori e insegnanti più di quarant’anni fa ha una profondità a cui essi non erano mai giunti: il valore più grande dell’uomo, la virtù, il coraggio, l’energia dell’uomo, il ciò per cui vale la pena vivere, sta nella gratuità, nella capacità della gratuità. E la gratuità è proprio nel tempo libero che emerge e si afferma in modo stupefacente. Il modo della preghiera, la fedeltà alla preghiera, la verità dei rapporti, la dedizione di sé, il gusto delle cose, la modestia nell’usare della realtà, la commozione e la compassione verso le cose, tutto questo lo si vede molto più in vacanza che durante l’anno. In vacanza uno è libero e, se è libero, fa quello che vuole. Questo vuol dire che la vacanza è una cosa importante. Innanzitutto ciò implica attenzione nella scelta della compagnia e del luogo, ma soprattutto c’entra con il modo in cui si vive: se la vacanza non ti fa mai ricordare quello che vorresti ricordare di più, se non ti rende più buono verso gli altri, ma ti rende più istintivo, se non ti fa imparare a guardare la natura con intenzione profonda, se non ti fa compiere un sacrificio con gioia, il tempo del riposo non ottiene il suo scopo. La vacanza deve essere la più libera possibile. Il criterio delle ferie è quello di respirare, possibilmente a pieni polmoni. Da questo punto di vista, fissare come principio a priori che un gruppo debba fare la vacanza insieme è innanzitutto contrario a quanto detto, perché i più deboli della compagnia, per esempio, possono non osare dire di no. In secondo luogo è contro il principio missionario: l’andare in vacanza insieme deve rispondere a questo criterio. Comunque, innanzitutto, libertà sopra ogni cosa. Libertà di fare ciò che si vuole... secondo l’ideale! Che cosa ne viene in tasca, a vivere così? La gratuità, la purità del rapporto umano. In tutto questo l’ultima cosa di cui ci si può accusare è di invitare ad una vita triste o di costringere ad una vita pesante: sarebbe il segno che proprio chi obietta è triste, pesante e macilento. Dove macilento indica chi non mangia e non beve, perciò chi non gode della vita. E dire che Gesù ha identificato lo strumento, il nesso supremo tra l’uomo che cammina sulla terra e il Dio vivente, l’Infinito, il Mistero infinito, col mangiare e col bere: l’eucarestia è mangiare e bere - anche se adesso tanto spesso è ridotta a uno schematismo di cui non si capisce più il significato -. È un mangiare e un bere: agape è un mangiare e bere. L’espressione più grande del rapporto tra me e questa presenza che è Dio fatto uomo in te, o Cristo, è mangiare e bere con te. Dove tu ti identifichi con quel che mangi e bevi, così che, «pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio» (“fede” vuol dire riconoscere una Presenza). |
Postato da: giacabi a 10:01 |
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giussani
La Compagnia
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Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di universitari.
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L. G.: «Compagnia» vuol dire essere insieme per qualcosa;
essere insieme senza il «per qualcosa» scoccia, perfino scoccia,
soffoca. Compagnia è uguale a essere insieme per qualcosa. La dignità
della compagnia è definita dalla dignità del «qualcosa». Essere insieme
per mangiare le acciughe è un conto, è un certo valore, ma essere
insieme per studiare Dante o per capire i misteri, in cui l'uomo ha
incominciato ad introdursi, dell'evoluzione dell'universo è diverso. Compagnia è essere insieme per qualcosa che si chiama «scopo». Una compagnia senza scopo non esiste. «Popolo» è una compagnia che ha come scopo il portare il proprio contributo alla immagine della storia.
Compagnia è essere insieme avendo come scopo quello di dare il proprio
contributo allo sviluppo dell'umanità che si chiama «storia». Sviluppo e
in senso quantitativo (perciò, ecco la compagnia dell'uomo e della
donna) e in senso sociale, come comprensione sostenuta, motivata e
ricercata insieme (ecco la cultura), o come l'essere insieme per
affrontare la storia con maggior forza, dal punto di vista di una
maggior forza, di una maggior sicurezza, di maggior egemonia (questo può
chiamarsi Stato, alleanza fra Stati, o può chiamarsi Impero)……….
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Non
c'è vera compagnia se non è filtrata dalla volontà di una ricerca del
vero, cioè della realtà in quanto desiderabile e ultimamente aperta alle
esigenze del cuore
così come esse sono reclamate dal concetto di ragione che la nostra
comunità, dal punto di vista culturale, ha sempre espresso. Non è
compagnia, se non chiarisce qual è lo scopo di essa. Il mettersi insieme
di ragazzo e ragazza senza immediatamente darsi come compito quello di
chiarirsi che senso ha questo nesso è buttare la propria grandezza
dentro la pattumiera dell'istintività pura, dell'istintività malvagia. È
il pericolo di contraddirsi subito. Non si è in compagnia, se non è messo in chiaro lo scopo per cui essa è fatta. Che cosa ci tiene insieme?
La compagnia per eccellenza è la compagnia dell'uomo come tale,
dell'uomo come realtà del mondo, come realtà nella storia, come realtà
destinata a qualcosa di oltre, di più grande, sempre più grande. Allora
in questo terzo caso si capisce che la compagnia è ciò che ti aiuta a renderti conto di questo Altro, di questo più grande per cui sei fatto, a dilatare i termini del tuo animo, a riempire di risposta sempre più adeguata la sete del tuo cuore………………..
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L. G.: La compagnia è l'espressione, ma anche la condizione con cui, per natura, l'uomo sta sulla strada che ha iniziato - sulla ricerca che è incominciata, nell'affezione in cui ha già tentato di creare qualche cosa, di comunicare -. La compagnia è lo strumento per cui l'uomo è «tenuto su». Anche quando scivola, anche quando diventasse debole per una malattia, è aiutato a tenersi: lo trascinano dietro, la compagnia lo trascina dietro anche quando lui non ha più nessuna forza. Innanzitutto la compagnia è lo strumento per rendere continuo il «sì». Quindi, questo «sì», permane restando fedeli, rimanendo dentro la compagnia, anche se venisse una nube in cui non si vede più niente. Chi, per una nube inoltratasi sui suoi passi, ha abbandonato la compagnia, può non ritrovarla più, ma può non ritrovare più neanche l'essenza di quella compagnia, lo scopo. Non si deve mai andar via. La legge della compagnia è semplicissima: se ci sei entrato o eri scemo oppure era giusto, in qualche modo era giusto, corrispondeva a quel che eri. Se hai trovato una compagnia di cui puoi dir così, o hai potuto dir così una volta, stacci. Ti giuro che la tua vita sarà sempre ripresa, non si perderà mai più, non si smarrirà mai più. Perciò è la fedeltà alla compagnia lo strumento per dir di «sì» alla compagnia………. |
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E perciò, paradossalmente, è vera compagnia quella con colui con il quale mi diviene più grande quello che desideravo prima, cioè mi sento ancora più lontano dallo scopo da raggiungere, mi sento ancora più piccolo di quanto mi sentissi prima. Paradossalmente, mettersi insieme a chi è già più grande di noi, mettersi insieme a un'esperienza più grande della nostra, ci fa sentire più piccoli, più meschini, più timidi, più timorosi, più dubitativi; ma nello stesso tempo è come due braccia che ci stringono e che non ci lasciano più. E per quanto uno si lasci cadere morto, queste due braccia non lo abbandonano di un millimetro, e quando si rianima si trova almeno un chilometro più avanti di prima. Nella compagnia ciò cui si arriva non è pensabile prima. Quando noi diciamo che l'amore vero dell'uomo alla donna è molto più nel momento in cui l'uomo identifica il possesso della donna con qualcosa che non ha mai pensato prima, cioè che c'è un possesso più grande che non il possesso puramente animalesco, istintivistico, diciamo che essere in compagnia significa non lasciarsi fermare di fronte a nessuna negatività, a nessuna negazione, ma anche a nessun sacrificio, a nessuna fatica; e la protensione, la voglia del più grande, del più vero, diventa più importante di qualsiasi altra cosa...... Il «come» è stare nella compagnia. Tu anni fa eri nella nostra compagnia, nella compagnia del Movimento, eri in questa compagnia, poniamo, con esponente 3, adesso sei in questa compagnia con esponenza 33. Prima, quando ti ho conosciuto in principio, eri molto più piccolo di come ti vedo ora, non perché sei cresciuto di sette anni, ma perché sei «cresciuto». Dopo sette anni, tanta gente che ho conosciuto sette anni fa è invece più piccola di prima: non hanno seguito nessuno, non hanno sfruttato la compagnia di nessuno, non si sono immedesimati con niente, perciò sono immersi in risucchi o in polverizzazioni di parole: aspetti rinsecchiti di abbordi mentali di cui si perde il senso originale e da cui, quindi, si è soffocati; e uno non si libera più da questo soffocamento ............. |
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La
comunità non è qualcosa in più nel nostro vivere, ma qualcosa che si
identifica sempre di più col nostro vivere e lo rende sempre più
leggero, sempre più pensoso, sempre più chiaro negli intendimenti,
amante nel suo contenuto, come capacità affettiva. Quanto più si sta nella compagnia, tanto più essa ci rende capaci di capire e capaci di amare.
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Postato da: giacabi a 07:26 |
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amicizia, giussani
La grande alternativa è
tra ideologia e tradizione
Articolo di Monsignor Luigi Giussani La Repubblica 27-12-1997
Natale, per dimenticare il nulla
Caro direttore,
leggendo Gramsci avevo scoperto questo pensiero: «Un periodo storico può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa... Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente» (A. Gramsci, Quaderni, XXVIII ). Sembra un canone della Chiesa cattolica. Gramsci dice il vero: la grande alternativa per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione. L'ideologia nasce in qualsiasi momento come novità che si impone a prescindere dal passato (e questo non può che diventare un'inevitabile possibilità di andare contro il passato). La tradizione è proprio nella eredità del passato che trova certezza per il presente e speranza per il futuro. Chi pretendesse di distruggere il passato per una affermazione presuntuosa di se stesso non amerebbe né l'uomo né la sua ragione. E, infatti, un presente così ridotto finisce in «nulla» (nichilismo), cedendo l'uomo alla tentazione di credere che la realtà non esista. E questo è come un veleno instillato nelle vene dell'uomo dal padre della menzogna: una volontà di negare l'evidenza che qualcosa c'è. Ora, proprio dal passato giunge una notizia: il Mistero, ciò che i popoli chiamano «Dio», ha voluto comunicarsi a tutti gli uomini come un uomo, dentro un pezzo di tutta la realtà. Si chiama «Natale» l'iniziale attuarsi del metodo con cui il Mistero si manifesta comunicandosi nella vita: l'incarnazione di Gesù di Nazareth, come risposta all'attesa di ogni cuore umano in tutti i tempi, che ha avuto la prima e più dignitosa intuizione nel genio ebraico. Nella sua concreta umanità Gesù non poteva vivere se non in una casa dove c'era un letto, dove c'erano tavoli e sedie, dove c'erano un padre e una madre: la casa di Nazareth, una presenza integralmente umana in cui c'è Dio - questa è l'origine della «pretesa» cristiana - , la Bibbia la chiama «dimora » o «casa di Dio». E noi sappiamo quanto gli uomini del nostro tempo cerchino anche inconsapevolmente un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace, cioè riscattati dalla menzogna, dalla violenza e dal nulla in cui tutto tenderebbe altrimenti a finire. Il Natale è la buona notizia che questo luogo c'è, non nel cielo di un sogno, ma nella terra di una realtà carnale. Negare la «possibilità» che questo sia vero in nome di un preconcetto non è da uomini ragionevoli. Se, infatti, la ragione può intravedere la possibilità di un significato dell'infinita fatica del vivere - e per chiunque almeno in qualche momento questo è stato evidente - , è più dignitoso per l'uomo cercare questo significato o rinunciarvi, preferendo quella che Pasternak chiamava «la sterile armonia del prevedibile», cioè una vita ultimamente annoiata? C'è un verso di Rainer Maria Rilke da cui parto spesso per una meditazione su di me: «E tutto cospira a tacere di noi/un po' come si tace/un'onta, forse, un po' come si tace/una speranza ineffabile». Se l'uomo guarda a se stesso, ha vergogna e noia, ha vergogna fino alla noia, eppure non può negare l'evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuore come tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione. Io credo che Dio si sia mosso proprio per essere risposta a questa realistica percezione - a mio avviso l'unica realistica percezione che l'uomo possa avere di se stesso se si pensa con attenzione e tenerezza materna - , all'uomo che ha vergogna o noia di se stesso. Per questo io umano che trova in sé, da una parte limiti coi quali è connivente e, dall'altra, quel grido che è nel suo cuore, quell'attesa che è nel suo animo, Dio si è «mosso», per liberarlo dalla noia di se stesso e dal peso di quel limite che si trova dentro in tutto quello che fa. Per questo dico spesso che il cristianesimo ha una partenza pessimistica circa l'uomo - non per nulla parla di peccato originale come del primo mistero senza il quale non si spiega più niente della contraddizione in cui l'uomo cade inesorabilmente - , ma finisce in un ottimismo profondo e impegnativo, poiché Dio ha preso la realtà di un uomo vero, un uomo concepito nel ventre di una donna, che si è sviluppato come un infante, un bambino, un fanciullo, un adolescente, un giovane, fino a diventare centro di attenzione della vita sociale del popolo ebraico, fino a trascinare le folle e fino ad averle contro di sé per l'atteggiamento di chi aveva il potere in mano, fino ad essere crocifisso, ucciso. E fino a risorgere dalla morte, per una pietà profonda, come di padre, verso la situazione disperante dell'uomo. O come «grazia» dell'onnipotente Mistero. |
Postato da: giacabi a 19:20 |
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gramsci, giussani
LA LUCE DEL MONDO II PARTE
La religiosità autentica e il potere
Da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Comunione e Liberazione.
New York, 8 marzo 1986 da www.tracce.it di febbraio 2002
New York, 8 marzo 1986 da www.tracce.it di febbraio 2002
Che
cosa pensi della cultura occidentale? Questa domanda per noi è
importante perché viviamo in un Paese che vuole essere l’espressione
realizzata dell’Occidente.
Mi pare che sia una domanda onnicomprensiva. Credo che, innanzitutto, la cultura occidentale possieda dei valori tali per cui si è imposta e come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo. C’è una piccola osservazione da aggiungere: che tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo: il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo, perché la persona è concepibile come dignità esclusivamente se è riconosciuta non derivare integralmente dalla biologia del padre e della madre, altrimenti è come un sasso dentro il torrente della realtà, una goccia di un’ondata che si infrange contro la roccia; il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come una schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come l’attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo fra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo; la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di san Paolo: «Ogni creatura è bene» per cui Romano Guardini può dire che il cristianesimo è la religione più “materialista” della storia; il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea d’un disegno intelligente.
Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso. Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertà. Se l’uomo deriva tutto dai suoi antecedenti biologici, come la cultura imperante pretende, allora l’uomo è schiavo della casualità degli scontri e quindi è schiavo del potere, perché il potere rappresenta l’emergenza provvisoria della fortuna nella storia. Ma se nell’uomo c’è qualche cosa che deriva direttamente dall’origine delle cose, del mondo, l’anima, allora l’uomo è realmente libero. L’uomo non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende. Per forza. L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, o dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere. La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini. La mancanza terribile, l’errore terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questo. Così, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere. E tutto lo sviluppo scaltro degli strumenti della civiltà aumenta questa schiavitù. La soluzione è una battaglia per salvare: non la battaglia per fermare la scaltrezza della civiltà, ma la battaglia per riscoprire, per testimoniare, la dipendenza dell’uomo da Dio. Quello che è stato in tutti i tempi il vero significato della lotta umana, vale a dire la lotta tra l’affermarsi dell’umano e la strumentalizzazione dell’umano da parte del potere, adesso è giunto all’estremo. Come Giovanni Paolo II ha messo in guardia tante volte, il pericolo più grave di oggi non è neanche la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito. Perciò è soprattutto nell’Occidente che la grande battaglia deve essere combattuta dall’uomo che si sente uomo: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. Il limite del potere è la religiosità vera - il limite di qualunque potere: civile, politico ed ecclesiastico -.
Mi pare che sia una domanda onnicomprensiva. Credo che, innanzitutto, la cultura occidentale possieda dei valori tali per cui si è imposta e come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo. C’è una piccola osservazione da aggiungere: che tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo: il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo, perché la persona è concepibile come dignità esclusivamente se è riconosciuta non derivare integralmente dalla biologia del padre e della madre, altrimenti è come un sasso dentro il torrente della realtà, una goccia di un’ondata che si infrange contro la roccia; il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come una schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come l’attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo fra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo; la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di san Paolo: «Ogni creatura è bene» per cui Romano Guardini può dire che il cristianesimo è la religione più “materialista” della storia; il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea d’un disegno intelligente.
Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso. Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertà. Se l’uomo deriva tutto dai suoi antecedenti biologici, come la cultura imperante pretende, allora l’uomo è schiavo della casualità degli scontri e quindi è schiavo del potere, perché il potere rappresenta l’emergenza provvisoria della fortuna nella storia. Ma se nell’uomo c’è qualche cosa che deriva direttamente dall’origine delle cose, del mondo, l’anima, allora l’uomo è realmente libero. L’uomo non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende. Per forza. L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, o dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere. La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini. La mancanza terribile, l’errore terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questo. Così, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere. E tutto lo sviluppo scaltro degli strumenti della civiltà aumenta questa schiavitù. La soluzione è una battaglia per salvare: non la battaglia per fermare la scaltrezza della civiltà, ma la battaglia per riscoprire, per testimoniare, la dipendenza dell’uomo da Dio. Quello che è stato in tutti i tempi il vero significato della lotta umana, vale a dire la lotta tra l’affermarsi dell’umano e la strumentalizzazione dell’umano da parte del potere, adesso è giunto all’estremo. Come Giovanni Paolo II ha messo in guardia tante volte, il pericolo più grave di oggi non è neanche la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito. Perciò è soprattutto nell’Occidente che la grande battaglia deve essere combattuta dall’uomo che si sente uomo: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. Il limite del potere è la religiosità vera - il limite di qualunque potere: civile, politico ed ecclesiastico -.
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