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mercoledì 1 febbraio 2012

giussani7

L'esperienza del rischio
***
“Mi trovo al limitare di una cengia e ad un metro circa cominciava un'altra cengia, e sotto vi era un profondo burrone. Io mi sono voltato di scatto, mi sono abbracciato ad uno spuntone di roccia e tre uomini non mi hanno smosso. E ricordo le voci che mi ripetevano: "Non aver paura, ci siamo noi! " e io dicevo a me stesso: "Sei stupido, ti portano loro"; e lo dicevo a me stesso, ma non riuscivo a staccarmi dal mio improvvisato sostegno.
Questo panico eccezionale mi ha fatto capire molti anni dopo che
cosa sia l'esperienza del rischio. Non fu l'assenza di ragioni a bloccarmi; ma le ragioni erano come scritte nell'aria, non mi toccavano. E analogo a quando le persone dicono: "Lei ha ragione, ma io non sono persuaso". E' uno iato, un abisso, un vuoto tra l'intuizione del vero, dell'essere, data dalla ragione, e la volontà: una dissociazione tra la ragione, percezione dell'essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione all'essere (il cristianesimo indicherebbe in questa esperienza una ferita prodotta dal "peccato originale"). Per cui uno vede le ragioni, ma non si muove. Non si muove, cioè manca della energia di coerenza: di coerenza, non nel senso etico di comportamento conseguente, ma nel senso teorico di adesione intellettuale al vero fatto intravvedere dalle ragioni. È questa coerenza che inizia l'unità dell'uomo. La coerenza resta così l'energia con cui l'uomo prende se stesso e aderisce, "si incolla" a ciò che la ragione gli fa vedere.
Invece
avviene una spaccatura tra la ragione e l'affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l'esperienza del rischio.
Non è un'ipotesi astratta, è qualcosa di molto concreto. ………….
…..C'è in natura un metodo che riesce a darci questa energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura del rischio. Per superare il baratro dei "ma" e dei "se" e dei "però" il metodo usato dalla natura è il fenomeno comunitario.
Un bambino corre per il corridoio, spalanca con le manine la porta sempre aperta di una stanza buia; impaurito, torna indietro. La mamma si fa avanti, lo prende per mano, con la mano nella mano di sua madre il bambino va in qualsiasi stanza buia di questo mondo. E' solo la dimensione comunitaria che rende l'uomo sufficientemente capace di superare l'esperienza del rischio.
Nei miei ricordi di scuola, quando una classe si lasciava influenzare dal professore di filosofia o di storia, e il clima generale della classe era contrario al fatto religioso, anche i due o tre più sensibili ad esso tremavano. In una classe dove rilevante era l'intesa di convinzione religiosa di alcuni, allora il professore, nonostante tutta la sua abilità dialettica e intimidatoria, non riusciva a smobilitare un clima generale aperto al problema religioso.
La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione della energia e della decisione personale, ma la condizione dell'affermarsi di essa. Se io metto un seme di faggio sul tavolo, anche dopo mille anni (posto che tutto rimanga tale e quale) non si svilupperà niente. Se io prendo questo seme e lo metto dentro la terra, esso diventa pianta. Non è l'humus che sostituisce l'energia irriducibile, la "personalità" incomunicabile del seme: l'humus è la condizione perché il seme cresca.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto. Per questo la vera persecuzione, la più intelligente, è quella che ha usato il mondo moderno, non quella che ha usato Nerone con il suo anfiteatro. La vera persecuzione non sono le fiere, non sono neanche i lager. La persecuzione più accanita è l'impedimento che lo Stato cerca di realizzare all'esprimersi della dimensione comunitaria del fenomeno religioso.
Così per lo Stato moderno l'uomo può credere tutto quello che vuole, in coscienza: ma fino a quando questa fede non implichi come suo contenuto che tutti i credenti siano una cosa sola e che perciò abbiano il diritto di vivere e di esprimere questa realtà.
Impedire l'espressione comunitaria è come tagliare alle radici la alimentazione della pianta; la pianta poco dopo muore.
Il vero dramma del rapporto fra l'uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell'esperienza, non sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto il mondo è una grande ragione e non esiste sguardo umano sulla realtà che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a questa immensa evidenza. La drammaticità è definita da quello che io chiamo rischio. L'uomo subisce l'esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come se non si sentisse di muoversi, è come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e di volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la capacità di adesione all'essere.

Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l'individuo vive la sua dimensione comunitaria. In tal senso mira il paradosso di Chesterton: "Non è vero che uno più uno fa due; ma uno più uno fa duemila volte uno". Anche questo rivela il genio di Cristo che ha identificato la Sua esperienza religiosa con la Chiesa: "Là dove saranno due o tre riuniti in mio nome, io sarò con loro"
 Giussani   Il senso religioso  cap.13 Rizzoli

Postato da: giacabi a 13:56 | link | commenti (2)
chiesa, giussani

martedì, 08 luglio 2008
La cosa più grande
che possa fare l'uomo
***
la cosa più grande che possa fare l'uomo con tutta la sua intelligenza, con tutta la sua libertà, qual è? Domandare, o mendicare, che è lo stesso.Perché l'uomo è un poveretto! E un poveretto in canna non può fare nient'altro che domandare, un poveretto in canna o un bambino piccolo; il bambino piccolo, con tutto quel che dice e fa, domanda: frigni, pianga, chieda, stenda la manina,tiri i vestiti della mamma…..chiede"
  L. Giussani   Si può vivere così? pag. 96Rizzoli

Postato da: giacabi a 17:29 | link | commenti
giussani

giovedì, 03 luglio 2008
Quando ci mettiamo insieme
 ***
“Quando ci mettiamo insieme, perché lo facciamo?Per strappare a noi stessi, agli amici e, se fosse possibile, a tutto il mondo il nulla in cui ogni uomo si trova
 Don Giussani ai partecipanti al XXV pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto

Postato da: giacabi a 15:24 | link | commenti
amicizia, giussani

martedì, 01 luglio 2008
L ’amicizia
***
Ma l'amicizia cos'è? L’amicizia, allo stato minimale, è l'incontro di una persona con un'altra persona di cui desidera il destino più che la propria vita: io desidero il tuo destino più di quanto desideri la mia vita. L’altro ricambia questo e desidera il mio destino più di quanto desideri la sua vita. Così è l'amicizia, e il sintomo che questo è vero è che chiunque si incontra, nella diversità delle circostanze, si vorrebbe capisse questo, così che tutti si abbracciassero.
L. Giussani   Si può vivere così? pag. 160Rizzoli

Postato da: giacabi a 22:22 | link | commenti (1)
amicizia, giussani

sabato, 28 giugno 2008
La comunità
***
La comunità è letteralmente, fisicamente Gesù che fa queste cose, Gesù presente. Allora è nella comunità che impari cos'è il tuo destino; e ti dà la fede, ti sostiene nella fede, governa ed educa la tua fede; ti fa capire che cosa è la libertà ed educa la tua libertà, nella coscienza del senso religioso sviluppato e nella coscienza del sacrificio da fare e, quindi, nella consapevolezza umile e senza inutile disperazione del tuo peccato, del tuo peccare, della facilità al peccare. Della facilità a peccare, tanto più che nell'uomo c'è una ferita enorme, c'è il segno di una ferita enorme, per cui il braccio che avrebbe potuto alzare trenta chili non riesce ad alzarne tre, è come indebolito, è come una paralisi infantile: si chiama peccato originale. Perciò la comunità ti dice di non scandalizzarti della tentazione che provi e di non scandalizzarti neanche dell'errore che fai; ma indomabilmente riprendi la strada. E insieme riconosciamo ciò che ci porta al destino, riconosciamo ciò che è grande nella vita, -è grande ciò che ci fa andare verso il destino -, e riconosciamo l'attrattiva illusoria, l'illusorietà dell'attrattiva. Tutto questo è l'educazione che ti dà la comunità.
L. Giussani   Si può vivere così? pag. 90 Rizzoli

Postato da: giacabi a 15:48 | link | commenti
chiesa, giussani

mercoledì, 25 giugno 2008
Quid est veritas?
Vir qui adest
 ***
" Dice sant'Agostino …..: «Quid fortius desiderat anima quam veritatem?». «Che cosa più potentemente desidera il cuore dell'uomo, se non il vero, se non la verità?».
 Ma «quid est veritas?», «che cosa è la verità?». «Vir qui adest», «un uomo che è presente», sperimentalmente presente.”
 Luigi Giussani  Tracce N. 1 > gennaio 1996

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verità, giussani

giovedì, 19 giugno 2008

     LA NUOVA AUSCHWITZ

***
Claudio Chieffo

Io suonavo il violino ad Auschwitz
mentre morivano gli altri ebrei;

io suonavo il violino ad Auschwitz
mentre uccidevano i fratelli miei.(3 v)

Ci dicevano di suonare,
suonare forte e non fermarci mai,
per coprire l'urlo della morte,
suonare forte e non fermarci mai.(3 v)
 
Non è possibile essere come loro.(2 v)

Nel mondo nuovo che
ora abbiamo creato
c'è la miseria,
c'è l'odio ed il peccato.(3 v)

Ora siamo tornati ad Auschwitz
dove ci è stato fatto tanto male,
ma non è morto il male del mondo
e noi tutti lo possiamo fare.(3 v)

Non è difficile essere come loro.(2 v)
Ora suono il violino al mondo
mentre muoiono i nuovi ebrei;
ora suono il violino al mondo
mentre uccidono i fratelli miei


La nuova Auschwitz

”Ricordiamo che «non è difficile essere come loro», che è possibile essere come loro. (...) Il tempo di questa violenza, di questa distruzione, comunque sempre serpeggia: nella nostra vita personale, per il rapporto con la ragazza o con il ragazzo, con i genitori, coi compagni di scuola, con tutto ciò che ci circonda, quanto in noi sa del veleno della violenza, della strumentalizzazione!
C’è solo un modo per evitarlo: accostare l’uomo, chiunque sia, dal più vicino e preoccupante fino al più estraneo e lontano, con un amore al suo destino, questo rispetto profondo, questa passione per la sua libertà, per la sua energia in cammino,”
 Giussani tracce09-07

Il Beato P. Tito Brandsma, nel campo di Dachau, all’infermiera odiata e disprezzata da tutti i prigionieri che doveva iniettargli l’acido fenico –a Dachau, il medico del campo parlava sarcasticamente dell’«iniezione di grazia»– donò la sua povera corona del Rosario., fatta nascostamente con pezzetti di rame e di legno.
«No so pregare!» –fu la risposta irritata della donna. Le rispose con mitezza:
«Non occorre che tu dica tutta l’Ave Maria; di’ soltanto: "Prega per noi peccatori"».
Ed ella non riuscì più a dimenticare il volto di quell’anziano prete al quale aveva dato la morte. Dirà poi: «Lui aveva compassione di me!». L’aveva ucciso, ma Egli l’aveva generata alla grazia.”
Padre A. Sicari

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cristianesimo, giussani, chieffo

martedì, 17 giugno 2008
Don Giussani
***
QUELLI CHE FAN VIBRARE IL MONDO: RITRATTO SEMISEGRETO DEL SACERDOTE CHE FONDÒ CL
Gius privato, come mai l'avete conosciuto
Quando muore un grande santo, cominciano i fioretti, che ne fanno il personaggio di una pia favola. Lui non era così: fumava, beveva e amava la vita, senza moralismi. Tifava Inter e diceva con ironia: «Il male del mondo è rosso-nero».
di Renato Farina    4/3/2005 panorama

Al Cimitero Monumentale, sezione Famedio, è arrivato un tipo nuovo fra i morti illustri di Milano. Da quel giovedì 24 febbraio, una fila ininterrotta di persone s'incammina dinanzi al loculo di don Luigi Giussani. Mazzi di fiori colorati e preghiere, addirittura canti. Hanno dovuto mettere un tavolino per raccogliere le intenzioni: implorano intercessione dal «Gius» per la guarigione della mamma, la conversione del fidanzato, la pace in Iraq. Mi è venuto in mente che lui darebbe in giro le rose agli altri morti, e si arrabbierebbe pure perché la sua gente non ha imparato niente e privilegia lui rispetto ad Alessandro Manzoni e Giorgio Gaber.

Don Gius era così. Visto da vicino, anche di più. Chiunque arrivasse a casa sua, o lui ospitasse al ristorante, o in un bar da aeroporto, accadeva una specie di miracolo.
L'estraneità era rotta, il suo sguardo era l'offerta di una vita insieme. Ma non per stare insieme e basta, bensì per far vibrare il mondo. Uno si accorgeva che c'era molto destino in quell'incontro, niente di sentimentale, una cosa pratica. Come il capomafia Zaccheo, il quale non ascoltò mai le prediche dei farisei, ma dopo che Gesù lo guardò e mangiò con lui, di sua sponte, restituì il malloppo. A scuola don Gius citava una frase di Cesare Pavese: «Da uno che non darebbe la vita per te non dovresti accettare neanche una sigaretta». Lui peraltro non accettava le sigarette, preferiva i sigari, il suo preferito l'antico toscano. Amava anche gli avana.

Un giorno ne regalò una scatola all'amico Carras, uno spagnolo che da anarchico antifranchista era stato conquistato da quello sguardo, e si manteneva facendo le pulizie nella sede di Cl (ora è uno dei capi). Carras: «Io non fumo più, ho proprio smesso, mi faceva male». Gius: «Hai fatto male a smettere.
Il godimento della bellezza esige il dominio».
Non so a questo punto se il ministro Girolamo Sirchia testimonierà contro la sua beatificazione, ma è così umano tutto questo, così capace di cogliere in ogni frammento il riflesso del grande Dio. Il vino migliore a lui offerto lo gustava piano, un dito, e poi lo versava agli amici, all'ospite. Lo aveva imparato dal padre e dalla madre. Un giorno, alle 5 e mezzo del mattino, quando era in vacanza dal seminario, in aprile, vide la stella del mattino, unica e bellissima, nell'azzurrino lieve del cielo aurorale dietro la fabbrica Gavazzi. E la madre in dialetto brianzolo (diverso dal milanese) la indicò: «Ma l'è bel ul mund, ma l'è grand ul Signor», com'è bello il mondo, e com'è grande Dio.

Come definire don Giussani? Joseph Ratzinger ai funerali ha letto l'omelia funebre più gloriosa mai pronunciata da un cardinale. Ha parlato di musica e di innamoramenti, di valle oscura e di eternità. Ha detto: «Era ferito dalla bellezza. La sua casa, da bambino, era povera di pane ma ricca di musica. La sua storia è la vicenda di un innamoramento». Qui avrei pudore a dire il nome di Gesù Cristo. Non si usa, passa per cosa da preti. La pronuncio ancora una volta, poi più. Eravamo a tavola, il giorno in cui compiva 70 anni, il 15 ottobre 1992, nella povera casa dove abitava allora, nella periferia sud-est di Milano. Ero con mia moglie. Parlava di un suo maestro appena morto, don Gaetano Corti, che non metteva la tonaca, tanto meno sopportava il colletto duro, fumava il toscano e suonava al piano Beethoven la domenica sera, in seminario, per consolarlo delle sue fatiche di pendolare (prendeva anche quattro volte al giorno le Ferrovie Nord, il pretino Giussani). Gli chiesi: bisogna amare i nemici? Gius rispose: «Fa' come don Corti. Diceva: "Li amo in Cccrrrisssto!"» E faceva il gesto di stringere i due pugni. Siamo uomini, mica angeli; Gesù si è fatto uomo, non angelo.

Mi rendo conto. Quando muore un grande santo, cominciano i fioretti. Essi sono di solito verità poetiche
. Il rischio è di trasformare anche il Gius nel personaggio di una pia favola. Qui sarò oggettivo, roba da giuramento in tribunale.
La prima volta che vidi Luigi Giussani stava dietro il finestrino di un pullman, vicino alla bocciofila Aurora del suo (e mio) paese, Desio, in Brianza. Era il 1972 e aveva accettato l'invito dei coscritti per la gita dei cinquant'anni. Non si tirava mai indietro. Non si sa quante migliaia e migliaia di persone abbia incontrato dovunque. La differenza con Padre Pio è che don Giussani si spostava dovunque lo cercassero e non aveva le stimmate (a proposito, dopo la canonizzazione del cappuccino gli domandai se l'avesse mai conosciuto, e mi disse di no). Avevo 17 anni e facevo giocare i bambini dei caseggiati Gescal. Dovevo avere un'aria disperata e delusa perché il torpedone partiva e io lo rincorrevo. Ci fu uno che tirò fuori la faccia dal finestrino, e aveva il basco in testa.

All'università gli domandai un appuntamento. Arrivò in tram, con quello stesso basco, fischiettando nel mattino invernale, stupendo i compagni del collettivo proletario che davano via volantini sotto il portone della Cattolica. Era presto e volle che lo accompagnassi a un bar lì vicino dove mi offri uno sherry bianco e secco. Si faceva portare in giro in macchina, da un appuntamento all'altro, dall'ultimo interlocutore. Gli chiedeva di andare forte, più forte, sbuffava nel traffico: «Ciascuno ha le sue fissazioni» diceva. E poi si andava a prendere un caffè al bar Motta, e se era pomeriggio la Chinamartini.

Era perché amava la vita intera. Poi ci versava quella segreta essenza senza di cui anche il miglior Barolo (gli piaceva molto, così come il Gattinara e il Barbaresco) sarebbe da versare in un tombino: l'amore, il significato della vita, la certezza della misericordia. Non parole predicate da un pazzo, ma tutte diligentemente fondate razionalmente. Un giorno, in una discussione con dei ragazzi così giovani e già così disperati, spiegò:
«La suprema categoria della ragione è la possibilità. Tenete aperta questa possibilità». Qualche giorno dopo suonarono al suo campanello.

Integralista e moralista lui? Mai, assolutamente mai. Nessuno tra noi lo ha mai sentito fare lezioni sull'etica sessuale. Quando qualcuno chiedeva consigli o giudizi, la solita storia dei rapporti prematrimoniali, diceva le cose della Chiesa, nessuna deroga dai comandamenti, ma diceva che in quel ramo era assai difficile commettere peccato mortale, la passione e la fragilità non consentono il deliberato consenso. Mi disse una volta: «Capisci, l'uomo è fatto per la libertà. È sbagliato mettere l'accento sulla questione del peccato».

Un giorno all'aeroporto di Parigi ebbi una discussione sulla contraccezione, pillola e affini. Mi guardò: «È stato Paolo VI a fissare la regola. E lo stesso Montini, su questo argomento, ricevendo un gruppo di famiglie disse: "Esiste anche il peccato veniale"». In quella circostanza, era il 1988, mi confidò di essere d'accordo con Hans Urs von Balthasar, il teologo svizzero: la misericordia di Dio è tanto forte che forse l'inferno è vuoto, l'uomo è libero ma la misericordia è così bella che forse alla fine nessuno resiste all'amore.

Lui l'ha testimoniato nella malattia, vissuta come offerta totale. Un giorno disse: «Mi ha dato tanto Dio, è giusto che mi renda così impacciata la parola perché non mi insuperbisca».
Mi permetto ora di indicare agli illustri ospiti del Famedio piccole preferenze del Gius, per farlo più contento.

Poeti. Ama Dante e Leopardi. Ma anche Pascoli. Più vicino a noi Ada Negri, Rebora e Montale.
Scrittori. Dostoevskij, De Amicis. Poi Pavese, Simenon, Grossman (Vita e destino), SolzŠenicyn.
Musica. La classica: Beethoven, soprattutto la Settima sinfonia; Mozart, Chopin, Smetana. Tutta l'opera, specialmente Verdi («La donna è mobile vale da sola tutto Wagner» diceva citando Stravinskij), e Donizetti (ha capito l'evidenza dell'esistenza di Dio ascoltando Tito Schipa cantare «Spirto gentil»). Le laudi medioevali. Il canto nato dentro il suo movimento. I canti russi interpretati dal Coro dell'Armata rossa. I canti fascisti, specie la Sagra di Giarabub. Pare (ma è poco sicuro) gli U2.
Televisione. Guardava, nei momenti di riposo, le cassette dell'Ispettore Derrick e il Maigret di Gino Cervi.
Film. I western, Dreyer, Marcellino pane e vino («Lo sguardo di Pablito Calvo»), Mission con Robert De Niro.
Cibi e vini. Il pane! «Dopo la poesia e la musica, il gusto per la bellezza si esercita negli uomini sul cibo e sul vino».

Elemosina. La Caritas sconsiglia di dare offerte ai singoli. Lui se ne fregava. Aveva adottato un marocchino che stava a un semaforo. Faceva fermare l'accompagnatore, tirava fuori 50 mila lire e gli dava la mano. Un giorno gli disse: «Con quei soldi ho fatto studiare mio figlio».
Sport. È stato in gioventù campione di ping pong tra i seminaristi. Tifava Ambrosiana-Inter. Seguiva poco, però. Giocatore preferito: Jair. Un giorno, anno 1975, disse: «Tra qualche decennio rideranno della pretesa di Marx di stabilire la legge della società e della storia». A metà tra politica e ironia calcistica aggiunse: «Il male del mondo è rosso-nero».
Siamo alle profezie. Ebrei: «Se non ci sarà prima la fine del mondo, cristiani ed ebrei saranno una cosa sola nel giro di 60-70 anni». Islam: mi chiama una domenica dell'agosto del 2000, stavo facendo un'inchiesta per Libero sulle nuove Br; disse: «È giusto. Ma ricorda, la grande minaccia viene dal terrorismo islamico». Ancora: «L'invasione islamica sarà fermata dai nostri canti». Interpreto: dalla bellezza del Cristianesimo. Infine: «Bisogna evitare in ogni modo l'esito in fondo criminale di una nuova Lepanto». Qui non interpreto, registro.

La preghiera. Ogni momento era per lui preghiera, perché viveva tutto nella dimensione dell'innamorato. Le sue messe erano svelte e totali. Nessuna concessione al teatro, ma quanta intensità nelle orazioni più semplici. Chiedeva spesso di dire tre «Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» a San Giuseppe.
I santi per lui non erano deviazioni pagane dall'unico Dio, ma componenti autorevoli della nostra umana famiglia. La Madonna però di più: era (ed è) la condizione stessa della presenza di Dio nel mondo. «Questa ragazza ebrea, immaginiamoci il suo sì in quel momento in cui l'angelo andò nella sua casa di Nazareth e il Verbò si incarnò». L'Angelus, che fa memoria di quegli istanti che durano ogni istante, è la preghiera che faceva sempre recitare ai suoi. Ha inventato una brevissima giaculatoria: «Veni Sancte Spiritus. Veni per Mariam». Ripeteva, avendolo imparato dalla mamma: «Mater mea, fiducia mea». L'Inno alla Vergine di Dante è stata la sua ultima invocazione sul letto dell'agonia. Finisce così: «In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s'aduna, quantunque in creatura è di bontate». Come si fa a essere disperati? Impossibile.
Infine. Infine mi metto anch'io in fila al Monumentale, che il Gius mi perdoni se l'ho rimpicciolito

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perle, giussani

lunedì, 16 giugno 2008
Non si può amare la vita senza amare gli uomini.
 ***
Una Una volta un ragazzo disse a don Giussani: "Io sto insieme alla mia morosa per Cristo". E lui di rimando: "E a lei cosa gliene frega?". Non si può amare un valore senza amare chi lo porta. Non si può amare la vita senza amare gli uomini. Non si può sostenere o difendere l'ideale, senza sostenere e difendere la compagnia in cui si è vissuto, così com'è, con i suoi pregi e anche i suoi errori. Non si tratta di sentirsi colpevoli di sbagli di nostri amici, ma consapevoli sì. Bisogna essere responsabili, ovvero dare risposte che non aboliscano l'errore e chi lo commette, ma che correggano, ovvero reggano insieme il nuovo cammino da intraprendere.
(Giancarlo Cesana, Il Foglio 17/01/2006)



Postato da: giacabi a 20:31 | link | commenti (1)
cesana, giussani

sabato, 14 giugno 2008
La Bellezza divina
***
Vorrei comunicarvi alcuni tra gli aspetti più affascinanti e persuasivi del cammino che ho fatto nella mia vita.
Innanzitutto mi
permetterete di ricordare l’istante della mia vita in cui, per la prima volta, ho capito che cos’era l’esistenza di Dio. Ero in prima liceo classico, in seminario, e facevamo lezione di canto; normalmente, per il primo quarto d’ora, il professore spiegava storia della musica, facendoci anche ascoltare alcuni dischi. Anche quel giorno si fece silenzio, incominciò a girare il disco a 78 giri e improvvisamente, si udì il canto di un tenore allora famosissimo, Tito Schipa; con una voce potente e piena di vibrazioni ha incominciato a cantare un’aria del quarto atto de La Favorita di Donizetti: «Spirto gentil de’ sogni miei, brillasti un dì ma ti perdei. Fuggi dal cor lontana speme, larve d’amor fuggite insieme». Dalla prima nota a me è venuto un brivido.
Che cosa significasse quel brivido l’avrei capito lentamente con gli anni che passavano; solo il tempo, infatti, fa capire che cosa è il seme, come dice l’omonima, bella canzone, e cosa ha dentro. Uno può capire cos’è un seme se ne ha già visto lo sviluppo; ma la prima volta che vede il seme non può capire che cosa contenga. Così fu per me quel primo istante di brivido in cui ebbi la percezione di quello struggimento ultimo che definisce il cuore dell’uomo quando non è distratto da vanità che si bruciano in pochi istanti.    
Luigi Giussani Realtà e giovinezza. La sfida, Sei, Torino 1995                          

***
« Associo il fatto accaduto a Princeton, dove egli(Einstein) si unì al gruppo di preghiera con il suo violino, con un altro evento accaduto nel 1929 a Berlino e raccontatomi da Max Jammer in una sua
lettera. L'occasione fu quando Yudi Menhuin, il grande violinista ebreo, dette a Berlino un suo recital durante un concerto con musiche di Beethoven, Bach e Brahms, eseguite dall'orchestra filarmonica di Berlino diretta da Bruno Walter. Einstein, sopraffatto dalla bellezza della musica, attraversò in tutta fretta il palcoscenico e andò fino al camerino di Menhuin esclamando: «Adesso io so che c'è un Dio in cielo ( Jetzt weiss ich, dass es einen Gott imHimmel gibt )».         Thomas F. Torrance

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dio, einstein, bellezza, giussani

giovedì, 12 giugno 2008

Omnis creatura bona (ogni cosa è bene)

***
"Omnis creatura bona (…) è la frase più grande di tutta la storia del pensiero umano; perché tutta la storia del pensiero umano divide ciò che è bene da ciò che è male, mentre il Cristianesimo dice: male non è niente, non c’è nessuna creatura cattiva; la cattiveria sta nell’atto di scelta di ciò che è in contraddizione con il tuo destino. Male è solo nell’atto di scelta della libertà; perciò il fattore di peccato è l’uomo, è la libertà dell’uomo; ma anche questa è travolta  dominata da qualcosa d’altro: dal fatto che il destino ti riprende e ti richiama, e ti dà l’energia per riprenderti e richiamarti".

                                    (Da “Si può vivere così?” di L. Giussani, pag. 97) 
Grazie ad:anna vercors

Postato da: giacabi a 21:10 | link | commenti (5)
giussani

domenica, 08 giugno 2008
Veni Sancte Spiritus,
 Veni per Mariam
 ***
Beato Angelico, annunciazione
 Per questo dovete, d'ora in avanti, cercare di rendere il più frequente possibile in voi la ripetizione della breve preghiera che è l'emblema del Gruppo Adulto, Veni Sancte Spititus, Veni per Mariam. Vieni, o Spirito dell'Immenso, del Mistero, lo Spirito di Cristo che ci fa capire le cose, che ci dà le energie per andar dietro le cose giuste. E lo Spirito di Cristo, come ci aiuta? Attraverso le viscere di una donna: Cristo è nato dalle viscere di una ragazza di diciassette anni, cioè attraverso le viscere della nostra esperienza comune, di una esperienza in comunità; dalle viscere di un'esperienza concreta lo Spirito ci comunica la luce e l'aiuto.
Giussani - "Si può vivere così?" Rizzoli

Postato da: giacabi a 18:15 | link | commenti
preghiere, giussani

sabato, 07 giugno 2008

Il «sentimento» e l'«emozione»
***
"Il passo per andare incontro alla realtà non e il sentimento;il  sentimento è lo stato d'animo che subentra al passo che tu fai verso la realtà. Il passo che fai verso la realtà si chiama «ragione» come origine e «volontà» come attuazione. Il «sentimento» è lo stato d'animo che si sviluppa e accompagna il tuo giudizio e la tua libera scelta della realtà. Mentre l'«emozione» è una reazione senza motivo adeguato, senza scopo adeguato, è pura reazione. Cosi che a un certo momento, come una punta calda che disperde in fretta il suo calore, essa finisce, e ti trovi freddo, freddo. Il sentimento è invece qualcosa che è destinato a permanere e a crescere: quanto più tu vivi consapevolmente il contatto con la realtà, tanto più il senti mento della realtà diventa grande in te -perché il sentimento, come dice Il senso religioso, è lo stato d'animo che subentra a ogni gesto della tua ragione e a ogni gesto del tuo amore, della tua affettività, della tua libertà -.Perciò, il sentimento è destinato a crescere, la reattività, invece, come nasce scompare. Quante volte abbiamo «reagito» con papà, mamma, amici, insegnanti, con chicchessia, e dopo due minuti ci siamo morsi le labbra perché abbiamo reagito in quel modo?"
Luigi Giussani Realtà e Giovinezza La sfida, SEI

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ragione, giussani

domenica, 01 giugno 2008

 Lo sguardo alla realtà
con negli occhi la Sua presenza
***
Lo sguardo alla realtà con negli occhi la Sua presenza esalta l'esperienza della corrispondenza, rende più capaci di percepire la corrispondenza dell'oggetto considerato col proprio cuore, al proprio cuore. Se si guardano le cose dal di dentro del rapporto con quell'Uomo, si vedono di più, si capisce di più se sono d'accordo con quello che il nostro io aspetta, con quello che il nostro cuore esige, oppure no.
Luigi Giussani Un caffè in compagnia Rizzoli

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reale, giussani

domenica, 25 maggio 2008
La morale cristiana
 ***
 masaccio, il tributo
“..Sono là tutti insieme quella mattina... e Gesù aveva preparato da mangiare per tutti -che delicatezza -e nessuno osava parlare perché tutti sapevano che era il Signore; era lì vicino a Simone e gli dice sottovoce, senza che gli altri s'ac- corgano, gli dice sottovoce: «Simone, mi ami tu più di costoro?». Questa è la finale della morale cristiana: l'inizio e la fine della morale cristiana. Non gli ha detto: «Simone, mi hai tradito, Simone, pensa a quante volte hai sbagliato. Simone, pensa quanti tradimenti! Simone, pensa che tu puoi sbagliare ancora domani, dopodomani... Pensa a come sei fragile, vigliacco di fronte a me». Macché! «Simone, mi ami tu più di costoro?»: è andato sotto tutto, sotto tutto; allora questo sotto tutto trascina, e Pietro, amandolo, ha finito per morire come lui. Andate a pagina 408 del testo Un avvenimento di vita, cioè una storia, e trovate la frase di san Tommaso, la quale dice, pressappoco, che l'uomo trova la sua dignità nella scelta di quello che stima di più nella vita e da cui aspetta la più grande soddisfazione.
Luigi Giussani da: Si può vivere così? Rizzoli

Postato da: giacabi a 08:59 | link | commenti (3)
gesù, giussani

venerdì, 23 maggio 2008

La ragionevolezza
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La RAGIONEVOLEZZA  è affermare la corrispondenza tra quello in cui si è imbattuti e se stessi e il proprio cuore.
Luigi Giussani 

Postato da: giacabi a 14:24 | link | commenti
ragione, giussani


La speranza
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La speranza è una certezza nel futuro in forza di una realtà presente. Perciò è la presenza di Cristo, resa nota dalla memoria, che ci rende certi del futuro. Ed è possibile allora un cammino senza sosta, un tendere senza limiti, a partire dalla certezza che Lui, come possiede la storia si manifesterà in essa.
Luigi Giussani  volantone Pasqua 1996 

Postato da: giacabi a 14:19 | link | commenti
speranza, giussani

giovedì, 22 maggio 2008
Comprendere
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«Cosa vuoi dire comprendere? Vuoi dire capire che cosa quelle parole vogliono dire della vita, della mia vita, cioè dell'esperienza che faccio della vita.»
                                       Luigi Giussani
§   

Postato da: giacabi a 17:40 | link | commenti
ragione, giussani

La compagnia
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«La compagnia autentica è quella che nasce quando uno incontra un altro che ha visto qualche cosa di giusto, di bello e di vero, e glielo dice, e siccome anche lui desidera il giusto, il bello e il vero, si mette insieme.»
                                       Luigi Giussani
§                                                                                                                                                                                                                         a M.

Postato da: giacabi a 17:37 | link | commenti (2)
amicizia, giussani

mercoledì, 21 maggio 2008
Le cose si usano, le persone si amano
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 Non si può trattare di una persona come si tratta di una cosa. La cosa io la prendo per la mia utilità, la sfrutto. Ma una persona, un essere cioè che ha lo spirito, come tale non può essere sottomesso direttamente che a Dio, non può quindi essere sottomesso alla utilità di un altro.
Se qualcuno si avvicina per “sfruttarci” secondo la sua utilità, noi lo sentiamo con ripugnanza, con antipatia, con ribellione: noi lo qualifichiamo col titolo più anti-umano che ci sia, col titolo cioè di “egoista”.
Allora con le persone cosa bisogna fare?
Ecco: le cose si prendono, alle persone ci si dona.
Cioè, in conclusione, le cose si usano, le persone si amano.
Luigi Giussani                       grazie ad: anna vercors

Postato da: giacabi a 20:11 | link | commenti (2)
giussani

giovedì, 15 maggio 2008
La compagnia cristiana
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" Allora quella compagnia è l'unica realtà veramente umana, totalmente umana, che esista al mondo. Tutto il resto del mondo è umano come una grande ferita che gridi di essere rimarginata, una grande solitudine che esiga di essere sorpresa da una illuminazione, da una protezione che venga da altri come sé. Allora il compagno diventa veramente un altro sé e nasce tra gli estranei come noi un'affezione più grande di quella che si ha per il padre e la madre, fino all'emozione. Perché il giudizio di corrispondenza matura fino a identificarsi con l'emozione... più grande di quella che hai per tuo padre e tua madre...non perché dimentichi tuo padre e tua madre, ma perché impari a capire che l'importanza di un tuo padre e tua madre è che hanno in qualche modo collaborato a questa strada - per esempio facendoti nascere- così che se fossero (scusate l'ipotesi), se fossero due delinquenti, li ami come ami  i tuoi compagni.”
Luigi Giussani da: Si può vivere così? Rizzoli 
                                                                                                                                            a M.

Postato da: giacabi a 18:21 | link | commenti
chiesa, amicizia, giussani

L'amicizia
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Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione. E poi tra due amici profondi cosa si desidera? L'aspirazione dell'amicizia è l'unione, è quella di immedesimarsi, impastarsi, diventare la stessa persona, la stessa fisionomia dell'Amico: ma Gesù è in Croce... la gioia più grande della nostra vita è quella che ad ogni piccola o grande sofferenza ci fa scoprire: "ecco ora sei più simile", più "impastato con Lui" La vita per la felicità degli uomini, per l'amicizia di Gesù. Caro amico, una benedizione? Ecco io allargo le braccia e te la mando con tutta la passione del cuore: solo perché serva anch'essa ad ottenerti un unico assillo nella vita: l'amicizia di Gesù Cristo - la felicità degli uomini. Ed il resto... vanitas vanitatum.
Luigi Giussani 
- Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo ed.San Paolo
                                                                                                                       a M  ad A.  a P.  a R.

Postato da: giacabi a 15:07 | link | commenti (4)
amicizia, giussani

domenica, 11 maggio 2008


Lo svantaggio di essere cristiani
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C'è un solo svantaggio a seguire Gesù, ad essere cristiani, ad essere nella Chiesa: lo svantaggio che si è obbligati a rendersi coscienti di tutto quello che si fa, lo svantaggio di dover essere intelligenti, insomma. Ma non intelligenti nel senso della scuola, bensì intelligenti come uso dell'intelligenza che, in fondo, è dentro la frase che Cristo ripeteva sempre: «Vigilate, state all'erta».
Tutti vanno avanti con la testa nel sacco e ripetono..... Ieri andavamo in macchina e c'era lì in mezzo alla strada un ragazzo in bicicletta che aveva la lingua fuori fin qui e cantava «Oooooh!»... un troglodita. Ma la maggior parte dei ragazzi, se non sono proprio così materialmente -moltissimi sono così materialmente, sempre di più -, tutti sono così di dentro: fanno «Oooooh» dentro! Ripetono le canzoni che sentono dire o, peggio ancora, fanno solo andare la testa... vale a dire la riduzione più meccanica possibile di quel che sentono, neanche quel che sentono ripetono.
Luigi Giussani da: Si può vivere così? Rizzoli        a P.

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cristianesimo, giussani, imbecillità giovanile

domenica, 04 maggio 2008
 
Si può vivere  così?
Presentazione del libro di
don Giussani a Taranto
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giussani

giovedì, 01 maggio 2008
Percepire la Presenza
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Perciò, che diventi habitus, come dice san Tommaso, abitudinario, il percepire in tutte le cose -in tutto, dalle fronde degli alberi ai capelli della persona a cui vuoi bene -la presenza del Mistero che è diventato un uomo di carne e ossa e perciò la presenza di Cristo «Sarò con voi tutti i giorni, fino al- la fine del mondo»); abituarsi a vedere questo in tutto è una storia che Dio ti ha fatto incominciare
Luigi Giussani da: Si può vivere così  Rizzoli

Postato da: giacabi a 18:53 | link | commenti
giussani

Il disegno di Dio
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Dopo avermi dato spesso ragione, dopo 15 anni, alla morte di mio padre, Giussani mi ha detto: "Guarda che se non te ne sei reso conto, tuo padre è in Paradiso". Gli risposi che non era mai andato alla messa. E lui mi disse, accennando anche a mio fratello: "Sì, ma il disegno di Dio si capisce in uno spazio ampio; è dai frutti che si vede il valore dell'albero; e siccome voi siete i frutti, sicuramente nel disegno di Dio c'era questo grande padre".
 Marco Montagna - Tracce mag 2006 pag.44
Dixit Definitivo n.2599/3751 >>

Postato da: giacabi a 16:44 | link | commenti
giussani

Questo è il momento in cui sorge la fede in Cristo nel mondo
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apparizione di Cristo.. 

                        «Anche voi volete andarvene?». Allora Pietro -e questo è il punto che sintetizza, come dicevo prima, tutto questo drammatico porsi di Cristo e il sorgere della fede nel mondo, questo è il momento in cui sorge la fede in Cristo nel mondo e durerà fino alla fine del mondo -Pietro, Simon Pietro, con la solita irruenza dice: «Maestro, anche noi non comprendiamo quel che dici, ma se andiamo via da te, dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita. È impossibile trovare uno come te. Se non devo credere a te, non posso più credere ai miei occhi, non posso più credere in niente». E la grande, vera, reale alternativa: o il niente in cui tutto va a finire -il niente di ciò che ami, il niente di ciò che stimi, il niente di te stesso e degli amici, il niente del cielo e della terra, il niente, tutto è niente perché tutto va a finire in cenere –oppure   quell'uomo lì ha ragione, è quello che dice di essere. Così gli ha detto Pietro: «Tu solo, Tu solo spieghi tutto», vuol dire che rimetti in piedi tutto, e fai vedere le connessioni tra tutto, e rendi la vita grande, intensa, utile e fai intravedere la sua eternità.
……..Perché? Perché la realtà che si propone corrisponde alla natura del nostro cuore più di qualsiasi nostra immagine, corrisponde alla sete di felicità che noi abbiamo e che costituisce la ragione del vivere, la natura del nostro io, l'esigenza di verità e di felicità. Cristo corrisponde a questo, di fatto, più di qualsiasi immagine che possiamo costruire. Pensa quello che vuoi: dimmi uno che sia più di questo uomo come lo descrive il Nuovo Testamento! Dimmelo, se riesci a immaginarlo! Non si riesce, corrisponde al cuore più di qualsiasi possibilità che abbiamo di immaginazione.
 Il no non nasce da ragioni, mai: nasce da uno scandalo. Lo scandalo è una parola greca che vuol dire una pietra su una strada, un inciampo. L'inciampo nel cammino alla verità è una forma di menzogna, si chiama preconcetto: uno si è già fatto, si è già fabbricato il suo parere su di Lui. Cristo è contrario a quello che io vorrei: io politico, io innamorato, io che ho sete di denari, io che voglio far carriera, io che voglio la vita sana. É contrario a ciò in cui uno ripone la sua speranza: inutilmente, perché non c'è nessuna speranza che poi accada. Il no nasce soltanto dal preconcetto.
Luigi Giussani da: Si può vivere così Rizzoli

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giussani

domenica, 27 aprile 2008
Il Senso della caritativa
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SCOPO
Innanzi tutto la natura nostra ci dà l’ esigenza di interessarci degli altri. Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri.
Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’ esistenza. Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza.  Quanto più noi viviamo questa esigenza questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l’ esperienza di completare noi stessi. Tanto è vero che, se non riusciamo a dare, ci sentiamo diminuiti. Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi. Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò svelandoci la legge ultima dell’ essere e della vita: la carità. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l’essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Solo Gesù Cristo ci dice tutto questo, perchè Egli sa cos’è ogni cosa, che cos’è Dio da cui nasciamo, che cos’è l’Essere. Tutta la parola «carità» riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità. Noi andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo.

CONSEGUENZE
I. La carità è legge dell’ essere e viene prima di ogni simpatia e di ogni commozione. Perciò il fare per gli altri è nudo e può essere privo di entusiasmo. Potrebbe benissimo non esserci nessun risultato cosiddetto «concreto» per noi l’unico atteggiamento «concreto» è l’attenzione alla persona, la considerazione della persona, cioè l’amore. Tutto il resto può venire di conseguenza: l’unico «concreto» che ci sia: la persona, come Gesù che, dopo, fece i miracoli e sfamò la gente. Due punti di partenza non chiari, per la nostra apertura agli altri, noi dobbiamo notare:
1. Sovvenire ai bisogni altrui. E’ un punto di partenza ancora incompleto! Qual è il bisogno altrui? Questa impostazione è ambigua, dipende da cosa noi crediamo che sia il bisogno altrui: e se ciò che io porto non è veramente quello di cui essi hanno bisogno? Ciò di cui hanno veramente bisogno non lo so io, non lo misuro io, non ce l’ho io. E’ una misura che non possiedo io: è una misura che sta in Dio. Perciò le «leggi» e le «giustizie» possono schiacciare, se dimenticassero o pretendessero sostituirlo, l’unico «concreto» che ci sia: la persona, e l’amore alla persona.
2. L’ amicizia. Anche cominciare puntando sull’amicizia con tutta l’ambiguità che ci può comportare, è incompleto. L’amicizia è una corrispondenza che si può trovare o no, un avvenimento non essenziale per la nostra azione di oggi, anche se essenziale per il nostro destino finale. L’andare agli altri liberamente, il condividere un po’ della loro vita e il mettere in comune un po’ della nostra, ci fa scoprire una cosa sublime e misteriosa (si capisce strada facendo!). E’ la scoperta del fatto che proprio perchè li amiamo, non siamo noi a farli contenti; e che neppure la più perfetta società, l’organismo legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà e più educata li potrà mai fare contenti. È un Altro che li può fare contenti. Chi è la ragione di tutto? Chi ha fatto tutto? Dio. E’ bellissima la testimonianza di chi ha sperimentato questo valore: “io continuo ad andare in caritativa perchè tutta la mia e la loro sofferenza hanno un senso» Sperando in Cristo, tutto ha un senso: Cristo. Questo scopro, finalmente, nell’ambito dove vado in «caritativa», proprio attraverso l’impotenza finale del mio amore: ed è l’ esperienza in cui l’intelligenza affonda nella saggezza, nella cultura vera.
3. Ma Cristo è presente adesso: non «è stato», non «è nato», ma «c’è», «nasce» oggi: è la Chiesa. La Chiesa è Cristo, presente adesso, come Lui ha voluto. E la Chiesa è la comunità di noi, proprio di noi, poveri e attaccati a Lui. o infedeltà. Perciò la speranza ci sostiene; Dio stesso è tra noi, è presente tra noi. Uno di noi, in una discussione ha detto: frutto. «Continuo ad andare a. .., perchè ci siete voi». È verissimo: proprio il senso del nostro essere insieme, della comunità ecclesiale, ci fa tirare avanti oggi fra gli handicappati, negli ospizi, con chiunque è bisognoso e, domani, nella fabbrica, nella città, in Europa, nel Mondo che è così grande e Lo aspetta.
DIRETTIVE
Riferirsi continuamente al movimento, altrimenti è più grande il pericolo di smarrire la ricerca dell’ idea profonda che ci sostiene nel fare per gli altri; e più grande è il pericolo di scoraggiamenti, stanchezza o infedeltà. La fedeltà nel fidarsi delle indicazioni del movimento e di coloro che ne sono i responsabili è il primo merito e avrà il suo frutto. Le direttive che, al riguardo, Comunione e Liberazione dà sono tre:
1) Sapere perchè.
Finche non sapremo bene, con chiarezza e semplicità, il perchè ultimo, lo scopo del nostro fare, fino allora non bisognerà mai stare quieti. Il nostro scopo è tirar fuori da quel che facciamo il senso, l’idea per la quale esclusivamente potremo riuscire ad essere fedeli, quando non saremo più entusiasti o non provassimo più gusto. Occorrerà quindi dialogare nelle nostre assemblee, a gruppetti, con i responsabili della comunità, con le persone più mature e vive. Soprattutto revisionarsi ogni tanto attraverso contatti «centrali».
2) Fare per comprendere.

Per capire non basta sapere, occorre fare,con quel coraggio della libertà, che è aderire all’essere che si vede, cioè alla verità. Questa è la maturità suprema, che si chiama umanità o santità. Per educarci a questo ideale, l’esserci costretti dalle circostanze (il «dovere» nel senso solito) serve molto più difficoltosamente. E il piccolo tempo libero che mi educa; ciò che dà l’esatta misura della mia disponibilità agli altri è l’uso di quel tempo che è solo mio, in cui posso fare «ciò che ho voglia». Ci formiamo così una mentalità, un modo quasi istintivo di concepire la vita tutta come un condividere. Il piccolo tempo libero redime tutto il resto. E, adagio adagio, andando in “caritativa” si incomincia a capire di più il compagno di banco, il papà e la mamma, il collega di lavoro. E’ soprattutto l’età della giovinezza il momento in cui possiamo con agilità, almeno normalmente, assimilare questa mentalità. Ed è solo cominciando a fare, a donare del tempo libero come integrale gesto di libertà, che la carità cristiana diventerà mentalità, convinzione, dimensione permanente. E’ da notare che a noi non interessa tanto la molteplicità delle attività, la quantità del tempo libero che si dedica. A noi interessa che nella nostra vita e nella nostra coscienza si affermi il principio del condividere attraverso almeno qualche gesto, anche minimo, purchè sia sistematicamente messo in preventivo e realizzato. Per questo basterebbe, come inizio, anche una volta al mese. Anche per quanto riguarda la periodicità dell’impegno è bene consultare chi nella comunità può correttamente consigliarci.

3) Ordine.

È il tempo libero che dobbiamo impegnare (e il più a fondo possibile). Duplice è il limite che mantiene nell’ ordine la genialità del tempo libero: a. Non ledere lo studio (o il lavoro). b. non venir meno alla discrezione in famiglia. Anche qui sarà il personale dialogo con l’ autorità familiare e con l’ autorità nel movimento che ti aiuterà a raggiungere un criterio per definire il tuo tempo libero.
Don Giussani

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cristianesimo, giussani

domenica, 20 aprile 2008
Il Giubileo e la vita
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Tracce N. 11 > dicembre 1999

Parola tra noi
Il Giubileo e la vita
Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in preparazione al Giubileo della Redenzione.
Duomo di Palmanova, 15 giugno 1983
Ognuno sa che il primo gesto ufficiale e clamoroso del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l'enciclica che incominciava con la formula Redemptor hominis, Gesù Redentore dell'uomo. Redentore dell'uomo significa innanzitutto che Cristo assicura il significato della vita e quindi chiarisce il destino e dà la forza per raggiungerlo. Una volta si sarebbe detto: "È Redentore perché è salvatore dell'anima, perché salva l'anima". Ma il Papa non ha usato l'espressione "salvare l'anima"; ha usato invece il termine "Redentore dell'uomo". E l'uomo è indubbiamente colui che ha l'eternità dentro le sue viscere, dentro la sua natura immortale, ma è prima di tutto colui che deve percorrere il suo cammino su questa terra, deve vivere un'esistenza nel tempo e nello spazio.
Cristo Redentore dell'uomo non significa, dunque, soltanto Colui che assicura all'uomo il suo destino eterno, la salvezza eterna, come diceva il catechismo antico, ma anche Colui che salva, cioè redime, la vita dell'uomo quaggiù, la vita dell'uomo in quanto cammina, dell'uomo che si alza al mattino, va a lavorare, e si corica alla sera: Cristo è il Salvatore dell'uomo intero, oggi e domani. Forse, un tempo, si sottolineava esclusivamente il domani. E, infatti, il presente per che cosa ci è dato, se non per il domani? Un cammino che cosa significa se non la fine, il fine, il traguardo, il destino? Ma, oggi, credo che l'uomo abbia bisogno di completare, di sentirsi completata la proposta e di capire innanzitutto in che modo Cristo sia il Salvatore della sua vita presente.
Mi hanno spiegato che i Veneziani, che hanno costruito Palmanova come fortezza di fronte al pericolo turco e all'imperialismo nordico, definivano questa città, costruita apposta, "propugnaculum Patriae, propugnaculum Italiae et propugnaculum Fidei": avamposto difensivo per la Patria, per il nostro Friuli, per l'Italia, e per la Fede. A noi sembra strana questa unità profonda che una volta, invece, nella coscienza cristiana era abituale, perché la Fede, che vibra nella coscienza della persona, sempre diventa luce ed energia per i rapporti e, perciò, sorgente di vita sociale, legando così nel tempo il destino dell'individuo con il destino della sua gente, del suo popolo.
Io credo che nessuno abbia fatto risorgere questa visione unitaria - perché la possiede fin nel midollo e nel cuore - come Giovanni Paolo II. Egli la possiede nel profondo del cuore, perché la fede, nella tradizione polacca, non è mai venuta meno a questa unità, a questa profondità e unità di concezione.
Destino di felicità
Ma io vorrei dapprima soffermarmi sull'aspetto tradizionale, immediato e ultimo della prima enciclica di Giovanni Paolo II: Cristo Redentore dell'uomo, come Colui che salva l'uomo e il suo destino; perché, come dice il grande filosofo ebreo americano Heschel, all'uomo non interessa tanto approfondire le sue origini quanto capire bene dove va a finire, qual è il suo destino.
Se una donna fosse così riflessiva che, dando alla luce il proprio bambino, guardandolo o tenendolo nelle mani per la prima volta, si domandasse dove egli andrà a finire, qual è il suo fine, che ne sarà di lui, se nell'intensa emozione di quel momento pensasse questo, se in quel momento una donna pensasse così, sarebbe assalita da un timore improvviso, perché non può proteggerlo, perché non può proteggere la sua creatura come la proteggeva nel suo seno e in tutto rassicurarla. Io mi ricordo di una signora che veniva a confessarsi, tantissimi anni fa, regolarmente tutte le settimane; aveva una bambina, e a un certo punto non è più venuta. È ritornata dopo un mese e mi ha detto: "Sa, ho avuto un secondo bambino". E prima che io le facessi le mie congratulazioni mi disse: "Sa qual è il primo sentimento che ho avuto non appena mi sono accorta che era nato? Non ho pensato se stava bene, se era un bimbo o una bambina, ma: "Ecco, incomincia ad andarsene"". È questo il sentimento più drammatico che, consapevole o no, vige nel cuore di una donna che diventi madre, perché, man mano che il tempo avanza, quella creatura, che è così sua, è come se diventasse sempre di più non sua, proprio come destino. Se, dunque, facendo nascere un bimbo, una donna pensasse: "E adesso dove andrà a finire?", se non ci fosse un destino di felicità, sarebbe un delitto aver fatto nascere, perché è un delitto non solo uccidere, ma anche mettere nelle condizioni che uno venga ucciso; senza un destino di felicità, non sarebbe un delitto soltanto infliggere pene e dolori a un essere vivente, ma anche metterlo nelle condizioni che dolori, anche atroci, gli avvengano. Chi lo può sapere o chi lo può evitare con certezza? Chi può fare un progetto che non implichi questa possibilità? L'unica cosa che rende ragionevole il nascere è l'annuncio e la sicurezza di un fine buono, del fine buono o, come ho detto prima, è la parola che solo la Fede pronuncia con serietà, la parola più seria della vita che, al di fuori della Fede, viene svigorita e svuotata di tutto il suo contenuto grande: la parola "Felicità".
Solo la sicurezza di un destino di felicità rende ragionevole l'essere madre. E c'è un gesto più naturale che l'essere madre? No! Dunque non esiste nulla di più necessario, di più consono, di più vicino alla carne di una madre, e perciò all'espressione più originale della natura, di quella Voce che è entrata nel mondo e che non va più via: nessuno più strapperà dalle orecchie dell'uomo questa voce "fisica", che assicura all'uomo il suo destino felice. "Che importa - disse una volta questa voce fra la gente che lo rinserrava in una piazzola - se tu ti prendi tutto il mondo e poi perdi te stesso? O che darà l'uomo in cambio di se stesso?"1. Ed è questo valore supremo della persona che una madre, in concreto, in pratica, sente e vive quando guarda e si rivolge al proprio bambino - anche se ne ha sette, anche se ne ha dodici, perché è inconfondibile il "tu" che riferisce a ognuno. Ciò che essa avverte è proprio l'irriducibilità di questo mistero del destino di felicità che è l'uomo!
Per amore del singolo uomo
Io mi ricordo, e me lo ricorderò per sempre, tanto è vero che ai miei amici giovani ogni tanto lo racconto, di quella volta che sono andato a visitare una missione sul Rio delle Amazzoni, all'Equatore, un territorio immenso che i Padri del Pime coprivano a pezzi; ognuno si prendeva una zona, cosicché in un anno rivedevano almeno una volta tutti gli abitanti di quel territorio in cui non ci sono strade, ma soltanto fiumi nella foresta e che, pur essendo grande quasi quanto l'Italia, contava sessantamila abitanti. Quando uno di questi padri andava, come loro lo chiamavano, in "desobriga", riceveva l'assoluzione in articulo mortis, perché era un pericolo mortale quel viaggio in mezzo alle foreste infestate di serpenti e di animali. Un giorno, un certo padre Titta doveva partire per il suo turno e mi disse: "Vieni anche tu". Io non ho capito l'umorismo con cui me lo disse; risposi subito di sì e andai. Venne la sera e lo vidi, a un certo punto, mettersi dei gambali che gli arrivavano fino all'anca e poi, sorridendo, introdursi in un pantano. La melma gli arrivava sopra il ginocchio. Impiegava un minuto per fare un metro e c'era già una nuvola di insetti che gli dava fastidio. Ero lì fermo a guardarlo e lui mi disse: "Non puoi venire più avanti". Doveva fare otto ore di notte di quella fatica per andare a trovare uno, che lì chiamano "caboclo" (vale a dire uno di quegli indigeni che vivono tirando fuori la gomma dagli alberi, guadagnandosi pochi centesimi), per andare a trovare uno, uno! Io mi rivedo ancora in quella posizione, mentre il padre missionario se ne andava con quella fatica e ogni tanto si voltava a salutarmi con un sorriso ironico. Pensavo: "Rischia tutta questa fatica, rischia la vita per andare a trovare un uomo che non ha forse mai visto e mai rivedrà: un solo uomo". E di fronte al sole cadente, io mi ricordo che avevo negli occhi molto più che la luce accecante, avevo negli occhi l'idea grande che mi venne su nell'anima: "Che cos'è il cristianesimo? È l'amore all'uomo, non all'umanità, ma all'uomo, cioè a ogni figlio di madre".
Come dice il Papa - che quando parla di umanità ripete sempre: "Parlo di ogni uomo", e ogni tanto dice: "tu" -, il cristianesimo è l'amore all'uomo che solo Dio poteva avere, può avere (un amore più grande di quello di una madre). "Cristo, Dio fatto uomo per amore dell'uomo, ha dato se stesso per me ed è morto per me"2, diceva Paolo. Non esiste nessuna realtà umana, nessuna impresa umana che guardi all'uomo in questo modo, che guardi all'uomo come persona e guardi alla persona come essere che ha un destino non paragonabile, irriducibile, un destino eterno. Tutto ciò che l'uomo fa, qualsiasi uomo per l'altro uomo, in fondo, anche nel migliore dei casi non può evitare quello che osservava un filosofo laico come Kant: "Non può fare l'uomo per l'altro uomo qualche cosa senza che ci sia una sfumatura di interesse, un criterio di contropartita, un'aspettativa".
La purità assoluta, la vera gratuità, si chiama "carità", nel senso letterale della parola, perché in greco gratuità si dice charis. Questo è possibile solo per chi cerca veramente di seguire Cristo come quel padre che mi sta ancora nella coscienza e negli occhi. Cristo è la salvezza dell'uomo, Colui che assicura alla madre che farà un figlio la ragionevolezza dell'avvenimento, Colui che assicura all'uomo l'eternità del suo destino e il compimento della sua inesauribile sete di perfezione o di soddisfazione (due parole che in latino vogliono dire la stessa cosa), o di felicità.
Un avvenimento che tocca il tempo, l'istante
Per questo, quella sera nella sinagoga, quando tutti se ne erano andati scandalizzati dal modo di dire di Cristo: "Mangerete la mia carne", alla domanda che ruppe il silenzio pesante, di fronte ai pochissimi rimasti: "Anche voi volete andarvene?", san Pietro sbottò a rispondere: "Anche noi non comprendiamo quello che tu dici, ma se andiamo via da te, dove andremo? Tu solo hai parole che danno senso al vivere".
Ecco: Cristo è redentore dell'uomo, non solo per la sua salvezza finale, ma anche per questo tempo di esistenza che percorre nelle più varie condizioni, proprio perché questa certezza solleva l'anima, conforta l'anima, il cuore dell'uomo che cammina ogni giorno; perché non c'è niente che faccia respirare ora, nel preciso momento in cui uno lo pensa o lo ascolta, non c'è niente che faccia respirare, che faccia riconfortare e vivere, come questo annuncio sicuro e certo: "Venite a me voi che siete logorati dalla vita e io vi restaurerò; io vi ristoro, prendete su di voi il mio giogo, venite con me, perché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero"4. Per questo, dunque, dal fondo del cuore, questa Redenzione tocca il tempo, tocca l'istante in ogni condizione.
Non c'è alcun suggerimento, ho detto prima, che faccia respirare totalmente, a pieni polmoni, non c'è alcuna promessa e alcuna gioia al di fuori dell'orizzonte di questa certezza: la gioia che l'uomo riesce a ottenere è una gioia falsa, non nel senso cattivo del termine, ma perché, per mantenersi anche quelle poche ore, ha bisogno di dimenticare o di rinnegare qualcosa.
Ma di fronte a quell'Uomo e alla promessa che lui era (la gente gli andava dietro per questo, per questa promessa che lui era!) la gente diceva: "Questo sì che parla con autorità!"5. L'autorità, ognuno di noi lo sa, è l'esperienza di un incontro che fa riprendere vita, fa risentire più profondamente se stessi. Dicevano: "Nessuno ha mai parlato come quest'Uomo!"6, perché il grande criterio che si applica nella meschinità delle nostre scelte quotidiane (un film da andare a vedere, l'andare o no a scuola, il modo con cui uno decide di stare a casa dal lavoro) è unico: è questa sete di felicità che ci sospinge dal fondo. Nessuna promessa, se non Quella, spalanca il cuore e i polmoni, ristora, restaura. Dentro quell'aura, dentro quel clima che essa instaura, allora anche i pesi diventano tollerabili.
In questo istante mi ritorna alla mente una ragazza, morta alcune settimane fa, che fino a tre o quattro anni fa si ribellava profondamente a tutta la sua vita, che era stata un martirio da un punto di vista fisico e familiare e che, poi, acquistata la fede, si era placata. Sei mesi fa scoppiò il cancro, e quando due mesi prima lo seppe con chiarezza telefonò a tutti i suoi amici che non vedeva da dieci, vent'anni dicendo: "Vienimi a trovare, perché tra poco morirò". E mi disse, quando le espressi l'edificazione che mi incuteva: "Ma io sono felice e anche ai miei compagni di lavoro dico: "Ma voi, che siete intelligenti, non avete qualcosa per cui l'istante è pieno, è pieno di godimento. Per me l'istante diventa pieno e io so - aggiungeva - che cosa voglia dire offrire"".
Non esiste nessuna promessa più umana, non esiste nessuna promessa umana, se non Quella. Per questo vale ciò che diceva san Paolo: l'aderire a Cristo, la Pietas (pietas è una parola latina che significa il rapporto che ci lega con i principi del nostro essere e per questo si dice che si ha pietà dei genitori, pietas in parentes, oppure della terra, pietas in patria, oppure di Dio, pietas in Deum), cioè il rapporto con Cristo, "ad omnia utilis est", 8 è utile per tutte le cose, avendo in sé la promessa per i secoli futuri e per il presente. È questo che Giovanni Paolo II ha, soprattutto, davanti agli occhi proponendo Cristo Redentore.
Una sproporzione radicale
Vorrei che comprendessimo meglio tutto ciò, indicando i due fattori che Cristo, entrando nella nostra vita, mette in gioco. Innanzitutto Cristo richiama l'uomo a ciò che anche tanti teologi sembrano aver dimenticato dopo il Concilio Vaticano II (raramente, molto raramente se ne è sentito parlare nei venti anni dopo il Concilio): l'uomo non è capace da solo di essere uomo. Io lo spiego ai miei amici giovani così: "Ditemi se ci sono tre esperienze più umane di queste: l'amore dell'uomo alla donna, l'amore dei genitori ai figli, e l'amore, la passione, per la vita degli uomini nel suo senso generale, cioè la politica (la politica è interessarsi agli uomini perché stiano meglio). E ditemi, per favore, se ci sono tre sorgenti di egoismo più grandi di queste, perché l'uomo ha in fondo a sé la divisione". La dottrina cristiana lo chiama "peccato originale".
Io mi permetto di leggere alcuni brani del Papa su questo tema: "[L'uomo] deve fare i conti con la povertà radicale della sua condizione di creatura, stretta fra limiti di ogni sorta; egli deve altresì brancolare fra le dense ombre che ostacolano il cammino sul quale s'affatica la sua intelligenza assetata di verità; egli soprattutto sperimenta i vincoli pesanti di una fragilità morale, che lo espone ai più umilianti compromessi [e all'egoismo]. Non abbiate paura di richiamare gli uomini di oggi alle loro responsabilità morali! Tra i tanti mali, che affliggono il mondo contemporaneo, quello più preoccupante è costituito da un pauroso affievolimento del senso del male [l'abbiamo detto prima: l'uomo, per stare tranquillo, ha come arma il rinnegare o il dimenticare, ma questo è contro la ragione]. Per alcuni la parola "peccato" è diventata un'espressione vuota, dietro la quale non devono vedersi che meccanismi psicologici devianti, da ricondurre alla normalità mediante un opportuno trattamento terapeutico [basta un po' di psicanalisi e tutto si rimedia]. Per altri il peccato si riduce all'ingiustizia sociale, frutto delle degenerazioni oppressive del [cosiddetto] "sistema" e imputabile pertanto a coloro che contribuiscono alla sua conservazione [perciò basta cambiare sistema, scriveva cinquant'anni fa un grande poeta inglese, profeta della nostra epoca, Eliot: "Essi cercano sempre d'evadere/dal buio esterno e interiore/sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno/avrebbe bisogno d'essere buono"8, eliminando, cioè, la responsabilità della persona]. Per altri, ancora, il peccato è una realtà inevitabile, dovuta alle non vincibili inclinazioni della natura umana e non ascrivibile perciò al soggetto come personale responsabilità. Vi sono, infine, coloro che, pur ammettendo un genuino concetto di peccato, interpretano in modo arbitrario la legge morale e, distaccandosi dalle indicazioni del Magistero della Chiesa, si allineano pedissequamente alla mentalità permissiva del costume corrente"9.
L'uomo di oggi, dice il Papa, cerca in tutti i modi di evitare la responsabilità, che è personale, proprio eliminando il peccato. La considerazione di questi diversi atteggiamenti rivela quanto sia difficile arrivare a un autentico senso del peccato, se ci si chiude alla luce che viene dalla parola di Cristo.
"Quando si poggia unicamente sull'uomo, sulle sue limitate e unilaterali vedute, si raggiungono forme di liberazione che finiscono per preparare nuove e spesso più gravi condizioni di schiavitù morale". È quello che disse il Papa nella finale del discorso fatto al Meeting di Rimini del 1982, quando affermò che l'uomo, nell'epoca moderna, ha fatto di tutto per rendere più umana, più vivibile la terra e la vita, ma l'esito è stato che l'uomo sta sempre peggio come uomo; e disse anche che questa degradazione appare inarrestabile.
La prima verità che l'Anno Santo richiama a noi, che Cristo Redentore ci impone è che l'uomo è peccatore. "Peccato", in tutte le lingue occidentali, qualunque sia la formulazione, vuol dire "venir meno", tanto è vero che è uguale a "difetto", che in latino vuol proprio dire "venir meno", come quando uno è in deliquio. Il peccato è venir meno a se stessi. Il peccato è dire di amare la donna, mentre non è vero, è dire di amare i figli, mentre non è vero, è dire di volere il bene dell'umanità, mentre non è vero; è il "non vero", tant'è che san Giovanni, nel Quarto Vangelo, identifica la parola "peccato" con la parola "menzogna"10. Quando Cristo disse: "Tutti voi siete cattivi"11, voleva dire che l'uomo è incapace di realizzare quello di cui sente l'esigenza come natura, è incapace di realizzare se stesso.
L'uomo che guardi se stesso non può evitare la tentazione di uno scoramento e, proprio per evitare questo, la mentalità sociale dominante cerca di eliminare la considerazione nella sua sostanza e di bocciare l'idea di peccato, mentre senza l'idea del peccato (che paradosso!) l'uomo è una marionetta, senza l'idea di peccato è un meccanismo, perché non avrebbe libertà.
Il Papa ha avuto il coraggio di dire, nel discorso all'Unesco del 2 giugno 1980, che senza il compiersi in Cristo la ragione non resta ragione.
La prima cosa che l'Anno Santo deve produrre in noi è, dunque, il risveglio del senso del proprio essere peccatori, della incapacità dell'uomo ad arrivare a ciò cui pure aspira in qualche sussulto ideale del cuore.
Io ripeto sempre un brano dello scrittore protestante Ibsen, in cui egli narra di un uomo che cerca in tutta la sua vita l'onestà assoluta. Nell'ultima scena, mentre sta ritto in mezzo al palco, vicino alla sua capanna a metà sul declivio del monte, improvvisamente sente staccarsi l'immane valanga che sta precipitandogli addosso e grida, mentre il frastuono della valanga diventa sempre più grande, a Dio: "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte mi travolge! Può l'uomo, con tutta la sua volontà, riuscire a compiere un solo gesto perfetto?"12. Non credo che queste siano delle astrattezze o delle sottigliezze proprie di certi spiriti: questo, a mio avviso, è il veleno o il rimorso che striscia dentro di noi ogni giorno e che ci beve le migliori energie. È il richiamo, innanzitutto, a ciò che siamo: sete di Infinito, impeto ideale, ma incapaci, anche nel più breve gesto di ogni giorno, di essere così gratuiti com'è legge per noi, per l'essere spirituale, d'avere l'amore gratuito, la capacità dell'amore gratuito, vero, netto, in tutto, all'uomo e alle cose, a se stesso. Dobbiamo continuamente coprirci con la menzogna per poterci sopportare, dobbiamo dimenticare o rinnegare per sopportarci.
Il Protestantesimo arriverebbe a questo punto e poi direbbe: "Però, nonostante noi siamo così, Cristo alla fine ci salverà". Chi ha visto il film Dies irae, di quell'altro grande artista protestante, Dreyer, certamente ne sarà stato colpito, perché questa è l'idea fondamentale del grande spirito di Martin Lutero: un senso vivissimo di quello che l'uomo è e che Cristo ha svelato con chiarezza, dell'uomo peccatore; però questo Cristo, che ti svela come peccatore, quando morirai ti salverà lo stesso!
Misericordia, giustizia che ricrea
Non è così l'annuncio cristiano: infatti l'annuncio cristiano non è soltanto Cristo, Dio che arriva per te perché sei colpevole e peccatore, ma è Dio che muore e risorge e pone nella carne e nelle ossa dell'umanità la possibilità di appartenere a questa Resurrezione. La Resurrezione di Cristo costituisce l'inizio di un mondo nuovo, costituisce l'origine di una possibilità di ripresa non per l'uomo nell'aldilà, ma per l'uomo nell'aldiquà. Cristo risorto è più potente del peccato e della morte, insieme a Cristo noi possiamo -questa è la parola - cambiare. Siamo come ammalati da lungo tempo che non sono capaci di stare in piedi, ma che, con le braccia sulle spalle di un infermiere o di un familiare, possono incominciare a fare ancora dei primi passi.
Solo nella compagnia di quest'Uomo, che è Dio, l'uomo può cambiare e per questo la virtù propria, la caratteristica propria del cuore del cristiano è la speranza. La speranza non come è normalmente nella vita del mondo, che per affermarsi ha bisogno di mettere la censura, cioè di dimenticare, ma quella che nasce dalla considerazione chiara della propria miseria, del proprio peccato. San Giovanni ai primi cristiani dice, nella sua Prima Lettera, che noi abbiamo creduto all'Amore13. Il riconoscere la Presenza di questo Dio diventato uno fra noi, di Te, o Cristo, questo mi riconforta e mi fa riprendere: mille volte sbaglio, mille volte io sono certo di Te, o Cristo, mille volte Tu mi ridai il coraggio di riprendermi. Quante volte dovremo perdonare? Sempre! Perdonare non vuol dire: "Mettiamoci una pietra sopra". Perdonare vuol dire far rivivere, far rinascere. La parola vera che il Papa usa per l'Anno Santo, la parola grande, la parola con cui Dio ha definitivamente definito se stesso (non il Dio del pensiero, non il Dio dei morti, ma il Dio dei vivi, il Dio vero, quello che è entrato nella storia) è la parola Misericordia.
Una ragazza, una volta, mi ha telefonato dalla casa di cura in cui era stata ricoverata e mi ha detto: "Sa, don Giussani, ho capito che cos'è la misericordia". Io ho chiesto, un po' stranito: "Cos'è?". "È la Giustizia che ricrea" e poi ha attaccato. Raramente i miei maestri mi hanno detto una verità così. "Giustizia che ricrea", perché non oscura ciò che sono, ma mi dà la forza di una Presenza, per cui mi ricostituisce mille volte al giorno. L'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito da questa Presenza, riconosce questa Presenza come tutto di sé. Questo si chiama "amore", perché l'amore è affermare un Altro. Perciò l'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito dall'amore, vale a dire dal riconoscere Te, o Cristo.
Una volta hanno trovato san Francesco d'Assisi nel sottobosco della Verna con la faccia per terra che ripeteva continuamente: "Chi sono io, chi sei Tu?". È questo l'annuncio dell'Anno Santo: una rinnovata speranza.
La speranza in una Presenza
In Guatemala, durante la visita pastorale del marzo 1983, Giovanni Paolo II ha detto che Cristo è la nuova arma di un mondo nuovo. Ma questa speranza non è poggiata sulle mie risorse o sulle risorse di quell'io proiettato che sono la società, i capi, le cose che l'uomo crea; questa nuova vita, questa speranza è fondata su questa Presenza. In fondo la fede è riconoscere una Presenza, e riconoscere questa Presenza ridà animo mille volte al giorno, in qualunque posizione ci si trovi, perfino nella morte, e quindi dà la capacità di aprirsi agli altri con purità, cioè con gratuità. Per questo Cristo, Redentore dell'uomo, non vale per l'aldilà solo, ma per l'aldiquà che è l'oggi, l'aldiquà che è quest'ora, che è tra un'ora, dentro la compagnia in cui sono, dentro la compagnia in cui sarò; perciò questa speranza non ha sponde, abbraccia il mondo.
Per sua natura questa speranza è sociale, per sua natura non esiste problema o esigenza o situazione umana da cui non si senta percossa e a cui non si senta interessata positivamente. La grande formula della vita cristiana detta da san Paolo è: "In spe contra spem"14. Per questo il cristiano è eminentemente un uomo che si impegna nell'impatto con le persone e con le cose in qualunque condizione, anche quella politica, perché questa Presenza ha mosso le acque della nostra grande, terribile, orribile condizione, della nostra grande palude di impotenza, questa Presenza vi è entrata e ha mosso tutto, e queste onde vanno fino alle sponde estreme, vale a dire abbracciano il mondo fino agli estremi confini della terra. Per questo motivo non c'è più niente che al mio istante concreto sia estraneo; vivo, allora, il mio istante concreto con un tentativo di amore che si chiama, nel linguaggio cristiano, "offerta", per il mondo intero. Questa offerta mi fa piangere con dolore della mia meschinità e mi spalanca nella gioia di una speranza proprio perché non poggia su di me, ma passa attraverso di me, usa di me. Perciò, anche se sono così meschino da poter dare pochissimo, do questo poco. L'essenza più intima di ogni Anno Santo sta proprio in un movimento spirituale di fede e speranza, che fa convergere i fedeli, con un rinnovato slancio, verso Cristo Redentore. Un pezzo di questo movimento spirituale siete voi qui, ma questo movimento non può sussistere se non con la responsabilità di ognuno così com'è.

§  a cura di Andrea Tornielli

Postato da: giacabi a 11:10 | link | commenti
cristianesimo, giussani

mercoledì, 09 aprile 2008
I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
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Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia
Roma 10-13 aprile 2003
Don Giorgio Pontiggia
Rettore dell'Istituto Sacro Cuore di Milano
I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
LA PERSONA RINASCE DA UN INCONTRO
2^parte
- Se Dio si è fatto un uomo, è entrato nella storia, il metodo per conoscerlo non può più essere quello di prima della sua venuta, quello di tutte le altre religioni fondate sulla ricerca, sul tentativo dell'uomo. Prima era poggiato tutto sullo sforzo, lo studio, la genialità, il sentimento religioso, ora è Qualcuno da incontrare, non esige particolari capacità ma la semplicità di un incontro.
Come ha scritto il Santo Padre a don Giussani per i vent'anni della Fraternità di Comunione e Liberazione "Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è l'"avvenimento" di un incontro . E' questa l'intuizione e l'esperienza che Ella ha trasmesso in questi anni a tante persone che hanno aderito al movimento di Comunione e Liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo".
- L'io ritrova se stesso nell'incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: "Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio esiste".
L'incontro con una presenza non costituisce ontologicamente la persona nella sua soggettività: l'incontro risveglia qualcosa che era oscuro, qualcosa che era esistenzialmente impensato ed impensabile.
L'uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un'attrattiva e provoca un ridestarsi delle esigenze costitutive della sua natura, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni - dalla nascita alla morte.
Paradossalmente, l'originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini.
- Quindi si tratta di una esperienza da fare. Ha detto il grande biblista Ignace de la Potterie: "La fede cristiana è un cammino dello sguardo"
Senza l'impegno esperienziale non si può capire cos'è il cammino dello sguardo. La cosa più difficile da accettare è che ciò che ci risveglia a noi stessi, ciò che ci risveglia alla verità della nostra vita, al nostro destino, alla speranza, alla moralità sia un avvenimento.
Perché la parola avvenimento, di cui l'incontro è la forma, indica una "coincidenza" fra il reale sperimentabile e il soprannaturale.
Il più grande fatto non è l'esistere ma l'incontro: quel frangente unico da cui tutta una storia dipende, un momento nel tempo, in cui un essere dice "Io sono Tu che mi fai"
- La nostra responsabilità è rendere possibile l'incontro con Cristo presente nella nostra testimonianza.
Occorre dunque immedesimarsi bene con il valore dell'affermazione che il cristianesimo "è" un avvenimento, non "fu" un avvenimento; non "è stato" un avvenimento ma "è"; adesso.
E' una presenza paterna che genera un Incontro, cioè l' impatto con un Avvenimento che ti comunica una vita, perché la vera paternità e quando si comunica una proposta per la vita. E' una paternità e perciò incontro se è proposta di una risposta a quello che l'altro è.
- L'incontro si dilata in una compagnia: l'incontro genera una compagnia come certezza affettiva, una famiglia, un luogo in cui ci sia una speranza per la vita. Questa certezza affettiva per i giovani sta negli adulti.
Come ha affermato il Papa due anni fa: "L'incontro con certe persone genera affinità e quest'affinità genera una compagnia, una comunione, un movimento. Vivere questa comunione è partecipare al Mistero dello Spirito".
Dall'incontro con queste persone noi ci sentiamo sollecitati ed attratti, e ad esse spinti ad unirci.
L'incontro permane dunque come compagnia. Essa è il luogo dell'umano, è il luogo geografico e sociale in cui siamo richiamati a Ciò cui ci ha ridestato l'incontro: Cristo, il destino fatto uomo.
La compagnia è il luogo di un'amicizia che nasce dal presentimento del destino e sostiene nel cammino del destino che è Cristo. Questa amicizia è aiuto nell'itinerario che porta alla realizzazione di sé e non alienazione di sé.
Questo è quello che noi dobbiamo provocare, altrimenti è inutile: facciamo solo riunioni. E' l'esperienza di un Qualcosa che portiamo dentro, cui apparteniamo così profondamente che investe la vita con proposte, che già come parole, come organizzazione del tempo, come iniziative che si prendono e soprattutto come rapporti che si stabiliscono, così che l'altro si può accorgere che non ha mai trovato cose in cui l'umanità è più umana.
Vale a dire, lì si sperimenta, in senso analogico il miracolo.
Pressappoco quello che avveniva con Gesù quando Egli faceva i miracoli. Lui non è venuto per fare i miracoli, ma ha fatto miracoli per far capire ciò per cui era venuto e chi era Lui, così il nostro scopo è di vivere questa Presenza per diventare la Presenza che prenda tutti gli uomini.
Il metodo è un incontro esistenziale come ha detto Giovanni Paolo I "il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell'evento di Cristo con delle regole"

L'AMBIENTE
Una presenza non può che essere nell'ambiente.
Così lo descriveva don Giussani già all'inizio di Comunione e Liberazione ne' "Il cammino al vero è un'esperienza" ed SEI : "Il nostro richiamo non può andare direttamente alla coscienza: per giungere all'io genuino deve perforare una mentalità che ne è come l'involucro. Tale soprastruttura è costruita in gran parte dall'esasperazione dell'influenza ambientale odierna attraverso i modernissimi mezzi di invasione della persona: propaganda, scuola, televisione ecc. Pretendere di resistere o neutralizzare questa influenza è vana cosa se non si riesce a raggiungere la persona proprio là dove essa è più influenzata, cioè nel suo ambiente. Tale "ambiente" non coincide evidentemente con un "luogo" nel senso materiale della parola: assai più che un luogo è un ambito, cioè tutto un modo di vivere, una trama di condizioni dell'esistenza. Pure nella società attuale tale ambito di vita ha il suo fulcro proprio in un luogo materiale, fisico, che diventa come il punto di riferimento o il crocevia obbligato di tutto quell'insorgere di rapporti e il conseguente prorompere di idee e di sentimenti. I luoghi di riferimento sono la scuola e, secondo proporzioni diverse, il lavoro.
La capacità educativa è in crisi, quando non crea ambiente e non passa attraverso il confronto con l'ambiente. Non è una capacità educativa quella di far discorsi e di organizzare, ma è il confronto con l'ambiente, cioè la trama di problemi umani che la convivenza pone, come riflesso della società.
- l'impegno con l'ambiente, cioè l'incontro , è generatore di cultura, cioè fa giudicare la realtà alla luce della fede, di un orizzonte totale che avvalora il particolare e manifesta la menzogna della pretesa totalizzante dell'ideologia.
Come diceva il Papa al congresso del MEIC nel 1982 "Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta"
- e fa crescere la convinzione attraverso la verifica, cioè accorgersi della corrispondenza fra la proposta di Cristo e le esigenze della persona.
Perché che Dio sia Dio si manifesta come capacità di rispondere all'uomo più che come spiegazione della dottrina
E' il centuplo quaggiù, che non è quello che inventa l'uomo ma è la vita vissuta con la coscienza della grande Presenza come fu per Pietro "Signore, dove andremo, solo tu hai parole che spiegano la vita"

DA DOVE PARTIRE
- Un cristiano, uno che vive i problemi di tutti, che soffre dell'ingiustizia di tutti, che è implicato nelle contraddizioni di tutta la società e che sperimenta in questa esperienza una corrispondenza alla sua umanità, chiedersi che cosa può fare per il mondo?
Può fare qualcosa di diverso che vivere e rendere presente ciò che ha incontrato ?
Il cristianesimo autentico è l'annuncio dell'Incarnazione: il mistero e l'infinito si incontra in una realtà spazio-temporale precisa: la persona.
Per poter cominciare non servono altri elementi: non serve un'analisi già compiuta, non serve raggiungere una determinata forza e capacità, non serve essere sicuri che si verrà ascoltati e che l'intrapresa andrà a buon fine.
Allora la prima condizione è che questa coscienza dell'avvenimento deve produrre un cambiamento di noi: devono accorgersi i compagni di scuola, la gente che incontriamo, gli amici e i colleghi, cioè che anche noi siamo personalmente coinvolti in questo cammino di realizzazione di sé: educa chi si lascia educare.
Se non si parte da qui il resto rotola nel nulla: può aver qualche momento di efficacia se c'è una personalità umanamente affascinante e attivamente costruttiva, ma passata lei, passato l'inganno.
- I giovani hanno bisogno di uomini che abbiano la statura delle loro esigenze umane sapendo dare ragione della fede che è in loro
Ci sono due sintomi che ci segnalano se siamo con loro in questa posizione:
- che i ragazzi stessi diventino partecipi di questa esperienza, cioè missionari
Una volta che si scopre per sé come l'intensità della vita cristiana coincide con l'intensità della passione per sé stessi, in quanto esseri che camminano verso il proprio destino, una volta scoperto questo sé, ci si accorge che questa coincidenza vale per qualunque persona che si incontri, fosse anche per il proprio nemico e non si può non comunicarla.
- che noi impariamo da loro
Perché il rapporto educativo è una reciprocità: non fare per, ma fare con, così che l'adulto è chiamato a verificare lui quello che propone all'altro.
La scoperta più grande che ho fatto e faccio tutti i giorni è che insegnando si cresce, ci si accorge di imparare anzitutto noi e si vorrebbe che quello che si impara diventasse trasparente e persuasivo anche per coloro che sono con noi.
Come diceva Pier Paolo Pasolini "Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare" (da Gennariello in Lettere Luterane).

 -fine                                   primaparte

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